Saturday, September 29, 2012

Left in Ruins - "Breathless, Restless, Hopeless" (2012)

EP  (Aim Down Sight Records, 26 Agosto 2012)

Formazione (2011): Olly – voce;
                                Piff – chitarre;
                                Matt – basso;
                                Cap – batteria.

Provenienza:          Trieste, Veneto.

Pezzo migliore del disco:

l’incredibile “Guilty”. E ho detto tutto.

Punto di forza del disco:

stavolta scelgo per la struttura stile montagne russe dei vari brani.
Ritornano a far parlare di sé i Left in Ruins, autori l’anno scorso di un disco spaccaossa come pochi. E si fanno valere ampiamente anche con questa nuova uscita, che in pratica ribadisce più o meno la stessa formula sentita in passato, rendendola però un pochino più essenziale.

Infatti, le differenze con la precedente opera sono minime, e riguardano la chitarra solista, quasi completamente bandita dal discorso, e forse il minutaggio delle stesse canzoni che adesso in media durano leggermente meno (fra tutte, bisogna citare l’assurda “Guilty”, 40 secondi in cui succede praticamente di tutte). Inoltre, mancano un po’ quelle chitarre allucinate presenti qui e là in “Left in Ruins”, ma in compenso in una canzone come “Dig” si fa vivo un riffing gelido molto blackeggiante.

Per il resto non è cambiato niente. Il powerviolence dei Left in Ruins è sfrenato, ricco di cambi di tempo impossibili e improvvisi, pieno di groove contagioso come di assalti in blast e di tempi lenti fangosissimi (sentitevi l’iniziale “Entrapped”, l’episodio più “pacato” del lotto), e gonfio di intuizioni brillanti e sempre freschi capaci di potenziare ogni volta un tale bombardamento sonico, per esempio attraverso una lancinante pausa oppure con i giochi a più voci. Eh sì, il feedback è sempre presente, sempre pronto a terrorizzare l’ascoltatore, e spesso e volentieri collega le canzoni l’una dall’altra.

Fra l’altro, il gruppo ha riproposto “Wait in Vain” come chiusa dell’ep. Non è stata attualizzata secondo il diverso momento storico come piace a me, ma in fin dei conti ‘sti cazzi, visto che è effettivamente uno dei brani porta – bandiera dei Left in Ruins. Ed è pure l’unico pezzo del disco a proporre una vera e propria chitarra solista, con le sue belle trame rock ‘n’ roll.

In tutto questo, ovviamente è cambiata la produzione, che risulta ora essere più cavernosa e cupa di quella del disco autointitolato, che è invece più compatta e per così dire pulita.
Insomma, l’unico problema di “Breathless, Restless, Hopeless” è che scorre così tanto bene da durare troppo poco. Così non si può far altro che ascoltare all’infinito sempre gli stessi intensissimi 7 pezzi per poi finire in un manicomio per essere stati posseduti dal germe dei Left in Ruins. In parole povere, ecco un altro piccolo gioiello proveniente da questi pazzi scatenati.

Voto: 81

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Entrapped/ 2 – Breathless/ 3 – Hopeless/ 4 – Guilty/ 5 – Dig/ 6 – Revenge/ 7 – Wait in Vain

Sito ufficiale:

Friday, September 28, 2012

Masachist - "Scorned" (2012)

Album (Selfmadegod Records, 3 Settembre 2012)

Formazione (2006): Sauron – voce;
                                 Thrufel – chitarra/voce;
                                 Aro – chitarra;
                                 Heinrich – basso;
                                 Daray – batteria.

Provenienza:             Polonia.

Canzone migliore dell’album:

“Manifesto (100% D.M.K.M.)”.

Punto di forza del disco:

la follia, anche se comunque dev’essere ancora perfezionata per bene.
Che strano album questo “Scorned”... è un disco decisamente variegato e coraggioso, alcune volte forse fin troppo ma comunque è veramente da apprezzare questa capacità di sperimentare nuove soluzioni dopo un primo album sì spaccaossa ma ancora abbastanza tradizionale. E fra l’altro i Masachist non sono neanche dei novellini dato che li si possono considerare come un vero e proprio “supergruppo” (termine idiota come pochi ma pazienza) costituito nientepopodimeno che da membri passati o presenti dei Vesania, dei Vader, degli sperimentaloidi Shadows Land, dei Decapitated e bla bla bla. Ma bando alle ciance e a questa inutile pubblicità, e scopriamo più da vicino che cosa hanno da offrirci ‘sti ragazzotti con la loro ultima fatica.

Prima di tutto, il disco parte e finisce curiosamente con dei pezzi dai tempi medi, cosa praticamente rarissima in campo estremo, e dal minutaggio anche bello esorbitante, come i 7 minuti e mezzo dell’intensissima “Inner Void”. In questi casi il gruppo preferisce sparare delle sonorità rocciose, meccaniche, spesso meshugghiane, quindi non propriamente di stampo death metal. Mentre nelle altre canzoni, specialmente da “Manifesto (100% D.M.K.M.)” a “Liberation”, la musica si fa più death metal, tecnica, imprevedibile e dal minutaggio più contenuto, e di sicuro è proprio qui che i nostri danno il meglio di sé, facendo così esplodere tutte le proprie potenzialità.

Comune a entrambe le tipologie di brani è la tendenza alla sperimentazione  e quindi alle intuizioni bizzarre, che siano delle tastiere minimaliste (presenti soprattutto all’inizio), inquietanti digressioni industrial, soluzioni quasi orientaleggianti con tanto di voce lirica (sì, sembrerà strano ma è così, sentitevi l’assurda “Inner Void”!). Anche il grugnito fiero e tipicamente death di Sauron viene a tratti manipolato per rendere il tutto, per così dire, più futuristico.  Inoltre, qui e là il discorso si fa ossessivo, ed esemplare a tal proposito è “Liberation”, pezzo squadrato tutto fondato su piccole variazioni apportate all’incirca agli stessi 3 passaggi, ma che purtroppo non risulta efficace anche per delle tastiere in sottofondo non sfruttare per bene. Non dimentichiamoci però la chitarra solista, abbastanza importante per i ‘sti polacchi, perché, oltre a proporre assoli molto fantasiosi così da passare da quelli più rockeggianti a quelli ultra – veloci (memorabile il solo, con tanto di pausa d’effetto, di “Opposing Normality”), riesce a completare il riffing della ritmica in maniera inaspettata (“The Process of Elimination”).

Ma la parte centrale, come già detto, è generalmente quella più convincente. Ciò grazie a un riffing spesso e volentieri folle e talvolta addirittura rumorista ai limiti del mathcore, a un discorso ritmico più intenso e bilanciato fra blast – beats e tempi più lenti, e alla tendenza a strutturare i pezzi in modo quasi istintivo, cioè senza rispettare, alcune volte nemmeno alla lontana, il classico schema a strofa – ritornello, aspetto tipico del cosiddetto death metal tecnico.
Quindi, date le premesse, il problema principe di “Scorned” è la dispersione, visto che i pezzi medi sono spesso e comunque diversissimi da quelli in un certo senso più canonici, a prescindere dalla qualità, comunque quasi sempre notevole, di essi. Ma anche perché alcune soluzioni o sono fuori posto o, il che fa più o meno lo stesso, vengono sviluppati male (come appunto la voce lirica di “Inner Void”), e di conseguenza sarebbe interessante maturarle in futuro in maniera più precisa e compatta tanto per vedere il risultato. Non scordiamoci però che questo è pur sempre un esperimento, e ciò significa che al primo colpo è solitamente difficile fare un vero e proprio capolavoro, ma comunque ci stiamo vicini. Dai che il terzo album sarà quello della consacrazione.

Voto: 76

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Drilling the Nerves/ 2 – The Process of Elimination/ 3 – Straight and Narrow Path/ 4 – Manifesto (100% D.M.K.M.)/ 5 – Higher Authority/ 6 – Opposing Normality/ 7 – Liberation/ 8 – Liberation Part II/ 9 – Inner Void

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Friday, September 21, 2012

Abysme - "Strange Rites" (2012)

Album (Hellthrasher Productions, 2012)

Formazione (2006): Brad Heiple – voce/chitarre;
                                 Mike Bolam – basso;
                                 Timothy R. Williams – batteria.

Provenienza: Pittsburgh, Pennsylvania (Stati Uniti).

Canzone migliore del disco:

“Scribbled in Dust”.

Punto di forza dell’opera:

il lavoro della batteria.

Ragazzi, mi dispiace ma non ce l’ho fatta. Ho tentato in tutti i modi di farmi piacere l’album di debutto di questi 3 folli, ma alla fine il giudizio è sempre stato lo stesso. E pensare che avevo sentito parlare bene di questo disco, ed effettivamente parte benissimo perché i primi 2 pezzi spaccano come si deve. Eppure c’è sempre quell’odioso e fastidioso “però” che distrugge tutte le certezze.

Per esempio, prendiamo la voce. E’ un grugnito fiero e “ignorante”, perfetto per una notte da passare in un cimitero (ma che sei matto?). Talvolta viene effettato, mentre in altre occasioni è accompagnato da efficaci urla (succede purtroppo soltanto in “Scribbled in Dust”). Però bisogna dire che la voce spesso va curiosamente in letargo, e così facendo non aiuta i compagni, che stentano a decollare. E date queste premesse, non sono poi così funzionali quei brevissimi interventi senza parola di cui c’è fra l’altro fin troppa abbondanza.

L’aspetto contraddittorio è che i silenzi vocali non sono neanche giustificati dal tipo di death metal proposto, visto che il tutto scorre semplice e lineare, gli assoli frenetici sono contati, e non ci sono intuizioni sufficientemente bizzarre da destare l’attenzione dell’ascoltatore, se non con un basso straniante in "Terminal Delirium". Oppure ci sono ma vengono sfruttate male.

E qui viene il discorso legato all’impianto strutturale dei pezzi. Sì, questi scorreranno in maniera semplice ma il loro discorso non fa gridare al miracolo, anzi, dato che molte soluzioni o non hanno seguito o non vengono sviluppate per bene, o ancora sono troppo potenti rispetto all’impatto deboluccio delle precedenti. Tutti questi punti vengono sintetizzati dalla tendenza dei nostri all’ossessività e ai momenti doom, che spesso sono statici (i finali di “Formless” – dall’assolo infinito -, di “Annihilated Memory” – che presenta qualche timida variazione nel riffing -, e di “Remarkable Conqueror” – gli ultimi 2 minuti e mezzo fermissimi di simil – drone) che la prossima volta è meglio abbandonare quasi del tutto.

Un altro errore degli Abysme è stato quello di abbandonare quasi subito le dinamiche dei primi 2 brani, gli unici veramente convincenti di tutto il lotto. E perché? Semplice, perché sono quelli più bastardi dal punto di vista ritmico vista la buona alternanza blast – beats/tupa – tupa ce dinamicizza il tutto insieme alle ottime variazioni ritmiche del batterista.

Ecco sì, il batterista, il solo dei 3 capace di sorprendermi in positivo. Sufficientemente vario e dinamico, alcune sue intuizioni meritano moltissimo, peccato che vengano oscurate dall’insieme.

Altre cose valide dell’album? Sì, nonostante tutto ci sono: la produzione, fangosa come piace a me, e la copertina, a dir poco bellissima.

Ma di certo tutto ciò non basta a risollevare le sorti del disco.

Voto: 57

Claustrofobia

Tracklist:

1 – Scribbled in Dust/ 2 – Beyond the Seventh Door/ 3 – Formless/ 4 – Annihilated Memory/ 5 – Gift to the Gods/ 6 – We Shall Sleep/ 7 – Terminal Delirium/ 8 – The Third Day/ 9 – Fallen Colossus/ 10 – Remarkable Conqueror

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Friday, September 14, 2012

Usurpress - "Trenches of the Netherworld" (2012)

Album (Selfmadegod Records, 28 Giugno 2012)
Formazione (2010): Stefan Pettersson – voce;
Påhl Sundstrom – chitarre;
Daniel Ekeroth – basso;
Calle Andersson – batteria.

Provenienza: Uppsala (Svezia).

Canzone migliore del disco:
“Black Death on White Wings”.

Punto di forza dell’opera:
la foga crust dei pezzi.
Sulla scia recentemente tracciata dai gruppi death svedesi come Miasmal e Bastard Priest, ecco uscire fuori gli Usurpress con l’album di debutto. Ma il bello è che questi ragazzacci non sono dei giovincelli visto che sono formati da veri e propri veterani della scena, tra cui – udite udite! – Daniel Ekeroth, passato ormai alla Storia della nostra musica per aver scritto il libro “Swedish Death Metal” (che, notizia recentissima, troverà posto finalmente nelle librerie italiane a partire dall’ultima settimana di Settembre!). Eppure, gli Usurpress hanno fatto propria l’ultima “tendenza” tutta svedese consistente nel mischiare, nella maniera più rozza possibile, due generi estremi che poi fanno parte della storia musicale del loro Paese: il death metal e il crust. Solo che, e lo dico fin da subito, stavolta l’ibridazione non mi è piaciuta del tutto, poteva uscire veramente qualcosa di meglio.

Però, porca puttana!, quel grugnito perennemente cupo e riverberato provoca inquietudine, ti strappa via l’anima e se la mangia con tutta la bava ectoplasmica connessa. Le urla, più umane del solito, sono praticamente contate tanto da presentarsi in sole 2 canzoni (stupende quelle folli di “The Colours of Darkness”), ma la cosa curiosa è che in un pezzo come “Coronation of the Crippled King”, a un certo punto si fanno vive delle vere e proprie voci pulite, psichedeliche per giunta! Insomma, gli Usurpress saranno pure un gruppo vecchia scuola ma di certo le sorprese non mancano.

E, cazzo, la musica in sé è contagiosa. La furia è in sostanza quella classica del crust, e infatti la batteria è ossessionata dai tupa – tupa tipici di questo genere tanto da non proporre mai assalti in blast. Il riffing invece è spesso putrescente, ma il tutto viene espresso nella forma più scanzonata possibile, non ci sono passaggi cervellotici, tutto procede in maniera semplice e lineare. Fra l’altro, i nostri non si sono nemmeno spremuti così tanto per quanto riguarda l’impianto strutturale delle canzoni, che da tal punto di vista un po’ s’assomigliano fra di loro: prima di tutto c’è l’introduzione, dopodichè c’è l’immortale botta e risposta 1 – 2, poi solitamente c’è un rallentamento, e un po’ più in là si riprendono, ma solo per una volta ciascuna, le due soluzioni principali. Ecco, anche questo schema, molto rigido, è in fin dei conti crust, con la differenza che è un pochino più articolato rispetto a gruppi come Disfear, Dischange, Warcollapse, e di conseguenza i pezzi durano fra i 2/3 minuti.

E poi, oh, ci sarà pure la rozzezza più pura in quest’album, ma comunque i nostri sanno come diversificare i vari brani l’uno dall’altro. Tanto per fare qualche esempio, “Black Death on White Wings” presenta un assolo bello dinamico mentre quelli delle ultime canzoni sono a dir poco primitivi e selvaggi; “The Colours of Darkness” ha un rallentamento oserei dire apocalittico; “I Stand Above Time” ha un inquietante retrogusto blackeggiante; “The Wooden Sceptre” è invece l’episodio più stradaiolo e perfino ballabile del lotto.

Eppure….già, eppure cosa? Sì, non quadra qualcosa d’importante, anzi, non quadra più di una cosa. Più nello specifico:

1) c’è dispersione. Ciò significa che alcune intuizioni vengono abbandonate praticamente subito, come quelle più sperimentali (la già citata “Coronation of the Crippled King”), e pure gli assoli (di qualunque natura), che si rifanno vivi curiosamente negli ultimissimi pezzi dell’album. Per non parlare delle urla, che potevano rendere più folle il tutto e invece sono rari(issime) pure queste;

2) la metodologia strutturale. I pezzi vengono sviluppati male, vuoi perché spesso non ci sono ponti efficaci per collegare fra loro due soluzioni magari molto diverse dal punto di vista emotivo, vuoi perché alcuni rallentamenti sono troppo ossessivi facendo così perdere efficacia a tutto l’insieme, rendendo così anche prolisse le stesse canzoni, vuoi perchè le intuizioni sopraddette (almeno gli assoli) potevano essere sfruttare in modo sicuramente più capillare.
Insomma, i problemi sono molti, ma la cosa che fa pensare è che gli Usurpress correggono incredibilmente il tiro proprio negli ultimissimi pezzi, che poi sono quelli più rapidi, veloci e crust di tutto il lotto tanto da finire l’album con l’assalto di 90 secondi circa di “Seduction Through Bloodshed”. E questo è veramente un peccato perché, a parte l’iniziale “Black Death on White Wings”, le potenzialità c’erano tutte almeno per un buon album.

Voto: 65

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Black Death on White Wings/ 2 – Effigies Burns Across the Wastelands/ 3 – Coronation of the Crippled King/ 4 – The Wooden Sceptre/ 5 – The Colours of Darkness/ 6 – Trenches of the Netherworld)/ 7 – The God Eaters/ 8 – In the Beginning (Ended Yesterday)/ 9 – Dethroned by Shadows/ 10 – I Stand Above Time/ 11 – Seduction Through Bloodshed

Sito ufficiale:
http://usurpress.com/

FaceBook:
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Monday, September 10, 2012

Let the World Die - "At the Road of Ruin" (2012)

Album autoprodotto (2012)
Formazione (2010): Mark – voce/chitarre;
Jamie – basso/voce;
Pauly – batteria.

Provenienza: Flagstaff, Arizona (Stati Uniti)

Canzone migliore dell’album:
“4th Wave”.

Punto di forza del disco:
la disperazione più totale.
Appartenenti al relativamente giovane filone dell’anarco – black metal, i Let the World Die sono costituiti curiosamente da veri Indiani d’America, e guardacaso combattono per difendere il proprio territorio da ogni tipo di dominio tanto da aver aperto un interessante sito nel quale spiegano le ragioni della lotta e che funge anche da finestra per il proprio infoshop, vero e proprio laboratorio creativo di nuove e sempre diverse situazioni antagoniste (http://www.taalahooghan.org). Inoltre, altra fondamentale caratteristica proviene dalla particolare tipologia di tematiche trattate: i nostri infatti sono degli ambientalisti sfegatati, cosa che dovrebbe essere già compresa a partire dal nome significativo del gruppo. Nome che presumo sta per “lasciate che il mondo muoia di morte naturale”, esortando quindi fin da subito a non infettarlo con le peggio schifezze possibili, a non consumare come dei forsennati le sue risorse, insomma rispettarlo in quanto essere vivente anche perché, parafrasando il gruppo punk anni ’80 Anarka and Poppy, “If It Dies, We Die”.

Però, a dir la verità, i Let the World Die sono particolari veramente in tutto. La loro musicalità è complessa, sempre in divenire e ricca di influenze magari completamente inaspettate. Il loro black metal melodico e disperato si colora di aperture acustiche, di assalti crust e di… momenti ska. Sì, lo ska, signori, avete letto proprio bene! Certo, non sono assolutamente i primi blackettoni a fare simili scelte stilistiche visto che per esempio in giro ci sono i canadesi – da poco sciolti - Leper (formati da ex – membri degli Iskra), ma questa capacità di variare la proposta permette a questi baldi Indiani di caratterizzare ottimamente i diversi pezzi, anche dal punto di vista atmosferico. Così, si passa dall’uragano semi – strumentale di “LED”, uno dei momenti più intensi di tutto l’album, alla ferocia di “BMIS II”, oppure dalla drammaticità quasi da black depressivo di “4th Wave” alla stranissima “MI 884”, una vera e propria canzone nella canzone dove la prima è un black/crust epicheggiante mentre l’altra è una giocosa strumentale ska con tanto di breve assolo.

Come se non bastasse, i nostri prediligono approcciare la materia musicale in modo democratico, cioè dando particolare importanza alle doti dei vari strumentisti, così da rendere ancor più profondo tutto l’insieme. Ciò significa per esempio che il basso è a dir poco fondamentale sia per quanto riguarda gli stacchi, sia per integrare o completare il lavoro delle chitarre creando così linee perfette (specialmente nei passaggi ska). Ma anche le asce, seppur non raggiungendo livelli di certosina raffinatezza come quelli presentati ultimamente dagli Hell United, non scherzano affatto, anche perché si sfogano attraverso degli emozionanti (ma occasionali) assoli, che magari vengono suonati in concerto da entrambe le chitarre (“LED”).

Ma come ho già detto prima, il black metal dei Let the World Die è disperato, e quindi è fondato moltissimo sull’emozionalità. Questo lo dimostra soprattutto la voce, un urlo esasperato all’eccesso, talvolta doppiato, alternato nei momenti più ska e pacati da un urlo più rauco. Oddio, da un certo punto di vista la voce è un punto debole, più che altro perché i nostri hanno così tanto da dire (i testi infatti sono chilometrici manco fossero quelli dei Cradle of Filth) che il cantante quasi non si ferma mai, non facendo quindi respirare né l’ascoltatore né la musica stessa, e quindi bisogna lavorare un po’ sulle dinamiche strategiche delle linee vocali.

Inoltre, in certi pezzi (come la pur bellissima “LED”), lo ska è purtroppo completamente assente (a parte qualche momento un po’ impercettibile senza l’ausilio delle cuffie), e fra l’altro in “MI 884” la parte ska è data un po’ troppo per le lunghe oltre a contare un assolo che poteva essere sviluppato sicuramente meglio.

Insomma, come tutti gli esperimenti ci vuole un po’ di tempo per metterlo a frutto, ma per ora questo disco, oltre a essere interessantissimo, è uno dei più intensi e fantasiosi che abbia sentito ultimamente, capace di toccare corde dell’animo difficilmente raggiungibili anche da un gruppo di black malinconico. E poi oh, finalmente dei testi intelligenti abili a far riflettere l’ascoltatore, dopo tutte quelle storielle horror, omaggi a Satana e quisquilie simili che infestano il panorama estremo!

Voto: 77

Claustrofobia
Scaletta:
1 – BMIS/ 2 – LED/ 3 – 4th Wave/ 4 – MI 884/ 5 – BMIS II/ 6 – IM Power/ 7 – Outro

MySpace:
http://www.myspace.com/fedontheliesofadyingworld

FaceBook:
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Tuesday, September 4, 2012

Hell United - "Aura Damage" (2012)

Album (Hellthrasher Productions, 11 Settembre 2012)
Formazione (2007): Void – voce/chitarra;
Rzulty – chitarra;
Bartollo – basso;
Dugy – batteria.

Provenienza: Tarnów (Polonia)

Canzone migliore del disco:
In teoria sarebbe "Totality of I" essendo la più forte dal punto di vista emotivo, ma siccome è un episodio più che altro doomeggiante e molto diverso dagli altri, preferirei citare "Apostle of Plague", che riflette di più lo stile consueto del gruppo.

Punto di forza dell’opera:
la capacità di combinare la violenza incontrollata con una certa raffinatezza melodica.

Una volta conosciuti come Eclypse, gli Hell United sono finalmente arrivati al mitico traguardo del terzo album (che però è il secondo con il nuovo nome) e dico fin da subito che sì, “Aura Damage” è veramente una mazzata in grande stile. Ma lo è in una maniera quasi raffinata, in un modo che si nutre continuamente di contrasti così da rendere molto vario e inventivo tutto l’insieme. E un’altra cosa notevole è che l’album, rispetto alle migliaia di dischi estremi in circolazione, spazza via l’ascoltatore già dai primissimi momenti, nel senso che non c’è nessuna introduzione, ma si parte subito alla velocità della luce, senza mostrare pietà.

Tale impietoso assalto è nervoso, articolato, sempre in divenire. Il black metal più spietato e solenne si unisce a un death metal tremendamente violento ma preciso, a volte isterico. Non c’è assolutamente nessuno spazio per le melodie, se non per quelle “storte” e maledette, seppur in “Totality of I” ci siano punte di disperazione che quasi “umanizzano” il tutto. Ma nonostante tutto questo, la musicalità è ricca di dettagli, è avvolgente tanto che spesso la differenza non la fa il collettivo ma il singolo, risolvendo così splendidamente le varie canzoni.

Ed è qui che entra nel discorso specialmente il lavoro delle due chitarre. Si tratta di un lavoro molto collaborativo e quindi creativo, con un’ascia che frequentemente integra e completa il riff della compagna. Ciò succede anche quando si va in blast, riuscendo così a creare intrecci inaspettati manco si stesse parlando dei magnifici Dawn. Il riffing è così curato che gli assoli si fanno vivi soltanto in poche canzoni, e fra l’altro sono pure brevi e belli veloci e scarnificanti. Ma a questo punto è pressoché obbligatorio citare la prestazione del basso, che, soprattutto durante i tempi lenti, riesce occasionalmente a dare ulteriore manforte ai propri compagni costruendo delle ottime linee (da menzionare il finale di “Totality of I”).

Come appena accennato, i nostri qualche volta preferiscono decelerare abbondantemente, ed è proprio nei momenti più doom che la musicalità si fa decisamente agghiacciante, terribile e oppressiva. Ma il bello è che questi non sono soltanto dei momenti, e lo dimostrano brani come:

- “Hinterland”, un vero incubo pieno di feedback e voci che paiono invocare chissà cosa in un rituale di morte e depravazione, e dove il tempo sembra che si fermi a causa di una batteria spezzettata (non parlerei di ritmo, tutt’altro) ai limiti del funeral doom (a proposito, è stato più che saggio mettere quest’episodio lungo la parte centrale, così da “calmare” un po’ gli animi);

- e la semi – disperata “Totality of I”, quasi tutta giocata sui tempi lenti se non per un devastante passaggio in blast introdotto meravigliosamente da un duetto basso/batteria e dal grugnito arrogante (fra l’altro continuamente doppiato) di Void che irrompe improvvisamente alla fine della pausa. Inoltre, è pressoché ottimo il finale senza speranza del pezzo, nel quale predomina la sezione ritmica, con tanto di batteria che dal doom passa a un certo momento a un tempo medio tonante e fiero in pieno stile black.

Vabbè certo, non tutto è oro quel che luccica. Per esempio, non trovo molto convincente “Maelstrom’s Gravity”, la quale poteva essere sviluppata meglio mentre alcuni passaggi un po’ troppo efficaci era forse meglio metterli quasi alla fine del pezzo, così da compensare il primo problema.
Per il resto, il comparto vocale si comporta benissimo, anche perché, oltre a essere bello intenso e sufficientemente creativo nelle linee vocali, presenta una buona fantasia nel proporre vari vocalizzi, pur essendo assolutamente predominanti i grugniti, passando così da urla anche disperate a voci più rauche; e la produzione, pulita e limpida, è capace di valorizzare giustamente tutti gli strumenti, visti i molti dettagli da cogliere.

Voto: 92/100

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Red Limitations/ 2 – Apostle of Plague/ 3 – Deathlike Cold/ 4 – Let Sleeping Dogs Lie/ 5 – Aura Damage/ 6 – Hinterland/ 7 – Maelstrom’s Gravity/ 8 – In Odore Sanctitatis/ 9 – Totality of I

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