Tuesday, June 28, 2011

A Buried Existence - "The Dying Breed" (2011)

Recensione pubblicata il 24 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.

Album autoprodotto (2011)
Formazione 2008): Marco Veraldi, voce;
Gianluca Molè, chitarre;
Giuseppe Tatangelo, basso;
Alessandro Vinci, batteria.

Provenienza: Catanzaro, Calabria

Canzone migliore dell’album:
senz’ombra di dubbio l’ipnotica e spaventosa “Reborn in the Sick”. Non ci sono termini che possano descrivere pienamente la malattia e la particolarità di questo pezzo.

Punto di forza del disco:
la capacità del gruppo di costruire sempre canzoni dal taglio apocalittico attraverso una varietà e fantasia veramente rare.

Degli A Buried Existence potete leggere anche la recensione di “Ferocity” fatta ormai un secolo fa:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2010/02/buried-existence-ferocity-2008.html

Nota:

è stata corretta la parte riguardante la canzone intitolata "Unite" che fino a qualche giorno fa non credevo fosse una cover dei Throwdown (svista dovuta alla versione internettiana del disco in mio possesso). Che errore "irrecuperabile" eh?
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Chi mi conosce veramente sa che io ho una capacità di autocritica notevole e soprattutto sana. Sì perché rileggendo la rece che a suo tempo feci su “Ferocity” c’è qualcosa che proprio non mi convince, a parte il mio vecchio stile sbrodolante e senza spazi. Ovvero:

1) per paragonare gli A Buried Existence presi addirittura i brutallari Zora, che niente hanno della loro violenza cerebrale e psicologica, oltre che essere dal punto di vista strettamente musicale due gruppi ben distinti;

2) al contempo presi i Land of Hate che, benché il cantante sia lo stesso e benché le sonorità metalcore siano fondamentali in entrambe le esperienze, li citai spesso e volentieri come se la sola presenza di Marco Veraldi me lo consentisse, non accorgendomi delle tante differenze (di chitarra solista, dell’utilizzo delle battute, della struttura, dell’abilità di reinterpretarsi ecc… ecc…) che intercorrono fra le due formazioni;

3) non compresi del tutto una caratteristica a dir poco centrale del gruppo, cioè l’atmosfera desolante dei loro pezzi che si esplica anche attraverso la tendenza a proporre finali senza enfasi, praticamente da nulla di fatto, spaventosamente immobili e quindi emotivamente “inconcludenti”. E invece non apprezzai una tale scelta, anche perché i nostri, prima di arrivare alla conclusione, lavorano di fino riuscendo a potenziare il tutto tramite semplicemente l’intervento dei singoli “trascurando” fino ad un certo punto il fattore melodico. In sostanza, è un metodo strutturale abbastanza originale che rende lo schema strofa – ritornello il punto d’arrivo del climax, cosa che riesce ottimamente solo a pochissimi gruppi.

Per comprendere appieno questa metodologia mi sono in aiuto soprattutto le prime 4 canzoni, come ad esempio “Family Ties” (che finisce totalmente all’improvviso, nonostante si potesse sviluppare ancor di più e senza fra l’altro riprendere la strofa e il ritornello che nei primi momenti sembravano così importanti); oppure la seguente “Revenge” il cui “finale” si trastulla in un vertiginoso lento in dissolvenza con ogni speranza decimata e senza la presenza di un vero e proprio colpo di grazia conclusivo. Vabbè certo, non tutti i brani hanno questa suggestiva aura decostruzionista visto che a tal proposito “Reborn in the Sick” ha un andamento più logico ed emozionalmente attivo. Altri episodi invece vengono tutti giocati sulle variazioni di ogni singolo strumento su un canovaccio statico come può essere quello della strumentale (strumentale?) “28 Weeks Later”.

Ma nonostante ci sia una strumentale non vi è nessunissimo assolo di chitarra, al massimo ne viene abbozzato uno in “Combat Shock”, però di fatto i nostri hanno eliminato totalmente il concetto di assolo, ri – registrando quindi le vecchie canzoni secondo l’attuale discorso collettivo. In compenso hanno immesso qui e là nel proprio suono una chitarra solista che dando manforte alla chitarra ritmica riesce con fredde note (che in ogni caso concedono pochissimo alla melodia) a trasportare l’ascoltatore in un mondo spaventoso ed apocalittico, e senza fare chissà che cosa di tecnico. Alle volte mi vengono in mente i blackettoni torinesi Lilyum che utilizzano la solista in maniera simile. Ciò significa che oltre agli assoli hanno tolto di mezzo anche i vari suoni sintetici che seppur raramente si facevano vivi in “Ferocity”, sostituendo genialmente il loro gelo con una chitarra così fredda da sembrare quasi suonata da un robot.

Oddio, a dir la verità quest’attualizzazione dei vecchi pezzi, se da una parte risulta molto coraggiosa perché consente di testare in modo più diretto la maturità compositiva di un gruppo col passare degli anni (ragion per cui considero inutili e controproducenti le ri – registrazioni totalmente o quasi identiche a quelle originali), dall’altra non è sempre azzeccata, anche se in sé potrebbe non avere una piega. Nello specifico sto parlando di “Perverted Church”, che rispetto all’originale non fa esattamente una bella figura dato che è stata semplificata (per esempio la parte disperata e rullata è stata accorciata eliminando un po’ di linee vocali, mentre non vi è traccia dell’assolo originario). Stilisticamente insomma è stata messa al livello degli altri brani però a questo punto si potevano rifinire i momenti conclusivi, magari accentando la paranoia con il lavoro di batteria, tanto per fare un esempio.

Eppure, bisogna dare atto della rara varietà espressiva che si ritrova il gruppo, così da permettere una differenziazione dei vari pezzi a dir poco estrema senza però dimenticare uno stile ben preciso di fare death/thrash metal. E soprattutto dando particolare importanza ai tempi medio – lenti, e ciò significa sforzarsi un po’ di più per creare un’intensità (in 2 – 3 minuti fra l’altro, e così ci riescono veramente in pochi) che nell’immediato riescono a partorire solo quelli più veloci. Nell’ordine:

- in apertura troviamo “Family Ties” (di cui un anno venne fatto un video) che per ironia della sorte è furbescamente quella più veloce e tradizionalmente più death metal tanto da essere finora l’unica canzone degli A Buried Existence ad avere dei possenti blast – beats prima di “cascare” in un duro rallentamento metalcore;

- con “Revenge” entriamo in territori più tipici del gruppo. Trattasi di un episodio dal piglio più rockeggiante e che presenta un lavoro di basso semplice ma eccezionale. Nel “finale” doom da menzionare sia l’ottima e fantasiosa prestazione della batteria che l’eliminazione delle varie urla che caratterizzavano la versione originale;

- “Perverted Church” ha così tante facce da essere quasi la canzone più rappresentativa della succitata varietà espressiva. Infatti, a momenti thrash da headbanging sfrenato con relativo tapping che dire agghiacciante è un eufemismo combina soluzioni dal riffing melodico e “sfuggente”, ai quali viene alternata una paranoia che pare non finire mai a causa di un tempo medio dal sapore apocalittico. Questo sapore è inoltre accentuato dall’assenza della voce negli ultimi 90 secondi, a parte qualche minuscolo ma efficace intervento, così da assomigliare a “Look Around” dei conterranei Glacial Fear;

- La seguente “The Dying Breed” è tra le canzoni più severe, sia perché ha un riffing a volte allucinato e senza sbocchi melodici sia perché ha un lavoro di batteria marziale, abile ad enfatizzarlo e praticamente incapace di eseguire consistenti cambi di tempo se non rifacendosi (o ispirandosi) al metalcore più duro e lento. In sostanza è un pezzo che agisce nel profondo dell’animo (seppur qui manchi veramente qualcosa che faccia sobbalzare i timpani dall’entusiasmo, ed è per questo che poteva servire alla causa anche una modesta dose di chitarra solista) nel quale è principalmente la batteria che detta legge irrobustendosi nel finale (un po’ come succede in “28 Weeks Later”);

- “Reborn in the Sick” è invece come minimo una delle prime 5 più belle canzoni fatte da un gruppo calabarese oltre che l’essere decisamente una delle più particolari dell’album. Ha un andamento sonnolento quasi da trip – hop, con il suo tempo medio – lento reso stavolta più isterico e dai cambi improvvisi. Un pezzo ammaliante oserei dire che lungo la parte centrale diventa completamente pauroso, dai toni blackeggianti enfatizzati dall’uno – due ipnotico della batteria. Ecco come scrivere una canzone ultra – intensa senza sfoderare velocità assassine;

- Le quali si fanno vive strategicamente in “Public Enemies”, dalle parti death dal tupa – tupa furioso. Ma non solo di violenza cieca si parla dato che vi sono anche momenti più rock’n’roll piacevolmente grooveggianti prima di dare spazio ad un riffing praticamente e semplicemente allucinato. “Public Enemies” fra l’altro è uno dei brani più rigidi dal punto di vista strutturale ed esplica quel tipo di finale esemplificato in “The Dying Breed”;

- “Unite”, un titolo, un programma. Non sempre la prevedibilità è un difetto perché mi aspettavo effettivamente un metalcore tinto di thrash ed accompagnato da semplici cori. L’unica cosa inaspettata è la bizzarra introduzione che non solo contiene una chitarra minacciosa ed ipnotica ma anche per la prima volta una voce pulita. Da notare che "Unite" è una cover, precisamente del gruppo metalcore statunitense Throwdown (prima traccia contenuta nel suo secondo album datato 2001 "You Don't Have to be Blood to be Family"), qui rifatta in maniera sostanzialmente quasi identica all'originale, quindi un po' più di personalizzazione non avrebbe sicuramente guastato;

- “New World Desaster” è l’ultimo episodio preso da “Ferocity”, riadattato per l’occasione alle volte in maniera a dire il vero non del tutto convincente. Nello specifico non capisco perché si sono volute cambiare, seppur leggerissimamente, le suggestive linee vocali pulite dell’originale, rese ora più semplici ma povere allo stesso tempo. Nonostante ciò, è forse la canzone più bella e interessante dal punto di vista ritmico (da menzionare le danze sui tom – tom e l’eccentricità esternata durante i momenti più melodici e “liquidi” quasi alla Children Collide), con un basso sugli scudi;

- “Combat Shock”, ultimo fra i brani con l’apporto vocale, si caratterizza per un riffing molto duro e severo tanto da possedere nel proprio DNA stralci da death metal antico da incubo con tupa – tupa incorporati e riffs granitici stoppati i cui vuoti vengono enfatizzati perfettamente dalla sezione ritmica. E qui vengono rilette attraverso arpeggi inquietanti le influenze rockeggianti che fanno capolino nell’opera;

- Infine, “28 Weeks Later”, come già si sa, è la strumentale del disco, che altro non è che la cover del tema principale del film chiamato appunto “28 Settimane Dopo”. Ed è qui che i nostri sfogano tutta la propria componente apocalittica partendo da lugubri tastiere che guidano per tutto il tempo quella melodia maledetta e soffocante con lo scopo di terrorizzare l’ascoltatore scaraventandolo in un’atmosfera disumana e senza possibilità di scampo. La quale viene imbottita fra l’altro da un bellissimo lavoro di batteria atto a regalare una dinamicità molto in sintonia con lo stile del gruppo.

Ultimo appunto da muovere: preferisco di gran lunga la produzione iper – glaciale di “Ferocity” che quella più umana di “The Dying Breed”. E’ anche vero però che quest’”umanità” è stata sollecitata dall’assenza più totale dei campionamenti, anche se certi effetti alienanti innestati sulla voce (“Family Ties”) curiosamente sono presenti (o i miei timpani non ci sentono bene?), in maniera non molto coerente.

Voto: 77

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Family Ties/ 2 – Revenge/ 3 – Perverted Church/ 4 – The Dying Breed/ 5 – Reborn in the Sick/ 6 – Public Enemies/ 7 – Unite (Throwdown cover)/ 8 – New World Desaster/ 9 – Combat Shock/ 10 – 28 Weeks Later

MySpace
http://www.myspace.com/aburiedexistence

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