Thursday, October 7, 2010

Whiskey & Funeral - "The Arrive of Chaos" (2009)

1. INTRODUZIONE.
Lo so che questa potrebbe sembrare un’introduzione idiota, ma per uno strano caso del destino ultimamente mi stanno capitando con una buona frequenza dei gruppi composti anche da fratelli. Prima gli ottimi Ghouls, adesso i Whiskey & Funeral. E l’altra bizzarria è che entrambi provengono dalla città del Colosseo, nonostante gli ultimi fratelli arrivati, i Montagna (mai cognome fu più azzeccato di questo per fare una musica del genere), proprio dal cognome mi hanno sempre fatto pensare ad ascendenze nordiste, e l’ennesima cazzata interessante (che bello prendersi per il culo!) è che uno di loro, nella foto contenuta nella scheda su Metal-Archives, porta persino una maglietta con il logo anni ’90 degli Atlanta Hawks, squadra NBA che dopo tanto tempo ha rimesso piede nei quartieri alti della Lega. “Insomma, sono finite le ciance?”. Quanta fretta, ragazzi, rilassatevi che il meglio deve ancora iniziare.

2. PRESENTAZIONE ALBUM.

I Whiskey & Funeral sono un quartetto nato ben 5 anni fa e composto attualmente da Fulvio Icb voce, Stefano Montagna chitarre, Francesco Andrei basso (militante fra l’altro negli Ebola) e Maurizio Montagna batteria (in passato anche nei VII Arcano), “The Arrive of Chaos” è la loro primissima testimonianza discografica e questa è addirittura rappresentata da un album vero e proprio, il quale è stato pubblicato presso la M.A. Production nell’A.D. 2009. L’opera è composta da 9 pezzi per un totale di circa 35 minuti, e dimostrano pure con la cosa più importante un coraggio veramente apprezzabile offrendo una musica che può piacere secondo me a chi cerca una buona dose di tecnica e complessità mischiata ad una violenza che, se non esattamente paurosa, fa ottimamente il suo dovere. E qua potrei ribattere la definizione musicale data dal gruppo sul proprio MySpace, visto che si parla di “black/death bestiale”, considerazione a mio parere rivedibile essenzialmente per due motivi: 1) il black/death c’è sicuramente, ma anche il thrash ha la sua fetta bella grossa, e fra l’altro il tutto viene espresso probabilmente presentando meno melodia rispetto ai terribili (in positivo) Aposthate; 2) il suono offerto dai miei conterranei non mi pare precisamente bestiale perché, se lo si paragona con il “rumore” vomitato da gruppi ben più tradizionalisti e classici come Deiphago o Bestial Warlust, allora credo che la definizione dai nostri usata non sia veramente esatta, ma di certo ci sono degli aspetti interessanti che estremizzano la proposta dei Whiskey & Funeral e che quindi ne fanno un qualcosa di poco raccomandabile. Ma andando più nel dettaglio, il black/death/thrash di questi ragazzi si snoda vario e fantasioso, tecnicamente notevole però senza esagerare (qua secondo me si è un pochino meno diretti di quanto succeda negli Aposthate) e dal punto di vista strutturale, sia prendendo singolarmente le varie soluzione musicali che le canzoni in toto, siamo a livelli che potrebbero far impazzire chi è avulso a simili sonorità contenenti una certa complessità, come si vedrà tra poco. Inoltre, se non erro il tutto viene suonato ponendo l’accento su un approccio moderno che solo rare volte concede qualcosa alla vecchia scuola dell’estremo.

Per quanto concerne la produzione, a mio parere bisogna dire che prima di tutto essa pare piuttosto lontana dagli stilemi moderni, dato che in pratica essa è stata impostata persino sulle frequenze più basse, ergo per ascoltare “The Arrive of Chaos” è necessario alzare un pochino più del solito il volume dello stereo (almeno per ascoltatori come me), cosa che apprezzo particolarmente perché i nostri in tal modo son riusciti a non nascondersi dietro una produzione bella compatta e d’impatto, di quelle che insomma vanno per la maggiore oggigiorno, utilizzando così solo la propria qualità strettamente musicale anche perché a tal proposito l’album presenta una particolarità decisamente azzeccata di cui però parlerò nel prossimo paragrafo. Le sonorità si esprimono comunque in maniera sporca ma non poi così tanto, ed inoltre mi pare veramente buono il bilanciamento fra i vari strumenti, capace di far risaltare per bene ogni cosa, seppur qualche “pecca” per me non manchi (e pure qui dovrete aspettare un po’ di tempo).



3. ANALISI STRUMENTI.

La voce di Fulvio è una delle caratteristiche forse più anomale dei Whiskey & Funeral, visto che a parer mio si avvicina molto ai territori del metalcore, specialmente di quello più roccioso ma che comunque in un contesto del genere fa la sua bella figura, considerando che dona un taglio abbastanza militante e battagliero a tutto l’insieme mantenendosi quindi coerente con le tematiche – se non sbaglio talvolta sociali – quivi proposte. In pratica, i vocalizzi principali sono delle urla sì di stampo metalcore ma meno rauche del solito, quindi quasi soffocate come a voler dare l’impressione di un’umanità strozzata da una vita troppo pesante quale è quella imposta dalla cieca società, però nonostante tutto il taglio mi pare decisamente fiero. Se ciò non bastasse il nostro fa ampio uso delle sovraincisioni, creando così un vortice vocale quasi senza fine, come a rappresentare un’umanità che si alza in coro urlando al mondo tutto il proprio dolore, e talvolta (e quindi in maniera decisamente meno frequente) viene usato un azzeccato effetto lontananza (l’umanità sotterrata?) e, però solo in “Seaclows”, anche l’effetto d’eco, utilizzato tra l’altro con un bel ritardo. A dire il vero, lo stile vocale di Fulvio non si presenta poi così fantasioso anche se è capace di cambiare in qualche occasione il tono alle proprie urla, magari alzandole per farle divenire “fastidiosamente grattate” più del solito, oppure abbassandole in modo da rendere un pochino più greve il proprio discorso. Cambiamenti vocali più sostanziosi si trovano nella sola “Flesh (Society)”, che è tra l’altro il brano centrale dell’album, visto che segue e precede 4 canzoni. In esso si fanno comunque vivi per la prima ed unica volta dei grugniti a mio avviso non particolarmente profondi e “cattivoni”, ergo poco intensi ma ad ogni modo secondo me in linea con la voce principale, più che altro perché di conseguenza non sono veramente rauchi, diversamente da altri gruppi che suonano una musica simile. Inoltre, sempre nello stesso episodio, ci sono pure delle azzeccate (considerando il titolo del brano) voci strozzate che definirei effettivamente da manicomio, donando così più follia a tutto l’insieme. Veramente buone le linee vocali, le quali si sposano a mio parere piuttosto bene con la fierezza di Fulvio.

Parlando invece del settore chitarre, mi pare decisamente interessante il suono che esse possiedono. Sì, perché (spero di non dire una cazzata) è particolare l’atmosfera che conferiscono alla musica intera, un’atmosfera cupa e “chiusa” (e le frequenze basse qui non c’entrano assolutamente niente, visto che anche l’ultima opera degli Aposthate è basata un po’ sulle stesse, pur offrendo un risultato diametralmente opposto) che finora ho sentito in pochissimi dischi, dato che è come se le asce fossero come soffocate (ed attenzione, non mi sto riferendo ad una produzione simil-primi Land of Hate o a certi dischi sporchissimi che io mastico ogni giorno). Ed il bello è che una simile caratteristica la trovo veramente funzionale alle tematiche proposte, anche se forse rende decisamente meno digeribile l’offerta musicale del quartetto dato che il popolo metallico è ormai fin troppo abituato alle produzioni pulite e senza nessuna pecca (almeno formale). A ciò si aggiunge un’altra particolarità, che l’ho riscontrata come abbastanza rara da trovare nel regno del black/death/thrash, ma che ve la segnalerò fra poco.
Per il resto, il lavoro di chitarra di Stefano forse risulta meno diretto e d’impatto di quello di P.A. Midgard, voce/chitarra degli Aposthate, pur presentando una notevole varietà e fantasia, le quali credo siano minori rispetto all’esempio di quest’ultimo gruppo. Ma ciò non è un problema. Il taglio del riffing è comunque solitamente piuttosto dinamico senza però esagerare con il gesto tecnico, ed inoltre viene data poca importanza alla melodia, contrariamente al terzetto siciliano sopraccitato. In tal modo, è come se i nostri avessero voluto sparare senza pietà all’ascoltatore completamente il lato marcio della società, eliminando quindi ogni sentimento di tristezza o di disperazione preferendo guardare altresì in faccia il pericolo con fiera sfrontatezza. Ed infatti, di riffs anche con una misera traccia di melodia ce ne sono veramente pochi, come per esempio il black disperato di “Flesh (Society)”, oppure il simil-thrash di impronta sudista (oddio…) e quasi divertito di “Technical” presente sia nell’introduzione che nei momenti finali del pezzo. E’ quindi un tipo di approccio che secondo me si ricollega pienamente con la tipologia di produzione scelta, “pesando” ulteriormente come un macigno immenso. Da queste parti il black, il death ed il thrash sono ripartiti spesso e volentieri con un buon equilibrio riuscendo così ad “accontentare” (brutta parola riferita alla nostra cara musica ragazzi!) un po’ tutti, e tra l’altro i riffs sono veramente così tanti che un recensore rompiballe come me ha l’imbarazzo della scelta. A tal proposito, per quanto riguarda il black, come non citare i ricami più dilatati del solito e come evocativi e misteriosi di “Technical”, oppure le selvagge scampagnate vecchia scuola della bellissima strumentale “The Seven Doors’ House” che potrebbero sicuramente piacere a chi si ciba continuamente del black/thrash più marcio e genuino, od anche il più puramente black raggelante di “Norimberga” (non a caso, vista la storia che sta dietro al Processo del Secolo), od ancora la malvagità con tanto di tapping incorporato (soluzione che considererei abbastanza originale) di “Seaclows”? Nonostante nel black le influenze vecchia scuola mi pare si facciano sentire con una buona frequenza, con il death metal il discorso cambia non poco, ed infatti in tal senso ho riscontrato qualcosa nella sola “The Seven Doors’ House” (brano completo come pochi), fra l’altro sciorinando una cupezza disarmante. Per il resto, comandano le sonorità nuovo stampo, come nelle ingannevoli tessiture di “Whiskey & Funeral” (“ingannevoli” perché in teoria il riff interessato dovrebbe esprimersi attraverso 4 classiche battute, ma passate le prime due si suonano se non sbaglio le stesse note dilatando però quasi impercettibilmente il discorso dimostrando così, se mai ce ne fosse ancora bisogno, una creatività notevole), nelle melodie in un certo senso contorte ed incentrate principalmente sulle note più acute di “Technical”, oppure nelle forme più dirette, “semplici” e più grevi di “Seaclows” (il riffing d’apertura è esemplificativo a tal proposito). Ed il thrash viene qui espresso in una forma piuttosto violenta, e quindi non aspettatevi neanche un grammo (beh oddio, non esageriamo dai) di melodia, ma tra alcune schitarrate a mio parere rimarchevoli fanno veramente una bella figura per esempio il mosh di “Morbid”, utile a far imbastire il circo dell’headbanging più sfrenato, oppure il thrash impasticcato da una dose contagiosa di hardcore sia su tempi medi grooveggianti che veloci (ed in quest’ultimo caso nella parte finale il riff viene pure “fastidiosamente grattato” con fare un po’ folle) di “Before the Last Silence”, od ancora le inflessioni “birraiole” e più minimaliste di “The Seven Doors’ House” (onnipresente cazzo ‘sta canzone!). Ma in tutto questo marasma di note sempre diverse fanno capolino anche quelle inedite (per tutti gli altri episodi dell’album) della stessa “The Seven Doors’ House”, che addirittura sputa dei veri e propri riffs angosciosamente doom, per non parlare invece delle tessiture maledettamente e paurosamente contorte e dal sapore quasi ipnotico anch’esse contenute in tale brano. Interessante notare inoltre che, rispetto agli Aposthate, i Whiskey and Funeral non fanno uso di schitarrate dal piglio roccioso (come nel momento molto metalcore di “Before the Last Silence”), ergo l’andamento del riffing da queste parti procede effettivamente con maggior dinamicità, anche se mi pare piuttosto diverso il discorso della chitarra solista, che a dire il vero il gruppo romano non usa poi così frequentemente tant’è vero che è assente sia nella ormai famosa strumentale che, almeno apparentemente, in “Morbid” (“apparentemente” perchè qui ad un certo punto ci sono dei brevissimi interventi), anche se bisogna dire che, specialmente in “Technical” (brano esemplare in tal senso), la solista viene usata in non poche occasioni per creare dei motivi diversi dalla sua compagna, in modo da arricchire brillantemente il suono. Ma è da rimarcare soprattutto la più totale assenza degli assoli, tipica caratteristica del metal estremo più moderno, e che probabilmente avrebbero dato più aria al tutto, sia considerando la loro sonorità decisamente più cristallina e quindi filosoficamente più rassicurante, ma anche perché avrebbero donato più dinamicità date alcune scorribande in certo qual modo statiche che si possono trovare qui e là nella musica del quartetto. Invece si è preferito soffocare l’ascoltatore preferendo un approccio probabilmente più duro prediligendo un riffing (per sua natura più “statico” di un solismo) che sa essere sia complesso ma anche tremendamente (oddio, non esageriamo pure adesso) ripetitivo e “snervante”, come se si volesse far pesare la rabbia delle masse più che l’atto di un singolo individuo.
Passiamo ora al basso, sempre puntuale e bello greve, anche se non esattamente “ignorante”. Se non erro, in sostanza è lo strumento meno importante di tutti, nel senso che pure qui risulta decisamente vincolato a ciò che suonano le chitarre, anche se non mancano degli interventi interessanti che non lo fanno ridurre ad un “semplice” ruolo inerente la profondità del suono. In tal modo, mi è in aiuto per esempio il breve stacco in solitario di “Norimberga”, oppure le scorribande di “Whiskey & Funeral” e che fanno parte di una soluzione abbastanza particolare, “giocosa” oserei definirla, visto che è formata da due parti, l’una collettiva, l’altra un “solo” isterico di basso, che comunque ripete lo stesso motivo di chitarra precedente. E non bisogna dimenticare neanche il lancinante e minuscolo stacco, fatto insieme con i tom-tom della batteria, in “Morbid”, ed il “duetto”, sempre con la stessa compagna, nell’hardcoreggiante “Before the Last Silence”. Devo dire che insomma il basso, nonostante non sia per niente “virtuoso” nel senso che è completamente esente dalla costruzione di diverse linee come avviene invece in gruppi come i Sacradis od i Ghouls, viene usato con una buona fantasia, e quindi non solo, come è d’uso, negli stacchi, così da dare non soltanto maggior interesse e curiosità all’ascoltatore, ma anche maggior atmosfera come succede proprio nel “duetto” citato in precedenza, utile a regalare a tutto l’insieme un’attesa che sa di minaccioso.

E come ultima tocca alla spaventosa batteria dire la sua. E credo che dal termine “spaventosa” si possa capire che lavoro ha fatto il nostro Maurizio per sbalordire ogni volta i timpani (anche esperti) dell’”ignaro” ascoltatore. Sì, perché tra blast-beats sferraglianti, tupa-tupa spesso e volentieri di marca thrasheggiante, e così via riesce ad inventarsi ritmi pazzeschi e sempre diversi, dimostrando una varietà e fantasia praticamente estreme fino ad angosciare persino, con i tempi doom di “The Seven Doors’ House” oppure con il militante tempo medio-lento di impronta orgogliosamente metalcore di “Before the Last Silence” dando così ulteriore durezza a tutto l’insieme. Il suo è un lavoro che definirei come inafferrabile ed indomabile che con particolare frequenza rende “fragile” e dinamica una stessa soluzione sciorinando vere e proprie partiture, e quindi non semplici variazioni ritmiche al discorso, mirabolanti e fresche, sempre in divenire, magari pure originali, come succede in “Flesh (Society)”, anche se da tale punto di vista non aspettatevi cose “astruse” e bizzarre a là Luca Zamberti dei Mass Obliteration, visto che da queste parti ci sono ritmi un po’ più nella norma. Il nostro, con il suo girovagare disperato alla ricerca del Suono perfetto (che poi sarebbe paradossalmente la negazione della musica stessa…), con il suo continuo rincorrersi come un matto che vuole acciuffare la sua ombra, riesce secondo me anche a potenziare brillantemente la stessa musica, come nelle rullate impazzite di “Whiskey & Funeral”, un momento che alla fine è un vero e proprio stacco. Mi pare difficile dire con precisione quali tipi di tempo si prediligono, anche se quelli più lenti, rispetto agli Aposthate, li ho riscontrati forse più rari nel mondo dei Whiskey & Funeral. Un equilibrio c’è, ma probabilmente quelli veloci hanno la meglio, però attenzione, almeno per i “puristi” dei suoni, dato che il suono della batteria è pesantemente triggerato, cosa che inizialmente non mi è parsa così efficace ma cammin facendo ho imparato ad apprezzarla anche perché risulta comunque a suo modo più genuina delle batterie triggerate che per esempio stanno andando sempre più di moda nel brutal. Inoltre, ma in pratica nella sola "Seaclows" ho ravvisato qualche problema riguardante la cassa visto che in tale brano non si riesce sempre a beccare a meraviglia.

4. LA STRUTTURA DEI PEZZI.

Per quanto concerne più strettamente la struttura dei pezzi targati Whiskey & Funeral devo dire che essa mi pare essere estremamente particolare per un gruppo del genere, vista soprattutto la tradizione del black/death/thrash che in pratica poggia le sue fondamenta sulla dinamicità e l’impatto immediati. Infatti, il quartetto romano, nonostante tutto, è proprio dall’aspetto strutturale che presenta delle caratteristiche che “staticizzano” la sua proposta musicale rendendola quindi a mio avviso poco digeribile.
Prima di tutto, è da segnalare che i nostri amano crogiolarsi in un numero altino di soluzioni tanto da offrirne spesso e volentieri almeno un minimo di 6 (“Before the Last Silence”) ad un massimo di 8 (“Morbid”, “Technical”), oppure da 5 (“Whiskey & Funeral” e “The Seven Doors’ House”). E tra tutti questi passaggi pochi vengono modificati anche dalla chitarra, modificazione che è in realtà il compito quasi esclusivo della batteria che in sostanza è a mio parere il vero propulsore della musica quivi espressa, in quanto con il suo lavoro riesce a cambiare con una frequenza disarmante la dettatura dei ritmi. Ma attenzione, non fatevi ingannare dall’alto numero di soluzioni proposte, dato che, tra le altre, da queste parti vi è una caratteristica curiosa: in non poche occasioni accade infatti che uno stesso passaggio venga sottoposto ad una girandola quasi infinita di battute, raggiungendo, talvolta anche superandole (come in “Morbid” oppure nei momenti iniziali di “Whiskey & Funeral”), le 8 unità, ed anche qui c’entra l’imprevedibile batteria, mentre il riffing di solito è più o meno lo stesso, e da tale punto di vista credo che l’esempio principale sia rappresentato più che degnamente da “Morbid”, brano imbottito da 4 battute in poi per soluzione. Tale osservazione dovrebbe secondo me già far capire che i Whiskey & Funeral sono un gruppo difficile da considerare proprio come d’impatto devastante, ma come se non bastasse è da segnalare pure il fatto che, specialmente nella seconda parte dell’album, alcuni passaggi sono di una lunghezza a dir poco tremenda (in senso positivo), da minimo 15 secondi, e di cui è valida portatrice soprattutto “The Seven Doors’ House”. Ma tale staticismo viene compensato comunque non soltanto dall’ormai ultra-citata, fenomenale prestazione della batteria, ma anche, nonostante tutto, dall’imprevedibilità intrinseca dei pezzi riguardo il lato strutturale. Sì, perché ogni brano presenta uno schema molto libero che non risponde assolutamente a nessuna struttura del tipo strofa-ritornelllo, facendo così impazzire l’ascoltatore in una scia senza fuga di suoni sempre diversi. Guarda caso, di tutti i 9 pezzi se non sbaglio ben 5 presentano persino la metà di passaggi che vengono ripresi, sia in forma modificata che non. Tale ripescaggio avviene però quasi sempre lungo i momenti finali, e ad ogni modo la soluzione più interessata a questi ripescaggi è la prima, la quale non poche volte fa partire senza tanti convenevoli l’assalto musicale (“Morbid”, “Technical”, “Norimberga” e “The Seven Doors’ House”: ha un senso una disposizione di questo tipo perché gli opposti corrispondono ai numeri 3 e 9 mentre quelli più centrali a 4 ed 8…). Tale ripresa a dire il vero mi sembra che ricalchi in un certo senso la tipica struttura a strofa-ritornello, anche perché l’altra soluzione maggiormente interessata a questa metodologia è, in 5 casi su 9, la seconda, per non dimenticare poi che è nella parte centrale dei brani che si può dire finisca il discorso effettivamente inedito (nel senso riferito alla proposta di soluzioni nuove), tant’è vero che solo in “Whiskey & Funeral” primo passaggio ceda il posto per la conclusione del brano ad uno totalmente nuovo di zecca. Così facendo però, il discorso mi sembra abbastanza prevedibile, e quindi consiglio al gruppo di affinare tale schema ma d’altro canto bisogna dire che in tale cosiddetto ripescaggio le sorprese di fatto non mancano poiché, in maniera piuttosto frequente, i momenti finali vengono eseguiti in modi un po’ diversi da quelli iniziali così da attirare maggiormente l’attenzione dell’ascoltatore. Del resto, bisogna riconoscere che per concludere un pezzo i Whiskey & Funeral ne hanno di fantasia, e per ciò mi pare doveroso citare soprattutto il finale di “Flesh (Society)”, la quale in pratica vede completare il motivo della seconda soluzione innestandole delle brusche variazioni in blast-beats che poi vengono improvvisamente bloccate in modo da formare una vera e propria pausa. Poco dopo però la variazione viene completata veramente attraverso un intervento brevissimo che poi è il reale “canto del cigno” della canzone.

Tra l’altro, l’aspetto strutturale che dinamicizza il tutto è secondo me indubbiamente il ricorso, brusco e tipicamente moderno, ad un riffing anch’esso imprevedibile, come succede ad esempio in “Morbid”, dove ad un certo punto la chitarra improvvisamente impazza proponendo in ogni battuta nient’altro che lo stesso riff precedente, suonato però attraverso tonalità diverse, cosa che ultimamente ho sentito con una buona frequenza negli Aposthate.

Infine, bisogna parlare anche degli stacchi e pure riguardo tale argomento si deve riconoscere ai nostri una buona creatività, non solo perché vengono utilizzati ponendo l’accento non soltanto sulla chitarra, strumento classico per momenti del genere, ma pure su tutti gli strumenti in modo che una buona parte di essi sono effettivamente collettivi. In talune occasioni, come in “Norimberga”, alcuni di essi vengono ripetuti così da conferire loro un’importanza ben maggiore in modo da influenzare di più la stessa costruzione dei pezzi. In altre invece, il discorso musicale diviene più continuo e quindi a mio parere praticamente senza respiro per l’ascoltatore, considerando che gli stacchi, almeno di quelli in solitario, regalano una sorta di “riposo” in mezzo alla tempesta tant’è vero che se non erro in 3 canzoni sono quasi completamente assenti (“Morbid”, “Flesh (Society)” e “The Seven Doors’ House”, nei quali rispettivamente si becca chitarra, chitarra e batteria), mentre in “Norimberga” si conosce quello che mi pare il record riguardo tale tipo di momenti, visto che vi si trovano ben 6 stacchi. Comunque mi piacerebbe che i Whiskey & Funeral affinassero questa caratteristica della musica dal taglio continuo e senza pietà, vuoi perché da un gruppo estremo è cosa piuttosto rara, vuoi specialmente perché, a ragion veduta, credo che le sonorità già di per sé pesanti dei nostri potrebbero esserlo ancor di più se si prenda in considerazione il provvedimento da me considerato (scusate il gioco di parole…). In tal maniera e dati i cambiamenti improvvisi e spesso mirabilmente “irrazionali” di questo album, l’ascoltatore verrebbe forse colpito maggiormente incasinandogli senza nessuna tregua la sua mente (che bei consigli che do, nevvero?).

5. IL PEZZO MIGLIORE.

Difficile secondo me invece la scelta del cosiddetto miglior pezzo di tutta la scaletta, e ciò dettagliatamente per 3 basilari motivi:

1) in teoria esso dovrebbe essere assolutamente l’ultimo, cioè “The Seven Doors’ House”, ma qua vige lo stesso discorso che a suo tempo ho fatto con il brano “Infernal Melody” dei sardi black/goticoni Bloodshed. Infatti, entrambi gli episodi sono totalmente (ed azzeccatamente) strumentali, quindi non mi sembra proprio il caso di affossare il lavoro di Fulvio;
2) la difficoltà di trovare effettivamente un brano non-strumentale che si ergi su tutti gli altri vista la buona e costante qualità di tutti quelli meglio congegnati (un paradosso che spiegherò tra pochissimo) anche se tale caratteristica può a mio avviso essere vista da una certa angolazione come un vero e proprio difetto dato che in questa maniera è come se non si completi l’intero discorso del disco rendendolo privo di un nudo e crudo colpo di grazia (considerazione comunque non poco relativa visto il finale della stessa strumentale);
3) l’esistenza di difetti che personalmente ho riscontrato proprio negli ultimi due pezzi non-strumentali. E ciò perché il finale di “Before the Last Silence” l’ho trovato poco efficace soprattutto per via di una voce che curiosamente è assente per qualcosa come una quarantina di secondi e che forse avrebbe dato, specialmente attraverso le sue sovraincisioni, maggior potenza ed isterismo in più, così da legarsi coerentemente con uno dei momenti musicali più indomabili ed in un certo senso più folli di tutto il lotto. “Norimberga” invece secondo me soffre - sarà un’inezia ma la faccio presente lo stesso – di un curioso deja-vù piuttosto strano da beccare in un gruppo del genere, e mi riferisco ad una partitura ritmica che probabilmente ricalca un po’ troppo una contenuta nella precedente canzone, partiture costituite da una batteria che spara tupa-tupa thrash per poi aumentare improvvisamente il ritmo in modo quasi blasteggiante. E non mi si dica che i deja-vù dopo un po’ sono sempre inevitabili!

6. “MORBID”.
Ma se dovessi proprio farlo, sceglierei per 3°, che merita a parer mio una trattazione a parte per vari motivi, pur segnalando che si tratta di una canzone in puro stile Whiskey & Funeral, quindi ricca di cambi di tempo, melodia quasi assente ed un impianto musicale che “stenta” a proseguire entro canoni che non prendono in considerazione una visione totalizzante del metal estremo. Eppure direi che qui ci sono non pochi punti d’interesse, il primo fra i quali risulta rappresentato dalla lunghezza dell’episodio in rapporto al numero di soluzioni quivi presenti.
Infatti, “Morbid” è la seconda non-strumentale più lunga di tutto il lotto essendo di circa 4 minuti e 27 secondi, mentre i passaggi qui proposti se non sbaglio sono ben 8, ossia quasi 2 per minuto. E considerando anche la complessità in sé della musica del quartetto romano (cioè per esempio il discorso sempre in divenire della batteria), un po’ mi sorprende che i nostri riescano a non stancare l’ascoltatore offrendo così tanta dinamicità e fra l’altro in un arco di tempo piuttosto lungo (se ovviamente rapportato agli altri pezzi). Ora però, mi si obietterebbe che la successiva “Technical” abbia caratteristiche simili, nonostante ciò, pur essendo quest’ultima leggermente meno classica per quanto riguarda le battute che in certe occasioni se non erro ne interessano ad esempio 3 e mezzo, “Morbid” ha dalla sua una maggiore dilatazione dei passaggi, i quali spesso si ritrovano ad essere ripetuti e modificati non poche volte, pure per più di 4 battute, cosa che considero in sé stessa pesante e monolitica;

sempre rimanendo nel tema della struttura del pezzo, secondo me concorre brillantemente a tale unicità lo stesso finale del brano interessato. Non a caso, esso si conclude per la prima ed unica volta con un 1 – 5 dai tratti pericolosi. E tra l’altro, qui i nostri si dimostrano anche in un certo senso statici, dato che il 5 viene sì ripreso, ma dopo viene ripetuto in modo similare però attraverso le stesse battute utilizzate in precedenza;

ed il terzo punto d’interesse non è altro che lo strangolamento ulteriore offerto dal brano all’ascoltatore, visto che il suo discorso credo si possa considerare continuo e senza pietà, e guarda caso da queste parti c’è un solo stacco, di chitarra precisamente. Ed ecco quindi vomitato un pezzo che in un certo senso estremizza quasi in tolo la musica dei Whiskey & Funeral, completandola ancora di più anche perché risulta pure il più importante per quanto concerne la chitarra solista che viene usata in misura maggiore più del solito.

7. “THE SEVEN DOORS’ HOUSE”.

Ma la canzone che sicuramente primeggia per personalità è l’ultima, cioè la strumentale “The Seven Doors’ House”, la quale si può definire come un vero e proprio incubo, anche per come riesce a concludere degnamente tutto l’album.
Prima di tutto, essa ha una struttura che comunque non è che si differenzi poi così tanto da quella degli altri episodi dato che è fondata sulle prime 2 soluzioni, che aprono e semplicemente chiudono il discorso sempre presentando la sequenza di passaggi rappresentata da 1 – 1 mod. – 2, mentre la parte centrale è occupata da 3 soluzioni, offrendo un solo stacco, stavolta di batteria. E pure qui vi sono notevoli spunti d’interesse che personalizzano ancora di più tale canzone, e che sono i seguenti:

1) la lunghezza a volte esorbitante, quasi sempre da almeno 10 secondi garantiti, dei vari passaggi, specialmente i primi, che compongono tutto l’insieme, riuscendo così nell’intento, non solo determinato da questo “piccolo” particolare, di “stancare” l’ascoltatore avvolgendolo in un vortice pressoché senza fine che personalmente mi ha stupito in modo ulteriore in quanto curiosamente si viene immersi da soluzioni che spesso e volentieri durano la bellezza di 2 battute, le quali assumono una violenza ancora più omicida se si pensa che anche qui il nostro batterista dà adito frequentemente ad un pericoloso dinamismo che confonde, con la sua quasi perenne imprevedibilità, le idee;

2) l’esistenza nell’album, per la prima ed unica volta, della chitarra acustica, che curiosamente sputa fuori dei motivi in apparenza più “positivi” del previsto, e per questo risultano tremendamente minacciosi, dato che cozzano completamente con l’atmosfera intera del pezzo, come se si volesse far credere che il fattaccio che sta accadendo adesso è semplicemente un sogno terrorizzante e non nuda e cruda realtà;

3) appunto l’atmosfera di “The Seven Doors’ House”, la quale vive di ipnosi, di chitarre minacciose ed incantatrici, e ciò avviene soprattutto nelle parti iniziale e finale. L’andatura in questi momenti è non a caso lenta, come un pericolo strisciante reso però imprevedibile dalla batteria nervosa di cui ho parlato poco fa. Inoltre, la parte centrale vive di momenti che dal punto di vista della velocità (stavolta più sostenuta) e del tipo di riffing decisamente più essenziale e meno bizzarro sono diametralmente opposti, quasi a conferire al pericolo un aspetto concreto, dato che si è brutalmente scoperto offrendo nel frattempo dei balzi di “tensione spirituale” (quella del sogno) che per l’oscura presenza è fredda e compiaciuta soddisfazione che regala alla vittima quell’attimo in cui la vede implorare senza però avere realmente nessuna speranza rendendo così ancor più memorabile il ferale colpo di grazia che verrà nel tremendo finale, il quale lo tratterò tra poco. Ma tale atmosfera ipnotica ed irreale viene secondo me ampliata da una voce che non c’è, è completamente assente, donando così a tutta l’atmosfera un qualcosa di spaventoso ed oltre i confini della realtà in modo da eliminare ogni emozione umana, sottomessa all’oscuro;

4) l’unicità strettamente musicale della strumentale, che con molta probabilità si può definire come il pezzo più fantasioso e completo di tutto il lotto, e forse anche quello più violento dato che unisce ecatombi doom dal sapore contorto e malato e terrificanti bordate death/thrash un po’ a là Dimension Zero, per finire con delle sciabolate black/thrash vecchia scuola e pause acustiche apparentemente serene. Il tutto viene proposto sempre mantenendo intatto quello stile nervoso che stavolta viene sparato in poco più di 6 minuti di puro incubo sonoro;

5) questo è un punto profondamente legato al 3 (l’ho voluto tenere per ultimo per assecondare il mio sadismo…), e probabilmente è quello più importante e vitale per l’esistenza stessa di “The Seven Doors’ House”, considerando che riguarda il finale, che è a dir poco ottimo sotto ogni punto di vista e si può dire pure che sia profondamente unico rispetto a tutti gli altri episodi dell’album. Sì, perché, dopo esser ritornati all’1 – 1 mod. iniziale, ecco farsi vivo il 2 che rispetto a prima viene sottoposto ad una singola battuta in luogo delle 2 + 4 (dovete sapere infatti che anche il 2 prima viene modificato), e così la chitarra s’incanta ipnotica, mentre tutti gli altri strumenti vengono completamente eliminati dalla scena, come il vuoto che attanaglia la vita ormai senza scampo. Poco dopo, il definitivo colpo di grazia: la dissolvenza della chitarra, dissolvenza infinita perché così è l’orrore di essersi lasciato prendere dall’oscura presenza ritardando ogni reazione che poteva essere utile (forse…). Vuoto nella Casa dalle Sette Porte (sempre sperando che il messaggio sia questo, non avendo alla mia portata i testi…).

8. "INTRO".

Ma del resto bisogna dire che la chitarra acustica inanella minacciosi arpeggi già nell'introduzione dell'album, che attraverso un'atmosfera pericolosamente attendista di 2 minuti fa in un certo senso assaporare l'imprevedibilità assassina dei nostri 4, anche grazie a degli effetti naturali rappresentati specialmente da fulmini bruschi e violenti, un po' come è la stessa musica dei Whiskey & Funeral che in sostanza, come si è visto, vive di continui cambiamenti musicali e ritmici. Ma il collegamento con le sonorità vere e proprie si può rintracciare facilmente anche in quel suono finale che gradualmente viene alzato (ma non troppo) e che si fa vivo nei primi millisecondi della seguente "Seaclows".
9. CONCLUSIONI.

La gestazione di tale recensione è stata curiosamente piuttosto lunga, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, ed è anche per questo che la soddisfazione di finirla è maggiore considerando fra l’altro che così facendo ho potuto riflettere su varie cose inerenti l’album (come alcuni difetti che ho riscontrato), come il principale punto di forza del gruppo in questo disco, che fino a qualche tempo addietro non avevo ancora bene in zucca: cioè il merito di aver partorito un “mischione” ben assortito ma soprattutto di aver adottato un tipo di struttura che nonostante tutto non perde mai il filo logico del discorso, tirando fuori così montagne e montagne di intensità senza mai riposarsi, proponendo rari tempi lenti, utili a dare un po’ di sano e genuino respiro all’ascoltatore, e ciò è dimostrazione di coraggio, cosa che influirà positivamente nel voto finale. Certo, le prime “ascoltate” sono state ben più entusiaste ed “irrazionali”, ma ciò non toglie che “The Arrive of Chaos” sia una delle opere di provenienza romana (un piccolo orgoglio…) più belle che io abbia mai sentito. E non vedo l’ora che uscirà il prossimo album, attualmente in fase di registrazione.

Voto: 85

Claustrofobia

Scaletta:

1 – The First Apparition/ 2 – Seaclows/ 3 – Morbid Homicide/ 4 – Technical/ 5 – Flesh (Society)/ 6 – Whiskey & Funeral/ 7 – Before the Last Silence/ 8 – Norimberga/ 9 – The Seven Doors’ House

MySpace:

http://www.myspace.com/whiskeyandfuneral