Wednesday, March 9, 2011

Tuam Nescis - "Algophobia" (2010)

Demo autoprodotto
Provenienza: Palermo, Sicilia

Formazione: Ivan Vega – voce
Danyel Burton – basso e programming
Vincent Purple – batteria
K. Mega – tastiere

Session (o come si vogliano chiamare) alle chitarre:
Giorgia Matesi
Alessandro Parrino
Giulio Di Gregorio

Punto di forza del demo:
sicuramente la contraddizione contrastante tra il minimalismo e la semplicità della chitarra e la schizofrenia e la complessità a volte presente nella batteria.

Miglior canzone:
il piccolo tour de force di “Transplants”, tetra e potente come poche.

Nota 1:
faccio presente che nel gruppo è da poco entrata una chitarrista, ossia Federica Viola. Ovviamente mi sembra giusto augurarle buona permanenza nella formazione.
Nota 2:
vi prego, guardate 'sto video di It Came from the Desert e scoprirete la somiglianza incredibile che intercorre tra le tastiere più pesanti presenti in "Algophobia" e alcuni passaggi della colonna sonora di questo videogioco immortale:
http://www.youtube.com/watch?v=KTWd_eyAmgQ&feature=player_embedded
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It Came from the Desert. Sarà una mera cazzata ma l’atmosfera cupissima e minimalista dei pezzi ambient di “Algophobia” (ossia, "paura del dolore") mi ha ricordato uno dei videogiochi più belli mai concepiti per l’Amiga, il computer che scoprì e sfruttò per la prima volta come autentica arte la grafica (peccato però che cominciai ad usarlo nel suo periodo di decadenza, nel 1993, ossia alla tenera età di 4 anni…). Certo, lì si trattava di sventare l’invasione delle formiche giganti in omaggio alla fantascienza anni ’50, ma le tastiere più grevi, quelle che in pratica fungono da accompagnamento al pianoforte, che ci si creda o no, sono state usate quasi paro paro come nella colonna sonora di quel monumento firmato dalla grande Cinemaware nel lontano 1989. Ma in quest’ultimo c’era qualcos’altro di facilmente accomunabile ad Algophobia: l’inesorabile tic – tac – tic – tac del tempo minaccioso e cieco di fronte a ogni cosa. In It Came from the Desert c’era un memento mori continuo, il fattore – tempo era un’arma a doppio taglio, soprattutto quando le creature mutanti o i rockers ti facevano finire all’ospedale e tu, un geologo, non potevi permetterti di perdere ore preziose perché dovevi sbrigarti a trovare il nido di quelle bestiacce per sterminarle per sempre. Se no, Game Over e tanti saluti. Ecco, anche i Tuam Nescis “giocano” con il tempo, grazie a quell’inquietante orologio in copertina che quasi ricorda, prima dell’atto finale, di “donare luce alle speranze buie, donare gloria alle sconfitte, donare vita in fin di vita (ho citato le parole di Danyel Burton sul retro di copertina). C’è quindi un messaggio piuttosto positivo, ma ciò non toglie che i Tuam Nescis siano uno dei gruppi musicalmente più pericolosi che io abbia ascoltato ultimamente.
Infatti, i nostri palermitani violentano i timpani degli ascoltatori con un death metal a suo modo particolarissimo e non poco personale. Ciò più che altro perché in loro vi sono delle contraddizioni che riescono nell’impresa di rendere difficoltoso un ascolto che, prendendo in considerazione da subito le chitarre, inizialmente pare semplice.

Le chitarre appunto. Di una semplicità disarmante, così memorizzabili che persino i Black Witchery avrebbero un pizzico d’invidia a sentire questo tipo di riffing che in sostanza è costituito da una sequenza di note spesso brevissima accompagnata quasi inevitabilmente da una variazione soltanto tonale del tema fondante. Così il discorso diventa monotono, avvolgente nella sua perpetua angoscia, completamente a-melodico nel suo rifiuto di sviluppare qualsiasi melodia, e quel che è “peggio” è che non si intravvede per la verità neanche la più miserrima delle luci per quanto il settore chitarre è privo in senso letterale di ogni tipo di chitarra solista. Anzi, penso che la luce venga totalmente debellata in “Transplants” dove nella parte centrale il riffing diventa paurosamente black lasciando per un po’ da parte i modernismi death che dominano il discorso “melodico”. Un panorama desertico, senza speranza, né più né meno…ovviamente da amare.

Meno desertica ed essenziale è invece la sezione ritmica, che poi rappresenta il principale elemento che regala al tutto una nevrosi, una schizofrenia da brivido. Ciò specialmente grazie alla batteria che mena fendenti anche quando incalza con i suoi amati tempi medi come nel filo – jazz isterico di “Algophobia”, con tanto di decelerazioni e accelerazioni completamente imprevedibili, o nel raffinato lavoro di “Transplants” decorato dai tocchi improvvisi del charleston, e nella quale fra l’altro si fa un uso perfetto dei china, che con il loro minaccioso ed “ignorante” frusciare distruggono psicologicamente l’ascoltatore. E per far capire l’importanza propria della sezione ritmica, bisogna segnalare assolutamente che il basso, autore di un’ottima linea nella canzone sopraccitata, ha l’appannaggio quasi esclusivo degli interventi in solitario, a volte utilizzando pure l’effetto disorientante del suono che esce da una parte all’altra del supporto usato (stereo o cuffie che siano), facendo così (ri)partire il discorso a partire (scusate il gioco di parole…) dal taglio greve di questo strumento.

Ma l’effettistica non è isolata soltanto al basso visto che la voce ne beneficia spesso e volentieri. Certo, è un’effettistica usata in maniera ponderata ma ho apprezzato molto quegli avvolgenti effetti di lontananza che bombardano entrambi i timpani come se stessero cercando di entrare nelle viscere dell’anima. Il fatto però è che per Ivan Vega è facile farlo in continuazione grazie ad una prova vocale stupefacente e sofferta. Le urla sono così pesanti ma umane che mi hanno rimandato alla scuola melodica del death svedese, eppure il nostro non manca di variare con ottima abilità il proprio tormento con vocalizzi più cupi. Così, ecco serviti veri e propri grugniti veramente bastardi ma non catacombali (molto simili a quelli sentiti ultimamente dai sardi Simulacro) che spesso vengono utilizzati nelle sovraincisioni, oppure voci rauche quasi sussurranti (“Transplants”).
Oddio, non è che qui sia tutto rose e fiori. Prima di tutto, due pure e nude canzoni per qualcosa come 9 minuti sono troppo poche per valutare sufficientemente il valore del collettivo. E se si pensa che gli altri 6 minuti sono tutti a base di tastiere e campioni si potrebbe pensare facilmente che “Anxiety” e “Calvario” siano dei semplici esercizi di stile seppur efficaci, soprattutto perché K. Mega sembra che si giri i pollici nei due veri brani. Eh sì, perché o il nostro interviene con passaggi spesso isolati dal resto degli strumenti concedendosi solo qualche momento di gloria (“Algophobia” riprende addirittura per qualche secondo i passaggi finali di “Anxiety”. Peccato che non siano state fatte mosse simili anche successivamente perché l’esperimento era davvero interessante) oppure entra veramente nel discorso metallico – in maniera meravigliosa – ma soltanto per circa un minuto e 30 secondi nonostante i quasi sei minuti della versione breve di “Transplants”. In parole povere, perché non rendere più partecipe il “discriminato” K. Mega?

Voto: 73

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Anxiety/ 2 – Algophobia/ 3 – Transplants/ 4 – Calvario

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