Recensione pubblicata il 24 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Album autoprodotto (2011)
Formazione 2008): Marco Veraldi, voce;
Gianluca Molè, chitarre;
Giuseppe Tatangelo, basso;
Alessandro Vinci, batteria.
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
senz’ombra di dubbio l’ipnotica e spaventosa “Reborn in the Sick”. Non ci sono termini che possano descrivere pienamente la malattia e la particolarità di questo pezzo.
Punto di forza del disco:
la capacità del gruppo di costruire sempre canzoni dal taglio apocalittico attraverso una varietà e fantasia veramente rare.
Degli A Buried Existence potete leggere anche la recensione di “Ferocity” fatta ormai un secolo fa:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2010/02/buried-existence-ferocity-2008.html
Nota:
è stata corretta la parte riguardante la canzone intitolata "Unite" che fino a qualche giorno fa non credevo fosse una cover dei Throwdown (svista dovuta alla versione internettiana del disco in mio possesso). Che errore "irrecuperabile" eh?
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Chi mi conosce veramente sa che io ho una capacità di autocritica notevole e soprattutto sana. Sì perché rileggendo la rece che a suo tempo feci su “Ferocity” c’è qualcosa che proprio non mi convince, a parte il mio vecchio stile sbrodolante e senza spazi. Ovvero:
1) per paragonare gli A Buried Existence presi addirittura i brutallari Zora, che niente hanno della loro violenza cerebrale e psicologica, oltre che essere dal punto di vista strettamente musicale due gruppi ben distinti;
2) al contempo presi i Land of Hate che, benché il cantante sia lo stesso e benché le sonorità metalcore siano fondamentali in entrambe le esperienze, li citai spesso e volentieri come se la sola presenza di Marco Veraldi me lo consentisse, non accorgendomi delle tante differenze (di chitarra solista, dell’utilizzo delle battute, della struttura, dell’abilità di reinterpretarsi ecc… ecc…) che intercorrono fra le due formazioni;
3) non compresi del tutto una caratteristica a dir poco centrale del gruppo, cioè l’atmosfera desolante dei loro pezzi che si esplica anche attraverso la tendenza a proporre finali senza enfasi, praticamente da nulla di fatto, spaventosamente immobili e quindi emotivamente “inconcludenti”. E invece non apprezzai una tale scelta, anche perché i nostri, prima di arrivare alla conclusione, lavorano di fino riuscendo a potenziare il tutto tramite semplicemente l’intervento dei singoli “trascurando” fino ad un certo punto il fattore melodico. In sostanza, è un metodo strutturale abbastanza originale che rende lo schema strofa – ritornello il punto d’arrivo del climax, cosa che riesce ottimamente solo a pochissimi gruppi.
Per comprendere appieno questa metodologia mi sono in aiuto soprattutto le prime 4 canzoni, come ad esempio “Family Ties” (che finisce totalmente all’improvviso, nonostante si potesse sviluppare ancor di più e senza fra l’altro riprendere la strofa e il ritornello che nei primi momenti sembravano così importanti); oppure la seguente “Revenge” il cui “finale” si trastulla in un vertiginoso lento in dissolvenza con ogni speranza decimata e senza la presenza di un vero e proprio colpo di grazia conclusivo. Vabbè certo, non tutti i brani hanno questa suggestiva aura decostruzionista visto che a tal proposito “Reborn in the Sick” ha un andamento più logico ed emozionalmente attivo. Altri episodi invece vengono tutti giocati sulle variazioni di ogni singolo strumento su un canovaccio statico come può essere quello della strumentale (strumentale?) “28 Weeks Later”.
Ma nonostante ci sia una strumentale non vi è nessunissimo assolo di chitarra, al massimo ne viene abbozzato uno in “Combat Shock”, però di fatto i nostri hanno eliminato totalmente il concetto di assolo, ri – registrando quindi le vecchie canzoni secondo l’attuale discorso collettivo. In compenso hanno immesso qui e là nel proprio suono una chitarra solista che dando manforte alla chitarra ritmica riesce con fredde note (che in ogni caso concedono pochissimo alla melodia) a trasportare l’ascoltatore in un mondo spaventoso ed apocalittico, e senza fare chissà che cosa di tecnico. Alle volte mi vengono in mente i blackettoni torinesi Lilyum che utilizzano la solista in maniera simile. Ciò significa che oltre agli assoli hanno tolto di mezzo anche i vari suoni sintetici che seppur raramente si facevano vivi in “Ferocity”, sostituendo genialmente il loro gelo con una chitarra così fredda da sembrare quasi suonata da un robot.
Oddio, a dir la verità quest’attualizzazione dei vecchi pezzi, se da una parte risulta molto coraggiosa perché consente di testare in modo più diretto la maturità compositiva di un gruppo col passare degli anni (ragion per cui considero inutili e controproducenti le ri – registrazioni totalmente o quasi identiche a quelle originali), dall’altra non è sempre azzeccata, anche se in sé potrebbe non avere una piega. Nello specifico sto parlando di “Perverted Church”, che rispetto all’originale non fa esattamente una bella figura dato che è stata semplificata (per esempio la parte disperata e rullata è stata accorciata eliminando un po’ di linee vocali, mentre non vi è traccia dell’assolo originario). Stilisticamente insomma è stata messa al livello degli altri brani però a questo punto si potevano rifinire i momenti conclusivi, magari accentando la paranoia con il lavoro di batteria, tanto per fare un esempio.
Eppure, bisogna dare atto della rara varietà espressiva che si ritrova il gruppo, così da permettere una differenziazione dei vari pezzi a dir poco estrema senza però dimenticare uno stile ben preciso di fare death/thrash metal. E soprattutto dando particolare importanza ai tempi medio – lenti, e ciò significa sforzarsi un po’ di più per creare un’intensità (in 2 – 3 minuti fra l’altro, e così ci riescono veramente in pochi) che nell’immediato riescono a partorire solo quelli più veloci. Nell’ordine:
- in apertura troviamo “Family Ties” (di cui un anno venne fatto un video) che per ironia della sorte è furbescamente quella più veloce e tradizionalmente più death metal tanto da essere finora l’unica canzone degli A Buried Existence ad avere dei possenti blast – beats prima di “cascare” in un duro rallentamento metalcore;
- con “Revenge” entriamo in territori più tipici del gruppo. Trattasi di un episodio dal piglio più rockeggiante e che presenta un lavoro di basso semplice ma eccezionale. Nel “finale” doom da menzionare sia l’ottima e fantasiosa prestazione della batteria che l’eliminazione delle varie urla che caratterizzavano la versione originale;
- “Perverted Church” ha così tante facce da essere quasi la canzone più rappresentativa della succitata varietà espressiva. Infatti, a momenti thrash da headbanging sfrenato con relativo tapping che dire agghiacciante è un eufemismo combina soluzioni dal riffing melodico e “sfuggente”, ai quali viene alternata una paranoia che pare non finire mai a causa di un tempo medio dal sapore apocalittico. Questo sapore è inoltre accentuato dall’assenza della voce negli ultimi 90 secondi, a parte qualche minuscolo ma efficace intervento, così da assomigliare a “Look Around” dei conterranei Glacial Fear;
- La seguente “The Dying Breed” è tra le canzoni più severe, sia perché ha un riffing a volte allucinato e senza sbocchi melodici sia perché ha un lavoro di batteria marziale, abile ad enfatizzarlo e praticamente incapace di eseguire consistenti cambi di tempo se non rifacendosi (o ispirandosi) al metalcore più duro e lento. In sostanza è un pezzo che agisce nel profondo dell’animo (seppur qui manchi veramente qualcosa che faccia sobbalzare i timpani dall’entusiasmo, ed è per questo che poteva servire alla causa anche una modesta dose di chitarra solista) nel quale è principalmente la batteria che detta legge irrobustendosi nel finale (un po’ come succede in “28 Weeks Later”);
- “Reborn in the Sick” è invece come minimo una delle prime 5 più belle canzoni fatte da un gruppo calabarese oltre che l’essere decisamente una delle più particolari dell’album. Ha un andamento sonnolento quasi da trip – hop, con il suo tempo medio – lento reso stavolta più isterico e dai cambi improvvisi. Un pezzo ammaliante oserei dire che lungo la parte centrale diventa completamente pauroso, dai toni blackeggianti enfatizzati dall’uno – due ipnotico della batteria. Ecco come scrivere una canzone ultra – intensa senza sfoderare velocità assassine;
- Le quali si fanno vive strategicamente in “Public Enemies”, dalle parti death dal tupa – tupa furioso. Ma non solo di violenza cieca si parla dato che vi sono anche momenti più rock’n’roll piacevolmente grooveggianti prima di dare spazio ad un riffing praticamente e semplicemente allucinato. “Public Enemies” fra l’altro è uno dei brani più rigidi dal punto di vista strutturale ed esplica quel tipo di finale esemplificato in “The Dying Breed”;
- “Unite”, un titolo, un programma. Non sempre la prevedibilità è un difetto perché mi aspettavo effettivamente un metalcore tinto di thrash ed accompagnato da semplici cori. L’unica cosa inaspettata è la bizzarra introduzione che non solo contiene una chitarra minacciosa ed ipnotica ma anche per la prima volta una voce pulita. Da notare che "Unite" è una cover, precisamente del gruppo metalcore statunitense Throwdown (prima traccia contenuta nel suo secondo album datato 2001 "You Don't Have to be Blood to be Family"), qui rifatta in maniera sostanzialmente quasi identica all'originale, quindi un po' più di personalizzazione non avrebbe sicuramente guastato;
- “New World Desaster” è l’ultimo episodio preso da “Ferocity”, riadattato per l’occasione alle volte in maniera a dire il vero non del tutto convincente. Nello specifico non capisco perché si sono volute cambiare, seppur leggerissimamente, le suggestive linee vocali pulite dell’originale, rese ora più semplici ma povere allo stesso tempo. Nonostante ciò, è forse la canzone più bella e interessante dal punto di vista ritmico (da menzionare le danze sui tom – tom e l’eccentricità esternata durante i momenti più melodici e “liquidi” quasi alla Children Collide), con un basso sugli scudi;
- “Combat Shock”, ultimo fra i brani con l’apporto vocale, si caratterizza per un riffing molto duro e severo tanto da possedere nel proprio DNA stralci da death metal antico da incubo con tupa – tupa incorporati e riffs granitici stoppati i cui vuoti vengono enfatizzati perfettamente dalla sezione ritmica. E qui vengono rilette attraverso arpeggi inquietanti le influenze rockeggianti che fanno capolino nell’opera;
- Infine, “28 Weeks Later”, come già si sa, è la strumentale del disco, che altro non è che la cover del tema principale del film chiamato appunto “28 Settimane Dopo”. Ed è qui che i nostri sfogano tutta la propria componente apocalittica partendo da lugubri tastiere che guidano per tutto il tempo quella melodia maledetta e soffocante con lo scopo di terrorizzare l’ascoltatore scaraventandolo in un’atmosfera disumana e senza possibilità di scampo. La quale viene imbottita fra l’altro da un bellissimo lavoro di batteria atto a regalare una dinamicità molto in sintonia con lo stile del gruppo.
Ultimo appunto da muovere: preferisco di gran lunga la produzione iper – glaciale di “Ferocity” che quella più umana di “The Dying Breed”. E’ anche vero però che quest’”umanità” è stata sollecitata dall’assenza più totale dei campionamenti, anche se certi effetti alienanti innestati sulla voce (“Family Ties”) curiosamente sono presenti (o i miei timpani non ci sentono bene?), in maniera non molto coerente.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Family Ties/ 2 – Revenge/ 3 – Perverted Church/ 4 – The Dying Breed/ 5 – Reborn in the Sick/ 6 – Public Enemies/ 7 – Unite (Throwdown cover)/ 8 – New World Desaster/ 9 – Combat Shock/ 10 – 28 Weeks Later
MySpace
http://www.myspace.com/aburiedexistence
Tuesday, June 28, 2011
Glacial Fear - "Frames" (1997)
Recensione pubblicata il 15 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Album (Nocturnal Music, 1997)
Formazione (1992): Andrea “Big Foot” Rizzuto – voce, basso
Gianluca “Leon” Molè – chitarra, programming
Gianluca “Orko” Anastasi – chitarra (?)
Salvatoer “Deathead” Mancuso – batteria, programming
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
“Garden of Sight”: la perfezione assoluta! Qui c’è di tutto, perfino chitarre di zeppeliniana memoria. Ed un finale di fatto infinito, effetto di un testo così pessimistico e senza speranza da far considerare fringuelli i Napalm Death. Per non parlare della costruzione emotiva del pezzo che non sbaglia nemmeno un colpo. Ripeto, la perfezione assoluta.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la devastante e rara varietà e fantasia che il gruppo si ritrova appresso e che non fa mai perdere di vista, attraverso anche paradossali tipi di emozioni, un’atmosfera apocalittica che dopo ogni ascolto ti rimane nelle viscere della tua coscienza per non mollarti più.
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Curiosità:
come tantissimi altri gruppi italiani e non, solitamente underground, quest’album l’ho comprato in offerta, poco meno di un anno fa, nel mio negozio di fiducia sottocasa, Star Music. Un omaggio è giusto quello che ci vuole per un negozio (che però funge anche da libreria) per niente specializzato nella nostra musica che però la promuove in maniera efficace e soprattutto dando una mano alle formazioni nostrane.
Alcune delle quali si trovano proprio nella lista dei ringraziamenti dei Glacial Fear, nel caso specifico i napoletani Funereum (tremendamente promettenti ma dalla vita brevissima fra l’altro senza mai pubblicare un album) e i genovesi Detestor (gruppo geniale come pochi);
la stessa pagina dei ringraziamenti è intrisa della Storia del metal estremo italiano: vi si trovano infatti, oltre ai Detestor, gli immarcescibili catanesi Schizo, i malati pugliesi Funeral Oration, i tecnici lombardo/pugliesi Gory Blister e, dulcis in fundo, il gruppo bolognese che pubblicò nel lontano 1993 il primo vero disco death metal della penisola, cioè gli Electrocution.
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I Glacial Fear sono letteralmente uno dei gruppi storici della nostra penisola, pur non essendo particolarmente conosciuti. A loro va probabilmente ascritto il merito di aver dato il via a quella scia inarrestabile di formazioni politicizzate dall’impronta quasi anarchica (e comunque SEMPRE contro i vari tipi di ingiustizie) come gli Zora, i Land of Hate, gli Acrylate e compagnia, che in parole povere tutte insieme non formano altro che la (piccola) grande ed agguerrita scena calabrese, da sempre ospitata volentieri sulle pagine di Timpani allo Spiedo. Fra l’altro, “Frames” non rappresenta altro che il primissimo album dei Glacial Fear che, se erano molto interessanti già all’epoca, oggigiorno stanno ancora continuando in maniera coraggiosa a portare avanti un cammino evolutivo abile a sorprendere ogni volta l’ascoltatore.
Eppure, mi pare un po’ difficile considerare “Frames” come un album veramente catalogabile come di Metal estremo. Va bene, ci sono urla belle grosse a là Isis (“In the Absolute Deep Blue Sea”) mentre grugniti non esattamente profondissimi dominano la scena alle volte in modi addirittura molto melodici e incredibilmente intonati (“Underworld”). Ma una delle caratteristiche peculiari di (quasi) tutto il metal estremo sono i ritmi indiavolati, che qui non dico che sono assenti però marginali e paradossalmente non – violenti sì (per esempio non c’è nemmeno l’ombra di un misero blast – beat). Si fa infatti spesso uso di tempi medi belli groovy ma presentando al contempo sia una bella tecnica che un’occasionale tendenza a sparare ritmi di una bizzarria talvolta mai sentita (sentitevi a tal proposito l’isteria impressionante e filo – jazzistica di “Zoom” – che nel finale genialmente la mischia con tutta un’altra soluzione facendo esplodere il tutto).
Ma non credete che dal punto di vista vocale ci si fermi soltanto lì. Sì, perché i nostri hanno avuto la brillante accortezza di ospitare nella maggior parte delle canzoni Patrizia “Patty” Schioppa, che con i suoi toni più alti e puliti riesce a donare un’atmosfera quasi minacciosa. Non facendo neanche chissà che cosa dato che ha uno stile di canto statico e piuttosto limitato, eppure diavolo se è efficace! Curiosamente, si fa viva particolarmente nei momenti più psichedelici (nel senso letterale del termine) ed apparentemente delicati, come in “Third Millenium” dove viene introdotta da un urlo “echizzato” in perfetto manuale black metal, oppure nei momenti persino più sereni (“Underworld”). A dir la verità sarebbe stato meglio testarla anche in passaggi diversi da questi così da darle maggior respiro, ergo più capacità d’interpretazione.
Un’altra caratteristica interessante dei Glacial Fear e che li allontana notevolmente dai soliti gruppi qui recensiti è rappresentato dal tipo di riffing. Infatti, sarò blasfemo ma può capitare che i classici riffs granitici del gruppo virino nientepopodimeno che nel più duro nu (o new) metal. A tal proposito, ascoltatevi per bene la rocciosa “Theocratic Stubborn” che spesso richiama la pesantezza tipica del genere. D’altro canto, qui e là affiorano spesso sonorità rockeggianti, perfino nel thrash metal da headbanging di “Frames” (curioso come il pezzo più veloce, e quindi non esattamente rappresentativo della musicalità della formazione, abbia dato il titolo al disco), ma è anche vero che i Glacial Fear sono stati capaci di partorire un disco molto vario e fantasioso riempiendo inoltre il discorso di qualche assolo per nulla banale.
Per far comprendere appieno la natura multiforme di “Frames”, la seconda parte dell’opera è sicuramente quella più congeniale essendo quella decisamente più coraggiosa, e non soltanto per la presenza conclusiva e magnifica del tour de force di ben 9 minuti di “Garden of Sight” (che ad un certo punto contiene raffinati sviluppi arabeggianti con tanto di abbozzate percussioni tribali). Nell’ordine:
- “Third Millenium” si fa rispettare per dei tratti marcatamente black metal unito ad un austero ma spaventoso decadentismo portato avanti da lugubri tastiere;
- “Look Around” è isterica in senso molto rock ed è da menzionare soprattutto per la “scomparsa” della voce negli ultimi 2 minuti e mezzo, così da permettere una lunga fase strumentale che in mancanza avrebbe necessitato di parti più consistenti dal punto di vista emotivo e di almeno un assolo in più. Fra l’altro, Patrizia è qui completamente assente e probabilmente il suo apporto melodico avrebbe regalato più linfa vitale al pezzo che invece non arriva molto lontano;
- “Underworld” è in un certo senso la canzone più commerciale (in senso buono) di tutto il lotto avendo un andamento tremendamente melodico con la voce che non solo fa quasi il verso al cantato punk – oi! ma è incredibilmente più alta del solito. Il carattere sereno e armonioso di quest’episodio è giustificato dal testo praticamente vendicativo contro il potente di turno che in uno scenario apocalittico si trova solo nel mondo e che di conseguenza, non potendo più realizzare i suoi sogni di onnipotenza, dovrà pagare presto i suoi crimini. Da notare inoltre in tale brano, oltre a quella di una chitarra solista perfetta, l’ottima prestazione del basso che nei Glacial Fear non è raro sentirlo intrufolarsi anche lui nel discorso melodico rifiutando così il ruolo di seconda/terza chitarra che gli è di solito attribuito nel metal (si ascolti in tal senso pure “In the Absolute Deep Blue Sea”).
Ma l’atmosfera maledetta e cupa del gruppo non sarebbe niente se non ci fossero degli effetti sfuggenti, minimalisti ed estranianti a coronare il tutto, così apparentemente innocui da scaraventare l’ascoltatore in un qualcosa di freddo e disumano. A volte, come in “Theocratic Stubborn” sfoderano campionamenti più diretti, ossia nel caso specifico delle vere e proprie badilate. Ne viene fuori un quadro nel quale l’elemento elettronico prende spesso piede concedendosi addirittura in “Garden of Sight”, fra i tanti assoli di chitarre, anche un ottimo solismo di sintetizzatore.
In parole povere, una musica che esalta e difende il lato civile del Sud, che si dimostra ancora una volta avanti nel metal.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In the Absolute Deep Blue Sea/ 2 – Numb/ 3 – Frames/ 4 – Zoom/ 5 – Theocratic Stubborn/ 6 – Third Millenium/ 7 – Look Around/ 8 – Underworld/ 9 – Garden of Sight
FaceBook:
http://www.facebook.com/search/?q=glacial+fear&init=quick#/pages/Glacial-Fear/45727677942?v=wall&vie
Album (Nocturnal Music, 1997)
Formazione (1992): Andrea “Big Foot” Rizzuto – voce, basso
Gianluca “Leon” Molè – chitarra, programming
Gianluca “Orko” Anastasi – chitarra (?)
Salvatoer “Deathead” Mancuso – batteria, programming
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
“Garden of Sight”: la perfezione assoluta! Qui c’è di tutto, perfino chitarre di zeppeliniana memoria. Ed un finale di fatto infinito, effetto di un testo così pessimistico e senza speranza da far considerare fringuelli i Napalm Death. Per non parlare della costruzione emotiva del pezzo che non sbaglia nemmeno un colpo. Ripeto, la perfezione assoluta.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la devastante e rara varietà e fantasia che il gruppo si ritrova appresso e che non fa mai perdere di vista, attraverso anche paradossali tipi di emozioni, un’atmosfera apocalittica che dopo ogni ascolto ti rimane nelle viscere della tua coscienza per non mollarti più.
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Curiosità:
come tantissimi altri gruppi italiani e non, solitamente underground, quest’album l’ho comprato in offerta, poco meno di un anno fa, nel mio negozio di fiducia sottocasa, Star Music. Un omaggio è giusto quello che ci vuole per un negozio (che però funge anche da libreria) per niente specializzato nella nostra musica che però la promuove in maniera efficace e soprattutto dando una mano alle formazioni nostrane.
Alcune delle quali si trovano proprio nella lista dei ringraziamenti dei Glacial Fear, nel caso specifico i napoletani Funereum (tremendamente promettenti ma dalla vita brevissima fra l’altro senza mai pubblicare un album) e i genovesi Detestor (gruppo geniale come pochi);
la stessa pagina dei ringraziamenti è intrisa della Storia del metal estremo italiano: vi si trovano infatti, oltre ai Detestor, gli immarcescibili catanesi Schizo, i malati pugliesi Funeral Oration, i tecnici lombardo/pugliesi Gory Blister e, dulcis in fundo, il gruppo bolognese che pubblicò nel lontano 1993 il primo vero disco death metal della penisola, cioè gli Electrocution.
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I Glacial Fear sono letteralmente uno dei gruppi storici della nostra penisola, pur non essendo particolarmente conosciuti. A loro va probabilmente ascritto il merito di aver dato il via a quella scia inarrestabile di formazioni politicizzate dall’impronta quasi anarchica (e comunque SEMPRE contro i vari tipi di ingiustizie) come gli Zora, i Land of Hate, gli Acrylate e compagnia, che in parole povere tutte insieme non formano altro che la (piccola) grande ed agguerrita scena calabrese, da sempre ospitata volentieri sulle pagine di Timpani allo Spiedo. Fra l’altro, “Frames” non rappresenta altro che il primissimo album dei Glacial Fear che, se erano molto interessanti già all’epoca, oggigiorno stanno ancora continuando in maniera coraggiosa a portare avanti un cammino evolutivo abile a sorprendere ogni volta l’ascoltatore.
Eppure, mi pare un po’ difficile considerare “Frames” come un album veramente catalogabile come di Metal estremo. Va bene, ci sono urla belle grosse a là Isis (“In the Absolute Deep Blue Sea”) mentre grugniti non esattamente profondissimi dominano la scena alle volte in modi addirittura molto melodici e incredibilmente intonati (“Underworld”). Ma una delle caratteristiche peculiari di (quasi) tutto il metal estremo sono i ritmi indiavolati, che qui non dico che sono assenti però marginali e paradossalmente non – violenti sì (per esempio non c’è nemmeno l’ombra di un misero blast – beat). Si fa infatti spesso uso di tempi medi belli groovy ma presentando al contempo sia una bella tecnica che un’occasionale tendenza a sparare ritmi di una bizzarria talvolta mai sentita (sentitevi a tal proposito l’isteria impressionante e filo – jazzistica di “Zoom” – che nel finale genialmente la mischia con tutta un’altra soluzione facendo esplodere il tutto).
Ma non credete che dal punto di vista vocale ci si fermi soltanto lì. Sì, perché i nostri hanno avuto la brillante accortezza di ospitare nella maggior parte delle canzoni Patrizia “Patty” Schioppa, che con i suoi toni più alti e puliti riesce a donare un’atmosfera quasi minacciosa. Non facendo neanche chissà che cosa dato che ha uno stile di canto statico e piuttosto limitato, eppure diavolo se è efficace! Curiosamente, si fa viva particolarmente nei momenti più psichedelici (nel senso letterale del termine) ed apparentemente delicati, come in “Third Millenium” dove viene introdotta da un urlo “echizzato” in perfetto manuale black metal, oppure nei momenti persino più sereni (“Underworld”). A dir la verità sarebbe stato meglio testarla anche in passaggi diversi da questi così da darle maggior respiro, ergo più capacità d’interpretazione.
Un’altra caratteristica interessante dei Glacial Fear e che li allontana notevolmente dai soliti gruppi qui recensiti è rappresentato dal tipo di riffing. Infatti, sarò blasfemo ma può capitare che i classici riffs granitici del gruppo virino nientepopodimeno che nel più duro nu (o new) metal. A tal proposito, ascoltatevi per bene la rocciosa “Theocratic Stubborn” che spesso richiama la pesantezza tipica del genere. D’altro canto, qui e là affiorano spesso sonorità rockeggianti, perfino nel thrash metal da headbanging di “Frames” (curioso come il pezzo più veloce, e quindi non esattamente rappresentativo della musicalità della formazione, abbia dato il titolo al disco), ma è anche vero che i Glacial Fear sono stati capaci di partorire un disco molto vario e fantasioso riempiendo inoltre il discorso di qualche assolo per nulla banale.
Per far comprendere appieno la natura multiforme di “Frames”, la seconda parte dell’opera è sicuramente quella più congeniale essendo quella decisamente più coraggiosa, e non soltanto per la presenza conclusiva e magnifica del tour de force di ben 9 minuti di “Garden of Sight” (che ad un certo punto contiene raffinati sviluppi arabeggianti con tanto di abbozzate percussioni tribali). Nell’ordine:
- “Third Millenium” si fa rispettare per dei tratti marcatamente black metal unito ad un austero ma spaventoso decadentismo portato avanti da lugubri tastiere;
- “Look Around” è isterica in senso molto rock ed è da menzionare soprattutto per la “scomparsa” della voce negli ultimi 2 minuti e mezzo, così da permettere una lunga fase strumentale che in mancanza avrebbe necessitato di parti più consistenti dal punto di vista emotivo e di almeno un assolo in più. Fra l’altro, Patrizia è qui completamente assente e probabilmente il suo apporto melodico avrebbe regalato più linfa vitale al pezzo che invece non arriva molto lontano;
- “Underworld” è in un certo senso la canzone più commerciale (in senso buono) di tutto il lotto avendo un andamento tremendamente melodico con la voce che non solo fa quasi il verso al cantato punk – oi! ma è incredibilmente più alta del solito. Il carattere sereno e armonioso di quest’episodio è giustificato dal testo praticamente vendicativo contro il potente di turno che in uno scenario apocalittico si trova solo nel mondo e che di conseguenza, non potendo più realizzare i suoi sogni di onnipotenza, dovrà pagare presto i suoi crimini. Da notare inoltre in tale brano, oltre a quella di una chitarra solista perfetta, l’ottima prestazione del basso che nei Glacial Fear non è raro sentirlo intrufolarsi anche lui nel discorso melodico rifiutando così il ruolo di seconda/terza chitarra che gli è di solito attribuito nel metal (si ascolti in tal senso pure “In the Absolute Deep Blue Sea”).
Ma l’atmosfera maledetta e cupa del gruppo non sarebbe niente se non ci fossero degli effetti sfuggenti, minimalisti ed estranianti a coronare il tutto, così apparentemente innocui da scaraventare l’ascoltatore in un qualcosa di freddo e disumano. A volte, come in “Theocratic Stubborn” sfoderano campionamenti più diretti, ossia nel caso specifico delle vere e proprie badilate. Ne viene fuori un quadro nel quale l’elemento elettronico prende spesso piede concedendosi addirittura in “Garden of Sight”, fra i tanti assoli di chitarre, anche un ottimo solismo di sintetizzatore.
In parole povere, una musica che esalta e difende il lato civile del Sud, che si dimostra ancora una volta avanti nel metal.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In the Absolute Deep Blue Sea/ 2 – Numb/ 3 – Frames/ 4 – Zoom/ 5 – Theocratic Stubborn/ 6 – Third Millenium/ 7 – Look Around/ 8 – Underworld/ 9 – Garden of Sight
FaceBook:
http://www.facebook.com/search/?q=glacial+fear&init=quick#/pages/Glacial-Fear/45727677942?v=wall&vie
Cemento - "Vite" (2011)
Recensione pubblicata l'8 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Ep autoprodotto (2011)
Formazione: Sconosciuta (presto la saprete!)
Provenienza: Pordenone, Friuli - Venezia Giulia
Canzone migliore dell’ep:
indubbiamente l’oscura “Ricordi”, follia totale!
Punto di forza del disco:
riflettendoci su, è l’ossessività paranoica ed ipnotizzante delle linee vocali, anche perchè esternate in questo modo dimostrano una buona personalità di fondo.
I Cemento sono il classico gruppo per intenditori. Sì perché il mathcore è (quasi) come il funeral doom: lo ascoltano in pochi, di conseguenza pochi lo suonano. I Cemento sono per Timpani allo Spiedo un evento enorme perché finalmente sono riuscito per la prima volta a far entrare in scuderia una formazione mathcore, una lacuna pressoché imperdonabile. Soprattutto perché questo genere particolarissimo, che muove dal grindcore per partorire qualcosa di nemmeno paragonabile ai generi estremi tradizionalmente conosciuti, è l’essenza stessa su cui è nata questa webzine 2 anni e mezzo fa: l’essenza del puro estremo, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello fisico, sia da quello esecutivo e come ultimo da quello compositivo. Insomma, stavolta siamo dalle parti di quell’ultra – violenza che il black metal spesso si sogna soltanto, un’ultra – violenza di cui come già scritto, l’essere fondamentalmente underground è l’effetto principe pauroso (ed in certi specifici casi giustificatissimo).
Suonare mathcore significa in linee generali le seguenti cose:
1) essere particolarmente tecnici fino a costruire fra le altre un riffing isterico e dissonante tanto che i Cemento concedono pochissimo alla melodia ma quando lo fanno riescono a trasmettere una bella dose di disperazione (“Buio” e “Neve” specialmente). Ciò però non significa che non sanno mai essere giocosi con la propria materia, e per questo vi consiglio di ascoltare la bellissima “Violet Wall/You” nella quale vi è un’esilarante citazione della sigla dei Simpson!
D’altro canto, essere tecnici non equivale necessariamente ad esibirsi in assoli infiniti dato che i nostri non ne propongono nemmeno uno, scegliendo al massimo puntatine di chitarra solista come nelle tentazioni rumoriste di “Buio” o nella sofferta maestosità di “Neve” (che nel finale di chitarre ne conta addirittura ben 3!);
2) creare un discorso ritmico sempre in tensione ed in divenire, ergo bello imprevedibile e complicato. I Cemento però riescono ad offrire un seppur fragile equilibrio fra ritmiche più convenzionali e di più raffinate e bizzarre. In parole povere, qui e là affiorano influenze provenienti dal metalcore più roccioso come tupa – tupa con tanto di doppia cassa in perfetto stile speed metal (“Violet Wall/You”), presentando comunque il discorso sempre ovviamente in maniera dinamica e non disdegnando neanche blast – beats, a volte resi così irregolari da stordire l’ascoltatore (“Buio”), e soprattutto senza dimenticare di enfatizzare l’intero l’insieme;
3) come conseguenza di tutto ciò, viene la libertà talvolta estrema che il mathcore si concede nella fase di costruzione strutturale dei pezzi. In alcuni casi, come nei War From a Harlots Mouth, ogni soluzione sembra praticamente staccata dalle altre anche in uno stesso brano come se si stesse cercando di emulare il continuo e irrazionale flusso della mente. Nei Cemento invece non è presente questa caratteristica, anche perché loro risultano incredibilmente capaci di partorire un discorso piuttosto logico e fluido dal punto di vista emotivo (“Violet Wall/You" è il massimo esempio). Inoltre, pur in un modo abbastanza personale e non scontato, in un pezzo geniale come “Ricordi” sono riusciti a rileggere la classica struttura a strofa – ritornello apportando via via pesanti variazioni di natura statica (ossia vale quella stessa variazione per esempio in tutte e 4 le battute, insomma un po’ come quanto fatto dai melodici deathettoni svedesi Armageddon in “Crossing the Rubicon” del 1997, geniale e raffinato album allo stesso tempo superficiale e tronfio) ad un passaggio che precedentemente figurava più semplice e diretto. D’altro canto, a partire curiosamente da “Strade” per finire in “Neve”, il gruppo ricorre almeno una volta ad una pausa bella lunga come a voler separare l’ep in due parti (la prima ben più continua e senza pietà) vagamente distinte solo da questo fattore. Per carità, la pausa sarà anche d’effetto ma a forza di riproporla sembra un po’ troppo semplicistica per potenziare degnamente tutta la musica, ed inoltre, in rapporto alla lunghezza solitamente breve dei pezzi, forse gli stessi ne risentono per riacquistare ed aumentare la tensione creatasi precedentemente;
4) urlare a più non posso tanto che in questo caso l’urlo appare un po’ sgraziato, insomma lontanissimo dalla ferocia di un Kurt Ballou dei Converge, eppure molto suggestivo e disperato. Infatti ci si avvicina in maniera molto similare a quello di Edoardo degli ormai defunti Deprogrammazione, non privandosi però di qualche variazione al tema con le urla più soffocate e gutturali di “Buio” (che conta pure grugniti intensi ed “umani”) oppure con i veri e propri grugniti lerci di “Violet Wall/You”. La caratteristica più interessante proviene dal fatto che qui si ama ripetere spesso e volentieri uno stesso verso per brano massimo per 4 volte di seguito così da creare un’atmosfera pericolosamente paranoica e di accumulazione di tensione la quale culmina inevitabilmente nel finale. Peccato però che la voce viene probabilmente utilizzata in maniera un po’ monodimensionale perché praticamente 5 pezzi su… 7 (indovinate un po’ qual è la strumentale…) si concludono improvvisamente sempre insieme ad un urlo tagliente congedando il tutto. Va bene per qualche brano ma così facendo il gioco diventa un po’ troppo semplice e a mano a mano poco incisivo.
Un po’ meno semplicistica risulta la caratterizzazione dei vari pezzi. Fra i quali ne spiccano soprattutto 3, ovvero:
- “Ricordi”, sicuramente la più bizzarra e personale, anche dal punto di vista emotivo. Riffs ipnotici e disturbanti, vuoti di chitarra e basso, un’atmosfera maledetta e ritualistica acuita da cori maledettamente “spenti” (gli unici, fra l’altro puliti, del disco), così spiritati da non sembrare appartenenti a questo mondo. E attenzione a non trascurare nemmeno quel favoloso e inquietante giro di basso che finalmente s’infila nel discorso melodico dando manforte a chitarre soffocanti e minimaliste;
- “Violet Wall/You”, di cui finora ho elencato tutte le caratteristiche che lo rendono unico tranne quelle influenze thrasheggianti che si trovano nei primi momenti, riletti in chiave piuttosto personale;
- L’Outro, ossia la strumentale dell’opera, tutta fondata su sentimenti contrastanti e su pause molto d’atmosfera che li dividono e legano allo stesso tempo, giocando tutto sui tempi medio – lenti, caso pressoché unico. Prima la musica è melodica e attendista, dopodiché si fa minacciosa e minimalista, infine esplode in una disperazione quasi maestosa, sviluppata egregiamente con la sovrabbondanza di chitarre soliste e con la batteria che si fa lentamente più astratta ed eccentrica, concludendo il brano in maniera sì logica ma al contempo brusca e soffocata visto che dal punto di vista melodico non vi è esattamente un picco emotivo. Così il tutto assume contorni senza speranza e fatalistici.
Come ultima cosa, c’è da parlare della produzione, secca e pulita, con tutti gli strumenti ben bilanciati fra di loro, e pochissimamente propensa a utilizzare l’effettistica.
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sassi/ 2 – Buio/ 3 – Vite/ 4 – Ricordi/ 5 – Strade/ 6 – Violet Wall - You/ 7 – Neve/ 8 – Outro
MySpace:
www.myspace.com/tombadicemento
Ep autoprodotto (2011)
Formazione: Sconosciuta (presto la saprete!)
Provenienza: Pordenone, Friuli - Venezia Giulia
Canzone migliore dell’ep:
indubbiamente l’oscura “Ricordi”, follia totale!
Punto di forza del disco:
riflettendoci su, è l’ossessività paranoica ed ipnotizzante delle linee vocali, anche perchè esternate in questo modo dimostrano una buona personalità di fondo.
I Cemento sono il classico gruppo per intenditori. Sì perché il mathcore è (quasi) come il funeral doom: lo ascoltano in pochi, di conseguenza pochi lo suonano. I Cemento sono per Timpani allo Spiedo un evento enorme perché finalmente sono riuscito per la prima volta a far entrare in scuderia una formazione mathcore, una lacuna pressoché imperdonabile. Soprattutto perché questo genere particolarissimo, che muove dal grindcore per partorire qualcosa di nemmeno paragonabile ai generi estremi tradizionalmente conosciuti, è l’essenza stessa su cui è nata questa webzine 2 anni e mezzo fa: l’essenza del puro estremo, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello fisico, sia da quello esecutivo e come ultimo da quello compositivo. Insomma, stavolta siamo dalle parti di quell’ultra – violenza che il black metal spesso si sogna soltanto, un’ultra – violenza di cui come già scritto, l’essere fondamentalmente underground è l’effetto principe pauroso (ed in certi specifici casi giustificatissimo).
Suonare mathcore significa in linee generali le seguenti cose:
1) essere particolarmente tecnici fino a costruire fra le altre un riffing isterico e dissonante tanto che i Cemento concedono pochissimo alla melodia ma quando lo fanno riescono a trasmettere una bella dose di disperazione (“Buio” e “Neve” specialmente). Ciò però non significa che non sanno mai essere giocosi con la propria materia, e per questo vi consiglio di ascoltare la bellissima “Violet Wall/You” nella quale vi è un’esilarante citazione della sigla dei Simpson!
D’altro canto, essere tecnici non equivale necessariamente ad esibirsi in assoli infiniti dato che i nostri non ne propongono nemmeno uno, scegliendo al massimo puntatine di chitarra solista come nelle tentazioni rumoriste di “Buio” o nella sofferta maestosità di “Neve” (che nel finale di chitarre ne conta addirittura ben 3!);
2) creare un discorso ritmico sempre in tensione ed in divenire, ergo bello imprevedibile e complicato. I Cemento però riescono ad offrire un seppur fragile equilibrio fra ritmiche più convenzionali e di più raffinate e bizzarre. In parole povere, qui e là affiorano influenze provenienti dal metalcore più roccioso come tupa – tupa con tanto di doppia cassa in perfetto stile speed metal (“Violet Wall/You”), presentando comunque il discorso sempre ovviamente in maniera dinamica e non disdegnando neanche blast – beats, a volte resi così irregolari da stordire l’ascoltatore (“Buio”), e soprattutto senza dimenticare di enfatizzare l’intero l’insieme;
3) come conseguenza di tutto ciò, viene la libertà talvolta estrema che il mathcore si concede nella fase di costruzione strutturale dei pezzi. In alcuni casi, come nei War From a Harlots Mouth, ogni soluzione sembra praticamente staccata dalle altre anche in uno stesso brano come se si stesse cercando di emulare il continuo e irrazionale flusso della mente. Nei Cemento invece non è presente questa caratteristica, anche perché loro risultano incredibilmente capaci di partorire un discorso piuttosto logico e fluido dal punto di vista emotivo (“Violet Wall/You" è il massimo esempio). Inoltre, pur in un modo abbastanza personale e non scontato, in un pezzo geniale come “Ricordi” sono riusciti a rileggere la classica struttura a strofa – ritornello apportando via via pesanti variazioni di natura statica (ossia vale quella stessa variazione per esempio in tutte e 4 le battute, insomma un po’ come quanto fatto dai melodici deathettoni svedesi Armageddon in “Crossing the Rubicon” del 1997, geniale e raffinato album allo stesso tempo superficiale e tronfio) ad un passaggio che precedentemente figurava più semplice e diretto. D’altro canto, a partire curiosamente da “Strade” per finire in “Neve”, il gruppo ricorre almeno una volta ad una pausa bella lunga come a voler separare l’ep in due parti (la prima ben più continua e senza pietà) vagamente distinte solo da questo fattore. Per carità, la pausa sarà anche d’effetto ma a forza di riproporla sembra un po’ troppo semplicistica per potenziare degnamente tutta la musica, ed inoltre, in rapporto alla lunghezza solitamente breve dei pezzi, forse gli stessi ne risentono per riacquistare ed aumentare la tensione creatasi precedentemente;
4) urlare a più non posso tanto che in questo caso l’urlo appare un po’ sgraziato, insomma lontanissimo dalla ferocia di un Kurt Ballou dei Converge, eppure molto suggestivo e disperato. Infatti ci si avvicina in maniera molto similare a quello di Edoardo degli ormai defunti Deprogrammazione, non privandosi però di qualche variazione al tema con le urla più soffocate e gutturali di “Buio” (che conta pure grugniti intensi ed “umani”) oppure con i veri e propri grugniti lerci di “Violet Wall/You”. La caratteristica più interessante proviene dal fatto che qui si ama ripetere spesso e volentieri uno stesso verso per brano massimo per 4 volte di seguito così da creare un’atmosfera pericolosamente paranoica e di accumulazione di tensione la quale culmina inevitabilmente nel finale. Peccato però che la voce viene probabilmente utilizzata in maniera un po’ monodimensionale perché praticamente 5 pezzi su… 7 (indovinate un po’ qual è la strumentale…) si concludono improvvisamente sempre insieme ad un urlo tagliente congedando il tutto. Va bene per qualche brano ma così facendo il gioco diventa un po’ troppo semplice e a mano a mano poco incisivo.
Un po’ meno semplicistica risulta la caratterizzazione dei vari pezzi. Fra i quali ne spiccano soprattutto 3, ovvero:
- “Ricordi”, sicuramente la più bizzarra e personale, anche dal punto di vista emotivo. Riffs ipnotici e disturbanti, vuoti di chitarra e basso, un’atmosfera maledetta e ritualistica acuita da cori maledettamente “spenti” (gli unici, fra l’altro puliti, del disco), così spiritati da non sembrare appartenenti a questo mondo. E attenzione a non trascurare nemmeno quel favoloso e inquietante giro di basso che finalmente s’infila nel discorso melodico dando manforte a chitarre soffocanti e minimaliste;
- “Violet Wall/You”, di cui finora ho elencato tutte le caratteristiche che lo rendono unico tranne quelle influenze thrasheggianti che si trovano nei primi momenti, riletti in chiave piuttosto personale;
- L’Outro, ossia la strumentale dell’opera, tutta fondata su sentimenti contrastanti e su pause molto d’atmosfera che li dividono e legano allo stesso tempo, giocando tutto sui tempi medio – lenti, caso pressoché unico. Prima la musica è melodica e attendista, dopodiché si fa minacciosa e minimalista, infine esplode in una disperazione quasi maestosa, sviluppata egregiamente con la sovrabbondanza di chitarre soliste e con la batteria che si fa lentamente più astratta ed eccentrica, concludendo il brano in maniera sì logica ma al contempo brusca e soffocata visto che dal punto di vista melodico non vi è esattamente un picco emotivo. Così il tutto assume contorni senza speranza e fatalistici.
Come ultima cosa, c’è da parlare della produzione, secca e pulita, con tutti gli strumenti ben bilanciati fra di loro, e pochissimamente propensa a utilizzare l’effettistica.
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sassi/ 2 – Buio/ 3 – Vite/ 4 – Ricordi/ 5 – Strade/ 6 – Violet Wall - You/ 7 – Neve/ 8 – Outro
MySpace:
www.myspace.com/tombadicemento
Beasts of Torah - "Demo 2009" (2009)
Recensione pubblicata il 30 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Demo autoprodotto (15 Maggio 2009)
Formazione (2009): Hyperion, voce e basso (poi sostituito da Alastor);
K. Mega, chitarra;
Valgoroth, batteria.
Provenienza: Palermo, Sicilia
Canzone migliore del demo:
provo una particolare predilezione per “Inhaling the Ixion Winds”, in sostanza perché è l’episodio più violento di tutto il lotto dato che ha una parte conclusiva imbottita di un riffing sì semplice ma veramente impazzito. Inoltre, è degna di menzione anche per l’utilizzo di una specie di urlo più gutturale e soffocato che riesce ad aggiungere più malattia al tutto.
Punto di forza del demo:
probabilmente la capacità del batterista di rendere l’assalto ancora più violento ed intenso attraverso interventi sempre precisi ma semplici e diretti, lontani mille miglia dallo stile tecnico e tempestoso dei batteristi di gruppi ben diversi come i sardi Cold Empire ed i liguri Sacradis.
Curiosità:
Torah in ebraico significa “insegnamento” o “legge”. Ma è anche il termine per indicare i 5 libri della Bibbia ebraica (Tanakh).
----------------------------------------------------------------------------------------------------------
Eccovi la prima reazione che ho avuto sapendo dell’esistenza dei Beasts of Torah su Metal – Archives:
“Ma ‘sti qua so’ fascisti?” (infatti, se si fa attenzione l’estremità inferiore della croce rovesciata del loro logo forma praticamente una croce celtica. Ma se c’è sul serio tale connotazione politica nel gruppo allora secondo me dovrebbe scattare automaticamente l’obbligo di cantare in madrelingua).
Eccovi invece la seconda, determinata da un puro caso perché Valgoroth un giorno ebbe la bella pensata di aggiungermi su Msn avendo letto un mio vecchio annuncio su Internet nel quale dice(vo) di vendere qualcosa:
“Per caso suoni in un gruppo black siciliano?” (o qualcosa del genere).
La terza è nata da una curiosità impellente sperando per un pervertito amore per il paradosso che la cosa fosse vera (e infatti…):
“Cooosa? K. Mega è lo stesso tastierista dei Tuam Nescis? Oddio, sona sia in un gruppo di filo – cristiani che in un altro di occulto – satanisti?” (solo che il caso deliberatamente più eclatante che la storia ricordi è stato Hellhammer dei Mayhem che per un po’ di tempo militò nei cristianissimi Antestor….)
L’ultima invece è stata di meraviglia, di stupore, anche perché mi aspettavo una musica simile notando il minutaggio esiguo dei vari brani:
“VIOLENZA, VIOLENZA, VIOLENZAAAAA!” (certo che detto da uno che non ha mai tirato un pugno – oddio, è un po’ inesatto… - in vita sua fa una certa impressione nevvero?)
D’altro canto, un massacro del genere quasi fa da contrasto con le interessanti liriche occulte che alle volte danno un tocco di virtuosismo citando addirittura nel brano omonimo nient’altro che Melchizedek. Dietro cui si cela, nonostante il nome non molto rassicurante, il ritorno di Gesù Cristo, una reincarnazione legata ad una fantasiosa teoria occulta (di Eklal Kueshana, pseudonimo di Richard Kieninger, nel libro pubblicato nel 1963 "The Ultimate Frontier") che annunciava il risorgere del continente perduto di Lemuria (in parole povere il fratello di Atlantide) più o meno negli inizi di questo secolo (complimenti per la previsione!) dopo una distruzione purificatrice del mondo (come si vede, siano fascisti o meno i Beasts of Torah, miti simili hanno sempre avuto qualcosa a che fare con certe parti della destra, comunque non necessariamente nazifasciste). Ma ad essere più precisi, è anche una figura piuttosto misteriosa che si ritrova in tutte e 3 le religioni cosiddette rivelate, e che può assumere delle caratteristiche ogni volta differenti pure in uno stesso scritto, come nell’Antico Testamento (ora re e sacerdote, adesso addirittura sacerdote eterno e vero e proprio archetipo persino di Gesù Cristo – il quale nella stessa opera viene considerato come “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek”).
Invece, dal punto di vista musicale non vi è assolutamente niente di raffinato. Questo “assolutamente” si palesa in un black metal che spesso si avvicina alla distruzione sonora del black svedese più diretto non mancando quindi di essere talvolta così severo da esternare una maestosa malvagità melodica (si senta in tal senso “Inhaling the Ixion Winds” che possiede fra l‘altro delle linee vocali superlative molto in linea con il riffing). Ciò senza dimenticare né una buona tecnica dal piglio malato e isterico né delle nette influenze thrasheggianti che qui e là fanno capolino e che quasi collidono con la malefica magniloquenza di certe soluzioni pur ovviamente non avendo niente a che spartire con gruppi come i Dawn (che di eleganza e complessità ne capiscono molto). Anzi, i nostri palermitani a volte sanno combinare con notevole maestria le due anime appena citate allontanandosi così allo stesso tempo dal grezzume tipico del black/thrash metal (come nel rifferama nervoso e incredibilmente dinamico di “Melchizedeq”).
Un elemento molto interessante della musicalità dei Beasts of Torah è dato dall’ottima alternanza fra i tempi più veloci (che comunque vengono privilegiati) e quelli meno sostenuti, i quali oltre a sputare spesso e volentieri un groove contagioso riescono a potenziare meravigliosamente tutto l’insieme dimostrandosi di conseguenza molto funzionali. I tempi medi sono tremendamente tonanti e fieri, mentre quelli più lenti e doomeggianti hanno un ruolo sì marginale ma al contempo importante perché si fanno vivi nei primi momenti dei brani (come in “Inhaling the Ixion Winds”) donando un’atmosfera oppressiva e minacciosa agli stessi. Fra l’altro in non poche occasioni il batterista risulta molto abile ad accentare con nonchalance il riffing stesso senza però mai trascurare un’estrema classicità e digeribilità delle varie ritmiche utilizzate, nonostante un lavoro di chitarra che come già scritto non è privo di intuizioni abbastanza personali e non scontate.
Come sono molto classiche le urla di Hyperion, così tipiche da avere un’espressività e una cattiveria colossali, e di conseguenza risulta tremendamente azzeccato anche l’utilizzo, comunque molto frugale e quindi in linea con il genere tanto che alla fine si fanno vivi soltanto nel primissimo brano, di grugniti belli e potenti in modo da rendere più lercia e sporca la violenza esagerata dei 3 ragazzacci (in tal senso è veramente un peccato averli usati in una sola occasione). Eppure, il nostro è stato capace di andare anche al di là di questo tipo di voci cercando di conseguenza di creare atmosfere ancor più mefitiche e non semplicistiche, dato che in un brano come “Pillars of Black Vomit” (caratterizzato fra l’altro da una sovraincisione lontana e abissale di chitarra – o almeno così pare - che fa molto “sotterranei da piramide egiziana”) è stato sovrainciso un urlo quasi lamentoso e decisamente più umano del solito. E questo, come già si è visto, non è nemmeno l’ultimo esperimento del demo…. L’unico rammarico che ho riguarda l’utilizzo purtroppo isolato della lingua italiana in “Melchisedeq”, soprattutto perché l’esperimento è riuscito alla grande risultando fra l’altro bello “cattivone”. Ma poi a cosa serve cantare per qualche secondo in una lingua mentre per il resto in inglese?
Evocativa è invece il termine adatto per descrivere la produzione – pulita ma “vera” allo stesso tempo - , che è quanto di più avvicinabile ad un contesto live soprattutto per via delle frequenze altissime ed assordanti del demo. A volte infatti c’è una tale sovrabbondanza di “rumore” che effettivamente il riffing non riesce a essere quasi minimamente comprensibile così che si debba per forza seguire il basso (ben bilanciato con gli altri strumenti, una scelta più che giusta, ed inoltre notevole la prestazione di Alastor specialmente in un pezzo come “The Truth of Samael” dove nell’introduzione regala al tutto contorni quasi ipnotici) per capire cosa stia suonando ….. (uno dei brani esemplari è il pur ottimo “Semen of Unblessed”, il quale risulta caratterizzato da parti grooveggianti di stampo più death metal), che intanto per tutto l’arco del disco si rifiuta nel senso quasi più categorico di sparare qualsiasi linea di chitarra solista, come a voler rispettare la natura da trio del gruppo. E si sa quanto io non apprezzi particolarmente questo genere di produzioni che tende in maniera pericolosa ad aumentare la potenza complessiva della musica.
Solo che in questo caso bisogna dare atto che i nostri sanno sputare sul serio e non artificialmente un bel pacco di potenza. Anche perché talvolta si affidano a delle ripartenze impressionanti di varia natura, che siano esse guidate dai tom – tom di una batteria impazzita oppure dagli anatemi di un posseduto mostrando così pure una buona fantasia nell’utilizzarle. Certo, il loro è un tipo d’impatto non esattamente controllabile specialmente se si considera che i Beasts of Torah amano concludere i vari pezzi in maniera deliberatamente istintiva, senza nessun preavviso, anche se forse da questo punto di vista si finisce di farli assomigliare un po’ troppo fra di loro. Difatti i brani sono tutti particolarmente brevi per gli standard black metal, ma alcune volte si ha l’impressione che essi non siano stati sufficientemente rifiniti, soprattutto perché la magniloquenza caratteristica che il terzetto si porta appresso mal si sposa con la rapidità estrema e lapidaria delle composizioni, le cui conclusioni rischiano spesso, comunque con molto coraggio e dignità, di essere troppo affrettate. A questo punto sarei curioso di testare il terzetto sulla lunga distanza dato che fra l’altro sono sicurissimo che ce la farebbe senza nessun problema.
Eppure, i Beasts of Torah, con la loro incrollabile fede nell’istinto musicale, nel rifiuto patologico di quasi ogni sorta di abbellimento che a sua volta può produrre maggior trasporto emotivo (come può essere determinato dall’uso della chitarra solista), nella violenza serrata, i Beasts of Torah, dicevo, riescono nell’intento di contagiare l’ascoltatore scaraventandolo in un vortice sonoro quasi monolitico che però sorprende per certe ottime intuizioni. E soprattutto è l’ennesima dimostrazione, dopo i thrashettoni Lamiera e i misteriosi deathettoni Tuam Nescis, delle qualità nelle quali versa l’interessante scena non solo siciliana ma della stessa Palermo.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Pillars of Black Vomit/ 2 – Melchisedeq/ 3 – The Truth of Samael/ 4 – Inhaling the Ixion Winds/ 5 – Semen of Unblessed
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Beasts-of-Torah/172387279444250
Demo autoprodotto (15 Maggio 2009)
Formazione (2009): Hyperion, voce e basso (poi sostituito da Alastor);
K. Mega, chitarra;
Valgoroth, batteria.
Provenienza: Palermo, Sicilia
Canzone migliore del demo:
provo una particolare predilezione per “Inhaling the Ixion Winds”, in sostanza perché è l’episodio più violento di tutto il lotto dato che ha una parte conclusiva imbottita di un riffing sì semplice ma veramente impazzito. Inoltre, è degna di menzione anche per l’utilizzo di una specie di urlo più gutturale e soffocato che riesce ad aggiungere più malattia al tutto.
Punto di forza del demo:
probabilmente la capacità del batterista di rendere l’assalto ancora più violento ed intenso attraverso interventi sempre precisi ma semplici e diretti, lontani mille miglia dallo stile tecnico e tempestoso dei batteristi di gruppi ben diversi come i sardi Cold Empire ed i liguri Sacradis.
Curiosità:
Torah in ebraico significa “insegnamento” o “legge”. Ma è anche il termine per indicare i 5 libri della Bibbia ebraica (Tanakh).
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Eccovi la prima reazione che ho avuto sapendo dell’esistenza dei Beasts of Torah su Metal – Archives:
“Ma ‘sti qua so’ fascisti?” (infatti, se si fa attenzione l’estremità inferiore della croce rovesciata del loro logo forma praticamente una croce celtica. Ma se c’è sul serio tale connotazione politica nel gruppo allora secondo me dovrebbe scattare automaticamente l’obbligo di cantare in madrelingua).
Eccovi invece la seconda, determinata da un puro caso perché Valgoroth un giorno ebbe la bella pensata di aggiungermi su Msn avendo letto un mio vecchio annuncio su Internet nel quale dice(vo) di vendere qualcosa:
“Per caso suoni in un gruppo black siciliano?” (o qualcosa del genere).
La terza è nata da una curiosità impellente sperando per un pervertito amore per il paradosso che la cosa fosse vera (e infatti…):
“Cooosa? K. Mega è lo stesso tastierista dei Tuam Nescis? Oddio, sona sia in un gruppo di filo – cristiani che in un altro di occulto – satanisti?” (solo che il caso deliberatamente più eclatante che la storia ricordi è stato Hellhammer dei Mayhem che per un po’ di tempo militò nei cristianissimi Antestor….)
L’ultima invece è stata di meraviglia, di stupore, anche perché mi aspettavo una musica simile notando il minutaggio esiguo dei vari brani:
“VIOLENZA, VIOLENZA, VIOLENZAAAAA!” (certo che detto da uno che non ha mai tirato un pugno – oddio, è un po’ inesatto… - in vita sua fa una certa impressione nevvero?)
D’altro canto, un massacro del genere quasi fa da contrasto con le interessanti liriche occulte che alle volte danno un tocco di virtuosismo citando addirittura nel brano omonimo nient’altro che Melchizedek. Dietro cui si cela, nonostante il nome non molto rassicurante, il ritorno di Gesù Cristo, una reincarnazione legata ad una fantasiosa teoria occulta (di Eklal Kueshana, pseudonimo di Richard Kieninger, nel libro pubblicato nel 1963 "The Ultimate Frontier") che annunciava il risorgere del continente perduto di Lemuria (in parole povere il fratello di Atlantide) più o meno negli inizi di questo secolo (complimenti per la previsione!) dopo una distruzione purificatrice del mondo (come si vede, siano fascisti o meno i Beasts of Torah, miti simili hanno sempre avuto qualcosa a che fare con certe parti della destra, comunque non necessariamente nazifasciste). Ma ad essere più precisi, è anche una figura piuttosto misteriosa che si ritrova in tutte e 3 le religioni cosiddette rivelate, e che può assumere delle caratteristiche ogni volta differenti pure in uno stesso scritto, come nell’Antico Testamento (ora re e sacerdote, adesso addirittura sacerdote eterno e vero e proprio archetipo persino di Gesù Cristo – il quale nella stessa opera viene considerato come “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek”).
Invece, dal punto di vista musicale non vi è assolutamente niente di raffinato. Questo “assolutamente” si palesa in un black metal che spesso si avvicina alla distruzione sonora del black svedese più diretto non mancando quindi di essere talvolta così severo da esternare una maestosa malvagità melodica (si senta in tal senso “Inhaling the Ixion Winds” che possiede fra l‘altro delle linee vocali superlative molto in linea con il riffing). Ciò senza dimenticare né una buona tecnica dal piglio malato e isterico né delle nette influenze thrasheggianti che qui e là fanno capolino e che quasi collidono con la malefica magniloquenza di certe soluzioni pur ovviamente non avendo niente a che spartire con gruppi come i Dawn (che di eleganza e complessità ne capiscono molto). Anzi, i nostri palermitani a volte sanno combinare con notevole maestria le due anime appena citate allontanandosi così allo stesso tempo dal grezzume tipico del black/thrash metal (come nel rifferama nervoso e incredibilmente dinamico di “Melchizedeq”).
Un elemento molto interessante della musicalità dei Beasts of Torah è dato dall’ottima alternanza fra i tempi più veloci (che comunque vengono privilegiati) e quelli meno sostenuti, i quali oltre a sputare spesso e volentieri un groove contagioso riescono a potenziare meravigliosamente tutto l’insieme dimostrandosi di conseguenza molto funzionali. I tempi medi sono tremendamente tonanti e fieri, mentre quelli più lenti e doomeggianti hanno un ruolo sì marginale ma al contempo importante perché si fanno vivi nei primi momenti dei brani (come in “Inhaling the Ixion Winds”) donando un’atmosfera oppressiva e minacciosa agli stessi. Fra l’altro in non poche occasioni il batterista risulta molto abile ad accentare con nonchalance il riffing stesso senza però mai trascurare un’estrema classicità e digeribilità delle varie ritmiche utilizzate, nonostante un lavoro di chitarra che come già scritto non è privo di intuizioni abbastanza personali e non scontate.
Come sono molto classiche le urla di Hyperion, così tipiche da avere un’espressività e una cattiveria colossali, e di conseguenza risulta tremendamente azzeccato anche l’utilizzo, comunque molto frugale e quindi in linea con il genere tanto che alla fine si fanno vivi soltanto nel primissimo brano, di grugniti belli e potenti in modo da rendere più lercia e sporca la violenza esagerata dei 3 ragazzacci (in tal senso è veramente un peccato averli usati in una sola occasione). Eppure, il nostro è stato capace di andare anche al di là di questo tipo di voci cercando di conseguenza di creare atmosfere ancor più mefitiche e non semplicistiche, dato che in un brano come “Pillars of Black Vomit” (caratterizzato fra l’altro da una sovraincisione lontana e abissale di chitarra – o almeno così pare - che fa molto “sotterranei da piramide egiziana”) è stato sovrainciso un urlo quasi lamentoso e decisamente più umano del solito. E questo, come già si è visto, non è nemmeno l’ultimo esperimento del demo…. L’unico rammarico che ho riguarda l’utilizzo purtroppo isolato della lingua italiana in “Melchisedeq”, soprattutto perché l’esperimento è riuscito alla grande risultando fra l’altro bello “cattivone”. Ma poi a cosa serve cantare per qualche secondo in una lingua mentre per il resto in inglese?
Evocativa è invece il termine adatto per descrivere la produzione – pulita ma “vera” allo stesso tempo - , che è quanto di più avvicinabile ad un contesto live soprattutto per via delle frequenze altissime ed assordanti del demo. A volte infatti c’è una tale sovrabbondanza di “rumore” che effettivamente il riffing non riesce a essere quasi minimamente comprensibile così che si debba per forza seguire il basso (ben bilanciato con gli altri strumenti, una scelta più che giusta, ed inoltre notevole la prestazione di Alastor specialmente in un pezzo come “The Truth of Samael” dove nell’introduzione regala al tutto contorni quasi ipnotici) per capire cosa stia suonando ….. (uno dei brani esemplari è il pur ottimo “Semen of Unblessed”, il quale risulta caratterizzato da parti grooveggianti di stampo più death metal), che intanto per tutto l’arco del disco si rifiuta nel senso quasi più categorico di sparare qualsiasi linea di chitarra solista, come a voler rispettare la natura da trio del gruppo. E si sa quanto io non apprezzi particolarmente questo genere di produzioni che tende in maniera pericolosa ad aumentare la potenza complessiva della musica.
Solo che in questo caso bisogna dare atto che i nostri sanno sputare sul serio e non artificialmente un bel pacco di potenza. Anche perché talvolta si affidano a delle ripartenze impressionanti di varia natura, che siano esse guidate dai tom – tom di una batteria impazzita oppure dagli anatemi di un posseduto mostrando così pure una buona fantasia nell’utilizzarle. Certo, il loro è un tipo d’impatto non esattamente controllabile specialmente se si considera che i Beasts of Torah amano concludere i vari pezzi in maniera deliberatamente istintiva, senza nessun preavviso, anche se forse da questo punto di vista si finisce di farli assomigliare un po’ troppo fra di loro. Difatti i brani sono tutti particolarmente brevi per gli standard black metal, ma alcune volte si ha l’impressione che essi non siano stati sufficientemente rifiniti, soprattutto perché la magniloquenza caratteristica che il terzetto si porta appresso mal si sposa con la rapidità estrema e lapidaria delle composizioni, le cui conclusioni rischiano spesso, comunque con molto coraggio e dignità, di essere troppo affrettate. A questo punto sarei curioso di testare il terzetto sulla lunga distanza dato che fra l’altro sono sicurissimo che ce la farebbe senza nessun problema.
Eppure, i Beasts of Torah, con la loro incrollabile fede nell’istinto musicale, nel rifiuto patologico di quasi ogni sorta di abbellimento che a sua volta può produrre maggior trasporto emotivo (come può essere determinato dall’uso della chitarra solista), nella violenza serrata, i Beasts of Torah, dicevo, riescono nell’intento di contagiare l’ascoltatore scaraventandolo in un vortice sonoro quasi monolitico che però sorprende per certe ottime intuizioni. E soprattutto è l’ennesima dimostrazione, dopo i thrashettoni Lamiera e i misteriosi deathettoni Tuam Nescis, delle qualità nelle quali versa l’interessante scena non solo siciliana ma della stessa Palermo.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Pillars of Black Vomit/ 2 – Melchisedeq/ 3 – The Truth of Samael/ 4 – Inhaling the Ixion Winds/ 5 – Semen of Unblessed
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