Ep autoprodotto (2012)
Formazione (2011): Ferdinando Valsecchi – voce/chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Firenze, Toscana.
Canzone migliore del disco:
“…untile the Rest of My Life”.
Punto di forza dell’opera:
la sua delicatezza.
Qual è il senso della vita? Perché è bello vivere (e brutto il semplice esistere)? Vorreste essere sempre giovani e forti, distruggendo così “la volontà del tempo”? Cos’è l’Arte? Queste e altre domande vengono poste in questo disco coraggioso sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, anche perché, rispetto a tutti i gruppi ospitati su Timpani allo Spiedo (e non solo) qui si celebra (finalmente) la Vita, dopo gente ossessionata dalla morte, dalla politica, e robe affini. Però, è anche vero che tale opera non è che abbia tanto a che fare con il metal propriamente detto, men che meno con quello estremo, seppur ci possa essere qualche paradossale parentela con il black depressivo.
Ma allora perché non è metal “propriamente detto”? Prima di tutto, bisogna parlare della voce. La quale parla, esprime pensieri, più che cantare veramente, solo che, espressiva e supportata da un delicato effetto d’eco, è sì importante ma interviene comunque poco, quel tanto che basta per far pensare l’ascoltatore.
Le chitarre sono spesso pulite ma ciò non impedisce loro di partorire talvolta passaggi rumoristi. Però, le melodie hanno il sopravvento, ma sono melodie dolci, fragili, crepuscolari che comunque esplodono puntualmente in assoli movimentati e belli frequenti. Effettivamente, il lavoro delle due chitarre è sopraffino e avvolgente, quindi molto collaborativo, e avviene un po’ la stessa cosa per il basso, pur partecipando di meno nella costruzione delle varie linee melodiche.
La batteria elettronica ha un incedere rigorosamente medio – lento, e spesso il suo approccio è molto crerativo e da punk sperimentale (altrimenti detto post – punk) anche se, a differenza di gruppi come i Gang of Four, essa (oltre a non avere neanche per sogno derivazioni funk) sa essere, durante lo sviluppo di una stessa canzone, sia dinamica, così da enfatizzare attraverso delle brevi variazioni il lavoro degli altri strumenti, sia ossessiva a forza di ripetere, pur in modo irregolare, uno stesso ritmo.
La cosa più interessante del progetto proviene dalla curiosa struttura dei pezzi, che ha lati sia positivi sia, purtroppo, negativi. Infatti, la metodologia strutturale consiste:
1) spesso e volentieri, in un saliscendi composto da pause e “rumore”, in una maniera poi non così dissimile dai Rotorvator (che, per inciso, qualche mese fa hanno pubblicato l’ep “Heaven”);
2) di conseguenza, lo sviluppo procede sempre in modo lento e ponderato tanto che solitamente non vi è un vero e proprio climax che faccia saltare i timpani dall’esaltazione (quest’osservazione non è da ritenersi necessariamente un difetto, beninteso). Ciò viene amplificato dal fatto che pezzi come "In a Painted Black World" e "...and I Wanted to Live" “finiscano” praticamente all’improvviso ma in compenso "...until the Rest of My Life" abbandona tale tendenza grazie a un gran finale ben giostrato;
3) ogni brano si “conclude” puntualmente (aaah, ecco perché prima hai usato questa parola!) in un assolo. Solo che tale procedimento, dopo un po’, diventa prevedibile nonché limitativo, e fra l’altro a volte ci si affoga nell’auto - compiacenza a causa di troppi soli che si rivelano ripetitivi in rapporto al loro numero.
In conclusione, “The Passage” (ah, dimenticavo: le liriche – scritte interamente da un certo M. Simonelli - sono completamente in italiano!) è un disco molto interessante, ma il nostro ha dei margini di miglioramento molto ampi, direi anche logici vista la bizzarria della proposta. La quale si può riassumere, seppur con una definizione molto di comodo, come metal intimista.
Voto: 70
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In a Painted Black World/ 2 – I Dreamt for a Brighter Sky/ 3 - ...and I Wanted to Live…/ 4 - …until the Rest of My Life
Soundcloud:
http://www.soundcloud.com/maelstrompost