Split (Mother Death Productions, 2012)
Formazione Rohes Fleisch (2008): Zeyros – voce/chitarre/basso;
Azharn – batteria elettronica.
Provenienza: Frosinone/Roma, Lazio.
Canzone migliore del gruppo:
“Emperor of the Almighty Black Thorn”.
Punto di forza:
il caos sprigionato con una follia incredibile e organizzata.
Un giorno, mentre stavo ascoltando per la prima volta questo split, e più precisamente gli assordanti Rohes Fleisch, sento all’improvviso mia madre dirmi qualcosa dalla sua stanza. Così, metto in pausa lo stereo, e chiedo “A ma’, che c’è?”, e lei “Ma cos’è ‘sto rumore?”, domanda stavolta più che giustificabile. Ma il bello è che io me ne sono uscito con una delle risposte più assurde di tutti i tempi, cioè un insensato “E’ un gruppo romano”, come se noi romani fossimo particolarmente bravi a creare il caos in musica. Che poi io mi sia mezz’ora dopo spaparanzato sul divano a godermi “3 Cuori in Affitto” con il grande e compianto John Ritter e la bellissima nana Joyce DeWitt è un altro conto… ma questo per favore non ditelo a nessuno. “Troppo tardi idiota, e poi mi stai dicendo forse che la tua mano sa scrivere da sola?”. Ops, mano cattiva, scrivi quello che devi scrivere, e subito!
Zi, padrone. Oggi Mano vi parla di “Melt Soul to Blood”, split fra due realtà nostrane che propongono visioni black metal fra loro completamente contrapposte sia dal punto di vista musicale/atmosferico, sia purtroppo da quello qualitativo. Se ben ricordate, dei Rohes Fleisch ho recensito tempo fa il loro primissimo demo “First Journey to Flesh of Human Nature”, che si è beccato un modesto 68, mentre Minas Ithil è praticamente alla prima esperienza discografica.
Partiamo dai Rohes Fleisch, che a questo giro si mettono in discussione preferendo un approccio meno industriale e molto più rumoristico e caotico. In parole povere, si tratta del più becero noise black metal nel quale protagoniste assolute sono le chitarre, che vengono utilizzate nei modi più diversi. Si va per esempio da arpeggi addirittura melodici a riffs furiosi di impronta svedese (“Emperor of the Almighty Black Thorn”), da orde di feedback alle dita che strisciano minacciosamente sulle corde. Ma a dir poco fondamentale è la chitarra solista, che riesce a completare il riff della compagna anche con intuizioni atipiche, seppur soltanto in “Underskin Cold Beauty” ci sia un assolo, bello isterico e rapido (curiosamente anche nel precedente disco vi è un solo… assolo. Ormai sta diventando una tradizione…).
Pure la batteria si rivela capace, sia pure a suo modo, di creare più caos. Prima di tutto, essa va quasi sempre in tupa – tupa, tanto che solo nelle ultime due canzoni va in blast. Ma il suo andamento è non poche volte stranamente spezzettato, e in quest’ultimo caso o si ferma o non segue un vero e proprio ritmo (o almeno così pare), e intanto il riffing continua il suo incubo.
La cosa assurda è che questo black metal riesce a essere imprevedibile attraverso una struttura che in teoria dovrebbe essere soffocante perché è spesso bella ossessiva, solo che poi si dimostra particolarmente fluida e in un certo senso accessibile. Ciò anche perché in canzoni come la strana “Leave Your Hope”, che ha una lunga introduzione con sola chitarra arpeggiata e pure un memorabile passaggio stradaiolo più volte “ritardato” (altro aspetto curioso della struttura – tipo dei pezzi), lo schema è abbastanza lontano dall’essere sequenziale, quindi è sufficientemente libero. Però certo, talvolta tale metodologia strutturale non sempre appare efficace, come nel finale statico e senza sviluppo di “Life Dressed in Red”, ma questa è la classica eccezione che conferma la regola.
La produzione, sporchissima ma comprensibile e graffiante, rappresenta invece ancora una volta il trionfo delle chitarre, mentre tutti gli altri strumenti sono messi in secondo piano, seppur una tale scelta non mi piaccia particolarmente anche se atmosfericamente funziona. Il rullante della batteria risulta però poco efficace e lontano dalla chiarezza (beh, più o meno) del demo. La voce è invece ovattata e parecchio effettata, ed è divisa fra urla malate e una piccola dose di voci pulite semi – parlate.
Insomma, i Rohes Fleisch sono cambiati molto dall’ultima volta, e pure in meglio, immettendo di conseguenza non poche novità, fra cui un riffing più vecchia scuola e dissonante, talvolta anche più imponente del solito (in “The Art of Torment” c’è il massimo da questo punto di vista). E soprattutto i nostri sono riusciti a creare volutamente un caos, per così dire, musicale, fatto cioè veramente bene e senza esperimenti pretenziosi, magari mascherati da un concept allettante, come spesso capita. Ma del gruppo ne sentiremo parlare presto, perché è in programma sia l’album “Defecate Human Kind” sia lo split con i messicani Acrimonia.
Voto: 76
Scaletta:
1 – Underskin Cold Beauty/ 2 – Life Dressed in Red/ 3 – Leave Your Hope/ 4 – The Art of Torment/ 5 – Emperor of the Almighty Black Thorn
FaceBook:
MySpace:
Formazione Minas Ithil (2008): Icemoon – voce/chitarre/basso/batteria elettronica;
Nera Morte - voce (in "Moon, Queen of the Night").
Nera Morte - voce (in "Moon, Queen of the Night").
Provenienza: Bologna, Emilia Romagna.
Canzone migliore del progetto:
“Moon, Queen of the Night”.
Punto di forza:
la voce.
Con Minas Ithil (fino all’anno scorso conosciuto come Solar Radiation) siamo da tutt’altra parte, visto che il nostro Icemoon propone un black metal malinconico dai toni sognanti. Quindi, Mano entra qui in un territorio minato, dato che io non sono affatto un grande sostenitore di questo tipo di sonorità, anche perché ‘sto progetto racchiude in sé e talvolta estremizza le caratteristiche tipiche di questo particolare modo di sentire il black.
Prima di tutto, la batteria elettronica è veramente poco incisiva, non soltanto per il suono in sé ma anche perché il suo andamento risulta troppo asettico, cioè non aiuta gli altri strumenti a enfatizzare il discorso così da atrofizzarsi sempre sugli stessi rilassati ritmi, senza nessuna reale variazione. E poi va sempre più o meno lenta, non c’è mai e poi mai un passaggio veloce o qualcosa che faccia scaldare gli animi.
La voce è un urlo rauco e ultra – grattato, ed è stato doppiato in un modo un po’ curioso tramite una eco che fa sembrare che si stia cantando in due, creando così perlomeno un buon effetto di disorientamento.
La struttura delle canzoni è invece così minimalista che al confronto i Von sono quasi dei dilettanti. Sì, perché i pezzi procedono non solo statici ma anche tremendamente ossessivi, con lunghi riffs melodici e (quasi) perennemente in tremolo, mai arpeggiati, cosa che sicuramente avrebbe dato più atmosfera e fantasia al tutto.
In compenso, i brani si diversificano abbastanza bene fra di loro. A titolo di esempio, “Ruin” presenta un buon lavoro di chitarra solista (mai nessun assolo comunque); “Moon, Queen of the Night” è unica nella sua specie avendo un alone misterioso ed esotico anche grazie a delle semplici tastiere e addirittura a un vellutato canto femminile molto interessante, mentre “Light Never Shrines” parte e si conclude all’insegna di un ambient con chitarra acustica paranoica e non priva di errori, con la parte centrale black.
In parole povere, sarò forse di parte ma le cosiddette atmosfere da sogno di Minas Ithil appaiono troppo povere e anche poco funzionali, visto che per me i sogni in musica devono scatenare sempre una botta di Vita, un’evasione dalla soffocante routine quotidiana, un po’ come fatto in passato dai sardi Streben, sognanti ma selvaggi (a proposito, tra un po’ recensisco il ritorno nelle scene di Satya Lux Aeterna, adesso nelle fila dei Nahabat). A ogni modo, consiglio ad Icemoon di ripartire assolutamente da “Moon, Queen of the Night” e quindi dall’uso più frequente delle tastiere.
Mano, adesso sei libera… ehi, non dici niente? Oh? AOH, SVEGLIA!
“SONO STANCA, FANCULO FLAVIE’ E ARIDATECE JOHN RITTER, CONTENTO?”
Caz…
Voto: 57
Flavio “Claustrofobia” Adducci
Scaletta:
6 – Loneliness/ 7 – The Magical City/ 8 – Ruin/ 9 – Moon, Queen of the Night/ 10 – Light Never Shrines
FaceBook: