Demo autoprodotto (1 Gennaio 2009)
Formazione (2007): Enzo, voce/basso;
Nico, voce/batteria;
Ilario, chitarra.
Provenienza: Foggia, Puglia
Canzone migliore del disco:
ho una particolare predilezione per “Scorie”, e per sapere perché leggete la rece vera e propria.
Punto di forza del demo:
il fatto di non fossilizzarsi sulle stesse soluzioni, e quindi la ricerca praticamente perenne di nuove trovate nonostante i famosi limiti del genere.
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Finalmente mi sono deciso a recensire dopo qualcosa come 2 anni un disco che mi ha entusiasmato fin dal principio, e che riesce a far urlare alle orecchie “Dammene ancora!”. Urlo che si scontra inevitabilmente con il minutaggio esiguo di quest’opera, dato che più o meno i minuti di goduria equivalgono a 15/16 minuti spalmati in 9 pezzi. Però che cazzo di pezzi!
A posteriori infatti tutti questi brevi inni al no future compongono un demo tremendamente ricco di inventiva. Sì, perché nonostante la natura elementare della struttura – tipo adottata dai Nis, a volte ridotta a pura ossessione (“Scenario Insensato”), in altre a un andamento più spezzettato e traballante (“Pattume”), ogni brano ha una sua precisa identità, a dispetto fra l’altro del bisogno impellente di andare veloci e spiattellare una cupezza quasi assordante che in episodi come appunto “Pattume” (dove a tratti il riffing si fa più dinamico e rapido oltreché più black/death) e “Dipendenze” (dove le chitarre si fanno quasi black metal) diventa di una severità inquietante, quasi monumentale. Mentre in pezzi come “Ipnosi” si fanno vivi brevissimi e rapidissimi passaggi schizofrenici, seppur presentandoli sempre nell’introduzione.
Da tutto ciò si può evincere facilmente che i Nis siano un gruppo fondamentalmente grindcore, eppure c’è in loro una forte componente thrashcore che magari permette di rallentare il discorso per districarsi in tempi medio – lenti. Ed è in questi momenti che il gruppo mostra spesso tutto il potenziale grooveggiante che si ritrova, elevando però tale caratteristica soprattutto in canzoni come “Scorie”, nella quale la cavalcata in formato più rock’n’roll prende piede prepotentemente con ritmi contagiosi.
“Scorie” d’altro canto di tutto il lotto è l’episodio sicuramente più particolare. Non soltanto perché non presente né blast – beats né tupa – tupa assassini (cosa che la accomuna con “Scenario Insensato”) ma anche per via di un assolo lungo, come la classicità comanda, la parte centrale, il quale mostra fra l’altro ancora una volta l’ottima tecnica dei nostri. Un assolo anche abbastanza metallico, nonostante l’uso (a dire il vero rarissimo e limitatissimo visto che essa non fa altro che suonare su tonalità più alte ciò che fa la ritmica) solitamente quasi dischargeano della chitarra solista.
Sicuramente meno tecnico e curato il cantato, consistente di due voci che si alternano come in un gruppo di metal estremo. Infatti, vi è un grugnito cavernoso ma non troppo, e un urlo sofferto anche se forse non particolarmente efficace dato che un po’ stona con la mega – cattiveria che il gruppo spara in continuazione. Un aspetto più mal digeribile deriva però sicuramente dalla poca intelligibilità dei testi, pressoché fondamentali in un gruppo del genere. Anche se ciò non impedisce una buona cura nella costruzione delle linee vocali, e da questo punto di vista il massimo picco di qualità è rappresentato proprio dalla bellissima “Scorie”).
Per il resto, la produzione di “Presagi di un’Insulsa Rovina” è proprio una di quelle per cui vado pazzo. Cupa, sporca ma con ogni strumento ben bilanciato (a parte ovviamente le voci, a tratti un po’ offuscate, come già scritto), con un basso che fra l’altro in qualche occasione si concede degli efficacissimi interventi in solitario (oppure insieme alla batteria), utili a enfatizzare in maniera migliore tutto il discorso.
Voto: 83
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Necrosi Irreversibile/ 2 – Ipnosi/ 3 – Iperbole Cognitiva/ 4 – Scenario Insensato/ 5 – Pattume/ 6 – Incompreso/ 7 – Dipendenze/ 8 – Condannato all’Estraneità/ 9 – Scorie
MySpace:
http://www.myspace.com/niscrust
Friday, September 30, 2011
Wednesday, September 28, 2011
Repuked - "Pervertopia" (2011)
Album (17 Gennaio 2011, Soulseller Records)
Formazione (2007): Rob the Blob, voce, basso;
Nicky Shit, chitarra, voce;
Richie Rimjob, chitarra, voce;
Kinky Stieg, batteria, voce.
Provenienza: Solna/Jakan, Svezia
Canzone migliore del disco:
sono indeciso tra il pezzo omonimo e “I Wanna Puke on You”, che ha un tiro grooveggiante incorreggibile. Mmmmh….a ‘sto punto le scelgo entrambe.
Punto di forza dell’album:
sicuramente la varietà e fantasia che il gruppo si ritrova, fra l’altro declinando il death metal in versione punk – hardcore.
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1° assunto:
ogni volta che si proclama la morte del death metal vecchia scuola, ecco spuntare dal nulla tantissimi gruppi che cercano di aizzare sempre più in alto la sua bandiera.
2° assunto:
che senso ha far morire un genere comunque ancora relativamente giovane, e quindi in grado di dire qualcosa di originale dopo più di 20 anni la sua “invenzione”? A ‘sto punto la musica classica, suonata e composta da secoli, sarebbe morta?
3° assunto:
ultimamente il caro vecchio death metal sta vivendo una seconda epoca d’oro nella quale primeggiano gli svedesi. Volete sapere i nomi dei grandi 5 sfornati ultimamente da questo paese? Eccoveli in ordine alfabetico: Maim, Miasmal, Morbus Chron, Repuked, Valhelgd. Tutti gruppi giovani, e tutti più che degni di essere affiancati ai nomi grossi del genere dato che un ricambio generazionale così vasto e pieno di qualità forse non c’è mai stato prima.
Dei 5 citati oggi si parlerà dei Repuked, che a dir la verità propongono un death metal allo stesso tempo anomalo e iper – tradizionalista. Questo perché riportano quasi le lancette dell’orologio di ben 27 anni, ossia quando molti dei primi gruppi combinavano una forma primitiva di death con il punk – hardcore. E quindi ecco un tipo di riffing che di certo non si sente tutti i giorni.
Questa tendenza del gruppo a rendere più rozza la musica non corrisponde però a una modesta cura dei particolari. Infatti, che ci crediate o no, la chitarra solista è d’importanza vitale in questo caso, e ciò si esplica in particolar modo negli assoli, di cui almeno uno è presente in quasi ogni pezzo. Fra l’altro, alcuni di essi si rivelano anche abbastanza particolari, tecnici ed anche incredibilmente belli lunghi, oltreché di fattura sempre molto alta.
Punk - hardcore significa anche velocità d’esecuzione. Bene, è vero che i Repuked ne propongono a iosa, pur raggiungendo solo in poche occasioni i blast – beats, ma è altrettanto vero che qui i tempi medio – lenti hanno una grossa importanza. Questo sia perché i nostri sono ben attenti a conservare intatto un equilibrio ritmico per niente fragile, sia perché ci sono ben 2 canzoni che si sorreggono principalmente sui tempi più lenti, ossia “…Fucking Something Dead” (pezzo dall’atmosfera a tratti meravigliosamente traballante) e “Morgue of Whores” (questo invece lungo la parte centrale presenta una lunga minacciosa pausa pressoché memorabile). Per non parlare del groove, di cui è letteralmente pieno “Pervertopia”, brano da cui è stato giustamente tratto un (esilarante) video. “Giustamente” perché fa ballare così tanto il culo che manco i Frankie Goes to Hollywood ne sarebbero capaci! Bisogna dire che questa caratteristica viene aiutata molto dalla predilezione ossessiva per tempi belli essenziali e lineari.
Altro mito del punk/hc sfatato dai Repuked è la durata dei pezzi. Benchè da questo punto di vista non ne manchino di più classici, ce ne sono ben 2 che raggiungono e superano (di molto) i 5 minuti, ovverosia “Chemically Wasted” e l’incubo di “Toxic Constipation”, una specie di outro lunga ben 8 minuti, e che riesce a concludere degnamente tutto l’album.
E questo nonostante “Toxic Constipation” sia un pezzo dallo sviluppo quasi statico, quasi interamente strumentale, dal tempo doom e retto soprattutto da un nugolo abbastanza consistente di chitarre (un brutto vizietto dei nostri, visto che per esempio nel lungo finale di “Chemically Wasted”, dall’impronta blackeggiante, si fa viva ad un certo punto persino una terza chitarra, un artificio praticamente poco credibile perché irrealizzabile dal vivo), di cui la solista è oserei dire spaventosamente abissale e psichedelica. Ma il bello è che quelle a volte impercettibili variazioni al discorso riescono a dire più di quanto mille cambi di tempo saprebbero fare. Un pezzo angosciante come pochi.
Pochi sono anche i gruppi capaci di gestire così bene vari tipi di cantato, che fra l’altro si legano perfettamente con le liriche dei Repuked, amanti di tutto ciò che abbia a che fare con il… vomito. Le urla sguaiate, i grugniti bestiali (da menzionare quelli gutturali, piuttosto rari, in versione ultra – maialesca), chi più chi meno tutte voci vomitate. Con una fantasia incorreggibile anche nella costruzione delle linee vocali (palma d’oro a quelle di “Pervertopia”).
E giusto per enfatizzare l’atmosfera generale, in quasi tutti i pezzi si trovano, soprattutto come introduzione, vari spezzoni spesso vomitonzi. Da questo punto di vista è memorabile soprattutto l’esperimento di 50 secondi, chiamato "Standing by the Roadside", nel quale si possono sentire ad un certo punto dei suoni molto simili a quelli prodotti dai mostri di The Descent. Inquietante è dire poco. Interessante inoltre notare come alcuni pezzi siano praticamente collegati fra loro proprio grazie a queste cose, riuscendo così a giustificare anche concettualmente l’ultimo episodio dell’album.
Infine, c’è da parlare della produzione, dura e sporca come si conviene ad un gruppo del genere. Le sonorità infatti sono state impostate su frequenze abbastanza altine, fra l’altro con il risultato di rendere a tratti poco intelligibile tutto l’insieme (problema facilmente risolvibile usando le cuffie…), visto che ogni volta sembra di ascoltare veramente dal vivo i Repuked. Insomma, è una produzione molto simile a quella tipicamente svedese di “Zombienomicon” dei God Among Insects.
Voto: 93
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Chemically Wasted/ 2 – Gag!/ 3 – Mental Vomit/ 4 – Pervertopia/ 5 – I Wanna Puke on You/ 6 – Brainboiler/ 7 – Standing by the Roadside/ 8 - …Fucking Something Dead/ 9 – Morgue of Whores/ 10 – Orgasmic Death Deliverer/ 11 – Toxic Constipation
MySpace:
http://www.myspace.com/repuked
Sito ufficiale:
http://www.repuked.tk/
Formazione (2007): Rob the Blob, voce, basso;
Nicky Shit, chitarra, voce;
Richie Rimjob, chitarra, voce;
Kinky Stieg, batteria, voce.
Provenienza: Solna/Jakan, Svezia
Canzone migliore del disco:
sono indeciso tra il pezzo omonimo e “I Wanna Puke on You”, che ha un tiro grooveggiante incorreggibile. Mmmmh….a ‘sto punto le scelgo entrambe.
Punto di forza dell’album:
sicuramente la varietà e fantasia che il gruppo si ritrova, fra l’altro declinando il death metal in versione punk – hardcore.
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1° assunto:
ogni volta che si proclama la morte del death metal vecchia scuola, ecco spuntare dal nulla tantissimi gruppi che cercano di aizzare sempre più in alto la sua bandiera.
2° assunto:
che senso ha far morire un genere comunque ancora relativamente giovane, e quindi in grado di dire qualcosa di originale dopo più di 20 anni la sua “invenzione”? A ‘sto punto la musica classica, suonata e composta da secoli, sarebbe morta?
3° assunto:
ultimamente il caro vecchio death metal sta vivendo una seconda epoca d’oro nella quale primeggiano gli svedesi. Volete sapere i nomi dei grandi 5 sfornati ultimamente da questo paese? Eccoveli in ordine alfabetico: Maim, Miasmal, Morbus Chron, Repuked, Valhelgd. Tutti gruppi giovani, e tutti più che degni di essere affiancati ai nomi grossi del genere dato che un ricambio generazionale così vasto e pieno di qualità forse non c’è mai stato prima.
Dei 5 citati oggi si parlerà dei Repuked, che a dir la verità propongono un death metal allo stesso tempo anomalo e iper – tradizionalista. Questo perché riportano quasi le lancette dell’orologio di ben 27 anni, ossia quando molti dei primi gruppi combinavano una forma primitiva di death con il punk – hardcore. E quindi ecco un tipo di riffing che di certo non si sente tutti i giorni.
Questa tendenza del gruppo a rendere più rozza la musica non corrisponde però a una modesta cura dei particolari. Infatti, che ci crediate o no, la chitarra solista è d’importanza vitale in questo caso, e ciò si esplica in particolar modo negli assoli, di cui almeno uno è presente in quasi ogni pezzo. Fra l’altro, alcuni di essi si rivelano anche abbastanza particolari, tecnici ed anche incredibilmente belli lunghi, oltreché di fattura sempre molto alta.
Punk - hardcore significa anche velocità d’esecuzione. Bene, è vero che i Repuked ne propongono a iosa, pur raggiungendo solo in poche occasioni i blast – beats, ma è altrettanto vero che qui i tempi medio – lenti hanno una grossa importanza. Questo sia perché i nostri sono ben attenti a conservare intatto un equilibrio ritmico per niente fragile, sia perché ci sono ben 2 canzoni che si sorreggono principalmente sui tempi più lenti, ossia “…Fucking Something Dead” (pezzo dall’atmosfera a tratti meravigliosamente traballante) e “Morgue of Whores” (questo invece lungo la parte centrale presenta una lunga minacciosa pausa pressoché memorabile). Per non parlare del groove, di cui è letteralmente pieno “Pervertopia”, brano da cui è stato giustamente tratto un (esilarante) video. “Giustamente” perché fa ballare così tanto il culo che manco i Frankie Goes to Hollywood ne sarebbero capaci! Bisogna dire che questa caratteristica viene aiutata molto dalla predilezione ossessiva per tempi belli essenziali e lineari.
Altro mito del punk/hc sfatato dai Repuked è la durata dei pezzi. Benchè da questo punto di vista non ne manchino di più classici, ce ne sono ben 2 che raggiungono e superano (di molto) i 5 minuti, ovverosia “Chemically Wasted” e l’incubo di “Toxic Constipation”, una specie di outro lunga ben 8 minuti, e che riesce a concludere degnamente tutto l’album.
E questo nonostante “Toxic Constipation” sia un pezzo dallo sviluppo quasi statico, quasi interamente strumentale, dal tempo doom e retto soprattutto da un nugolo abbastanza consistente di chitarre (un brutto vizietto dei nostri, visto che per esempio nel lungo finale di “Chemically Wasted”, dall’impronta blackeggiante, si fa viva ad un certo punto persino una terza chitarra, un artificio praticamente poco credibile perché irrealizzabile dal vivo), di cui la solista è oserei dire spaventosamente abissale e psichedelica. Ma il bello è che quelle a volte impercettibili variazioni al discorso riescono a dire più di quanto mille cambi di tempo saprebbero fare. Un pezzo angosciante come pochi.
Pochi sono anche i gruppi capaci di gestire così bene vari tipi di cantato, che fra l’altro si legano perfettamente con le liriche dei Repuked, amanti di tutto ciò che abbia a che fare con il… vomito. Le urla sguaiate, i grugniti bestiali (da menzionare quelli gutturali, piuttosto rari, in versione ultra – maialesca), chi più chi meno tutte voci vomitate. Con una fantasia incorreggibile anche nella costruzione delle linee vocali (palma d’oro a quelle di “Pervertopia”).
E giusto per enfatizzare l’atmosfera generale, in quasi tutti i pezzi si trovano, soprattutto come introduzione, vari spezzoni spesso vomitonzi. Da questo punto di vista è memorabile soprattutto l’esperimento di 50 secondi, chiamato "Standing by the Roadside", nel quale si possono sentire ad un certo punto dei suoni molto simili a quelli prodotti dai mostri di The Descent. Inquietante è dire poco. Interessante inoltre notare come alcuni pezzi siano praticamente collegati fra loro proprio grazie a queste cose, riuscendo così a giustificare anche concettualmente l’ultimo episodio dell’album.
Infine, c’è da parlare della produzione, dura e sporca come si conviene ad un gruppo del genere. Le sonorità infatti sono state impostate su frequenze abbastanza altine, fra l’altro con il risultato di rendere a tratti poco intelligibile tutto l’insieme (problema facilmente risolvibile usando le cuffie…), visto che ogni volta sembra di ascoltare veramente dal vivo i Repuked. Insomma, è una produzione molto simile a quella tipicamente svedese di “Zombienomicon” dei God Among Insects.
Voto: 93
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Chemically Wasted/ 2 – Gag!/ 3 – Mental Vomit/ 4 – Pervertopia/ 5 – I Wanna Puke on You/ 6 – Brainboiler/ 7 – Standing by the Roadside/ 8 - …Fucking Something Dead/ 9 – Morgue of Whores/ 10 – Orgasmic Death Deliverer/ 11 – Toxic Constipation
MySpace:
http://www.myspace.com/repuked
Sito ufficiale:
http://www.repuked.tk/
Wednesday, September 21, 2011
Mass Obliteration - "Auschwitz EP" (2011)
Ep autoprodotto (2011)
Formazione (2006): Andrea Lisi, voce, chitarra, basso, batteria, drum – machine, tastiera, campionamenti.
Provenienza: Roma, Lazio
Canzone migliore del disco:
probabilmente “Scrivere”. Angosciante e con certi elementi che contrastano magnificamente con l’atmosfera generale. Ed inoltre e di conseguenza, è totalmente azzeccato lo “sviluppo” dell’intero episodio.
Punto di forza dell’ep:
il fatto che faccia pensare.
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Nota:
faccio presente che nel frattempo il nostro ha postato su YouTube un nuovo pezzo: “Subumani”, nel quale prende di mira fra le altre cose la frase “Il lusso è un diritto” di Vincent Cassel per lanciare la… Lancia (scusate il gioco di parole) Ypsilon. Per ascoltarla, cliccate sul seguente link:
http://www.youtube.com/watch?v=6ztqezqWhWs
Lo ammetto, il seguente è un parallelo un po’ scomodo, ma se la Shoah nazista è stato il definitivo seme della discordia del Terzo Reich, l’ep che mi appresto a recensire lo è per i Mass Obliteration, ormai un vero e proprio solo – progetto nel quale Andrea Lisi regna finalmente indisturbato. Questo disco è infatti il definitivo allontanamento dell’interessato dalle sonorità del metal estremo. Un allontanamento che in sé è sia primitivo sia elegante, ragion per cui più che parlare di un’esperienza musicale è molto meglio definire l’opera come un viaggio nella natura umana. Un viaggio controverso che, rappresentando un po’ la soluzione estrema tanto desiderata da Andrea verso lo sperimentalismo più puro, è l’equivalente civile e razionale della soluzione finale propinata dai nazisti verso l’annientamento più completo degli Ebrei. E’ controverso anche perché tale ep lo si può interpretare attraverso le più disparate chiavi di lettura, che così impediscono di recensirlo in maniera più tradizionale. Ma prima di elencarle e spiegarle una per una, mi pare doveroso illuminare sulla dicotomia citata poco fa, partendo dal primitivismo, ovverosia:
1) il minimalismo delle forme. Questo sia perché a volte tutto si regge su una chitarra (che magari gioca con il feedback) ed una voce quasi sussurrante (“Sul Fondo”), sia perché non vi è un vero e proprio sviluppo dei vari brani, i quali dal punto di vista melodico sono pressoché ridotti ad un ossicino;
2) di conseguenza si “gioca” tutto sul rumore, che si può trasformare in puro caos (“Larve”), con alcuni strumenti che ne seppelliscono altri;
3) la consapevolezza dell’istinto (auto) – distruttivo della natura umana (e quindi punto collegato con gli altri), che viene mostrata nei suoi caratteri ciechi ed anche universali (come si evince facilmente dal testo di “Schiavi e Padroni”).
L’eleganza invece si esplica attraverso:
1) la derivazione letteraria dei testi, trasposti sottoforma di poesia. Infatti, l’ep non è altro che l’interpretazione rumoristica ma poetica del romanzo “Se Questo E’ un Uomo” di Primo Levi;
2) la profonda aritmicità di tutti e 4 i pezzi che anche da questo punto di vista si rivelano particolarmente suggestivi. Infatti, l’assenza DEL ritmo (ergo del tempo) si può facilmente collegare con il popolo ebreo, che prima della Creazione venne prescelto da Dio, un’entità posta assolutamente fuori della Storia (e quindi del tempo). Quando invece un ritmo viene (solo) accennato, pur non essendo ben definito, è come se si ponesse l’accento sul dualismo umano/divino che caratterizza gli Ebrei;
3) l’intuizione del carattere profondamente scientifico e profondamente studiato e preparato dello sterminio nazista, cosa che “compensa” la primordialità rozza dell’istinto omicida citato qualche riga fa.
Analizzata la dicotomia, è ora di fare la stessa cosa prendendo in considerazione le varie e possibili chiavi lettura dell’ep, dalla più superficiale alla più seria.
L’INTERPRETAZIONE DEL FAN:
per me i veri Mass Obliteration erano, sono e rimangono quel gruppo di death metal tecnico con tocchi black che da “Abrahamitic Curse” a “Fratricide” (disco a dire il vero più tradizionale ed omogeneo) furoreggiò nella periferia romana. Ma fra il 2009 ed il 2011, il gruppo cominciò regolarmente a esistere e scomparire fino all’annuncio della lavorazione del primo album, che Andrea definiva come una botta per il cosiddetto “fashion – death metal” (definizione discutibilissima perché è come un dire ma non dire allo stesso tempo). Ma rimanevano soltanto lui e Luca Zambelli, batterista eccezionale. Solo che poi qualcosa non filò liscio, così da far rimanere al suo posto Andrea, uno dei fondamentali ingranaggi che componeva un gruppo il cui album era atteso con un certo interesse ma la cui stesura fallì miseramente.
Ecco perché sarebbe stato meglio scegliere un altro nome per questa nuova esperienza.
LA FREDDA INTERPRETAZIONE MUSICALE:
se dovessimo guardare “Auschwitz” solo come un prodotto musicale, ne verrebbe praticamente fuori un quadro desolante e quasi senza stimoli.
La cosa incredibile è che nei 4 pezzi si trovano quasi esclusivamente gli strumenti tradizionali della musica rock, dando però particolare importanza alla chitarra, visto che per esempio la batteria è completamente assente in “Sul Fondo” (di cui si è già scritto) e in “Scrivere”. In pratica ne è venuto fuori un ribaltamento concettuale delle caratteristiche metal, che fra le altre cose conta l’utilizzo di una voce pulita quasi parlata, anche se in “Larve” e molto leggermente in “Schiavi e Padroni” vi sono concessioni al caro vecchio death metal per il tramite di grugniti dannatamente efficaci.
Nel dettaglio:
- “Larve” è l’unico pezzo che abbia una qualche forma di ritmo (merito di una drum – machine inquietante) e melodia, solo che entrambi vengono poi “distrutti” da una cacofonia inenarrabile di rumori nei quali fa capolino anche un assolo rumorista di chitarra, altra concessione al passato.
Per impostazione e capacità di trasmettere follia, questa canzone può rimandare ai Rotorvator più distruttivi, anche se concettualmente è un brano un po’ troppo permissivo nei confronti della musica propriamente detta dato che si allontana di parecchio dagli altri episodi dell’ep, certamente più suggestivi e provocatori;
- “Scrivere” ‘è sostanzialmente un monologo fra Primo Levi ed un giornalista intento a intervistarlo durante un viaggio in treno verso Auschwitz fatto nella prima metà degli anni ’80 (http://www.youtube.com/watch?v=72ElOxRd228&feature=related). Sullo sfondo una chitarra ossessiva e disturbante (il cui discorso viene sottoposto, producendo un effetto interessante, ad una dissolvenza graduale lungo la parte centrale), ed occasionalmente un campionamento dalla natura quasi ritmica e più raramente qualche tocco di tastiera.
Inoltre, dà veramente i brividi il fatto che in certi momenti i due uomini scherzino (parlando ovviamente non di cose inerenti l’Olocausto), nonostante l’atmosfera generale piena di tensione totalmente statica;
- In “Schiavi e Padroni” invece si fa per la prima volta sentire una batteria vera e propria, spaventosa nel suo incedere. E’ il brano nel quale l’apporto vocale è più pressante (ci sono infatti varie sovraincisioni fra cui dei sussurrii da incubo) ma è anche quello forse meno riuscito. Sì, perché, a parte delle variazioni quasi impercettibili, da un certo momento in poi si ripetono sempre le stesse cose, anche dal punto di vista lirico. E fate conto che il pezzo dura la bellezza di 9 minuti e 10 secondi (notare il legame con il minutaggio del video linkato), che poi curiosamente è la stessa durata dell’episodio precedente.
LA “CONSOLANTE” INTERPRETAZIONE EMPATICA:
i nazisti, attraverso i lager, non volevano soltanto annientare del tutto gli Ebrei, ma il loro “compito” consisteva anche nel separarli fra di loro così da renderli l’uno ostile all’altro. Si spiegano in questo modo i Kapò, gli aguzzini ebrei al soldo di Hitler, sui quali il regista Gillo Pontecorvo ne fece nel 1960 un film illuminante.
Avviene un po’ la stessa cosa con il disco, con gli ascoltatori che si ritrovano quasi ad auto – distruggersi fino a odiare il creatore di questo male “musicale”, pur ben sapendo che lui è come loro (da cui la massima dell’ultimo brano: “Schiavi e Padroni tutti uguali”). Eppure a questi viene eliminata ogni certezza, così che ci si scontri inevitabilmente con il dilemma nietzscheano del “Dio è morto”, rendendosi di conseguenza consapevoli del modo assolutamente brutale con cui vengono utilizzati gli strumenti, dei quali solo la chitarra (di fatto l’unico reale appiglio per l’appassionato di musica rock) non è “usa e getta”.
Ma ricordiamoci che l’empatia, per quanto faccia soffrire con la sola immaginazione, è un valore più che positivo.
L’INTEPRETAZIONE DEL DOLORE:
c’è un passaggio dell’intervista a Levi che è un po’ il succo di tutta l’operazione, ossia l’impossibilità da parte del detenuto di “toccare il fondo” attraverso un percorso graduale. In parole povere, ogni violenza non era assolutamente peggio delle altre, anche perché il futuro in ogni caso si prospettava come inesistente, ragion per cui niente era meglio della morte, unica possibilità per risalire dal “fondo eterno” di una prigionia senza limiti. E’ forse per questo che molti sopravvissuti, fra cui lo stesso Primo Levi, si suicidarono dopo aver sopportato per tanti anni un peso del genere nella coscienza.
Questa perenne ed assoluta condizione di non – vita veniva fra l’altro enfatizzata dagli stessi Kapò e dai detenuti che magari si uccidevano a vicenda per una misera fetta di pane sporco.
Questo è un punto che collega “Scrivere” con “Schiavi e Padroni”, la cui massima forse spiega anche la condivisione dello stesso minutaggio fra i due brani, artificio sicuramente premeditato. Un po’ meno giustificabile è l’implicita vitalità dell’ultimo pezzo, forse un po’ troppo imbottito di strumenti e sovraincisioni , cosa che non riesce a concretizzare totalmente il vuoto che si vorrebbe tanto trasmettere.
Insomma, dopo questa rece sui generis anche per me, un consiglio che vi dò è quello di riflettere bene prima di ascoltare e quindi acquistare questo disco, che nulla basa sul divertimento che invece è una componente fondamentale della musica tutta. Anche perché quasi 30 minuti di un tale delirio passano veramente molto lenti. E’ un opera controversa appunto anche per questo, di conseguenza è difficile trarne un giudizio preciso e sicuro. Ma il fatto che mi abbia fatto riflettere così tanto significa che mi ha tremendamente colpito. Solo così si spiega il senza voto, pur non dimenticando che la nuova avventura di Andrea non è stata comunque retta da un discorso sempre infallibile, anche perché è la prima volta che si districa in simili territori. In ogni caso, vale la pena dare una possibilità ad un artista orgoglioso di essere finalmente e dichiaramente… improduttivo (in fin dei conti, bisogna essere sadomasochisti per fare una roba del genere!).
Voto: s.v.
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sul Fondo/ 2 – Larve/ 3 – Scrivere/ 4 – Schiavi e Padroni
Sito ufficiale:
http://massobliteration.wordpress.com/
Formazione (2006): Andrea Lisi, voce, chitarra, basso, batteria, drum – machine, tastiera, campionamenti.
Provenienza: Roma, Lazio
Canzone migliore del disco:
probabilmente “Scrivere”. Angosciante e con certi elementi che contrastano magnificamente con l’atmosfera generale. Ed inoltre e di conseguenza, è totalmente azzeccato lo “sviluppo” dell’intero episodio.
Punto di forza dell’ep:
il fatto che faccia pensare.
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Nota:
faccio presente che nel frattempo il nostro ha postato su YouTube un nuovo pezzo: “Subumani”, nel quale prende di mira fra le altre cose la frase “Il lusso è un diritto” di Vincent Cassel per lanciare la… Lancia (scusate il gioco di parole) Ypsilon. Per ascoltarla, cliccate sul seguente link:
http://www.youtube.com/watch?v=6ztqezqWhWs
Lo ammetto, il seguente è un parallelo un po’ scomodo, ma se la Shoah nazista è stato il definitivo seme della discordia del Terzo Reich, l’ep che mi appresto a recensire lo è per i Mass Obliteration, ormai un vero e proprio solo – progetto nel quale Andrea Lisi regna finalmente indisturbato. Questo disco è infatti il definitivo allontanamento dell’interessato dalle sonorità del metal estremo. Un allontanamento che in sé è sia primitivo sia elegante, ragion per cui più che parlare di un’esperienza musicale è molto meglio definire l’opera come un viaggio nella natura umana. Un viaggio controverso che, rappresentando un po’ la soluzione estrema tanto desiderata da Andrea verso lo sperimentalismo più puro, è l’equivalente civile e razionale della soluzione finale propinata dai nazisti verso l’annientamento più completo degli Ebrei. E’ controverso anche perché tale ep lo si può interpretare attraverso le più disparate chiavi di lettura, che così impediscono di recensirlo in maniera più tradizionale. Ma prima di elencarle e spiegarle una per una, mi pare doveroso illuminare sulla dicotomia citata poco fa, partendo dal primitivismo, ovverosia:
1) il minimalismo delle forme. Questo sia perché a volte tutto si regge su una chitarra (che magari gioca con il feedback) ed una voce quasi sussurrante (“Sul Fondo”), sia perché non vi è un vero e proprio sviluppo dei vari brani, i quali dal punto di vista melodico sono pressoché ridotti ad un ossicino;
2) di conseguenza si “gioca” tutto sul rumore, che si può trasformare in puro caos (“Larve”), con alcuni strumenti che ne seppelliscono altri;
3) la consapevolezza dell’istinto (auto) – distruttivo della natura umana (e quindi punto collegato con gli altri), che viene mostrata nei suoi caratteri ciechi ed anche universali (come si evince facilmente dal testo di “Schiavi e Padroni”).
L’eleganza invece si esplica attraverso:
1) la derivazione letteraria dei testi, trasposti sottoforma di poesia. Infatti, l’ep non è altro che l’interpretazione rumoristica ma poetica del romanzo “Se Questo E’ un Uomo” di Primo Levi;
2) la profonda aritmicità di tutti e 4 i pezzi che anche da questo punto di vista si rivelano particolarmente suggestivi. Infatti, l’assenza DEL ritmo (ergo del tempo) si può facilmente collegare con il popolo ebreo, che prima della Creazione venne prescelto da Dio, un’entità posta assolutamente fuori della Storia (e quindi del tempo). Quando invece un ritmo viene (solo) accennato, pur non essendo ben definito, è come se si ponesse l’accento sul dualismo umano/divino che caratterizza gli Ebrei;
3) l’intuizione del carattere profondamente scientifico e profondamente studiato e preparato dello sterminio nazista, cosa che “compensa” la primordialità rozza dell’istinto omicida citato qualche riga fa.
Analizzata la dicotomia, è ora di fare la stessa cosa prendendo in considerazione le varie e possibili chiavi lettura dell’ep, dalla più superficiale alla più seria.
L’INTERPRETAZIONE DEL FAN:
per me i veri Mass Obliteration erano, sono e rimangono quel gruppo di death metal tecnico con tocchi black che da “Abrahamitic Curse” a “Fratricide” (disco a dire il vero più tradizionale ed omogeneo) furoreggiò nella periferia romana. Ma fra il 2009 ed il 2011, il gruppo cominciò regolarmente a esistere e scomparire fino all’annuncio della lavorazione del primo album, che Andrea definiva come una botta per il cosiddetto “fashion – death metal” (definizione discutibilissima perché è come un dire ma non dire allo stesso tempo). Ma rimanevano soltanto lui e Luca Zambelli, batterista eccezionale. Solo che poi qualcosa non filò liscio, così da far rimanere al suo posto Andrea, uno dei fondamentali ingranaggi che componeva un gruppo il cui album era atteso con un certo interesse ma la cui stesura fallì miseramente.
Ecco perché sarebbe stato meglio scegliere un altro nome per questa nuova esperienza.
LA FREDDA INTERPRETAZIONE MUSICALE:
se dovessimo guardare “Auschwitz” solo come un prodotto musicale, ne verrebbe praticamente fuori un quadro desolante e quasi senza stimoli.
La cosa incredibile è che nei 4 pezzi si trovano quasi esclusivamente gli strumenti tradizionali della musica rock, dando però particolare importanza alla chitarra, visto che per esempio la batteria è completamente assente in “Sul Fondo” (di cui si è già scritto) e in “Scrivere”. In pratica ne è venuto fuori un ribaltamento concettuale delle caratteristiche metal, che fra le altre cose conta l’utilizzo di una voce pulita quasi parlata, anche se in “Larve” e molto leggermente in “Schiavi e Padroni” vi sono concessioni al caro vecchio death metal per il tramite di grugniti dannatamente efficaci.
Nel dettaglio:
- “Larve” è l’unico pezzo che abbia una qualche forma di ritmo (merito di una drum – machine inquietante) e melodia, solo che entrambi vengono poi “distrutti” da una cacofonia inenarrabile di rumori nei quali fa capolino anche un assolo rumorista di chitarra, altra concessione al passato.
Per impostazione e capacità di trasmettere follia, questa canzone può rimandare ai Rotorvator più distruttivi, anche se concettualmente è un brano un po’ troppo permissivo nei confronti della musica propriamente detta dato che si allontana di parecchio dagli altri episodi dell’ep, certamente più suggestivi e provocatori;
- “Scrivere” ‘è sostanzialmente un monologo fra Primo Levi ed un giornalista intento a intervistarlo durante un viaggio in treno verso Auschwitz fatto nella prima metà degli anni ’80 (http://www.youtube.com/watch?v=72ElOxRd228&feature=related). Sullo sfondo una chitarra ossessiva e disturbante (il cui discorso viene sottoposto, producendo un effetto interessante, ad una dissolvenza graduale lungo la parte centrale), ed occasionalmente un campionamento dalla natura quasi ritmica e più raramente qualche tocco di tastiera.
Inoltre, dà veramente i brividi il fatto che in certi momenti i due uomini scherzino (parlando ovviamente non di cose inerenti l’Olocausto), nonostante l’atmosfera generale piena di tensione totalmente statica;
- In “Schiavi e Padroni” invece si fa per la prima volta sentire una batteria vera e propria, spaventosa nel suo incedere. E’ il brano nel quale l’apporto vocale è più pressante (ci sono infatti varie sovraincisioni fra cui dei sussurrii da incubo) ma è anche quello forse meno riuscito. Sì, perché, a parte delle variazioni quasi impercettibili, da un certo momento in poi si ripetono sempre le stesse cose, anche dal punto di vista lirico. E fate conto che il pezzo dura la bellezza di 9 minuti e 10 secondi (notare il legame con il minutaggio del video linkato), che poi curiosamente è la stessa durata dell’episodio precedente.
LA “CONSOLANTE” INTERPRETAZIONE EMPATICA:
i nazisti, attraverso i lager, non volevano soltanto annientare del tutto gli Ebrei, ma il loro “compito” consisteva anche nel separarli fra di loro così da renderli l’uno ostile all’altro. Si spiegano in questo modo i Kapò, gli aguzzini ebrei al soldo di Hitler, sui quali il regista Gillo Pontecorvo ne fece nel 1960 un film illuminante.
Avviene un po’ la stessa cosa con il disco, con gli ascoltatori che si ritrovano quasi ad auto – distruggersi fino a odiare il creatore di questo male “musicale”, pur ben sapendo che lui è come loro (da cui la massima dell’ultimo brano: “Schiavi e Padroni tutti uguali”). Eppure a questi viene eliminata ogni certezza, così che ci si scontri inevitabilmente con il dilemma nietzscheano del “Dio è morto”, rendendosi di conseguenza consapevoli del modo assolutamente brutale con cui vengono utilizzati gli strumenti, dei quali solo la chitarra (di fatto l’unico reale appiglio per l’appassionato di musica rock) non è “usa e getta”.
Ma ricordiamoci che l’empatia, per quanto faccia soffrire con la sola immaginazione, è un valore più che positivo.
L’INTEPRETAZIONE DEL DOLORE:
c’è un passaggio dell’intervista a Levi che è un po’ il succo di tutta l’operazione, ossia l’impossibilità da parte del detenuto di “toccare il fondo” attraverso un percorso graduale. In parole povere, ogni violenza non era assolutamente peggio delle altre, anche perché il futuro in ogni caso si prospettava come inesistente, ragion per cui niente era meglio della morte, unica possibilità per risalire dal “fondo eterno” di una prigionia senza limiti. E’ forse per questo che molti sopravvissuti, fra cui lo stesso Primo Levi, si suicidarono dopo aver sopportato per tanti anni un peso del genere nella coscienza.
Questa perenne ed assoluta condizione di non – vita veniva fra l’altro enfatizzata dagli stessi Kapò e dai detenuti che magari si uccidevano a vicenda per una misera fetta di pane sporco.
Questo è un punto che collega “Scrivere” con “Schiavi e Padroni”, la cui massima forse spiega anche la condivisione dello stesso minutaggio fra i due brani, artificio sicuramente premeditato. Un po’ meno giustificabile è l’implicita vitalità dell’ultimo pezzo, forse un po’ troppo imbottito di strumenti e sovraincisioni , cosa che non riesce a concretizzare totalmente il vuoto che si vorrebbe tanto trasmettere.
Insomma, dopo questa rece sui generis anche per me, un consiglio che vi dò è quello di riflettere bene prima di ascoltare e quindi acquistare questo disco, che nulla basa sul divertimento che invece è una componente fondamentale della musica tutta. Anche perché quasi 30 minuti di un tale delirio passano veramente molto lenti. E’ un opera controversa appunto anche per questo, di conseguenza è difficile trarne un giudizio preciso e sicuro. Ma il fatto che mi abbia fatto riflettere così tanto significa che mi ha tremendamente colpito. Solo così si spiega il senza voto, pur non dimenticando che la nuova avventura di Andrea non è stata comunque retta da un discorso sempre infallibile, anche perché è la prima volta che si districa in simili territori. In ogni caso, vale la pena dare una possibilità ad un artista orgoglioso di essere finalmente e dichiaramente… improduttivo (in fin dei conti, bisogna essere sadomasochisti per fare una roba del genere!).
Voto: s.v.
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sul Fondo/ 2 – Larve/ 3 – Scrivere/ 4 – Schiavi e Padroni
Sito ufficiale:
http://massobliteration.wordpress.com/
Sunday, September 18, 2011
Undertakers - "Vision Distortion Perversion" (2000)
Album (Nocturnal Music, 2000)
Formazione (1991): Enrico Giannone, voce;
Marco Lo Cascio, chitarra;
Stefano Casanica, chitarra;
Antonio “Butch” Natrella, basso;
Sandro Laurenzana, batteria.
Provenienza: Napoli, Campania.
Canzone migliore del disco:
“Chainsaw Massacre”, soprattutto perché ha un finale mozzafiato, un finale che ha un andamento traballante anche per via di una lunga pausa che per qualche attimo fa apparire praticamente concluso tale episodio… ed invece. E come non citare, sempre nel finale, quella specie di melodia quasi beffarda ed assolutamente azzeccata?
Punto di forza dell’album:
difficile a dirsi. Probabilmente la batteria, con le sue variazioni al tema che possono essere anche belle imprevedibili.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Per la serie: “Quando meno te lo aspetti”. Quest’estate, durante una delle solite passeggiate per la località balneare toscana Marina di Pietrasanta, ad un certo punto giro la testa verso destra, e cosa vedo? Un po’ di bancarelle con dentro quinta late di dischi metal, punk e compagnia bella! Ovviamente, mi ci fiondo per rimanerci come un francobollo, e dopo un’attenta analisi, la sera di quello stesso giorno mi decido a comprare “Baptized By Fire” dei black/thrashettoni statunitensi Summon…. e naturalmente il disco che mi appresto a recensire. E pensare che conosco il gruppo fin da quando, un giorno di 8 anni fa, un mio vecchio conoscente mi prestò l’interpretazione in salsa elettronica, a cura di Reeks, tastierista dei folli grind sperimentalosi romani Inferno, proprio di “Vision Distortion Perversion”. Esperimento che a dir la verità io non gradii affatto, ma da lì la curiosità di sentire i veri Undertakers (che dopo ben 11 anni devono dare un seguito a questo loro secondo album, pur esistendo ancora oggi) è sempre stata molto forte. Ed effettivamente quei 12 euro spesi per comprare il disco sono stati saggiamente sborsati.
Ci troviamo infatti innanzi ad un gruppo brutal che basa praticamente tutta la propria forza su un assalto continuo e a - melodico nel quale trionfano blast – beats assassini e tupa – tupa. Tupa – tupa? Eh sì, perché gli Undertakers è vero che sono brutal ma è altrettanto vero che stiamo parlando di una forma di brutal un po’ spuria visto che le influenze hardcore, a volte esplicate con piglio thrash metal, non si fanno vive solo in maniera palese ma anche frequentemente. Ascoltatevi a tal proposito “B.C.N.”, pezzo furioso spezzettato a tratti da brevi siparietti di batteria. E non si dimentichi neanche di una spruzzata, seppur leggera, di grindcore (“Rip Off… Fuck Off”, dove si trova alla voce Wolfgang Sussenbeck degli austriaci deathettoni melodici Darkside, dal grugnito nervoso e intensissimo).
Il brutal di questi napoletani non è solo spurio ma è anche bello semplice, lontano quindi dai vari tecnicismi che solitamente infestano il genere. Una semplicità spietata che si riflette in particolar modo nel riffing, strutturalmente classico, e nell’assenza di ogni qualsivoglia assolo (i nostri ne hanno fatto addirittura un motivo d’orgoglio facendo notare fin da subito la cosa sul libretto!) ma più in generale della chitarra solista (al massimo una delle due asce si riduce a suonare sulle note più alte il medesimo riff – o quasi, e “Chainsaw Massacre” è lì a testimoniarlo – della compagna). Cosa che permette di annichilire ancor di più i timpani degli ascoltatori attraverso quindi un lavoro che si basa decisamente sul collettivo, anche se ciò non impedisce un impazzata umoristica nel gran finale del già citato “Rip Off… Fuck Off”, giustamente l’ultimo vero brano data la sua violenza esasperata. Peccato però che stilisticamente sia molto diversa dalle altre canzoni, e fra l’altro avrei preferito che il gruppo usasse le proprie stesse armi per dare il colpo di grazia in modo da concludere il tutto senza filtri “impersonali”.
Tale semplicità sfocia però anche nella voce, o almeno nel modo in cui essa viene utilizzata. Prima di tutto, bisogna dire che vi è un’alternanza fra le varie voci veramente buona, spaziando così principalmente da un grugnito cavernoso e chiuso a un grugnito più forte che rimanda al cantato metalcore (“The Night of the Bastards” ad esempio), per finire con uno spesso inquietante urlo, che in “B.C.N.” diventa ad un certo punto persino schizzato. Fra l’altro, può accadere che una di queste voci, se in un pezzo ha un semplice ruolo di “supporto”, in un’altra assume più importanza magari diventando quella principale.
Solo che, e qua si ritorna all’argomento sulla semplicità, ogni voce nel suo discorso ha un andamento spesso e volentieri statico, quindi in sostanza non ci sono cambiamenti tonali fluidi ed imprevedibili (anche se l’eccezione che conferma la regola c’è…. e riesce a dare pure dei notevoli brividi!) che mostrino particolare tecnica, contrariamente allo stile sguaiato di Sussenbeck. E attenzione che questa non è una critica negativa!
Ma ridurre il lavoro di batteria soltanto a dei tempi veloci ciechi mi sembra una battuta di pessimo gusto. A parte che essa riesce a valorizzare il riffing tramite variazioni rapidi e puntuali talvolta anche inaspettate, ma bisogna dire che le virate sui tempi più lenti (compresi dei ritmi dal groove contagioso) non mancano, pur essendo poche. Come non mancano certe finezze che in un gruppo del genere quasi contrastano con l’impatto violento solitamente snocciolato, e da questo punto di vista sono più che valide le danze sui tom – tom di “My Pride” o le simil – marcette (ho scritto “simil”, beninteso) finali di “The Night of the Bastards”.
In generale però, gli Undertakers non sono propriamente dei mostri per quanto riguarda la fantasia, dato che i deja – vù non sono esattamente difficili da beccare, anche se di certo sono lontanissimi dall’essere i cloni in salsa brutalcore dei Black Witchery. E altrettanto certamente non aiuta il fatto che in scaletta ci siano ben 16 tracce, che d’altro canto vengono compensate da una capacità di sintesi che predilige spesso brani in media da 2 minuti e mezzo circa. Inoltre, è veramente un peccato non aver sviluppato certi momenti particolarmente interessanti, come quello citato poco fa di “My Pride”, abbandonato in modo forse un po’ troppo frettoloso.
Infine, bisogna osservare che i nostri, come un migliaio di esponenti del genere, fanno uso, anche se con rigorosa misura, di spezzoni (in inglese) tratti da vari film horror, concedendosi però una trovata esilarante nell’intro, dal titolo illuminante “Screams’ Warriors”. Perché? Perché in essa vi si trovano nient’altro che le urla dei famosi All Blacks. E cazzo se fanno un bell’effetto!
Voto: 75
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Screams’ Warrior (Intro)/ 2 – Night of the Bastards/ 3 – Burnt Alive/ 4 – No Satan No God/ 5 – My Pride/ 6 – I’m the Motherfucker/ 7 – Suffocated/8 - Mass Execution/ 9 – Lessons of Madness/ 10 – Prelude to…/ 11 - ….Chainsaw Massacre/ 12 – B.C.N./ 13 – My Desire? Your Extinction/ 14 – Dead Man Walking/ 15 – Rip Off… Fuck Off/ 16 – That’s All (Outro)
MySpace:
http://www.myspace.com/undertakersband
Formazione (1991): Enrico Giannone, voce;
Marco Lo Cascio, chitarra;
Stefano Casanica, chitarra;
Antonio “Butch” Natrella, basso;
Sandro Laurenzana, batteria.
Provenienza: Napoli, Campania.
Canzone migliore del disco:
“Chainsaw Massacre”, soprattutto perché ha un finale mozzafiato, un finale che ha un andamento traballante anche per via di una lunga pausa che per qualche attimo fa apparire praticamente concluso tale episodio… ed invece. E come non citare, sempre nel finale, quella specie di melodia quasi beffarda ed assolutamente azzeccata?
Punto di forza dell’album:
difficile a dirsi. Probabilmente la batteria, con le sue variazioni al tema che possono essere anche belle imprevedibili.
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Ci troviamo infatti innanzi ad un gruppo brutal che basa praticamente tutta la propria forza su un assalto continuo e a - melodico nel quale trionfano blast – beats assassini e tupa – tupa. Tupa – tupa? Eh sì, perché gli Undertakers è vero che sono brutal ma è altrettanto vero che stiamo parlando di una forma di brutal un po’ spuria visto che le influenze hardcore, a volte esplicate con piglio thrash metal, non si fanno vive solo in maniera palese ma anche frequentemente. Ascoltatevi a tal proposito “B.C.N.”, pezzo furioso spezzettato a tratti da brevi siparietti di batteria. E non si dimentichi neanche di una spruzzata, seppur leggera, di grindcore (“Rip Off… Fuck Off”, dove si trova alla voce Wolfgang Sussenbeck degli austriaci deathettoni melodici Darkside, dal grugnito nervoso e intensissimo).
Il brutal di questi napoletani non è solo spurio ma è anche bello semplice, lontano quindi dai vari tecnicismi che solitamente infestano il genere. Una semplicità spietata che si riflette in particolar modo nel riffing, strutturalmente classico, e nell’assenza di ogni qualsivoglia assolo (i nostri ne hanno fatto addirittura un motivo d’orgoglio facendo notare fin da subito la cosa sul libretto!) ma più in generale della chitarra solista (al massimo una delle due asce si riduce a suonare sulle note più alte il medesimo riff – o quasi, e “Chainsaw Massacre” è lì a testimoniarlo – della compagna). Cosa che permette di annichilire ancor di più i timpani degli ascoltatori attraverso quindi un lavoro che si basa decisamente sul collettivo, anche se ciò non impedisce un impazzata umoristica nel gran finale del già citato “Rip Off… Fuck Off”, giustamente l’ultimo vero brano data la sua violenza esasperata. Peccato però che stilisticamente sia molto diversa dalle altre canzoni, e fra l’altro avrei preferito che il gruppo usasse le proprie stesse armi per dare il colpo di grazia in modo da concludere il tutto senza filtri “impersonali”.
Tale semplicità sfocia però anche nella voce, o almeno nel modo in cui essa viene utilizzata. Prima di tutto, bisogna dire che vi è un’alternanza fra le varie voci veramente buona, spaziando così principalmente da un grugnito cavernoso e chiuso a un grugnito più forte che rimanda al cantato metalcore (“The Night of the Bastards” ad esempio), per finire con uno spesso inquietante urlo, che in “B.C.N.” diventa ad un certo punto persino schizzato. Fra l’altro, può accadere che una di queste voci, se in un pezzo ha un semplice ruolo di “supporto”, in un’altra assume più importanza magari diventando quella principale.
Solo che, e qua si ritorna all’argomento sulla semplicità, ogni voce nel suo discorso ha un andamento spesso e volentieri statico, quindi in sostanza non ci sono cambiamenti tonali fluidi ed imprevedibili (anche se l’eccezione che conferma la regola c’è…. e riesce a dare pure dei notevoli brividi!) che mostrino particolare tecnica, contrariamente allo stile sguaiato di Sussenbeck. E attenzione che questa non è una critica negativa!
Ma ridurre il lavoro di batteria soltanto a dei tempi veloci ciechi mi sembra una battuta di pessimo gusto. A parte che essa riesce a valorizzare il riffing tramite variazioni rapidi e puntuali talvolta anche inaspettate, ma bisogna dire che le virate sui tempi più lenti (compresi dei ritmi dal groove contagioso) non mancano, pur essendo poche. Come non mancano certe finezze che in un gruppo del genere quasi contrastano con l’impatto violento solitamente snocciolato, e da questo punto di vista sono più che valide le danze sui tom – tom di “My Pride” o le simil – marcette (ho scritto “simil”, beninteso) finali di “The Night of the Bastards”.
In generale però, gli Undertakers non sono propriamente dei mostri per quanto riguarda la fantasia, dato che i deja – vù non sono esattamente difficili da beccare, anche se di certo sono lontanissimi dall’essere i cloni in salsa brutalcore dei Black Witchery. E altrettanto certamente non aiuta il fatto che in scaletta ci siano ben 16 tracce, che d’altro canto vengono compensate da una capacità di sintesi che predilige spesso brani in media da 2 minuti e mezzo circa. Inoltre, è veramente un peccato non aver sviluppato certi momenti particolarmente interessanti, come quello citato poco fa di “My Pride”, abbandonato in modo forse un po’ troppo frettoloso.
Infine, bisogna osservare che i nostri, come un migliaio di esponenti del genere, fanno uso, anche se con rigorosa misura, di spezzoni (in inglese) tratti da vari film horror, concedendosi però una trovata esilarante nell’intro, dal titolo illuminante “Screams’ Warriors”. Perché? Perché in essa vi si trovano nient’altro che le urla dei famosi All Blacks. E cazzo se fanno un bell’effetto!
Voto: 75
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Screams’ Warrior (Intro)/ 2 – Night of the Bastards/ 3 – Burnt Alive/ 4 – No Satan No God/ 5 – My Pride/ 6 – I’m the Motherfucker/ 7 – Suffocated/8 - Mass Execution/ 9 – Lessons of Madness/ 10 – Prelude to…/ 11 - ….Chainsaw Massacre/ 12 – B.C.N./ 13 – My Desire? Your Extinction/ 14 – Dead Man Walking/ 15 – Rip Off… Fuck Off/ 16 – That’s All (Outro)
MySpace:
http://www.myspace.com/undertakersband
Friday, September 16, 2011
Spiritual Supremacy - "Mountains of Loneliness" (2010)
Demo autoprodotto (2010)
Formazione (2008): Nacht 696, tutto.
Provenienza: da sapere.
Canzone migliore del disco:
“Catacombs”, e per sapere perché è meglio leggere la rece.
Punto di forza del demo:
l’apparente serenità che permea quasi tutta l’esperienza, e che si esplica attraverso l'utilizzo di una vasta gamma di suoni d’atmosfera.
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Nota:
quella che mi sto apprestando a recensire sarebbe la ristampa, di quest'anno, di "Mountains of Loneliness". Infatti vi si trovano due brani non apparsi nella sua versione originale, ossia "Haunted Caves" e la stessa "Catacombs", originariamente composti per un demo mai completato intitolato "Descending".
Ve l’avevo detto io, che la parentesi del duo dei Bleeding Void of Utter Mysticism non era per niente un caso isolato nella storia di Timpani allo Spiedo. Solo che, se lì si è parlato di un drone senza batteria con urla black metal e parti (contate, a dire il vero) dark ambient, stavolta tocca a una creatura che nulla ha a che spartire con il metal (almeno dal punto di vista strettamente musicale), tranne il fatto di essere nata con un progetto in parte proprio black metal. Ed invece il nostro, in uno di quei famosi bei (e cupi) giorni, decise che Spiritual Supremacy dovesse essere “semplicemente” un “mostro” dark ambient.
Eccovi quindi il trionfo dei sintetizzatori e dei suoni d’atmosfera. Ma eccovi soprattutto un minimalismo minaccioso totalmente senza voce che però, nonostante il genere d’appartenenza, non capita raramente sentirlo crogiolarsi in un qualcosa di avvicinabile ad una serenità ambigua e per questo forse più spaventosa (ascoltatevi certi momenti psichedelici di “Stars”, o quelli, purtroppo un po’ similari anche dal punto di vista melodico, della seguente “Meditation”). Ciò significa che non manca neanche un po’ di sana e implicita blasfemia, quale si può sentire in “Flying Spectres in the Dark”, arricchita lungo la parte centrale da cori gregoriani accompagnati da terremotanti fulmini.
Una caratteristica da apprezzare molto e che in parte compensa l’aura minimalista del progetto è da trovare nei vari suoni che a poco a poco avvolgono l’ascoltatore, a volte anche in maniera inaspettata, così da dare di più delle melodie scarne sparse qui e là e di un’atmosfera generalmente cupa e solo apparentemente statica.
Degni di menzione a tal proposito sono gli inquietanti risucchi di “Haunted Caves”, che tanto mi rimandano a Chtulhu, quel dio inimmaginabile evocato dalla grandiosa mente di Lovecraft. Fra l’altro “Haunted Caves” conta al suo interno pure una sorta di grugniti (fortuna che la voce non c’era!);
- i maledetti suoni acquosi di “Catacombs”, la quale non a caso si avvale di una voce spiritata effettata in modo tale da sembrare quasi proveniente da una grotta;
- i versi di alcuni animali, tutti associabili o ad un immaginario orrorifico e popolare (la civetta di “Meditation”) oppure al tipico immaginario black metal tutto animali solitari e feroci (il falco di “Ancient Horizon” ed il lupo di “Catacombs”). Notare che questi campionamenti si trovano più o meno sempre nei primi 60 – 70 secondi dei pezzi citati;
- la sorprendente parte “acustica” (le virgolette ovviamente sono d’obbligo) come finale di “Stars”, parte che contiene una vera e propria melodia, raffinata e medievaleggiante.
Curioso però constatare che il pezzo più interessante del lotto non appartenga alla versione originale del demo. Infatti, “Catacombs” l’ho trovato come l’episodio più riuscito e per certi versi particolare, se non altro perché si basa su una struttura saltellante, ossia costituita da silenzi e suoni che si danno il posto a vicenda. Si arriva insomma a creare un effetto disorientante, trasmettendo di conseguenza all’ascoltatore un andamento traballante di notevole e suggestiva insicurezza. Considerazioni queste che sono in relazione anche con la durata di “Catacombs”, il quale in sostanza è il pezzo più lungo di tutta la scaletta (quasi 5 minuti), eppure a tal proposito non posso far altro che complimentarmi con il nostro per non aver appesantito ulteriormente i vari episodi con minutaggi esagerati, dei quali non ne mancano addirittura da circa 2 minuti.
“Catacombs” fa impressione anche per un altro dettaglio, forse più pauroso: il finale, dove fanno capolino ad un certo punto una sorta di percussioni, così da concretizzare in maniera più esplicita il male strisciante dei precedenti momenti.
D’altro canto, definire perfetta l’opera di Nacht 696 dovrebbe essere completamente esagerato, visto che il lotto di canzoni non è privo di piccole ma importanti sbavature, come le sono lo sviluppo mancato della melodia già citata di “Haunted Caves”, conclusa forse in maniera affrettata;
e la staticità (forse autogiustificata dal titolo del brano) di “Meditation”, che ad un certo punto e per parecchio tempo non si “schioda” da quei sintetizzatori psichedelici, fin troppo ossessionanti e per giunta non aiutati da qualche altro suono che poteva enfatizzarli meglio.
Quel che è sicuro è che chi non è abituato (come me.... scusate ma per me la sincerità è pressochè fondamentale) ad ascoltare una musica simile dovrà fare qualche sforzo in più per arrivare ad apprezzarla interamente, anche perché, come già scritto, è ben lungi dal “casino” metallaro solitamente qui recensito. Ma per come il demo è venuto fuori e per quanto semplice e relativamente accessibile esso sia, lo consiglio veramente agli appassionati, che sicuramente non tarderanno ad apprezzare il progetto.
Voto:
72
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Dis Manibus/ 2 – Flying Spectres in the Dark/ 3 – Stars/ 4 – Meditation/ 5 – Mountains of Loneliness/ 6 – Ancient Horizon/ 7 – Haunted Caves/ 8 – Catacombs
MySpace:
http://www.myspace.com/spiritualsupremacyss
Formazione (2008): Nacht 696, tutto.
Provenienza: da sapere.
Canzone migliore del disco:
“Catacombs”, e per sapere perché è meglio leggere la rece.
Punto di forza del demo:
l’apparente serenità che permea quasi tutta l’esperienza, e che si esplica attraverso l'utilizzo di una vasta gamma di suoni d’atmosfera.
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Nota:
quella che mi sto apprestando a recensire sarebbe la ristampa, di quest'anno, di "Mountains of Loneliness". Infatti vi si trovano due brani non apparsi nella sua versione originale, ossia "Haunted Caves" e la stessa "Catacombs", originariamente composti per un demo mai completato intitolato "Descending".
Ve l’avevo detto io, che la parentesi del duo dei Bleeding Void of Utter Mysticism non era per niente un caso isolato nella storia di Timpani allo Spiedo. Solo che, se lì si è parlato di un drone senza batteria con urla black metal e parti (contate, a dire il vero) dark ambient, stavolta tocca a una creatura che nulla ha a che spartire con il metal (almeno dal punto di vista strettamente musicale), tranne il fatto di essere nata con un progetto in parte proprio black metal. Ed invece il nostro, in uno di quei famosi bei (e cupi) giorni, decise che Spiritual Supremacy dovesse essere “semplicemente” un “mostro” dark ambient.
Eccovi quindi il trionfo dei sintetizzatori e dei suoni d’atmosfera. Ma eccovi soprattutto un minimalismo minaccioso totalmente senza voce che però, nonostante il genere d’appartenenza, non capita raramente sentirlo crogiolarsi in un qualcosa di avvicinabile ad una serenità ambigua e per questo forse più spaventosa (ascoltatevi certi momenti psichedelici di “Stars”, o quelli, purtroppo un po’ similari anche dal punto di vista melodico, della seguente “Meditation”). Ciò significa che non manca neanche un po’ di sana e implicita blasfemia, quale si può sentire in “Flying Spectres in the Dark”, arricchita lungo la parte centrale da cori gregoriani accompagnati da terremotanti fulmini.
Una caratteristica da apprezzare molto e che in parte compensa l’aura minimalista del progetto è da trovare nei vari suoni che a poco a poco avvolgono l’ascoltatore, a volte anche in maniera inaspettata, così da dare di più delle melodie scarne sparse qui e là e di un’atmosfera generalmente cupa e solo apparentemente statica.
Degni di menzione a tal proposito sono gli inquietanti risucchi di “Haunted Caves”, che tanto mi rimandano a Chtulhu, quel dio inimmaginabile evocato dalla grandiosa mente di Lovecraft. Fra l’altro “Haunted Caves” conta al suo interno pure una sorta di grugniti (fortuna che la voce non c’era!);
- i maledetti suoni acquosi di “Catacombs”, la quale non a caso si avvale di una voce spiritata effettata in modo tale da sembrare quasi proveniente da una grotta;
- i versi di alcuni animali, tutti associabili o ad un immaginario orrorifico e popolare (la civetta di “Meditation”) oppure al tipico immaginario black metal tutto animali solitari e feroci (il falco di “Ancient Horizon” ed il lupo di “Catacombs”). Notare che questi campionamenti si trovano più o meno sempre nei primi 60 – 70 secondi dei pezzi citati;
- la sorprendente parte “acustica” (le virgolette ovviamente sono d’obbligo) come finale di “Stars”, parte che contiene una vera e propria melodia, raffinata e medievaleggiante.
Curioso però constatare che il pezzo più interessante del lotto non appartenga alla versione originale del demo. Infatti, “Catacombs” l’ho trovato come l’episodio più riuscito e per certi versi particolare, se non altro perché si basa su una struttura saltellante, ossia costituita da silenzi e suoni che si danno il posto a vicenda. Si arriva insomma a creare un effetto disorientante, trasmettendo di conseguenza all’ascoltatore un andamento traballante di notevole e suggestiva insicurezza. Considerazioni queste che sono in relazione anche con la durata di “Catacombs”, il quale in sostanza è il pezzo più lungo di tutta la scaletta (quasi 5 minuti), eppure a tal proposito non posso far altro che complimentarmi con il nostro per non aver appesantito ulteriormente i vari episodi con minutaggi esagerati, dei quali non ne mancano addirittura da circa 2 minuti.
“Catacombs” fa impressione anche per un altro dettaglio, forse più pauroso: il finale, dove fanno capolino ad un certo punto una sorta di percussioni, così da concretizzare in maniera più esplicita il male strisciante dei precedenti momenti.
D’altro canto, definire perfetta l’opera di Nacht 696 dovrebbe essere completamente esagerato, visto che il lotto di canzoni non è privo di piccole ma importanti sbavature, come le sono lo sviluppo mancato della melodia già citata di “Haunted Caves”, conclusa forse in maniera affrettata;
e la staticità (forse autogiustificata dal titolo del brano) di “Meditation”, che ad un certo punto e per parecchio tempo non si “schioda” da quei sintetizzatori psichedelici, fin troppo ossessionanti e per giunta non aiutati da qualche altro suono che poteva enfatizzarli meglio.
Quel che è sicuro è che chi non è abituato (come me.... scusate ma per me la sincerità è pressochè fondamentale) ad ascoltare una musica simile dovrà fare qualche sforzo in più per arrivare ad apprezzarla interamente, anche perché, come già scritto, è ben lungi dal “casino” metallaro solitamente qui recensito. Ma per come il demo è venuto fuori e per quanto semplice e relativamente accessibile esso sia, lo consiglio veramente agli appassionati, che sicuramente non tarderanno ad apprezzare il progetto.
Voto:
72
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Dis Manibus/ 2 – Flying Spectres in the Dark/ 3 – Stars/ 4 – Meditation/ 5 – Mountains of Loneliness/ 6 – Ancient Horizon/ 7 – Haunted Caves/ 8 – Catacombs
MySpace:
http://www.myspace.com/spiritualsupremacyss
Sunday, September 11, 2011
Nekroholocaust - "Demo 2011"
Demo (Underground Syndicate, 2011)
Formazione (2004): Jap Decena, voce;
Bertram Vidaja, chitarra;
Francis Albesa, batteria.
Provenienza: Bacolod City, Filippine.
Canzone migliore dell’album:
“Raped Afterbirth”. Leggete tutta la recensione per sapere perché.
Punto di forza dell’album:
i rallentamenti, più che altro per vari “problemi” insiti nel disco che per meriti qualitativi.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Proprio quando credevi di averle sentite tutte, ecco che si presenta ai tuoi ormai super – allenati timpani non solo un gruppo dal nome cazzutissimo ma purtroppo anche un disco dalla produzione mai sentita e che inficia non poco sull’ascolto. E si sa quanto il sottoscritto risulti capace di dare ottimi giudizi su opere sporchissime che quasi nessuno neanche si sognerebbe di ascoltarle, ma purtroppo qui si deve fare un’eccezione. Sì perché la voce si mostra completamente sbilanciata rispetto agli altri strumenti così da affossare spesso e volentieri la chitarra, fondamentale per creare un’atmosfera. E ancora purtroppo bisogna dire che la voce è veramente molto presente nel discorso, nonostante sia non solo un perenne e solitario grugnito maialesco, che date le premesse dopo un po’ risulta fastidioso, ma anche decisamente povero nella costruzione delle metriche, tutte uguali a sé stesse.
Il gruppo infatti denota poca inventiva, e quindi una tendenza a ripetere sempre le stesse cose. Prendiamo la batteria ad esempio: il suo lavoro è eternamente diviso fra blast – beats assatanati e caotici (nel senso che il batterista è sì tentacolare e dinamico ma con poco costrutto) e rallentamenti (i momenti più intelligibili dal punto di vista della produzione) spesso rappresentati da tempi medi comunque alle volte piacevolmente grooveggianti e fra l’altro nemmeno rari e brevi.
Un’altra mancanza, stavolta riguardante più che altro l’insieme invece del singolo, concerne guardacaso i rallentamenti, dei quali la maggiorparte, in maniera un po’ semplicistica, o viene introdotta da una pausa oppure da uno stacco di chitarra, presentando quindi alla lunga un gioco abbastanza monotono e poco fluido.
A rendere più difficile la situazione concorre la durata dei pezzi, che si attestano tutti intorno ai 5 minuti. Aspetto da una parte da apprezzare perché così facendo il gruppo ha voluto testarsi con brani non facili da gestire, ma dall’altra viene il dubbio che sia ancora presto scrivere in modo veramente efficace composizioni simili.
Quel che è sicuro è che qualcosa di buono i Nekroholocaust sono riusciti a farlo, e curiosamente proprio nell’ultimo episodio (“Raped Afterbirth”, brano che insieme ad “Epileptic Manslaughter” si trova nel disco d’esordio datato 2010, ossia lo split “Southeast Asian Beheaders”), il quale non dura soltanto poco più di 6 minuti ma mostra lungo il finale un po’ di melodia che nel brutal più spietato non guasta mai. E soprattutto bisogna menzionare delle interessanti virate verso il thrash metal su tempi medi che a questo punto potrebbero tornare utili per un disco futuro.
Da citare inoltre la simpatica quarantina di secondi che introduce sia il disco che il primo brano, peccato che sia totalmente in madrelingua (o almeno lo suppongo….). Si sente comunque un uomo che ha un bel daffare con un nugolo sostanzioso di cani, i quali a quanto pare non gli obbediscono mai. Alla fine, questi si azzittiscono, in modo da sentire soltanto l’uomo, ormai evidentemente così incazzato da pronunciare il nome di Satana (niente di strano, visto che nelle Filippine il cristianesimo è molto radicato).
Ma nonostante tutto quello che ho avuto modo di scrivere su questo demo, non mi sento di bocciarlo, a parte che in certe caratteristiche esposte che vanno oltre la forma della produzione. Infatti quest’ultima penalizza un po’ troppo tutto l’insieme, ragion per cui sarebbe una buona idea dare al disco il primo senza voto nella storia di Timpani allo Spiedo, altrimenti si rischierebbe, considerata la situazione, di dare un giudizio per niente sicuro e affidabile sull’effettiva qualità compositiva di questi ragazzi. Insomma, alla prossima!
Voto: s.v.
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Beheading the Tyrants/ 2 – Epileptic Manslaughter/ 3 – Raped Afterbirth
MySpace:
http://www.myspace.com/nekro138holocaust
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Nekroholocaust-Philippines/155189027849563
Formazione (2004): Jap Decena, voce;
Bertram Vidaja, chitarra;
Francis Albesa, batteria.
Provenienza: Bacolod City, Filippine.
Canzone migliore dell’album:
“Raped Afterbirth”. Leggete tutta la recensione per sapere perché.
Punto di forza dell’album:
i rallentamenti, più che altro per vari “problemi” insiti nel disco che per meriti qualitativi.
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Proprio quando credevi di averle sentite tutte, ecco che si presenta ai tuoi ormai super – allenati timpani non solo un gruppo dal nome cazzutissimo ma purtroppo anche un disco dalla produzione mai sentita e che inficia non poco sull’ascolto. E si sa quanto il sottoscritto risulti capace di dare ottimi giudizi su opere sporchissime che quasi nessuno neanche si sognerebbe di ascoltarle, ma purtroppo qui si deve fare un’eccezione. Sì perché la voce si mostra completamente sbilanciata rispetto agli altri strumenti così da affossare spesso e volentieri la chitarra, fondamentale per creare un’atmosfera. E ancora purtroppo bisogna dire che la voce è veramente molto presente nel discorso, nonostante sia non solo un perenne e solitario grugnito maialesco, che date le premesse dopo un po’ risulta fastidioso, ma anche decisamente povero nella costruzione delle metriche, tutte uguali a sé stesse.
Il gruppo infatti denota poca inventiva, e quindi una tendenza a ripetere sempre le stesse cose. Prendiamo la batteria ad esempio: il suo lavoro è eternamente diviso fra blast – beats assatanati e caotici (nel senso che il batterista è sì tentacolare e dinamico ma con poco costrutto) e rallentamenti (i momenti più intelligibili dal punto di vista della produzione) spesso rappresentati da tempi medi comunque alle volte piacevolmente grooveggianti e fra l’altro nemmeno rari e brevi.
Un’altra mancanza, stavolta riguardante più che altro l’insieme invece del singolo, concerne guardacaso i rallentamenti, dei quali la maggiorparte, in maniera un po’ semplicistica, o viene introdotta da una pausa oppure da uno stacco di chitarra, presentando quindi alla lunga un gioco abbastanza monotono e poco fluido.
A rendere più difficile la situazione concorre la durata dei pezzi, che si attestano tutti intorno ai 5 minuti. Aspetto da una parte da apprezzare perché così facendo il gruppo ha voluto testarsi con brani non facili da gestire, ma dall’altra viene il dubbio che sia ancora presto scrivere in modo veramente efficace composizioni simili.
Quel che è sicuro è che qualcosa di buono i Nekroholocaust sono riusciti a farlo, e curiosamente proprio nell’ultimo episodio (“Raped Afterbirth”, brano che insieme ad “Epileptic Manslaughter” si trova nel disco d’esordio datato 2010, ossia lo split “Southeast Asian Beheaders”), il quale non dura soltanto poco più di 6 minuti ma mostra lungo il finale un po’ di melodia che nel brutal più spietato non guasta mai. E soprattutto bisogna menzionare delle interessanti virate verso il thrash metal su tempi medi che a questo punto potrebbero tornare utili per un disco futuro.
Da citare inoltre la simpatica quarantina di secondi che introduce sia il disco che il primo brano, peccato che sia totalmente in madrelingua (o almeno lo suppongo….). Si sente comunque un uomo che ha un bel daffare con un nugolo sostanzioso di cani, i quali a quanto pare non gli obbediscono mai. Alla fine, questi si azzittiscono, in modo da sentire soltanto l’uomo, ormai evidentemente così incazzato da pronunciare il nome di Satana (niente di strano, visto che nelle Filippine il cristianesimo è molto radicato).
Ma nonostante tutto quello che ho avuto modo di scrivere su questo demo, non mi sento di bocciarlo, a parte che in certe caratteristiche esposte che vanno oltre la forma della produzione. Infatti quest’ultima penalizza un po’ troppo tutto l’insieme, ragion per cui sarebbe una buona idea dare al disco il primo senza voto nella storia di Timpani allo Spiedo, altrimenti si rischierebbe, considerata la situazione, di dare un giudizio per niente sicuro e affidabile sull’effettiva qualità compositiva di questi ragazzi. Insomma, alla prossima!
Voto: s.v.
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Beheading the Tyrants/ 2 – Epileptic Manslaughter/ 3 – Raped Afterbirth
MySpace:
http://www.myspace.com/nekro138holocaust
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Nekroholocaust-Philippines/155189027849563
Thursday, September 8, 2011
Intervista ai Bahal!
Risponde Lord Bahal, mente e fino a qualche tempo fa unico componente dei Bahal.
La prima cosa che mi viene da chiederti è come mai c'è questa sproporzione fra un riffing in fin dei conti classico se non basilare ed un lavoro di chitarra solista veramente molto tecnico e ben presente?
La domanda è molto interessante. Io sono un appassionato di metal in tutte le sue forme, prevalentemente però ottantiano. Mi è sempre piaciuto un riffing lineare e non troppo cervellotico, facilmente assimilabile e, perchè no, anche "orecchiabile", per quanto possa intendersi questo concetto in un genere tutto sommato abbastanza estremo.
D'altra parte ho sempre amato la chitarra solista, e quindi chitarristi come Yngwie Malmsteen e Jason Becker, e penso anche che il loro stile, classico e spesso molto drammatico, possa caratterizzare maggiormente i miei pezzi anche a livello di atmosfera. Tieni conto che suono la chitarra da diverso tempo, e spesso non mi accorgo neanche di quanta chitarra solista metto in un pezzo, finchè non lo riascolto finito.
In definitiva, secondo me un riffing lineare è più piacevole da ascoltare (alle mie orecchie, almeno), e lo trovo più adatto a quello che voglio trasmettere. D'altro canto, il lavoro di chitarra solista presente e molto tecnico è dovuto al fatto che mi piace molto mischiare quelle sonorità tipicamente da shredder, se vogliamo definirle così, nel metal estremo, perchè secondo me sono mondi solo apparentemente distanti. Pensa ai Necrophagist, o agli Obscura. Ok, loro fanno un genere ben diverso dal mio, ma sempre estremo e piuttosto cupo.
E così la chitarra solista contribuisce a costruire questa atmosfera, pur nei suoi fraseggi molto tecnici e veloci.
Tieni anche conto che forse nella composizione sono figlio del riffing ottantiano, come ti ho detto. Nulla di complicato, magari, ma efficace sì (anche se parlare sempre di anni ottanta in ambito black metal potrebbe far nascere equivoci).
Ultima cosa: molti tra i gruppi black metal che mi ispirano sono gruppi dalle chitarre ritmiche molto semplici e dirette. Forse anche questo può aver contribuito a creare questa sproporzione, visto che, da una parte, mi ispiro a gruppi come Ulver, Dissection, e dall'altra a chitarristi molto più tecnici per quanto riguarda la chitarra solista.
Però c'è un'altra caratteristica che rende più epica l'atmosfera e quindi più difficile l'ascolto, ossia la tendenza a sviluppare composizioni lunghissime. Immagino quindi che il lavoro dietro a tutto ciò sia veramente ma piacevolmente "frustrante", no?
Hehe!
Dunque, il fatto che i brani spesso siano lunghi è dovuto al fatto che spesso ho troppe idee che mi passano per la testa per avere un brano corto. Tieni presente che, talvolta, mi metto a pensare prima all'architettura della musica, alla sua struttura, e solo dopo alla musica stessa.
Effettivamente a volte è difficile capire come chiudere al meglio un brano, non so se mi spiego.
Avoja, anch'io mi diletto con 'ste cose!
Ne "Il Labirinto", per esempio, sapevo che avrebbe dovuto esserci una parte molto diretta (strofa-ritornello-strofa-ritornello), ma poi mi sono accorto che volevo anche una parte acustica, per creare una sospensione tra la prima parte della canzone e la seconda, la quale doveva una lunga parte strumentale chitarristica che accompagnasse l'ascoltatore fino alla fine della canzone.
Il fatto è che a me piacciono molto le parti strumentali, e considero la voce in un modo forse diverso dalla norma.
Molti considerano la voce uno strumento solista, ed in un certo senso lo è (anche se altri, come Demetrio Stratos [favoloso ed eccentrico cantante greco scomparso prematuramente nel 1979, e famoso per le sue ricercatezze vocali. Suonò in particolare nel gruppo di rock progressivo italiano Area. Nd Claustrofobia], rifiutavano questa concezione, perchè la voce era molto più particolare rispetto a un qualsivoglia strumento). Io la considero come un mezzo per arricchire la canzone, ma che non deve essere necessariamente sempre presente. Uno strumento sì, ma non necessariamente solista.
Per questo, a volte, penso che potrei rendere meglio un certo tipo di atmosfera lasciando spazio alla chitarra solista, come ti spiegavo prima il mio vero strumento e, invece, solo quando serve, fare intervenire la voce (con ovviamente i testi, che non sono certo secondari).
Prova a pensare anche alle colonne sonore: per creare atmosfera, spesso si creano composizioni strumentali, sacrificando così la voce. Altre volte la voce è un puro strumento.
Con questo non voglio certo dire che la mia musica sia assimilabile alle colonne sonore ma comunque nei miei pezzi l'atmosfera è essenziale, è quello che voglio comunicare in primis.
Da ciò nasce quindi il tuo stile monolitico e direi anche quantitativamente limitato di interpretare la voce, che rispetto all'intera musica in sè stessa rappresenta un elemento quasi anomalo, dal sapore death metal. Nonostante ciò, la riesci a collegare con l'epicismo di tutto l'insieme attraverso una cadenza ritmica ben precisa pur non essendo sfruttata perfettamente. Da dove viene però l'estrema cavernosità dei grugniti, veramente così poco elegante?
Ahahahaha!
Viene dal fatto che non so cantare in growl o scream decentemente!
A parte gli scherzi (che poi scherzi non sono, a dir la verità), io penso che in un tipo di musica estremo, e fatto anche di atmosfere e sensazioni estreme, una voce del genere sia d'obbligo. Poi è chiaro che, essendo stata fino all'anno scorso praticamente una one-man band, in Bahal ho dovuto sempre arrangiarmi a curare anche gli aspetti vocali.
Da una parte tale situazione è stato molto vantaggiosa perchè mi permetteva di non perdere tempo a cercare di spiegare ad un altro individuo come volessi che rendesse un brano: cerco di scandire sempre le parole e dare un ritmo quasi marziale e cadenzato ai testi e non tutti interpretano le linee vocali in questo modo;
dall'altra, ovviamente, mi sono scontrato con il problema principale di me alla voce, ovvero del fatto che non ho tecnica ma tutto sommato sono soddisfatto del risultato finale. I grugniti così cavernosi magari possono essere certamente poco eleganti, se paragonati al resto, ma a mio modo di vedere sono adatti, sicuramente più consoni rispetto agli scream di Dani Filth XD o a un certo tipo di voci in pulito (per carità, Dani Filth nei Cradle fa un egregio lavoro, ma nei miei Bahal preferisco voci più cavernose e chiuse, rispetto alla sua, più acuta, non so se mi spiego), ecc…
In futuro allora sentiremo ancora te alla voce o il nuovo entrato Tafe avrà voce in capitolo?
In futuro molto probabilmente sentirete il nuovo entrato. Alcuni mi hanno espressamente chiesto di continuare a cantare, almeno su disco (dal vivo non riesco a cantare e suonare contemporaneamente ahaha!!) ma dubito che continuerò a farlo, anche perchè sento che ciò che faccio è forzato e controproducente anche per la mia salute.
Alla voce ci sarà quindi quasi sicuramente Dario, il cantante che si occupa già delle voci durante i concerti e Tafe, il batterista, è pienamente d'accordo con la mia linea di pensiero. Quindi penso non ci saranno problemi di sorta.
Oltre tutto, Dario riesce ad interpretare al meglio i brani precedentemente registrati da me. Ha una preparazione tecnica magari non perfetta, ma sicuramente migliore della mia, ha una voce potente ed anche sul piano delle voci in pulito (non è escluso che in futuro facciano qualche sporadica apparizione, se ci stanno bene e per sottolineare certi momenti particolari all'interno dei brani) se la cava bene
Dario che tipo di voce generalmente utilizza e cosa aggiunge all'atmosfera dei Bahal?
Beh, Dario ha un modo di cantare tutto sommato simile al mio, se vogliamo in più è in un certo senso accostabile a certi Spite Extreme Wing (li ho citati PERCHè SONO un gruppo che mi ispira molto dal punto di vista delle linee vocali), ma ha una voce molto, molto più potente della mia. Diciamo che, se con la mia voce potevo rendere 10 nei Bahal, lui rende sicuramente 20, o 30. L'atmosfera generale non cambia, ma si sente che il tutto, per quanto riguarda la voce, è meno forzato e più forte.
Ma per quanto riguarda il basso invece? Ancora non hai reclutato nessuno per questo strumento?
Eheh, dal vivo fino ad ora abbiamo avuto tre bassisti differenti. Ora, bassista stabile per quanto riguarda i concerti, è Giulia, ex - componente degli Alator, gruppo folk metal dove suono la chitarra solista.
Molto probabilmente però in studio mi occuperò ancora io del basso, e magari cercherò di farlo sentire di più in fase di mixaggio ahaha!!
In effetti...
Posso però anticiparti che Giulia sarà ospite nel prossimo disco dei Bahal (al quale stiamo lavorando), ma come arpista.
Eheheh, lo so, me l'hanno fatto notare in tanti. Diciamo che a volte [il basso] si sente piuttosto poco, in futuro rimedierò.
Diciamo che, avendolo mixato io, che devo ancora imparare molte cose in questo campo, è inevitabile che qualcosa da sistemare ci sia. E il basso sarà una delle cose da sistemare nel prossimo lavoro.
Però è anche vero che non ha nessun ruolo melodico eppure il suo suono fa sempre un bell'effetto.
Diciamo che rende il tutto più profondo, e potrebbe giovare alla produzione.
Ho provato in questi giorni a re-mixare alcune canzoni di “Ikelos” con un suono di basso più alto e devo dire che effettivamente si nota la differenza.
In fin dei conti la sezione ritmica di "Ikelos" è quella che ha patito più sofferenze, ma è incredibile il fatto come la batteria in alcune occasioni risulti poco incline ad "aiutare" gli altri strumenti, anche perchè in certe canzoni ha un suono abbastanza debole, però nonostante ciò non scalfisce poi così tanto il tutto. E questo è merito soprattutto della chitarra solista. Ora che c'è Tafe cosa dobbiamo aspettarci?
Hai fatto centro. Il punto debole di “Ikelos” è sicuramente la batteria. Devi sapere che all'epoca Tafe era già in formazione, infatti ha registrato la batteria de "Il Sentiero" per lo split con Hieros Gamos e Cenere (due gruppi che colgo l'occasione per salutare). Il problema è che nei mesi in cui dovevamo registrare, ha avuto problemi fisici che hanno reso impossibile la registrazione della batteria nell’album, di conseguenza hanno richiesto l'ausilio di una drum machine con tutti i problemi che comporta.
Ci siamo trovati con tutte le tracce a metronomo, senza le parti di batteria, e ho cercato di risolvere il problema, ma chiaramente non ho potuto risolvere ogni tipo di problema, anche perchè non sono per mia sfortuna un mago della drum machine XD.
Ora che Tafe è stabilmente in formazione, e si è ripreso, abbiamo intenzione di registrare ovviamente con una batteria vera e questo gioverà non solo dal punto di vista della produzione (a livello, quindi, di volumi, eccetera) ma renderà anche più dinamici i brani.
Del resto lui è un batterista vero, sa come far suonare un pezzo, a differenza mia hahaha!
Un'altra differenza che dovrete aspettarvi rispetto al passato sarà un modo di suonare la batteria più "live". Nel senso che ci saranno meno blastbeats. I brani pieni di blastbeat infatti spesso rendono meno dal vivo, soprattutto se pensi che, nel 90% dei casi, suonare nei locali significa avere un'acustica pessima (e la presenza massiccia di blastbeat non aiuta, non so se rendo l'idea).
Insomma, si sarà meno "caciaroni" e più "poetici"?
Uhm, oddio, questo non te lo so dire.
I nuovi brani, per quello che sta venendo fuori, sono comunque molto veloci ma semplicemente più adatti a situazioni live, ecco.
Sì, direi che questa è la differenza cruciale
Però se si vuol parlare di poesia di certo i testi fanno un bel figurone!
Grazie!
Ecco, ti dirò: a me piace molto scrivere testi in questo modo, e questa scelta è correlata alla decisione di cantare in lingua madre. A me piacciono dei testi che diano visioni, che siano evocativi, e che cerchino di essere il meno banali possibili, eche siano anche musicali, perchè no, anche perchè non sarei in grado di scrivere testi in italiano diversamente.
Noi siamo fortunati, abbiamo una lingua ricca, antica, per certi versi anche aulica, direi anche nobile
Quest'eleganza di cui parli fra l'altro si riflette non solo nelle immagini che trasmettono i testi ma anche nelle tematiche, che a quanto ho capito cercano di dare un senso più razionale alla misantropia tipica del black metal. Giusto?
Sì, diciamo che non mi piace molto trattare delle solite tematiche prettamente black metal quali inneggiamenti puerili a Satana, l'odio ingiustificato e fine a se stesso verso il genere umano e cose analoghe.
Quanto alle tematiche, “Ikelos” è un concept album che può essere letto con due chiavi di lettura, una per così dire superficiale e una più profonda.
La lettura superficiale che può emergere dai testi è che un viandante, simbolo dell'umanità in generale, si imbatte in una bufera di neve (“La Tormenta”), perde la via che stava percorrendo (“Il Sentiero”) e, alla fine, cade addormentato (“Erebo”). Durante il sonno, da cui il nome del disco “Ikelos”, che è il dio greco, figlio di Hypnos, portatore di incubi, il viandante intraprende una sorta di percorso che lo porterà a rivalutare molti aspetti della sua vita precedente. “Il Bardo” è il sinonimo della creatività umana, dell'estro; “Il Labirinto” è la razionalità umana (appunto, contorta); La Rosa è la vanità, i piaceri, i vizi; ed infine, quando nel suo viaggio onirico il viandante giunge alla sera, al crepuscolo (da cui il titolo della penultima canzone) l'uomo comprende, per così dire, che prima ha dato importanza a cose in realtà effimere e che non gli avrebbero garantito felicità ma solo rovina.
In pratica è come se avesse intrapreso un percorso di formazione e, se nel sogno cala la notte (e il viandante si assopisce, nel sogno), nella realtà si risveglia “Tra le Braccia di Morfeo” ovvero sì cosciente del viaggio intrapreso ma svegliato in un universo addormentato perchè gli altri suoi simili non hanno percorso lo stesso sentiero suo rimanendo quindi dormienti;
la lettura più profonda vuole che l'uomo appunto sia il simbolo dell'umanità intera, e quindi il suo percorso è quello di tutti noi.
Così si spiega anche il contrasto fra la delicatezza dell'arpa celtica e la sporcizia della produzione di "Tra le Braccia di Morfeo"?
Esattamente.
Volevo un finale per così dire cullante ma allo stesso tempo sporco e disturbante...
..e devo dire che ci sei riuscito in pieno!
grazie!
…perchè forse, come ai nostri giorni, l'uomo si sta accorgendo che qualcosa è andato storto nella nostra evoluzione, e che dovrebbe quindi rivedere alcune certezze, alcune priorità, ma forse è troppo tardi.
Per tornare al discorso delle tematiche molti recensori e molti siti internet parlando dei Bahal etichettano il contenuto dei testi con la semplice e facile catalogazione della mitologia greca
In realtà, i riferimenti alla mitologia greca sono solo metafore, allusioni. Avrei potuto usare altri simboli, ma trovo la mitologia greco-latina più adatta al caso perché (e mi ricollego a cosa dicevo a proposito della lingua italiana) la trovo una mitologia elegante, ricercata, nobile ma allo stesso tempo tragica, e se hai mai fatto caso ai miti greci troverai che sono proprio così.
Questa mitologia fra l’altro è più vicina alla nostra cultura rispetto a vari Odino e Thor, che tanto vanno di moda oggi.
E’ anche vero che ogni cultura ha i suoi miti, quindi è ovvio che in Scandinavia prendano ad esempio quelli che hai citato appena te adesso.
Infatti apprezzo chiunque voglia parlare della propria cultura e, infine, apprezzo anche chi parla di altre culture che non gli appartengono in senso stretto. Ma la mia impressione è che la cultura nordica sia un po' abusata ultimamente (“beh, anche i Virgin Steele parlano di Zeus”, dirai tu ahahah) (e, cazzo, hai ragione!)
Ma questo tuo interesse verso la cultura greco - latina è semplicemente una passione oppure oggetto di studi più specifici?
In realtà la passione mi è venuta scrivendo i testi per "Ikelos" eheh.
Il cd autoprodotto prima di “Ikelos”, infatti (“Striges”) trattava di vari episodi di "stregheria" successi in Italia nel medioevo e in età moderna, quindi aveva un carattere decisamente più storico.
Per “Ikelos” volevo cambiare.
Quindi la nota a corredo della rece non è proprio corretta…
Perché?
Ho scritto infatti che nei Bahal c'è sempre stato quest'interesse verso la mitologia…
Beh, il nome comunque richiama la mitologia fenicia (infatti, è il nome latinizzato di Baal, il dio della pioggia nella suddetta mitologia. Nd Claustrofobia).
Il cd precedente di mitologia non ne aveva ma “Ikelos” ne è zeppa, anche se stiamo parlando di riferimenti non fini a se stessi. Cioè, non parlo di Thor per parlare di Thor, metti, ma per parlare di altro, un po' come quei riferimenti mitologici di cui è piena la poesia italiana, per esempio d'Annunzio.
Sì, ne parli attraverso delle metafore, come hai già affermato poco fa.
Esatto.
Nel prossimo disco che cosa ci dobbiamo aspettare dal punto di vista delle tematiche?
Non sarà un concept album nel vero senso della parola, anche se tutte le tematiche avranno a che fare col tema dei ricordi, del dolore, della malinconia e dell'abbandono, in senso lato. Saranno per lo più episodi slegati l'uno dall'altro ma tutti pregni dello stesso umore piuttosto cupo di fondo e i riferimenti alla mitologia saranno comunque presenti, anche se forse in minor numero.
Posso anche dirti che in alcuni testi, attraverso metafore, si toccheranno pure episodi realmente accaduti nella vita dei componenti dei Bahal, episodi in un certo senso da esorcizzare.
Interessante. Stilisticamente ci saranno dei cambiamenti?
Stilisticamente i testi saranno abbastanza simili all'impostazione di "Ikelos", anche se forse, per certi aspetti, più introversi ed "intimisti". Alcuni testi poi sono stati scritti da Breva (secondo chitarrista), che ha un modo di scrivere diverso dal mio.
Le differenze in tal senso quindi ci saranno.
Dal punto di vista prettamente musicale invece?
Anche se non so ancora come suonerà il disco finito, la componente "progressive", poco presente in “Ikelos” ma che molti hanno ingigantito in quell'occasione, sarà più presente.
Riassumendo, le parti acustiche avranno una rilevanza maggiore, ci saranno come già detto meno blast beat e in generale il disco dovrebbe essere riproducibile meglio di “Ikelos” in sede live; infine, ci saranno molte parti atmosferiche e non escludo ci possano essere alcune parti cantate in pulito.
Suonerà comunque come un disco dei Bahal, o almeno a me sembra così dalle bozze che stiamo creando!
Per finire, povera Giulia! Mi chiedo perchè non si sia firmata, nonostante la perfetta utilità informativa del suo commento...
Hehe, credo non si sia firmata per timidezza, e per non fare la figura della musicista vanitosa e altezzosa, tutto qui! E’ una musicista molto coinvolta nel progetto, oltre che, ovviamente un'ottima amica. Le farà sicuramente piacere che ti sei accorto della svista!
Per forza di cose. Perchè nell'outro mi è sembrato per davvero che si stesse suonando una chitarra acustica. Diciamo che mi sono lasciato "fregare" dalla mega - sporcizia de "Tra le
Braccia di Morfeo".
Guarda, non c'è nessun problema! La registrazione certo non aiuta!
E poi è sempre brutto non citare nei crediti un musicista che ha collaborato in un progetto.
Effettivamente io non ti ho aiutato, dimenticandomi di inviarti una scheda dettagliata riguardo ai partecipanti al disco...chiedo venia!
La prima cosa che mi viene da chiederti è come mai c'è questa sproporzione fra un riffing in fin dei conti classico se non basilare ed un lavoro di chitarra solista veramente molto tecnico e ben presente?
La domanda è molto interessante. Io sono un appassionato di metal in tutte le sue forme, prevalentemente però ottantiano. Mi è sempre piaciuto un riffing lineare e non troppo cervellotico, facilmente assimilabile e, perchè no, anche "orecchiabile", per quanto possa intendersi questo concetto in un genere tutto sommato abbastanza estremo.
D'altra parte ho sempre amato la chitarra solista, e quindi chitarristi come Yngwie Malmsteen e Jason Becker, e penso anche che il loro stile, classico e spesso molto drammatico, possa caratterizzare maggiormente i miei pezzi anche a livello di atmosfera. Tieni conto che suono la chitarra da diverso tempo, e spesso non mi accorgo neanche di quanta chitarra solista metto in un pezzo, finchè non lo riascolto finito.
In definitiva, secondo me un riffing lineare è più piacevole da ascoltare (alle mie orecchie, almeno), e lo trovo più adatto a quello che voglio trasmettere. D'altro canto, il lavoro di chitarra solista presente e molto tecnico è dovuto al fatto che mi piace molto mischiare quelle sonorità tipicamente da shredder, se vogliamo definirle così, nel metal estremo, perchè secondo me sono mondi solo apparentemente distanti. Pensa ai Necrophagist, o agli Obscura. Ok, loro fanno un genere ben diverso dal mio, ma sempre estremo e piuttosto cupo.
E così la chitarra solista contribuisce a costruire questa atmosfera, pur nei suoi fraseggi molto tecnici e veloci.
Tieni anche conto che forse nella composizione sono figlio del riffing ottantiano, come ti ho detto. Nulla di complicato, magari, ma efficace sì (anche se parlare sempre di anni ottanta in ambito black metal potrebbe far nascere equivoci).
Ultima cosa: molti tra i gruppi black metal che mi ispirano sono gruppi dalle chitarre ritmiche molto semplici e dirette. Forse anche questo può aver contribuito a creare questa sproporzione, visto che, da una parte, mi ispiro a gruppi come Ulver, Dissection, e dall'altra a chitarristi molto più tecnici per quanto riguarda la chitarra solista.
Però c'è un'altra caratteristica che rende più epica l'atmosfera e quindi più difficile l'ascolto, ossia la tendenza a sviluppare composizioni lunghissime. Immagino quindi che il lavoro dietro a tutto ciò sia veramente ma piacevolmente "frustrante", no?
Hehe!
Dunque, il fatto che i brani spesso siano lunghi è dovuto al fatto che spesso ho troppe idee che mi passano per la testa per avere un brano corto. Tieni presente che, talvolta, mi metto a pensare prima all'architettura della musica, alla sua struttura, e solo dopo alla musica stessa.
Effettivamente a volte è difficile capire come chiudere al meglio un brano, non so se mi spiego.
Avoja, anch'io mi diletto con 'ste cose!
Ne "Il Labirinto", per esempio, sapevo che avrebbe dovuto esserci una parte molto diretta (strofa-ritornello-strofa-ritornello), ma poi mi sono accorto che volevo anche una parte acustica, per creare una sospensione tra la prima parte della canzone e la seconda, la quale doveva una lunga parte strumentale chitarristica che accompagnasse l'ascoltatore fino alla fine della canzone.
Il fatto è che a me piacciono molto le parti strumentali, e considero la voce in un modo forse diverso dalla norma.
Molti considerano la voce uno strumento solista, ed in un certo senso lo è (anche se altri, come Demetrio Stratos [favoloso ed eccentrico cantante greco scomparso prematuramente nel 1979, e famoso per le sue ricercatezze vocali. Suonò in particolare nel gruppo di rock progressivo italiano Area. Nd Claustrofobia], rifiutavano questa concezione, perchè la voce era molto più particolare rispetto a un qualsivoglia strumento). Io la considero come un mezzo per arricchire la canzone, ma che non deve essere necessariamente sempre presente. Uno strumento sì, ma non necessariamente solista.
Per questo, a volte, penso che potrei rendere meglio un certo tipo di atmosfera lasciando spazio alla chitarra solista, come ti spiegavo prima il mio vero strumento e, invece, solo quando serve, fare intervenire la voce (con ovviamente i testi, che non sono certo secondari).
Prova a pensare anche alle colonne sonore: per creare atmosfera, spesso si creano composizioni strumentali, sacrificando così la voce. Altre volte la voce è un puro strumento.
Con questo non voglio certo dire che la mia musica sia assimilabile alle colonne sonore ma comunque nei miei pezzi l'atmosfera è essenziale, è quello che voglio comunicare in primis.
Da ciò nasce quindi il tuo stile monolitico e direi anche quantitativamente limitato di interpretare la voce, che rispetto all'intera musica in sè stessa rappresenta un elemento quasi anomalo, dal sapore death metal. Nonostante ciò, la riesci a collegare con l'epicismo di tutto l'insieme attraverso una cadenza ritmica ben precisa pur non essendo sfruttata perfettamente. Da dove viene però l'estrema cavernosità dei grugniti, veramente così poco elegante?
Ahahahaha!
Viene dal fatto che non so cantare in growl o scream decentemente!
A parte gli scherzi (che poi scherzi non sono, a dir la verità), io penso che in un tipo di musica estremo, e fatto anche di atmosfere e sensazioni estreme, una voce del genere sia d'obbligo. Poi è chiaro che, essendo stata fino all'anno scorso praticamente una one-man band, in Bahal ho dovuto sempre arrangiarmi a curare anche gli aspetti vocali.
Da una parte tale situazione è stato molto vantaggiosa perchè mi permetteva di non perdere tempo a cercare di spiegare ad un altro individuo come volessi che rendesse un brano: cerco di scandire sempre le parole e dare un ritmo quasi marziale e cadenzato ai testi e non tutti interpretano le linee vocali in questo modo;
dall'altra, ovviamente, mi sono scontrato con il problema principale di me alla voce, ovvero del fatto che non ho tecnica ma tutto sommato sono soddisfatto del risultato finale. I grugniti così cavernosi magari possono essere certamente poco eleganti, se paragonati al resto, ma a mio modo di vedere sono adatti, sicuramente più consoni rispetto agli scream di Dani Filth XD o a un certo tipo di voci in pulito (per carità, Dani Filth nei Cradle fa un egregio lavoro, ma nei miei Bahal preferisco voci più cavernose e chiuse, rispetto alla sua, più acuta, non so se mi spiego), ecc…
In futuro allora sentiremo ancora te alla voce o il nuovo entrato Tafe avrà voce in capitolo?
In futuro molto probabilmente sentirete il nuovo entrato. Alcuni mi hanno espressamente chiesto di continuare a cantare, almeno su disco (dal vivo non riesco a cantare e suonare contemporaneamente ahaha!!) ma dubito che continuerò a farlo, anche perchè sento che ciò che faccio è forzato e controproducente anche per la mia salute.
Alla voce ci sarà quindi quasi sicuramente Dario, il cantante che si occupa già delle voci durante i concerti e Tafe, il batterista, è pienamente d'accordo con la mia linea di pensiero. Quindi penso non ci saranno problemi di sorta.
Oltre tutto, Dario riesce ad interpretare al meglio i brani precedentemente registrati da me. Ha una preparazione tecnica magari non perfetta, ma sicuramente migliore della mia, ha una voce potente ed anche sul piano delle voci in pulito (non è escluso che in futuro facciano qualche sporadica apparizione, se ci stanno bene e per sottolineare certi momenti particolari all'interno dei brani) se la cava bene
Dario che tipo di voce generalmente utilizza e cosa aggiunge all'atmosfera dei Bahal?
Beh, Dario ha un modo di cantare tutto sommato simile al mio, se vogliamo in più è in un certo senso accostabile a certi Spite Extreme Wing (li ho citati PERCHè SONO un gruppo che mi ispira molto dal punto di vista delle linee vocali), ma ha una voce molto, molto più potente della mia. Diciamo che, se con la mia voce potevo rendere 10 nei Bahal, lui rende sicuramente 20, o 30. L'atmosfera generale non cambia, ma si sente che il tutto, per quanto riguarda la voce, è meno forzato e più forte.
Ma per quanto riguarda il basso invece? Ancora non hai reclutato nessuno per questo strumento?
Eheh, dal vivo fino ad ora abbiamo avuto tre bassisti differenti. Ora, bassista stabile per quanto riguarda i concerti, è Giulia, ex - componente degli Alator, gruppo folk metal dove suono la chitarra solista.
Molto probabilmente però in studio mi occuperò ancora io del basso, e magari cercherò di farlo sentire di più in fase di mixaggio ahaha!!
In effetti...
Posso però anticiparti che Giulia sarà ospite nel prossimo disco dei Bahal (al quale stiamo lavorando), ma come arpista.
Eheheh, lo so, me l'hanno fatto notare in tanti. Diciamo che a volte [il basso] si sente piuttosto poco, in futuro rimedierò.
Diciamo che, avendolo mixato io, che devo ancora imparare molte cose in questo campo, è inevitabile che qualcosa da sistemare ci sia. E il basso sarà una delle cose da sistemare nel prossimo lavoro.
Però è anche vero che non ha nessun ruolo melodico eppure il suo suono fa sempre un bell'effetto.
Diciamo che rende il tutto più profondo, e potrebbe giovare alla produzione.
Ho provato in questi giorni a re-mixare alcune canzoni di “Ikelos” con un suono di basso più alto e devo dire che effettivamente si nota la differenza.
In fin dei conti la sezione ritmica di "Ikelos" è quella che ha patito più sofferenze, ma è incredibile il fatto come la batteria in alcune occasioni risulti poco incline ad "aiutare" gli altri strumenti, anche perchè in certe canzoni ha un suono abbastanza debole, però nonostante ciò non scalfisce poi così tanto il tutto. E questo è merito soprattutto della chitarra solista. Ora che c'è Tafe cosa dobbiamo aspettarci?
Hai fatto centro. Il punto debole di “Ikelos” è sicuramente la batteria. Devi sapere che all'epoca Tafe era già in formazione, infatti ha registrato la batteria de "Il Sentiero" per lo split con Hieros Gamos e Cenere (due gruppi che colgo l'occasione per salutare). Il problema è che nei mesi in cui dovevamo registrare, ha avuto problemi fisici che hanno reso impossibile la registrazione della batteria nell’album, di conseguenza hanno richiesto l'ausilio di una drum machine con tutti i problemi che comporta.
Ci siamo trovati con tutte le tracce a metronomo, senza le parti di batteria, e ho cercato di risolvere il problema, ma chiaramente non ho potuto risolvere ogni tipo di problema, anche perchè non sono per mia sfortuna un mago della drum machine XD.
Ora che Tafe è stabilmente in formazione, e si è ripreso, abbiamo intenzione di registrare ovviamente con una batteria vera e questo gioverà non solo dal punto di vista della produzione (a livello, quindi, di volumi, eccetera) ma renderà anche più dinamici i brani.
Del resto lui è un batterista vero, sa come far suonare un pezzo, a differenza mia hahaha!
Un'altra differenza che dovrete aspettarvi rispetto al passato sarà un modo di suonare la batteria più "live". Nel senso che ci saranno meno blastbeats. I brani pieni di blastbeat infatti spesso rendono meno dal vivo, soprattutto se pensi che, nel 90% dei casi, suonare nei locali significa avere un'acustica pessima (e la presenza massiccia di blastbeat non aiuta, non so se rendo l'idea).
Insomma, si sarà meno "caciaroni" e più "poetici"?
Uhm, oddio, questo non te lo so dire.
I nuovi brani, per quello che sta venendo fuori, sono comunque molto veloci ma semplicemente più adatti a situazioni live, ecco.
Sì, direi che questa è la differenza cruciale
Però se si vuol parlare di poesia di certo i testi fanno un bel figurone!
Grazie!
Ecco, ti dirò: a me piace molto scrivere testi in questo modo, e questa scelta è correlata alla decisione di cantare in lingua madre. A me piacciono dei testi che diano visioni, che siano evocativi, e che cerchino di essere il meno banali possibili, eche siano anche musicali, perchè no, anche perchè non sarei in grado di scrivere testi in italiano diversamente.
Noi siamo fortunati, abbiamo una lingua ricca, antica, per certi versi anche aulica, direi anche nobile
Quest'eleganza di cui parli fra l'altro si riflette non solo nelle immagini che trasmettono i testi ma anche nelle tematiche, che a quanto ho capito cercano di dare un senso più razionale alla misantropia tipica del black metal. Giusto?
Sì, diciamo che non mi piace molto trattare delle solite tematiche prettamente black metal quali inneggiamenti puerili a Satana, l'odio ingiustificato e fine a se stesso verso il genere umano e cose analoghe.
Quanto alle tematiche, “Ikelos” è un concept album che può essere letto con due chiavi di lettura, una per così dire superficiale e una più profonda.
La lettura superficiale che può emergere dai testi è che un viandante, simbolo dell'umanità in generale, si imbatte in una bufera di neve (“La Tormenta”), perde la via che stava percorrendo (“Il Sentiero”) e, alla fine, cade addormentato (“Erebo”). Durante il sonno, da cui il nome del disco “Ikelos”, che è il dio greco, figlio di Hypnos, portatore di incubi, il viandante intraprende una sorta di percorso che lo porterà a rivalutare molti aspetti della sua vita precedente. “Il Bardo” è il sinonimo della creatività umana, dell'estro; “Il Labirinto” è la razionalità umana (appunto, contorta); La Rosa è la vanità, i piaceri, i vizi; ed infine, quando nel suo viaggio onirico il viandante giunge alla sera, al crepuscolo (da cui il titolo della penultima canzone) l'uomo comprende, per così dire, che prima ha dato importanza a cose in realtà effimere e che non gli avrebbero garantito felicità ma solo rovina.
In pratica è come se avesse intrapreso un percorso di formazione e, se nel sogno cala la notte (e il viandante si assopisce, nel sogno), nella realtà si risveglia “Tra le Braccia di Morfeo” ovvero sì cosciente del viaggio intrapreso ma svegliato in un universo addormentato perchè gli altri suoi simili non hanno percorso lo stesso sentiero suo rimanendo quindi dormienti;
la lettura più profonda vuole che l'uomo appunto sia il simbolo dell'umanità intera, e quindi il suo percorso è quello di tutti noi.
Così si spiega anche il contrasto fra la delicatezza dell'arpa celtica e la sporcizia della produzione di "Tra le Braccia di Morfeo"?
Esattamente.
Volevo un finale per così dire cullante ma allo stesso tempo sporco e disturbante...
..e devo dire che ci sei riuscito in pieno!
grazie!
…perchè forse, come ai nostri giorni, l'uomo si sta accorgendo che qualcosa è andato storto nella nostra evoluzione, e che dovrebbe quindi rivedere alcune certezze, alcune priorità, ma forse è troppo tardi.
Per tornare al discorso delle tematiche molti recensori e molti siti internet parlando dei Bahal etichettano il contenuto dei testi con la semplice e facile catalogazione della mitologia greca
In realtà, i riferimenti alla mitologia greca sono solo metafore, allusioni. Avrei potuto usare altri simboli, ma trovo la mitologia greco-latina più adatta al caso perché (e mi ricollego a cosa dicevo a proposito della lingua italiana) la trovo una mitologia elegante, ricercata, nobile ma allo stesso tempo tragica, e se hai mai fatto caso ai miti greci troverai che sono proprio così.
Questa mitologia fra l’altro è più vicina alla nostra cultura rispetto a vari Odino e Thor, che tanto vanno di moda oggi.
E’ anche vero che ogni cultura ha i suoi miti, quindi è ovvio che in Scandinavia prendano ad esempio quelli che hai citato appena te adesso.
Infatti apprezzo chiunque voglia parlare della propria cultura e, infine, apprezzo anche chi parla di altre culture che non gli appartengono in senso stretto. Ma la mia impressione è che la cultura nordica sia un po' abusata ultimamente (“beh, anche i Virgin Steele parlano di Zeus”, dirai tu ahahah) (e, cazzo, hai ragione!)
Ma questo tuo interesse verso la cultura greco - latina è semplicemente una passione oppure oggetto di studi più specifici?
In realtà la passione mi è venuta scrivendo i testi per "Ikelos" eheh.
Il cd autoprodotto prima di “Ikelos”, infatti (“Striges”) trattava di vari episodi di "stregheria" successi in Italia nel medioevo e in età moderna, quindi aveva un carattere decisamente più storico.
Per “Ikelos” volevo cambiare.
Quindi la nota a corredo della rece non è proprio corretta…
Perché?
Ho scritto infatti che nei Bahal c'è sempre stato quest'interesse verso la mitologia…
Beh, il nome comunque richiama la mitologia fenicia (infatti, è il nome latinizzato di Baal, il dio della pioggia nella suddetta mitologia. Nd Claustrofobia).
Il cd precedente di mitologia non ne aveva ma “Ikelos” ne è zeppa, anche se stiamo parlando di riferimenti non fini a se stessi. Cioè, non parlo di Thor per parlare di Thor, metti, ma per parlare di altro, un po' come quei riferimenti mitologici di cui è piena la poesia italiana, per esempio d'Annunzio.
Sì, ne parli attraverso delle metafore, come hai già affermato poco fa.
Esatto.
Nel prossimo disco che cosa ci dobbiamo aspettare dal punto di vista delle tematiche?
Non sarà un concept album nel vero senso della parola, anche se tutte le tematiche avranno a che fare col tema dei ricordi, del dolore, della malinconia e dell'abbandono, in senso lato. Saranno per lo più episodi slegati l'uno dall'altro ma tutti pregni dello stesso umore piuttosto cupo di fondo e i riferimenti alla mitologia saranno comunque presenti, anche se forse in minor numero.
Posso anche dirti che in alcuni testi, attraverso metafore, si toccheranno pure episodi realmente accaduti nella vita dei componenti dei Bahal, episodi in un certo senso da esorcizzare.
Interessante. Stilisticamente ci saranno dei cambiamenti?
Stilisticamente i testi saranno abbastanza simili all'impostazione di "Ikelos", anche se forse, per certi aspetti, più introversi ed "intimisti". Alcuni testi poi sono stati scritti da Breva (secondo chitarrista), che ha un modo di scrivere diverso dal mio.
Le differenze in tal senso quindi ci saranno.
Dal punto di vista prettamente musicale invece?
Anche se non so ancora come suonerà il disco finito, la componente "progressive", poco presente in “Ikelos” ma che molti hanno ingigantito in quell'occasione, sarà più presente.
Riassumendo, le parti acustiche avranno una rilevanza maggiore, ci saranno come già detto meno blast beat e in generale il disco dovrebbe essere riproducibile meglio di “Ikelos” in sede live; infine, ci saranno molte parti atmosferiche e non escludo ci possano essere alcune parti cantate in pulito.
Suonerà comunque come un disco dei Bahal, o almeno a me sembra così dalle bozze che stiamo creando!
Per finire, povera Giulia! Mi chiedo perchè non si sia firmata, nonostante la perfetta utilità informativa del suo commento...
Hehe, credo non si sia firmata per timidezza, e per non fare la figura della musicista vanitosa e altezzosa, tutto qui! E’ una musicista molto coinvolta nel progetto, oltre che, ovviamente un'ottima amica. Le farà sicuramente piacere che ti sei accorto della svista!
Per forza di cose. Perchè nell'outro mi è sembrato per davvero che si stesse suonando una chitarra acustica. Diciamo che mi sono lasciato "fregare" dalla mega - sporcizia de "Tra le
Braccia di Morfeo".
Guarda, non c'è nessun problema! La registrazione certo non aiuta!
E poi è sempre brutto non citare nei crediti un musicista che ha collaborato in un progetto.
Effettivamente io non ti ho aiutato, dimenticandomi di inviarti una scheda dettagliata riguardo ai partecipanti al disco...chiedo venia!
Saturday, September 3, 2011
Rotorvator - "Rotorvator EP" (2007)
Ep autoprodotto (2007)
Formazione (2006): il gruppo la vuole sconosciuta
Provenienza: Belluno, Veneto
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “To Armageddon”, che definire folle è solo un crudele eufemismo.
Punto di forza del disco:
la capacità di terrorizzare l’ascoltatore. “Semplicemente”.
Dei Rotorvator potete leggere anche la rece del secondo disco, "Nahum", attraverso il seguente link:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2011/02/rotorvator-nahum-2009.html
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I Rotorvator o li si ama o li si odia. E non soltanto perché propongono delle soluzioni stilistiche tremendamente eccentriche e dolorose che cercano di coniugare il black metal con alcuni generi esterni a esso come l’industrial o il trip – hop. Ma anche perché sono uno di quei gruppi che più che emozionare terrorizzano letteralmente l’ascoltatore dato che a quanto si è capito il loro obiettivo è quello di deformare le cosiddette convenzioni per generare qualcosa di incatalogabile, ripugnante, ma allo stesso tempo assolutamente affascinante. Per questo si potrebbe fare un parallelo con l’opera prima di David Lynch”, “Erazerhead” del 1977, anche perché “Rotorvator EP” rappresenta l’opera prima del malato terzetto, che già mostrava nell’A.D. 2007 un’abilità tutta naturale nel dire qualcosa di coraggioso e provocatorio, ergo originale. Eppure sembra praticamente impossibile descrivere un simile disco senza parlare pian piano di tutti i pezzi, “solamente” 3, fortemente caratterizzati l’uno dall’altro. Quindi, nell’ordine:
“Sergio Leone”:
nonostante il titolo che mi lascia immaginare scenari western da me tanto amati, qui non c’è nulla che possa rimandare direttamente alla grandissima opera del regista romano.
Prima di tutto, le danze si aprono con l’episodio più lungo di tutto il lotto (ben 8 minuti) e probabilmente si può definire anche come quello più bizzarro ed astruso.
Infatti, aperte da un sussurrìo quasi percussivo accompagnato successivamente dal zanzarìo delle chitarre, da qui in poi ci si rende partecipi di un procedimento basato in sostanza sulla progressiva sovrabbondanza di suoni e rumori. Fra questi ultimi degni di una speciale menzione sono degli effetti sfuggenti e inafferrabili prodotti probabilmente da una chitarra, mentre fra i secondi una specie di sintetizzatori dal suono acuto ma dall’andamento traballante e “disordinato”. Effettivamente sembra di assistere ad una sorta di rituale nel quale le visioni si fanno sempre più sconcertanti, e prova ne è la voce, fra il posseduto e il mistico. Testimonianza ne è anche la batteria elettronica, ipnotica al massimo proprio perché assolutamente statica nelle sue danze su tom – tom e piatti.
A dirla tutta però, l’unica mancanza della canzone è l’aver cristallizzato per circa un minuto e mezzo (a partire dal 6° minuto insomma) tutta la sua evoluzione noise, fermando così per un po’ troppo quella sensazione di stupore continuo che poi i Rotorvator sapranno gestire meglio;
“Abiura”:
questa è una canzone dalla struttura curiosamente più tradizionale (ci si basa infatti, almeno inizialmente, su una sequenza del tipo 1 – 2 – 3 per poi prendere il largo fino a unire 2 soluzioni diverse in una sola) e dal minutaggio incredibilmente più contenuto (circa 3 minuti e mezzo!).
Eppure, inutile dirlo, il discorso funziona benissimo. Sarà perché nel brano c’è finalmente un riffing vero e proprio e addirittura melodico e disperato, ragion per cui il tutto assume una valenza ancor più inquietante? O “per colpa” di alcuni ritmi irregolari di batteria, la quale per la prima volta dà adito a dei blast – beats (statici) spaventosi? Oppure per un lavoro di sintetizzatori (stavolta sia acuti sia grevi, e questi ultimi ad un certo punto vengono accompagnati persino da una chitarra acustica) perfetto, capace fra l’altro di creare un’angoscia inenarrabile?
Sarà tutto questo, ma forse è specialmente da questa canzone che poi saranno costruiti i pezzi più perversi ed anche atmosferici di “Nahum”, non dimenticando quindi quel senso minimalista e terrificante della melodia che i Rotorvator attualmente si ritrovano, unitamente ad un tipo di struttura più spezzettato ma a suo modo sempre bello fluido.
“To Armageddon”:
con questo pezzo si ritorna al tour de force, stavolta di 7 minuti, e probabilmente è l’episodio più terrorizzante di tutto il lotto, visto che qui i Rotorvator hanno adottato delle soluzioni che definirei assordiste.
Prima di tutto, è meglio partire con la caratteristica meno “scandalosa”, ossia il fatto che i nostri siano riusciti ad infilare nel riffing certo epicismo melodico tanto caro al black metal, mentre funge da accompagnamento una batteria dal tempo oserei dire tonante, quindi molto coerente con il genere suddetto. Solo che (PREPARATEVI!), stanchi di proporre semplicemente la variante personale del black metal, da un certo momento in poi il gruppo comincia a giocare con le due chitarre. E a sputare fuori dei sintetizzatori impazziti e dinamici.
Ma quelle due chitarre non sono normali. Sì, perché a tratti si ha l’impressione concreta che l’una rincorra l’altra, fino a che ogni ordine salta così che una si consuma definitivamente in una specie di assolo, mentre la sua compagna continua ossessivamente con quel lungo riff, come ipnotizzata.
Da notare che nella descrizione delle canzoni non ho quasi mai citato la voce, e ciò perché, pur essendo più eccentrica e malata della media, stupisce di meno rispetto a quanto proposto da “Nahum” nel quale la sorpresa è invece sempre dietro l’angolo.
Inoltre, si noti che, contrariamente a quanto mi riferì Merlo, la produzione è sì sempre mega – sporca (forse lo è di più del disco successivo) ma è decisamente comprensibile pur essendo così assordante che consiglio agli interessati di regolare il volume in maniera (apparentemente) bassa, visto che la prima volta che ho messo su il cd nel lettore dvd di casa il volume era impostato a 1 (poi migliorato a 3!)! E solitamente il volume di sicurezza corrisponde a 10 unità…
Più che altro la cosa mal digeribile ad ascolto iniziato è la struttura – tipo dei primi Rotorvator. In sostanza, colui che si è appassionato ai saliscendi di “Nahum” deve iniziare da zero perché nel primo loro lavoro il discorso è più fluido e statico, anche se il tutto come si è visto viene espresso sempre con molta inventiva, e quindi è veramente molto difficile annoiarsi ascoltandoli. Anche perché è impossibile che il dolore e la follia scadano nella noia…
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sergio Leone/ 2 – Abiura/ 3 – To Armageddon
MySpace:
www.myspace.com/rotorvatorblack
BlogSpot:
http://www.rotorvatorblack.blogspot.com/
Formazione (2006): il gruppo la vuole sconosciuta
Provenienza: Belluno, Veneto
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “To Armageddon”, che definire folle è solo un crudele eufemismo.
Punto di forza del disco:
la capacità di terrorizzare l’ascoltatore. “Semplicemente”.
Dei Rotorvator potete leggere anche la rece del secondo disco, "Nahum", attraverso il seguente link:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2011/02/rotorvator-nahum-2009.html
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I Rotorvator o li si ama o li si odia. E non soltanto perché propongono delle soluzioni stilistiche tremendamente eccentriche e dolorose che cercano di coniugare il black metal con alcuni generi esterni a esso come l’industrial o il trip – hop. Ma anche perché sono uno di quei gruppi che più che emozionare terrorizzano letteralmente l’ascoltatore dato che a quanto si è capito il loro obiettivo è quello di deformare le cosiddette convenzioni per generare qualcosa di incatalogabile, ripugnante, ma allo stesso tempo assolutamente affascinante. Per questo si potrebbe fare un parallelo con l’opera prima di David Lynch”, “Erazerhead” del 1977, anche perché “Rotorvator EP” rappresenta l’opera prima del malato terzetto, che già mostrava nell’A.D. 2007 un’abilità tutta naturale nel dire qualcosa di coraggioso e provocatorio, ergo originale. Eppure sembra praticamente impossibile descrivere un simile disco senza parlare pian piano di tutti i pezzi, “solamente” 3, fortemente caratterizzati l’uno dall’altro. Quindi, nell’ordine:
“Sergio Leone”:
nonostante il titolo che mi lascia immaginare scenari western da me tanto amati, qui non c’è nulla che possa rimandare direttamente alla grandissima opera del regista romano.
Prima di tutto, le danze si aprono con l’episodio più lungo di tutto il lotto (ben 8 minuti) e probabilmente si può definire anche come quello più bizzarro ed astruso.
Infatti, aperte da un sussurrìo quasi percussivo accompagnato successivamente dal zanzarìo delle chitarre, da qui in poi ci si rende partecipi di un procedimento basato in sostanza sulla progressiva sovrabbondanza di suoni e rumori. Fra questi ultimi degni di una speciale menzione sono degli effetti sfuggenti e inafferrabili prodotti probabilmente da una chitarra, mentre fra i secondi una specie di sintetizzatori dal suono acuto ma dall’andamento traballante e “disordinato”. Effettivamente sembra di assistere ad una sorta di rituale nel quale le visioni si fanno sempre più sconcertanti, e prova ne è la voce, fra il posseduto e il mistico. Testimonianza ne è anche la batteria elettronica, ipnotica al massimo proprio perché assolutamente statica nelle sue danze su tom – tom e piatti.
A dirla tutta però, l’unica mancanza della canzone è l’aver cristallizzato per circa un minuto e mezzo (a partire dal 6° minuto insomma) tutta la sua evoluzione noise, fermando così per un po’ troppo quella sensazione di stupore continuo che poi i Rotorvator sapranno gestire meglio;
“Abiura”:
questa è una canzone dalla struttura curiosamente più tradizionale (ci si basa infatti, almeno inizialmente, su una sequenza del tipo 1 – 2 – 3 per poi prendere il largo fino a unire 2 soluzioni diverse in una sola) e dal minutaggio incredibilmente più contenuto (circa 3 minuti e mezzo!).
Eppure, inutile dirlo, il discorso funziona benissimo. Sarà perché nel brano c’è finalmente un riffing vero e proprio e addirittura melodico e disperato, ragion per cui il tutto assume una valenza ancor più inquietante? O “per colpa” di alcuni ritmi irregolari di batteria, la quale per la prima volta dà adito a dei blast – beats (statici) spaventosi? Oppure per un lavoro di sintetizzatori (stavolta sia acuti sia grevi, e questi ultimi ad un certo punto vengono accompagnati persino da una chitarra acustica) perfetto, capace fra l’altro di creare un’angoscia inenarrabile?
Sarà tutto questo, ma forse è specialmente da questa canzone che poi saranno costruiti i pezzi più perversi ed anche atmosferici di “Nahum”, non dimenticando quindi quel senso minimalista e terrificante della melodia che i Rotorvator attualmente si ritrovano, unitamente ad un tipo di struttura più spezzettato ma a suo modo sempre bello fluido.
“To Armageddon”:
con questo pezzo si ritorna al tour de force, stavolta di 7 minuti, e probabilmente è l’episodio più terrorizzante di tutto il lotto, visto che qui i Rotorvator hanno adottato delle soluzioni che definirei assordiste.
Prima di tutto, è meglio partire con la caratteristica meno “scandalosa”, ossia il fatto che i nostri siano riusciti ad infilare nel riffing certo epicismo melodico tanto caro al black metal, mentre funge da accompagnamento una batteria dal tempo oserei dire tonante, quindi molto coerente con il genere suddetto. Solo che (PREPARATEVI!), stanchi di proporre semplicemente la variante personale del black metal, da un certo momento in poi il gruppo comincia a giocare con le due chitarre. E a sputare fuori dei sintetizzatori impazziti e dinamici.
Ma quelle due chitarre non sono normali. Sì, perché a tratti si ha l’impressione concreta che l’una rincorra l’altra, fino a che ogni ordine salta così che una si consuma definitivamente in una specie di assolo, mentre la sua compagna continua ossessivamente con quel lungo riff, come ipnotizzata.
Da notare che nella descrizione delle canzoni non ho quasi mai citato la voce, e ciò perché, pur essendo più eccentrica e malata della media, stupisce di meno rispetto a quanto proposto da “Nahum” nel quale la sorpresa è invece sempre dietro l’angolo.
Inoltre, si noti che, contrariamente a quanto mi riferì Merlo, la produzione è sì sempre mega – sporca (forse lo è di più del disco successivo) ma è decisamente comprensibile pur essendo così assordante che consiglio agli interessati di regolare il volume in maniera (apparentemente) bassa, visto che la prima volta che ho messo su il cd nel lettore dvd di casa il volume era impostato a 1 (poi migliorato a 3!)! E solitamente il volume di sicurezza corrisponde a 10 unità…
Più che altro la cosa mal digeribile ad ascolto iniziato è la struttura – tipo dei primi Rotorvator. In sostanza, colui che si è appassionato ai saliscendi di “Nahum” deve iniziare da zero perché nel primo loro lavoro il discorso è più fluido e statico, anche se il tutto come si è visto viene espresso sempre con molta inventiva, e quindi è veramente molto difficile annoiarsi ascoltandoli. Anche perché è impossibile che il dolore e la follia scadano nella noia…
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sergio Leone/ 2 – Abiura/ 3 – To Armageddon
MySpace:
www.myspace.com/rotorvatorblack
BlogSpot:
http://www.rotorvatorblack.blogspot.com/
Thursday, September 1, 2011
Progenie Terrestre Pura - "Promo 2011"
Questa recensione è stata fatta per i tipi di Italia di Metallo. Ultimamente sto collaborando un sacco!
Promo autoprodotto (15 Aprile 2011)
Formazione (2009): Nex [1], voce, “macchine”;
Eon [0], chitarra, basso, “macchine”.
Provenienza: semplicemente Veneto.
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio l’immaginifica “Sinapsi Divelte”, da cui si può costruire il prossimo disco, e che fra l’altro è la più lunga dei due brani.
Punto di forza del promo:
sicuramente la capacità di non stancare l’ascoltatore nonostante i ben 21 minuti dell’opera spalmati in sole due tracce, cosa dovuta ad una inventiva con veramente pochi eguali.
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Coniugare la poesia, sia lirica che quella più prettamente musicale, con il metal estremo è già una cosa difficile, ed infatti nella scena italica mi vengono in mente solo gruppi come i Bahal e gli Eloa Vadaath. Se poi arrivano dei pazzi dal nome strambissimo e vagamente esprimenti una sorta di black metal industriale, lo stupore assume connotazioni assurde visto che per tutti i 21 minuti dell’opera si rimane costantemente a bocca aperta.
Questa considerazione va fatta perché i Progenie Terrestre Pura sciorinano in tutto e per tutto caratteristiche che vanno spesso controcorrente rispetto alla ferocia e talvolta freddezza del black metal. Vediamone quali:
- la voce è sicuramente una delle più suggestive che io abbia mai sentito ultimamente. Di fatto è un vero e proprio sussurrìo che però nelle sfuriate diventa come soffocato, lacerato da un dolore interiore che in “Sinapsi Divelte” diventa un cantato (pulito) estatico e dai toni psichedelici. Il suo andamento è lento e posato, ma nonostante tutto non è che le sue parole siano esattamente intelligibili, anzi, per questo consiglio a tutti – e non solo per ciò – di gustarsi il disco con delle belle cuffie. Inoltre, il cantato spesso viene “consumato” dalle frequenti fughe strumentali, quindi non ha neanche un’importanza così centrale, al contrario della tradizione del black metal;
- le chitarre urlano per la maggiore melodie pregne di disperazione e crepuscolarità (non so voi ma a tratti mi hanno ricordato perfino i malinconici blackettoni Basarab!), anche se in “Progenie Terrestre Pura” si possono fare fredde mentre in “Sinapsi Divelte” esplodono del tutto sciorinando spesso riff (a volte dal taglio addirittura “sereno”, sempre se mi è permesso il termine) con slanci non propriamente black, e quindi ci troviamo di fronte ad un riffing molto fantasioso e multidimensionale. Da menzionare l’ottimo lavoro di chitarra solista (soprattutto quello di “Sinapsi Divelte”), così bello fino a concedersi anche veri e propri assoli, i quali mostrano fra l’altro una gran bella tecnica;
- incredibile a dirsi, ma la batteria elettronica, pur essendo una macchina che nel black industriale è solitamente statica e glaciale, in questo caso è stata programmata in maniera dinamica proponendo così variazioni che rendono imprevedibile tutto il discorso. E attenzione che, nonostante certe già citate atmosfere crepuscolari, i blast – beats si fanno sentire, specialmente in “Progenie Terrestre Pura”;
- di fatto questa si potrebbe definire come l’unica reale concessione alla categoria d’appartenenza, ossia l’ossessività di alcune soluzioni (da questo punto di vista la palma d’oro ce l’ha, coerentemente con il riffing più duro e semplice, la canzone omonima);
- ma i Progenie Terrestre Pura non sarebbero così bizzarri se non ci fossero ad aiutarli dei suoni sintetici che vengono largamente usati anche integrandoli con assoluta perfezione nei momenti più metallici dell’esperienza. Sì, perché spesso si “costringe” l’ascoltatore ad abbandonarsi in sezioni praticamente ambient risultando però stupendamente delicati. Ogni pezzi comincia proprio così (e le introduzioni sono belle lunghe e ponderate), avvolgendo chi ascolta in una pace solo apparente e perciò inquietudine pronta ad essere annichilita, sia pure con modi raffinati;
- la struttura dei pezzi infatti poggia molto su questo elemento “estraneo”, essendo ogni canzone costituita da un saliscendi emotivo e perfettamente giostrato fra pause “creative” e assalti più o meno tali. E a tal proposito è stata saggia la scelta di rendere “prolissi” i brani che mai e poi mai scendono sotto i 10 minuti, così da permettere all’ascoltatore di metabolizzare con assoluta calma tutto l’insieme.
Eppure, è molto strano ma l’unico gruppo con cui mi sento di paragonare i Progenie Terrestre Pura sono i Rotorvator che, anche se sperimentano seppur in maniera ancora più radicale con il black usando paradossalmente molte delle sue stesse armi, atmosfericamente risiedono in tutto un altro mondo. In un mondo malato, schizzato, palesemente (auto) – distruttivo. Ma è specialmente sotto il lato strutturale che il paragone calza a pennello, ed anche in alcune suggestioni vocali. Però se i Rotorvator tendono a decostruire e costruire un brano in maniera essenziale, i Progenie attuano più che altro quello che si può definire un vero e proprio flusso di coscienza, e ciò significa che si impongono meno vincoli strutturali.
Un altro punto d’incontro fra le due esperienze è la produzione. O meglio, le frequenze con cui vengono impostate le sonorità, che sono belle alte, in quanto se parliamo della qualità intrinseca ci accorgerà che le produzioni dei Rotorvator sono (piacevolmente) sporchissime (e assordanti), mentre quelle di “Promo 2011” sono indubbiamente più pulite ed accoglienti.
Alla luce di tutte queste considerazioni, non ho trovato nel disco difetti sostanziali, ma prima di sbilanciarsi è sempre meglio sentire qualcos’altro da questi ragazzi, da cui, non so voi, mi aspetto veramente grandi cose.Voto: 80
Claustrofobia
Nota:
riguardo i Rotorvator, rimando i curiosi alla mia recensione del loro ultimo spaventoso demo, “Nahum”, raggiungibile attraverso il seguente link:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2011/02/rotorvator-nahum-2009.html
Scaletta:
1 – Progenie Terrestre Pura/ 2 – Sinapsi Divelte
MySpace:
http://www.myspace.com/progenieterrestrepura
Promo autoprodotto (15 Aprile 2011)
Formazione (2009): Nex [1], voce, “macchine”;
Eon [0], chitarra, basso, “macchine”.
Provenienza: semplicemente Veneto.
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio l’immaginifica “Sinapsi Divelte”, da cui si può costruire il prossimo disco, e che fra l’altro è la più lunga dei due brani.
Punto di forza del promo:
sicuramente la capacità di non stancare l’ascoltatore nonostante i ben 21 minuti dell’opera spalmati in sole due tracce, cosa dovuta ad una inventiva con veramente pochi eguali.
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Coniugare la poesia, sia lirica che quella più prettamente musicale, con il metal estremo è già una cosa difficile, ed infatti nella scena italica mi vengono in mente solo gruppi come i Bahal e gli Eloa Vadaath. Se poi arrivano dei pazzi dal nome strambissimo e vagamente esprimenti una sorta di black metal industriale, lo stupore assume connotazioni assurde visto che per tutti i 21 minuti dell’opera si rimane costantemente a bocca aperta.
Questa considerazione va fatta perché i Progenie Terrestre Pura sciorinano in tutto e per tutto caratteristiche che vanno spesso controcorrente rispetto alla ferocia e talvolta freddezza del black metal. Vediamone quali:
- la voce è sicuramente una delle più suggestive che io abbia mai sentito ultimamente. Di fatto è un vero e proprio sussurrìo che però nelle sfuriate diventa come soffocato, lacerato da un dolore interiore che in “Sinapsi Divelte” diventa un cantato (pulito) estatico e dai toni psichedelici. Il suo andamento è lento e posato, ma nonostante tutto non è che le sue parole siano esattamente intelligibili, anzi, per questo consiglio a tutti – e non solo per ciò – di gustarsi il disco con delle belle cuffie. Inoltre, il cantato spesso viene “consumato” dalle frequenti fughe strumentali, quindi non ha neanche un’importanza così centrale, al contrario della tradizione del black metal;
- le chitarre urlano per la maggiore melodie pregne di disperazione e crepuscolarità (non so voi ma a tratti mi hanno ricordato perfino i malinconici blackettoni Basarab!), anche se in “Progenie Terrestre Pura” si possono fare fredde mentre in “Sinapsi Divelte” esplodono del tutto sciorinando spesso riff (a volte dal taglio addirittura “sereno”, sempre se mi è permesso il termine) con slanci non propriamente black, e quindi ci troviamo di fronte ad un riffing molto fantasioso e multidimensionale. Da menzionare l’ottimo lavoro di chitarra solista (soprattutto quello di “Sinapsi Divelte”), così bello fino a concedersi anche veri e propri assoli, i quali mostrano fra l’altro una gran bella tecnica;
- incredibile a dirsi, ma la batteria elettronica, pur essendo una macchina che nel black industriale è solitamente statica e glaciale, in questo caso è stata programmata in maniera dinamica proponendo così variazioni che rendono imprevedibile tutto il discorso. E attenzione che, nonostante certe già citate atmosfere crepuscolari, i blast – beats si fanno sentire, specialmente in “Progenie Terrestre Pura”;
- di fatto questa si potrebbe definire come l’unica reale concessione alla categoria d’appartenenza, ossia l’ossessività di alcune soluzioni (da questo punto di vista la palma d’oro ce l’ha, coerentemente con il riffing più duro e semplice, la canzone omonima);
- ma i Progenie Terrestre Pura non sarebbero così bizzarri se non ci fossero ad aiutarli dei suoni sintetici che vengono largamente usati anche integrandoli con assoluta perfezione nei momenti più metallici dell’esperienza. Sì, perché spesso si “costringe” l’ascoltatore ad abbandonarsi in sezioni praticamente ambient risultando però stupendamente delicati. Ogni pezzi comincia proprio così (e le introduzioni sono belle lunghe e ponderate), avvolgendo chi ascolta in una pace solo apparente e perciò inquietudine pronta ad essere annichilita, sia pure con modi raffinati;
- la struttura dei pezzi infatti poggia molto su questo elemento “estraneo”, essendo ogni canzone costituita da un saliscendi emotivo e perfettamente giostrato fra pause “creative” e assalti più o meno tali. E a tal proposito è stata saggia la scelta di rendere “prolissi” i brani che mai e poi mai scendono sotto i 10 minuti, così da permettere all’ascoltatore di metabolizzare con assoluta calma tutto l’insieme.
Eppure, è molto strano ma l’unico gruppo con cui mi sento di paragonare i Progenie Terrestre Pura sono i Rotorvator che, anche se sperimentano seppur in maniera ancora più radicale con il black usando paradossalmente molte delle sue stesse armi, atmosfericamente risiedono in tutto un altro mondo. In un mondo malato, schizzato, palesemente (auto) – distruttivo. Ma è specialmente sotto il lato strutturale che il paragone calza a pennello, ed anche in alcune suggestioni vocali. Però se i Rotorvator tendono a decostruire e costruire un brano in maniera essenziale, i Progenie attuano più che altro quello che si può definire un vero e proprio flusso di coscienza, e ciò significa che si impongono meno vincoli strutturali.
Un altro punto d’incontro fra le due esperienze è la produzione. O meglio, le frequenze con cui vengono impostate le sonorità, che sono belle alte, in quanto se parliamo della qualità intrinseca ci accorgerà che le produzioni dei Rotorvator sono (piacevolmente) sporchissime (e assordanti), mentre quelle di “Promo 2011” sono indubbiamente più pulite ed accoglienti.
Alla luce di tutte queste considerazioni, non ho trovato nel disco difetti sostanziali, ma prima di sbilanciarsi è sempre meglio sentire qualcos’altro da questi ragazzi, da cui, non so voi, mi aspetto veramente grandi cose.Voto: 80
Claustrofobia
Nota:
riguardo i Rotorvator, rimando i curiosi alla mia recensione del loro ultimo spaventoso demo, “Nahum”, raggiungibile attraverso il seguente link:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2011/02/rotorvator-nahum-2009.html
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1 – Progenie Terrestre Pura/ 2 – Sinapsi Divelte
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