Provenienza: Rovigo, Veneto
Formazione: Marco Paltanin, voce, chitarra, sitar, tabla
Nicolò Cavallaro, basso, voce aggiuntive
Mirko Cirelli, batteria
Riccardo Paltanin, tastiere, violino, voce
Discografia: "Demo 2007" (Autoprodotto)
Etichetta discografica: Westwitch Records (quest’album è la sua prima produzione)
Punto di forza dell’album:
la capacità di non stancare mai l’ascoltatore con sorprese su sorprese nonostante si rasenti l’ora.
Miglior canzone:
la fantastica “Coalesce Part II”, che ha un magniloquente finale da 3 minuti e poco più che dire d’atmosfera è un eufemismo, concludendo così nel modo più elegante il disco.
Gli Eloa Vadaath sono pura poesia nella quale confluiscono un’infinità di sonorità sempre diverse in perenne simbiosi. A volte fanno ricordare la pienezza melodica del rock progressivo che impazzo negli anni ’70 fino a rimandare in misura praticamente perfetta perfino i maestri Genesis come quando in "Uncontaminated! c’è un siparietto solare di pianoforte assieme alla voce. E soprattutto i nostri sono da considerare un vero e proprio laboratorio di personalità dove le idee più strane trovano una concretezza spesso disarmante esemplificata ottimamente proprio dal brano sopraccitato, dove per esempio non solo si trovano arpeggi di un’angelica arpa ma anche momenti di nevrosi jazz che potrebbero piacere a John Zorn.
Gli strumenti inusuali sono guardacaso una costante di questo giovane quartetto, riuscendo a ridimensionare e a rendere meno preponderante il ruolo delle chitarre, pur avendo queste un ruolo spesso solista (sia per quanto riguarda gli assoli che le melodie atte a completare il lavoro della ritmica). Infatti, per fare qualche esempio, non solo le tastiere sono solitamente indipendenti dalle chitarre concedendosi talvolta anche veri e propri solismi ma – tadan! – il violino prende il sopravvento specialmente nella seconda parte dell’album, sicuramente quella più sperimentale e coraggiosa. Il suo suono conferisce a tutta la musica un’altra atmosfera, una digrignante drammaticità capace di trasformare la sua eleganza in nuda ferocia umoristica per poi chiudersi in un romanticismo da capolavoro che culmina nel lungo finale di "Coalesce Part II", giocato fra l’altro su una magniloquente voce lirica femminile.
Gli Eloa Vadaath sono anche puro contrasto. Di base partono con un death melodico a tratti gotico che possiede alcuni dei vocalizzi più potenti che io abbia mai ascoltato ultimamente, intenti a sferragliare i timpani con grugniti a là Scarve/Hacride che in non poche occasioni danno il posto ad urla belle rauche e tremendamente sentite, le quali “combattono” con voci più pulite mostrando sempre e comunque un buon gusto nelle linee vocali, mai banali e ripetitive. E si finisce a giocare praticamente con tutto, da certa solennità black che campeggia in "Coalesce Part I: A Perverter Among The Kainites" alla disperazione contorta e minacciosa di "Elysian Fields" fino a proporre addirittura un intermezzo orchestrale (anche se non del tutto strumentale) con tanto di violini, archi, pure un oboe, ossia "The Temptation Chronicles". Ed è un intermezzo autentico, perfettamente messo al centro dell’album e che riprende le sonorità talvolta pacate e oscure di "Elysian Fields" introducendo alla fluidità e classicità strutturale di "What Are You Seeing on Your Fork?" (strutturalmente parlando infatti tale pezzo è il più facile da memorizzare) e all’estremo sperimentalismo della seconda parte dell’album.
Quindi gli Eloa Vadaath sono quanto di più lontano dal celebrare un massacro sonico irto di velocità parossistiche. I tempi medi, quasi mai difficilmente memorizzabili e quindi spesso tipici, dettano legge, talvolta con poche ma efficaci svisate jazz. Eppure dei tempi più veloci c’è qualche traccia, come testimoniano (gl)i (unici) blast-beats di "Coalesce Part I: A Perverter Among The Kainites". I nostri insomma continuano con la tradizione che vuole i gruppi più sperimentali (almeno una buona parte di essi) che cercano l’effetto nella maniera al contempo più difficile (con i tempi medi l’intensità e la potenza non sono subito istantanee, e non è un caso che molti dischi di heavy metal partono con brani veloci) e nel modo in un certo senso più facile (l’immissione di strumenti inusuali per il metal provoca sia un senso di spaesamento, consapevolezza nel trovarsi di fronte una creatura libertaria e fuori dagli schemi, che di entusiasmo, ossia la possibilità di nuovi modi di espressione il cui segreto sta nella coesistenza con i “vecchi” modi, ed è proprio questa la sfida più interessante).
Gli Eloa Vadaath d’altro canto (ma quasi non poteva essere altrimenti) hanno scelto la strada indubbiamente più complicata con la struttura-tipo dei pezzi. Poco inclini ad offrire sequenze fisse di soluzioni, seppur non poche volte portatori della tradizione a strofa-ritornello, il loro compito pare quello di decostruire le canzoni attraverso frequenti variazioni ad una stessa soluzione rendendole così parte integrante di un discorso molto dinamico e rapido, ricco di diverse trovate pregne di passaggi talvolta belli lunghi. I quali sono interessati da ripetizioni in sequenza anche di 1 – 2 battute e mezzo abbandonando la quadratura del cerchio delle classiche 2, 4 battute intere. Assomigliano molto ai Kenòs, solo che al contrario qui si dimostra, seppur di poco, una maggiore tolleranza per la tradizione strutturale come l’assenza di variazioni di un passaggio da 4 battute presente in "Towers of Silence", che è però l’unico brano sui cui grava un peccato. Ossia la sovrabbondanza di pause lungo la parte finale, che forse rende un po’ troppo semplicistico e poco fluido il discorso, ma è anche l’effetto del camaleontismo presente in quest’enciclopedica opera. Ma che dire invece dell’estrema democratizzazione degli stacchi, spesso di natura collettiva e perciò dalla natura più massiccia di quelli in solitario?
Gli Eloa Vadaath hanno curato anche dignitosamente la produzione, bella pulita ma dai suoni più “veri” del solito, seppur talvolta “ubriacati” da qualche effetto. Si veda per esempio il suono bellissimo del rullante, lontano dal plasticume di gente come i Fleshgod Apocalypse. Pulita ed elegante sia perché le frequenze sono state impostate sui medi permettendo così alla musica in sé stessa di potenziarsi senza l’intensità esagerata di certe produzioni che possono nascondere la goffa mancanza di potenza di un disco, sia perché quest’album, per essere goduto veramente appieno, deve essere ascoltato attentamente in cuffia, visto sia il lavoro melodico a 360° (è infatti un disco che nasconde segreti ben custoditi) che la segretezza della cassa della batteria e del basso, praticamente messi in secondo piano.
Diciamolo 5 volte: Eloa Vadaath, Eloa Vadaath, Eloa Vadaath, Eloa Vadaath, Eloa Vadaath! Tanto per celebrare anche l’entrata in formazione del nuovo entrato chitarrista Lorenzo Fabbri.
Voto: 88
Claustrofobia
Scaletta:
1 - Coalesce: A Murmuring Plight Of Nephilisms (Intro)/ 2 – Coalesce Part I: A Perverter Among the Kainites/ 3 – 64 A.D. Le Flambeau/ 5 – The Navidson Record/ 5 – Elysian Fields/ 6 – The Temptation Chronicles/ 7 – What Are You Seeing on Your Fork?/ 8 – Uncontaminated/ 9 – Towers of Silence/ 10 – A Bare Reminiscence of Infected Wonderlands/ 11 – Coalesce Part II
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