Saturday, October 29, 2011

Angel Death - "Death to Christianity" (1986)

Demo autoprodotto (1986)

Formazione (1984): Satanic Exterminator, voce/basso;
Fuckin’ Satan, chitarra;
Infernal Slaughter, batteria.

Provenienza: Rieti, Lazio

Canzone migliore del demo:

nonostante non ci siano molte differenze tra un brano e l’altro, preferirei menzionare specialmente “Disaster”, più che altro perché riesce a unire in maniera più efficace la solita velocità “ballabile” del gruppo con dei rallentamenti ben congegnati.

Punto di forza del disco:

il menefreghismo totale degli Angel Death verso la Musica. E ho detto tutto.

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L’istanza anticristiana a volte è così intollerante e profondamente irrazionale che negli Angel Death raggiunge vette inaudite nelle quali viene allegramente stuprata ogni minima parvenza di estetismo musicale, come se fosse più importante il monotematico messaggio di morte e distruzione che la fantasia, la tecnica, i vari abbellimenti, i cambi di tempo e così via. Loro facevano entrare l’ascoltatore in un vortice tremendamente paranoico da rasentare l’Assurdo, da rispettare pienamente ed inconsapevolmente il manifesto “Repetition” dei Fall che con il metal non hanno mai avuto a che fare. Un assurdo che per quanto primitivo è quasi inclassificabile e di cui non è mai letteralmente esistito l’eguale (Lovecraft docet). Oddio, non esagerare!

Questo è in estrema sintesi lo spaventoso viaggio offerto dall’ipnotico “Death to Christianity”, che ha un solo pezzo che riesce a… differirsi dagli altri: l’intro. Completamente in latino e introdotta a sua volta da una voce simil – presentatore di una radio di musica classica, riguarda nientepopodimeno che l’elezione del papa Pio XII datata 2 Marzo 1939, con tanto di folla urlante, in modo da far preparare nella maniera più blasfema possibile un peggio di dimensioni epiche che all’epoca evidentemente deve aver scosso molto successo perché, a detta del cantante/bassista, la cassetta vendette almeno 1000 copie, perlopiù per corrispondenza. E ciò a dispetto della natura estremamente casalinga dell’intera produzione.

Il peggio (se così vogliamo volgarmente chiamarlo) è una batteria praticamente incapace di andare oltre l’ABC del manuale dell’estremo. Un ossessivo e semplicissimo tupa – tupa non molto veloce, accompagnato da un lavoro di cassa elementare, scevro di ogni possibile accento per rinforzare il riffing, se non attraverso qualche comunque efficace uno – due sul rullante e dei colpi decisi sui tom – tom, perché per il resto vi è un interminabile dualismo rullante – charleston. Interminabile anche perché per il 95% del demo si ha un’assenza spaventosa dei tempi medi, ricchi di un groove geniale (“Disaster” è esemplare) nei quali ha finalmente un ruolo il ride, solo che essi vengono totalmente cancellati nell’”infinita” “Bestial Attack”, che infatti è giocata specialmente sugli stacchi con relative ripartenze. Ma il discorso è sempre lo stesso.

Il peggio continua con la chitarra. Il riffing è un campo minato dove gli errori di esecuzione martoriano senza vergogna l’ascoltatore, è la rovina dell’armonia. Eppure c’è qualcosa di contagioso nei riffs, che io chiamo “effetto – dance”: le melodie goliardiche e punk’n’roll che pizzicano letteralmente il corpo tutto per poi farlo ballare senza pudore alcuno. Ciò grazie all’andamento barcollante dei riffs veloci ed elementarissimi. Ma non aspettatevi altro, il riff è sempre quello, dato che per ogni pezzo si propone al massimo una variazione soltanto tonale dello stesso a cui però vengono sempre e comunque affidate 2 battute al contrario di quello originale che ne presenta ogni volta di più. La cosa incredibile è che ogni brano ha un assolo. Ora, direte voi “Ma com’è possibile?”. Beh, fate conto che le canzoni durano poco più di 3 minuti, però non so se sia veramente esatto chiamare assoli quelle caotiche cascate di note! Sono così minimalisti, rumoristi, praticamente a 2 – 3 note e neanche così brevi da raggiungere spesso i 15 secondi, che sembrano essere stati suonati persino da Pete Shelley dei Buzzcocks periodo “Spiral Scratch”. Totalmente uguali a sé stessi e pure prevedibili per quanto concerne la loro posizione, visto che nei primi due pezzi vengono sparati prima della seconda apparizione del rallentamento groovy, mentre “Bestial Attack” viene concluso proprio dal…. solismo. Ed il discorso è sempre lo stesso.

Il peggio continua a trionfare in maniera totale e definitiva dal basso e dalla voce. Il primo è praticamente agli ordini della chitarra e alla fine è l’unico strumento penalizzato dalla produzione proprio perché non è stato messo bene in evidenza, nonostante le moltissime produzioni italiane di quel periodo dimostrassero spesso il contrario. La seconda è una specie di grugnito che sbraita ininterrottamente fregandosene altamente sia della costruzione di qualsivoglia tipo di metrica che di qualsiasi variazione che dia un po’ di dinamismo al tutto. E invece no! Ad ogni modo, è proprio la voce ad essere forse l’unico elemento veramente metallico dei primi Angel Death, l’alfiere più intollerante di questa politica repressiva nella quale la musica è come se non contasse niente. Aspetto che accomunava il terzetto rietano al movimento del punk – hc, solo che ne estremizzava a dir poco la povertà musicale e tecnica pretendendo anche assoli che non erano tali.

E qua si potrebbe fare un altro discorso. Infatti, in ogni sito in cui si citano gli Angel Death della loro primissima cassetta, ci si riferisce sempre come se fossero un gruppo black metal. Nonostante ciò, gli elementi che hanno contraddistinto in maniera più precisa questo genere dall’anno 1991 in poi sono praticamente assenti. Va bene, forse sarebbe meglio ragionare attraverso il pensiero dell’epoca, secondo cui bastava dare improperi a Cristo risorto onorando Satana e allo stesso tempo creare un caos sonoro di difficile classificazione per essere etichettati come black metal. In fin dei conti, gli Angel Death possono essere ritenuti come i figli bastardi dei Venom, visto che entrambi si nutrivano di un rock’n’roll così goliardico da farli sembrare un’allegra brigata di sporchi diavoli. D’altro canto, in entrambi i casi, le similitudini con sonorità pre – esistenti (anche perché l’influenza dei primissimi Sodom, eppure più statici dal punto di vista ritmico nonché più metallici degli Angel Death, di questi ultimi è notevole) sono così nette da non permettere l’utilizzo del black metal per descriverli. Ma ciò non toglie assolutamente l’importanza a livello storico degli Angel Death, formatisi persino nello stesso anno dei Necrodeath e allo stesso tempo primo gruppo laziale a terrorizzare la scena metallica estrema del Paese.

E poi, fatemi levare un altro peso! Ho letto da qualche parte che “Death to Christianity” ha una produzione pessima. Che bestemmia ragazzi! Il demo è sì sporco ma ha la classica sporcizia “nera” delle produzioni underground dell’epoca. Scevra di ogni “trucco” effettistico, non è per niente incomprensibile tanto che per fare un esempio il rullante ha un suono indubbiamente più naturale del solito dato che non è assolutamente ovattato come era uso. Alla fine, la produzione si dimostra come l’unico elemento veramente rispettabile anche perché spesso simili opere semi – inclassificabili uscivano in maniera (quasi) inascoltabile.

Voto: 70

Claustrofobia




Scaletta:

1 – Intro/ 2 – Angel of Death/ 3 – Disaster/ 4 – Bestial Attack

Monday, October 24, 2011

Slaughtergrave - "Antifa Psychedelic"

Demo (DeathForce Records, 2011)

Formazione (2002):
Pavel, voce;
Kostas, chitarre;
Spiros, basso;
Dimitris, batteria.

Provenienza: Thessaloniki, Grecia.

Canzone migliore del demo:
a dir la verità citarne una in particolare è praticamente impossibile visto che tra brano e brano le differenze sono spesso enormi, ma se proprio devo farlo preferirei per “Mo – Mo Producer”. Sì, ma perché? Perché è una canzone incredibilmente lenta e, nonostante questo non sia lo standard del gruppo, è stata costruita veramente molto bene e con uno sviluppo anche abbastanza imprevedibile.

Punto di forza del disco:
senz’ombra di dubbio la batteria, che regala a tutto l’insieme un’imprevedibilità pazzesca così da dimostrare un lavoro di rifinitura veramente raro in gruppi del genere.




Curiosità:
Spiros parla italiano! Quindi chi è interessato a comprare roba da ‘sti pazzi greci non avrà problemi di comunicazione anche non sapendo quindi una cippa di inglese.

Dal punto di vista mentale l’Università ti rinforza così tanto da riuscire a leggere e a scrivere anche per 8 ore di fila senza che gli occhi si stanchino veramente. Ecco perché, tra una pausa e l’altra, e dopo aver fatto viaggi da e verso la Sapienza completamente assurdi (sì perché, noi romani, oltre ad avere SOLO 2 linee metropolitane – e Parigi ne ha 14! – abbiamo anche una metro di merda che il 20, giorno in cui è stata scritta la recensione, è stata allagata, con conseguente aria di rivolta per la città….), ho trovato il tempo per recensire questo bel disco. Un “bel disco” che a dir la verità è come un fulmine a ciel sereno visto che gli Slaughtergrave mi hanno colto totalmente di sorpresa, considerando che con lo split recensito qualche settimana fa non hanno quasi niente a che fare. Miracoli dell’Arte!

Infatti, per chiarirvi le idee, preferirei un’analisi attenta dei vari pezzi. Per ora, vi basti sapere che i nostri hanno abbandonato quasi in toto le sonorità precedenti riassumibili in un grindcore punkeggiante e bello groovy. Quindi:

- “Work Slavery”, come indica il titolo, si rifà ad un punk – hardcore di marca classica che però risulta a tratti piuttosto raffinato e tecnico sotto il profilo ritmico, con una prestazione del batterista a dir poco ottima. L’unica anomalia piacevolmente contrastante con la militanza e l’intensità del pezzo deriva nientepopodimeno che dalla voce, ossia un grugnito gutturale che spiega finalmente perché il gruppo ha citato sul proprio MySpace il death metal per quanto riguarda le influenze. La struttura del brano è invece super – essenziali dato che non è altro che un 1 – 2 - 1 – 2 (l’1 è un tempo medio dal sapore più punk) e fine, visto che l’episodio dura un solo minuto. Tale schema si ripeterà più o meno in maniera simile nei successivi pezzi;

- “Mo – Mo Producer” invece dà un senso allo “Psychedelic” utilizzato nel titolo, ed infatti stavolta siamo su binari radicalmente differenti. La musica guardacaso è decisamente metallica e doomeggiante, e alla fine ci si rende conto che tutto il discorso è per la verità sorretto dalle variazioni di una batteria superlativa così da compensare l’aria un po’ psicotica e ripetitiva del riffing. Il quale riffing si risolve inaspettatamente in un assolo con i controcazzi e dalla chiusa in sostanza dal taglio persino blues, enfatizzata notevolmente dagli altri strumenti che si fermano del tutto. In questi stessi strumenti fa bella figura di sé la voce, ancor più cupa e gutturale oltreché urlata come nella più classica alternanza nel death e nel brutal. Da notare infine che “Mo – Mo Producer” dura la bellezza di quasi 4 minuti, contrariamente ai tipici standard dei nostri;

- Infine c’è “Metal Is their Business… and Business Isn't Good”. Il titolo, nonostante sembri cavalcare la vecchia diatribe “metal vs punk – hc” prendendo, come si sa, di petto il primo album dei Megadeth (da me affettuosamente chiamati Merdadeath), rimanda curiosamente ad un pezzo thrashcore con un po’ di epicismo e tupa – tupa con doppia cassa continuamente presente, elementi invece caratterizzanti dello speed metal. Non a caso, anche qui si fa vivo un assolo che come il precedente non conclude soltanto il pezzo m è pure bello lungo e dallo sviluppo sempre ben congegnato. E ancora non a caso la voce è un urlo declamatorio e molto vicino ai dettami thrashcore. Serve altro?

Sì, serve qualche osservazione non di poco conto, a prescindere dal valore qualitativo di tutti e 3 i pezzi, comunque intensi e interessanti come non mai.

Infatti, se nello split gli Slaughtergrave sembravano soffrire di un’omogeneità incredibile eppur efficace, in questo disco peccano esattamente del contrario tanto da indurre l’ascoltatore a pensare di ascoltare ogni volta un gruppo diverso, similmente a quanto accade nelle ultime produzioni di Impaled Bitch (che però sovrabbondano di musicisti sempre diversi). Insomma, nei ragazzi aleggia un po’ di confusione circa la strada musicale da prendere. E’ pur vero però che la formazione, rispetto allo split, è decisamente diversa dato che non solo Spiros e Pavel si sono scambiati i ruoli ma gli altri due membri sono persino nuovi, quindi è inevitabile che lo stile cambi.

Conseguenza di ciò, è anche il tipo di voce utilizzato in “Metal Is their Business… and Business Isn't Good”. E dico questo anche perché sarebbe stato molto interessante usare i grugniti in salsa thrashcore visto che negli altri due pezzi l’esperimento ha funzionato molto bene.

In ogni caso, oltre alla musica in sé stessa, pure la produzione è molto diversa rispetto a quanto sentito nello split. Infatti, pur essendo sporca, è molto più comprensibile e d’impatto. Mi è piaciuto molto il fatto che non sia stata incisa una seconda chitarra, cosa ravvisabile non soltanto dalle frequenze più basse del previsto della chitarra ma anche durante gli assoli, i quali mettono in buon risalto il basso. E’ quindi una produzione quasi da concerto, che rispetta cioè il fatto che il gruppo sia un semplice e classico quartetto.

Voto: 72

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Work Slavery/ 2 – Mo – Mo Producer/ 3 – Metal Is their Business…and Business Is Good

MySpace:
http://www.myspace.com/slaughtergrave

Saturday, October 22, 2011

Hieros Gamos - "The Sounds of Doom (The Ancestral Myths)" (2007)

Demo autoprodotto (2007)
Formazione (2003): Roberto Moro, voce/chitarre/basso/batteria/tastiere

Provenienza: Ittiri (Sassari), Sardegna

Canzone migliore del disco:
sicuramente “The Sound of Doom”, fatalista e profondamente irrazionale ai limiti dell’istintività più pura com’è.

Punto di forza del demo:
senz’ombra di dubbio il settore di chitarre, molto curato, originale e soprattutto quasi “fastidioso” per come è strutturato.

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Nota:


il progetto Hieros Gamos è ritornato finalmente a farsi sentire, dato che proprio da poco è stato pubblicato l'album "Bionic Era of Psychosis", nel quale Roberto Moro è stato aiutato da vari musicisti, come Lord Bahal dei Bahal e Bloody Hansen dell'esperienza horror The Providence.


Mi ricordo che 3 anni fa, prima di recensire il secondo demo di Hieros Gamos, dovetti ascoltarlo più e più volte in modo da comprendere al meglio quest’opera complessa. A dir la verità l’operazione fu sempre un vero dramma, pur riconoscendo all’epoca l’immane originalità di “The Sounds of Doom”, anche se alla fine conclusi che essa veniva filtrata in maniera un po’ senza senso e quindi irrilevante dal punto di vista emotiva. Solo che, a riascoltare questo disco dopo ben 3 anni, l’effetto è stato diverso nonché spiegabile in maniera sicuramente più razionale.

Infatti, ciò che fa il demo un qualcosa di tremendamente migliorabile è da ravvisare in sostanza in due aspetti poco digeribili, ovverosia:

1) la voce, formalmente quasi vicina al cantato schifoso e inquietante dei Vlad Tepes, ma sostanzialmente quasi inespressiva e senza fantasia nella costruzione delle linee vocali, le quali si basano su un discorso spesso dall’andamento spezzettato;

2) la batteria elettronica, soprattutto perché è stata malamente bilanciata rispetto alle chitarre. Ciò significa che la si sente in maniera troppo debole, impedendo di conseguenza di gustarsela fino in fondo. Unitamente a questo, pur riconoscendo il buon lavoro in fase di programmazione, si deve dire che ci si ostina troppo e con poco costrutto sui tom – tom, i quali si ripetono spesso uguali sé stessi nonché attraverso un suono molto fittizio, e quindi veramente poco profondo.

Stringendo, i problemi derivano tutti dalla produzione molto chiusa e cavernosa oltreché basata sostanzialmente sulle chitarre, che alla fine si rivelano come l’aspetto più interessante della proposta, e non soltanto di per sé, come si vedrà fra poco.

Infatti, prima di tutto il riffing è piuttosto tecnico e dinamico, molto lontano dai classici canoni del black metal, e quindi dal punto di vista più strutturale si presenta abbastanza pesante e coraggioso nelle varie soluzioni adottate. Questo anche perché il nostro è riuscito a combinare un’aura mistica e desertica, direttamente proveniente dalla musicalità araba e orientale, con un riffing di tipo più occidentale, creando così un’atmosfera particolare e affascinante.

Nonostante questo riffing quasi trascendentale anche tecnicamente parlando, gli assoli (che possono essere melodici, come nella lunga introduzione di “The Sound of Insanity”) non sono mai e poi mai una vera e propria cascata di note, dato che si preoccupano più di evocare qualcosa, e non sono neanche belli lunghi, visto che si risolvono dopo pochi secondi, ed inoltre in un pezzo come “The Sound of Melancholy” non ve n’è praticamente traccia. A questo punto sono molto curioso di come usciranno i soli ora che c’è in formazione Lord Bahal dei lecchesi Bahal ad occuparsene!

All’epoca criticai la presunta monotonia del riffing. “Presunta” perché, ad analizzare veramente il disco, mi si è palesata una buona caratterizzazione dello stesso da pezzo a pezzo, non solo perché i riffs sono belli fantasiosi ma anche perché ogni episodio risulta atmosfericamente molto diverso dall’altro. Si passa infatti dal sentore di minaccia di “The Sound of Abyss”, il pezzo più cupo del lotto tanto per mettere le cose subito in chiaro, alle melodie da mare in tempesta (enfatizzate per bene da blast – beats finalmente fondamentali ma quasi mai sovrastanti sui tempi medio – lenti, più utilizzati) di “The Sound of Melancholy”, dalle atmosfere a tratti crepuscolari e disperate di “The Sound of Insanity” per finire con l’apocalisse di “The Sound of Doom”, canzone nella quale il discorso solitamente irrazionale di Hieros Gamos viene estremizzato alla massima potenza attraverso un continuo alternarsi fra melodie senza speranza e riffs più oscuri e severi.

Il “discorso irrazionale” citato è effettivamente la millesima caratteristica del progetto che appesantisce tutto l’ascolto, mitigate in parte dal inserto di atmosferiche chitarre acustiche che qui e là fanno capolino, magari integrandosi con tutti gli altri strumenti come in “The Sound of Insanity”. Il discorso generale dei pezzi è infatti sorretto da una struttura imprevedibile e sfuggente come non mai, assolutamente non rispondente ad un tipico schema a strofa – ritornello, e che fa la spia alle interessanti tematiche freudiane del nostro. Una struttura volta quasi a suggerire una sorta di brainstorming che fa cadere l’ascoltatore in un vortice follia perché così facendo niente è più sicuro. Fra l’altro, chissà perché quasi ogni brano si conclude in dissolvenza (da ricordare soprattutto il cupissimo fatalismo di “The Sound of Doom”), ed in effetti forse avrei preferito un approccio più fantasioso durante la fase conclusiva, ma in fin dei conti è pur vero che la struttura – tipo adottata è lontanissima dall’esser semplicistica.

Tale imprevedibilità scatenata inoltre quasi cozza con l’impostazione profondamente minimale eppur evocativa delle tastiere, utilizzate in maniera sì frugale ma saggiamente.

Ultima caratteristica è la tendenza a proporre suggestivi campionamenti ambientali, dei quali degno di una particolare menzione è quello di “The Sound of Insanity”, il quale, oltre a fungere da (lunghissima) introduzione, è pure bello crudo, visto che è sostanzialmente una macchina di tortura in azione. Curiosamente (e a suo tempo l’ho debitamente osservato), è lo stesso identico campionamento, solo accorciato, che i calabresi Land of Hate hanno usato nel pezzo “In the Hands of Destruction” contenuto nel album “Neutralized Existence”.

Voto: 66

Claustrofobia
Scaletta:
1 – The Sound of Abyss/ 2 – The Sound of Melancholy/ 3 – The Sound of Insanity/ 4 – The Sound of Doom

MySpace:
http://www.myspace.com/hierosgamositalia

Tuesday, October 11, 2011

Byblis - "Princeps Malis Generis" (2011)

Album (25 Marzo 2011, Salute Records)
Formazione (2003): Xes, voce
Kosmos Reversum, chitarre;
Mohr, basso;
Midgard, batteria.

Provenienza: Ancona/Torino, Marche/Piemonte

Canzone migliore del disco:
relativamente allo stile, chiamiamolo così, standard, dei Byblis, direi “I’m Back for Blood”, che oltre ad essere abbastanza completo sotto il profilo ritmico (per esempio i blast – beats per un po’ regnano indisturbati) è strutturata anche molto bene (in questo senso, è da menzionare quella pausa inquietante nei minuti finali con tanto di feedback pronto ad esplodere). Per non dimenticare d'altro canto certi riffs meno canonici dal sapore a dir poco estraniante e spaventoso.

Per quanto riguarda invece gli sviluppi futuri, beh, assolutamente la “religiosa” e per certi versi bizzarra canzone seguente, ovvero “Princeps Malis Generis”.

Punto di forza dell’album:
il basso. Senza parole.

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Sarà pure una cazzata la mia convinzione ma non credo che sia sbagliato definire i Byblis come una sorta di copia carbone dei Lilyum periodo “Fear Tension Cold”. Certo, non una copia carbone veramente esatta dato che dalla loro i Byblis hanno delle caratteristiche molto interessanti e che talvolta li elevano pure dalla massa ma per dare un quadro chiaro della situazione mi sembra più che giusto elencare uno per uno gli aspetti musicali che legano (a parte alcuni membri della formazione) i Byblis con i Lilyum, partendo da quello superficiale a quello più profondo. Ovverosia:

1) l’estrema linearità del lavoro di batteria, molto attenta a creare ritmi spesso essenziali anche se per fortuna il batterista è in carne e ossa, e quindi il tipo di produzione tiene bene in conto la sua prestazione;

2) il riffing glaciale e apocalittico. In molti casi si rivela addirittura molto più minimalista di quello dei Lilyum, anche perché spesso e volentieri è praticamente uguale a sé stesso per parecchio tempo, senza nessuna reale variazione. Il problema di quest’operazione è che il riffing appare abbastanza limitato e ripetitivo (almeno ciò avviene nelle prime 4 canzoni). Inoltre, molto marcata e netta è in certi momenti la derivazione rock’n’roll, solo che in questo caso tale caratteristica viene espressa solitamente attraverso robusti tempi medio – lenti;

3) l’uso della chitarra solista, che in molte occasioni non fa altro che seguire paro paro ciò che fa la ritmica, limitandosi così a rendere semplicemente più acuto il riff di base;

4) la struttura delle canzoni che, oltre a essere spesso belle ossessive e pur non raggiungendo le vette di robotica sequenzialità dei Lilyum (il discorso infatti è nonostante tutto un po’ più dinamico, e non solo per questo, come si vedrà del resto), non conosce pause né stacchi, roba rara e quindi preziosa per entrambi i gruppi.

Ora diamo voce alle differenze:

1) il cantato di Xes, lontanissimo dallo stile assurdista di Lord J.H. Psycho e quindi molto più tradizionale rispetto al suo collega, pur facendo presente che anche Xes ha un’importanza a dir poco centrale nel discorso. Inoltre, sa essere sufficientemente vario (sentitevi ad esempio “I’m Back for Blood” ), sapendo quindi anche andare oltre il suo cantato gutturale (le sue urla standard infatti non sono da definirsi esattamente tali), magari con qualche sovraincisione sofferente o persino attraverso una voce pulita e ritualistica (“Princeps Malis Generis”). Il bello è che Xes è da qualche mese il cantante ufficiale dei Lilyum…

2) la melodia, presente specialmente nella stessa “Princeps Malis Generis” e in “The Horizon is Black” (quest’ultima in certi momenti è praticamente disperata), le quali infatti sono alcuni degli episodi migliori, anche perché è proprio qui che la chitarra solista è veramente tale, esplodendo nel finale del secondo pezzo citato. Ragion per cui consiglio al gruppo di continuare proprio su questa strada, dato inoltre l’uso a tratti particolare della solista;

3) il lavoro di batteria nel suo complesso, vuoi perché i Byblis prediligono più che altro i tempi medio – lenti, vuoi perché la prestazione è decisamente meno statica e quindi più imprevedibile. Tale considerazione va fatta anche perché in alcuni casi è proprio la batteria che dinamicizza tutto il discorso, solo in apparenza immobile, tramite delle variazioni che possono (“possono” raramente a dire il vero) essere pure incredibilmente raffinate. I tempi veloci sono spesso rappresentati da tupa – tupa raggelanti molto simili a quanto propongo io nel mio progetto black metal Il Banco della Nebbia (quando si dice la modestia…), mentre per chi vuole i blast – beats è meglio cambiare aria perché sono un filino meno frequenti degli stessi tupa – tupa;

4) e qui veniamo al piatto forte dell’intera proposta, il quale è nientepopodimeno che il basso, che in un gruppo del genere non ho mai sentito così centrale. Infatti, spesso e volentieri il riffing della chitarra è talmente ridotto all’osso che il ruolo melodico viene assunto praticamente dal basso, il cui lavoro però non viene premiato del tutto da una produzione troppo fondata sulle chitarre (altra similitudine con i Lilyum), perciò consiglio agli interessati di ascoltare il disco in cuffia. Ma almeno si conferma per l’ennesima volta l’importanza capitale del basso nel black metal.

Aggiungete a tutte queste caratteristiche la tendenza a comporre brani dalla durata non indifferente (non si scende mai e poi mai sotto i 4 minuti e 50 secondi di “Die in Pain”, raggiungendo il climax di 10 minuti nella canzone finale, “Soul of Wolf and Raven”), cosa abbastanza pesante da “sopportare” se la struttura delle canzoni è quasi senza pause; e i momenti ambientali, che quando presenti fungono da introduzione o outro delle canzoni fino ad avere un pezzo tutto proprio rappresentato dai 2 minuti di “Circles”.

L’ultimo discorso spetta a “Soul of Wolf and Raven”, che i Byblis hanno voluto mettere come episodio finale, probabilmente per la sua natura soffocante e senza scampo. Infatti, questo pezzo è l’unico che rispetta (quasi) in toto le direttive strutturali dei Lilyum, presentando così una sequenza a dir poco lunghissima (che però si “libera”, seppur leggermente, durante il finale), anche se semplicissima, che fra l’altro è tutta fondata sui tempi medi e su un lavoro di chitarre oserei dire da “botta e risposta” (per esempio, la solista e la ritmica si scambiano continuamente i ruoli nel ripetere in maniera ossessiva e fluida una sola solitaria nota). Infine, anche qui c’è più melodia del previsto, quasi a voler ribadire ancora una volta la divisione dell’album in 2 parti ben distinte, sia dal punto di vista atmosferico che, in misura minore, da quello ritmico.

In ogni caso, bisognerebbe allontanarsi dallo spettro dei Lilyum, più che altro perché odio ascoltare un artista (per gli “ignoranti”, sto parlando di Kosmos Reversum) che si “strozza” suonando quasi ("quasi" anche perchè qui e là si sente che il nostro ha cercato di sperimentare un po' di più con le chitarre producendo così effetti inusuali. A questo punto sarebbe interessante affinare ancor meglio tale caratteristica) le stesse medesime cose in due gruppi che dovrebbero assolutamente essere differenti fra loro. Dai che la strada per farlo, come si è visto, c’è eccome!

Voto: 73

Claustrofobia
Scaletta:
1 – In Blood/ 2 – Die in Pain/ 3 – Succubus/ 4 – Desolation/ 5 – I’m Back for Blood/ 6 – Princeps Malis Generis/ 7 – Circles/ 8 – The Horizon is Black/ 9 – Soul of Wolf and Raven

MySpace:
http://www.myspace.com/byblis

Sito ufficiale:
http://byblis.altervista.org/

Friday, October 7, 2011

The Providence - "Horror Music Made in Hell" (2011)

Album (Audio Ferox, Maggio 2011)

Formazione (2008):
Bloody Hansen, voce, chitarre, basso, drum – machine, tastiere, effetti vari.

Provenienza: Siligo (Sassari), Sardegna

Canzone migliore dell’album:
sicuramente “Rosemary”, e per sapere perché leggetevi tranquillamente la rece.

Punto di forza del disco:
il fatto di essere concepito come un film, e di conseguenza la struttura molto particolare delle canzoni.

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Mai nome è stato più azzeccato di The Providence. Infatti, contestualizzandolo con l’immaginario horror di questo progetto sardo, grazie al nome si può risalire al memorabile scrittore H.P. Lovecraft, colui che dalla ridente cittadina di Providence appunto riuscì a rivoluzionare per sempre la narrativa horror, creando fra l’altro una specie di mitologia mostruosa a cui si ispirano ancora adesso vari artisti delle più differenti estrazioni. Solo che, nonostante questo tipo di ispirazione, The Providence (che più precisamente ha preso il nome ispirandosi al film “Danza Macabra” di Antonio Margheriti, film girato nel 1964) ha veramente poco a che fare con il metal, pur ben sapendo che Bloody Hansen è un nome non nuovo nel nostro ambiente dato che, per dirne una, ha curato l’outro del validissimo “Etrom” dei calabresi Carnal Gore. Sì, perché la musica quivi presentata è un altro di quegli esperimenti che ormai stanno dominando le pagine di Timpani allo Spiedo, e devo fin da subito dire che presenta delle caratteristiche indubbiamente molto interessanti.

Infatti, prima di tutto, vi è un così profondo amore per la cinematografia horror che praticamente in ogni pezzo (da notare che in tutto sono 13, numero porta(s)fortuna nei paesi anglosassoni) vi sono degli spezzoni tratti da vari film del genere, fortunatamente anche in italiano nonostante i titoli sempre e solo anglofoni delle canzoni, riuscendo così a rendere sicuramente più atmosferico tutto l’insieme.

Questo aspetto si lega coerentemente con la natura spesso melodica eppur non poche volte lugubre della musica, anche quando diventa più tradizionalmente rock, dato che così facendo si entra in pratica nel punto di vista delle vittime dei film horror, rendendo di conseguenza palpabile la loro disperazione. Ed in questi casi, la melodia diventa veramente avvolgente non soltanto per la mole degli strumenti presenti ma anche perché è stato fatto un lavoro certosino sulle due chitarre, seppur l’assolo vero e proprio non sia una parte importante del progetto (l’unico si fa vivo in “Don’t Go to Town”).

Altra caratteristica importante di The Providence è l’ossessività a volte paranoica che anima la musica. E’ quel tipo di ossessività che rende del tutto inconcludenti le varie canzoni, e attenzione che questa non è una critica negativa bensì positiva. Ciò perché è come se l’album fosse stato concepito come un film, nel quale la ripetizione morbosa degli omicidi, dei dettagli raccapriccianti, rimanda sempre al finale, pregno di tutti i significati precedenti solo intensificati per l’occasione. Ed in questo film, il Bene è sempre destinato a morire, perché incapace di risolvere, di comprendere il Male, storicamente quasi sempre vincitore (ragion per cui è il Male che è banale, non il Bene, come si dice spesso).

Certo, quest’ossessività (che comunque spesso implica incredibilmente pezzi da 2 – 3 minuti) ha anche i suoi risvolti negativi. Infatti, il lavoro della batteria elettronica, pur essendo in certi punti molto interessante, risulta a volte un po’ troppo statica, incapace di enfatizzare per quel poco di più tutta l’atmosfera. Solo in pezzi come “Slasher” si mostra più dinamica del solito, e peccato perché così facendo avrebbe reso tutto più imprevedibile proprio com’è il Male.

L’ossessività si riflette inoltre anche nel cantato, spesso molto vicino alle urla black metal. Sì perché, in quelle poche canzoni in cui si presenta (la semi – blackeggiante “Tall Man” e “Slasher”), esso risulta praticamente ancorato a quelle 2 parolette, preferendo quindi un lavoro essenziale nel quale l’essere umano è strozzato dal Male che lo circonda. Però sarebbe stato interessante usarla di più, dato che gli esperimenti funzionano e non poco. (ricordo che The Providence è un progetto quasi esclusivamente strumentale).

La musica del nostro però si avvale anche di passaggi più ambientali nei quali le tastiere assumono un ruolo primario, seppur non manchino soluzioni ancora più anomale e d’effetto, come la voce di un bimbo piccolo piccolo la cui gioia diventa pressoché inquietante (“Coming You”). Curioso constatare inoltre come alcuni momenti ambient, magari apparentemente più sereni, mi abbiano ricordato le colonne sonore di alcuni videogiochi, anche in formato flash (i primi che mi vengono in mente sono il complicatissimo The Umbrella Adventure e il nostalgico Symon). Da ciò si può intuire il lavoro di fino di Bloody Hansen per rendere mai ripetitiva la propria creatura.

E’ stato inoltre abbastanza intelligente la scelta di dare una parvenza più epica e pericolosa all’ultimo pezzo, “Rosemary”, che infatti è l’episodio più lungo di tutto il lotto, visto che dura la bellezza di 10 minuti. Certo, la canzone a volte pecca di prolissità gravando quindi sull’emotività, ma è anche vero che non si può avere tutto dalla vita (a dire il vero quasi niente ma questo è un altro conto...) e soprattutto gestire canzoni di una durata simile non è mai e poi mai semplice.

Voto: 74

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Coming You/ 2 – Tarot for the People Train/ 3 – Interlude for the Dead/ 4 – Take a Look Through the Hills/ 5 – Never Sleep Again/ 6 – Tall Man/ 7 – Everything Comes the Blind/ 8 – Slasher/ 9 – We Eat You At Midnight/ 10 – Cursed/ 11 – Death Bag/ 12 – Don’t Go to Town/ 13 – Rosemary

MySpace:
http://www.myspace.com/horrorprovidence

Tuesday, October 4, 2011

"Rejekts/Slaughtergrave/Tuco 3 way split" (2011)

Demo split autoprodotto (2011)
Formazioni:
Rejekts (2007): Black, voce;
Dave, chitarra e voce;
Joe, chitarra;
Pacho, basso;
Pio, batteria (sostituito giusto un mese fa da Sean).

Slaughtergrave (2001): Spiros, voce, effetti rumoristici;
Telis (Fast Clark), chitarra;
Pavel, basso;
Jim (Mallias), batteria.

Tuco (2008): Damiano, voce e batteria;
Pierpo, chitarra;
Robi, basso e voce.

Provenienza:
Rejekts: Saronno/Garbagnate, Lombardia.

Slaughtergrave: Thessaloniki (Grecia).

Tuco: Cagliari/Iglesias, Sardegna.

Canzoni migliori del disco:
dei Rejekts fra tutte preferisco sicuramente “Nihilius”, che è così imprevedibile dal punto di vista ritmico da compensare la staticità del riffing. Mi mancherà Pio, ed in effetti sarei curioso di testare lo stile del nuovo batterista;

degli Slaughtergrave indubbiamente “Bastardi, Assassini, Criminali” (sì, il titolo è proprio così!) dato che riesce a combinare una parte punk che fa ballare tremendamente il culo con un semplicissimo assalto grindcore condito come sempre dallo sbraitare di Spiros;

infine, “Tucollapse” è a mio avviso il miglior brano dei Tuco, dato che è un qualcosa di anomalo per un gruppo del genere. Anomalo sì ma perfettamente gestito e comunque lo stile dei Tuco è sempre ben riconoscibile.

Punti di forza dello split:
non ho voglia di ripetermi, e quindi per quanto riguarda i Rejekts scelgo la prestazione bella tecnica e varia del batterista, che lascia il gruppo con un più che ottimo biglietto d’addio;

degli Slaughtergrave mi piace invece da matti quelle montagne di groove che spesso sciorinano con tutta tranquillità;

ed invece i Tuco si fanno riconoscere per un riffing strambissimo, e che consiglio di sfruttare in maniera migliore nei prossimi dischi.





Nota:



oggi mi sento fin troppo buono. Ricordo infatti che 1) Robi dei Tuco sta cercando un chitarrista e batterista nuovi (quindi chi è interessato si sbrighi a contattarlo) e 2) lo stesso Robi porta avanti un'interessantissima distro chiamata SickPunx (fra l'altro vende "Morte Chimica" dei bresciani Cilicium... yam yam!). Dai che il contatto MySpace ce l'avete!



Proprio in uno dei periodi più angoscianti della mia esistenza (il 10 Ottobre dovrò per la seconda volta fare un noiosissimo esame di guida per una patente che userò sì e no ogni morte di papa; inoltre da domani dovrò sudare quintalate di camicie per ottenere la laurea alla Facoltà di Filosofia della Sapienza con l’unico vantaggio rappresentato dall’essere circondato da una caterva di esponenti del gentil sesso iscritte all’Università) mi è arrivato un succoso split fra 3 branchi di pazzi, utile a rincuorarmi un po’ anche grazie a delle trovate favolose le quali, è bene dirlo fin da subito, sono tutte circoscritte nell’irriverente calderone del grindcore.

REJEKTS.

Dei Rejekts dovreste già sapere qualcosa visto che qualche mese fa di loro ho recensito il bellissimo ep “Nessuno”. In ogni caso, basti sapere che ‘sti lombardi suonano un grindegore di base che però si sposa spesso e volentieri con sonorità black/death metal, ragion per cui la musica solitamente è bella cupa. E soprattutto, da loro ci si può aspettare “solo” assalti fantasiosi e mai e poi mai ripetitivi. E’ però un peccato che a distanza di circa un anno da “Nessuno” ci siano solo due inediti (le altre due sono direttamente prese dal disco succitato, quindi non sono ri – registrazioni) nello split, pur essendo questi molto interessanti e promettenti. Ciò perché i nostri sembrano aver meglio definito la propria proposta rendendola al contempo più ossessiva nel riffing (capace però di certe finezze come la chitarra solista in “Sguardo a Ponente”), ma più tecnica ed imprevedibile sotto il profilo ritmico.

Si avverte un bel cambiamento anche per quanto riguarda la produzione, più “viva” ma “caciarona”, seppur rimanga curiosamente intatta la non facile intelligibilità delle parole sfornate dalle urla indiavolate di Black.

SLAUGHTERGRAVE.

Questi, a parte la derivazione grindcore della loro musica, possono essere tranquillamente definiti come il pesce fuor d’acqua del disco, e ciò per diverse considerazioni (escludendo quella ovvia inerente la nazionalità):

1) sono quelli sicuramente meno dotati di inventiva, anche perché, pur essendo divertenti da ascoltare, presentano qua e là qualche pesante deja – vù (per esempio, “Mouvottava” e la canzone successiva in certi punti si somigliano troppo);

2) il loro approccio al grindcore è semplicissimo, anche perché rifiutano qualsiasi influenza proveniente dal metal preferendo di conseguenza un approccio più punk’n’roll e grooveggiante (sì, nonostante tutto non sono fissati con i blast – beats). Inoltre dal punto di vista strutturale sono pressoché paranoici, dato che spesso una stessa soluzione se la portano appresso più del previsto;

3) sono gli unici ad aver proposto un pezzo anomalo sotto tutti i punti di vista e che farebbe invidia ad Andrea Lisi ed i suoi Mass Obliteration. Sto parlando di “46 Shits For Your White Pride”, pseudo – canzone geniale priva di qualsivoglia ritmo e melodia dall’”andamento” continuamente spezzettato consistente fra l’altro di minime variazioni che stranamente dicono più di mille parole. Urge segnalare che un delirio di tal fatta è incredibilmente l’episodio più lungo di tutto il lotto (sapete sorbirvi ben 3 minuti e 36 secondi di questa cosa senza imprecare?);

4) il tipo di produzione, mega – sporca e disturbata, molto vicina a quella del grandioso demo “Necromancy” dei Mortuary Drape, con l’unica sostanziale differenza che con gli Slaughtergrave ogni strumento è al suo posto, ossia nessuno seppellisce l’altro. Bisogna avere dei bei timpani allenati per ascoltare ‘sto gruppo, ma ben venga così, visto che così facendo si riesce bene a trasmettere la corruzione e la malattia della società moderna.

TUCO.
Per certi versi questi sardi (che prendono il nome da quel Tuco Ramirez impersonato dal grande Eli Wallach ne "Il Buono, il Brutto e il Cattivo". EVVIVA! IO CI SGUAZZO NEGLI SPAGHETTI WESTERN!) sono quelli che mi hanno impressionato di più, se solo lasciassero da parte quelle schegge impazzite da 5 secondi tutte uguali a sé stesse, influsso del grindcore più puro.

In sostanza i Tuco suonano un punk – hardcore spesso bello grooveggiante ma schizzato con influssi provenienti dal grindcore e in misura decisamente minore dal metal. Oltre a tutto questo offrono una caratteristica del tutto gradita che purtroppo viene sfruttata soltanto in “Tucollapse” (pezzo per la maggiore incredibilmente lento e tutto costruito attraverso un rallentamento progressivo) e “From the South I Cum Your Mouth”: la bizzarrìa del riffing, a volte così spaventosamente dissonante e malato da sembrare completamente alieno.

Quest’alienazione viene enfatizzata fra l’altro dal comparto vocale, nel quale trovano posto 2 tipi di voce: la prima, quella più frequente, è una voce sgraziatissima tipicamente hardcore, mentre l’altra mi ha ricordato nientepopodimeno che Serj Tankian dei primissimi System of a Down (avete presente quella specie di inquietante “soffio gutturale” che si sente particolarmente nell’album omonimo del 1998?), utilizzato in maniera sì limitata ma in perfetta simbiosi con tutto il resto.

Di tutti i gruppi però quelli che mi sono garbati di più sono i Rejekts, vuoi perché presentano una completezza ed una voglia di osare rare nel grindecore, vuoi perché dal punto di vista strettamente qualitativo non presentano veri e propri punti da limare.

I quali, escludendo quelli già espressi dei Tuco, riguardano specialmente gli Slaughtergrave perché, oltre al fatto di essere ripetitivi (ma è anche vero che è impossibile giudicare un gruppo attraverso soli 3 pezzi per altrettanti minuti), sono un po’ meccanici nella costruzione dei brani, soprattutto perché, passati almeno 20 secondi, uno stacco di chitarra è praticamente inevitabile in ogni loro canzone.

Claustrofobia

Voto Rejekts: 76

Voto Slaughtergrave: 65

Voto Tuco: 70

Scaletta:

Rejekts: 1 – L’Odio Che Hai Dentro/ 2 – Sguardo a Ponente/ 3 – Fango/ 4 – Nihilius

Slaughtergrave: 5 – Mouvottava/ 6 - ? (titolo in greco)/ 7 – Bastardi, Assassini, Criminali/ 8 – 46 Shits For Your White Pride

Tuco: 9 – Politiclash Blowjob + Politicrass Blowjob/ 10 – Annal Cunt/ 11 – Broken Feet/ 12 – 4A/ 13 – Dany Speppard Crew/ 14 – Extremismo Alcolico/ 15 – Tucollapse/ 16 – From the South I Cum Your Mouth

MySpace:

Rejekts: http://www.myspace.com/rejektshc

Slaughtergrave : http://www.myspace.com/slaughtergrave

Tuco: http://www.myspace.com/tucogrindcore