Album, MalEventum Records (6 Dicembre 2010)
Provenienza: Torino, Piemonte (Frozen invece dalla siciliana Catania)
Formazione: Lord J. H. Psycho, voce, chitarra (anche acustica), basso in “Order of the Locust” e “Tighten the Ranks”, campioni e rumori ambientali in “Whence not even Reflections Escape” e “Crawling in the Past”;
Kosmos Reversum, chitarra e basso;
Frozen, batteria
Punti di forza dell’album:
1) sicuramente la capacità del gruppo di unire vecchie e nuove proprie caratteristiche, anche prendendo i classici del genere;
2) la voce, più malata che mai, più fantasiosa che mai.
Migliore canzone:
sicuramente “Carrion Season”, che in quasi 8 minuti unisce incredibilmente grandiosa freddezza e melodie inaspettate.
Dei Lilyum è stata pubblicata anche la recensione di "Fear Tension Cold".
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Devo confessarlo subito: quando ho saputo dell’entrata in formazione di un batterista in carne e ossa il mio naso ha iniziato a prendere pieghe strane. Inizialmente infatti non ne ero assolutamente convinto, convinto com’ero che si potesse ulteriormente sviluppare l’inumana freddezza di “Fear Tension Cold” conservando l’immane glacialità della drum-machine. Ed invece, appena ho messo nello stereo “Crawling in the Past” i dubbi si sono gradualmente estinti, ridotti ad un semplice cumulo di macerie. Anche perché, cari miei, mi sembra scontato scriverlo vista la natura camaleontica dei Lilyum ma ‘sti ragazzi sono riusciti per l’ennesima volta a cambiare la propria musicalità così da creare un’opera praticamente onnicomprensiva. Senza abbandonare le proprie coordinate che ormai li caratterizzano.
Già. La voce, ad esempio. O meglio, le voci e ciò perché Lord J. H. Psycho abbraccia uno spettro così ampio di possibilità espressive che è letteralmente impossibile non restare ammaliati da questo continuo gioco vocale in cui schifosissime urla a là Vlad Tepes e grugniti ripugnanti classici del black danno il posto a varie voci pulite, siano essere spiritate, melodiche (cosa?), parlate, sussurrate, e si sono fatti vivi addirittura i cori come anche degli insospettabili “HI-HA” manco si stesse trattando dei cavalieri dell’Apocalisse (“Tighten the Ranks”). Ma il risultato è sempre e comunque lo stesso: un pozzo pieno di malattia e pazzia memore della più orribile isteria che declama specialmente la sua mastodontica pericolosità in pezzi come “Mine is the Silence”, nel quale ad un certo punto a dei vocalizzi puliti e sofferti segue immediatamente un urlo così acuto da far spavento, mostrando in tal modo delle notevoli capacità tecniche negli improvvisi cambiamenti di registro. Quel che è peggio è che la voce non soltanto appare lontana come se stesse eruttando i propri anatemi da oscure profondità siderali ma l’inquietudine da essa trasmessa va persino oltre. Nelle metriche, che sono angoscia pura. Procedono spesso così lente da favorire la cruda accentazione delle parole maledette che pian piano “colorano” di infinita desolazione tutto quanto. Andando allo stesso tempo quasi in contrasto con le velocità a cui va spesso e volentieri il trio, come a voler esprimere il lento e inesorabile disfacimento della frenetica umanità.
Ma per fare un altro esempio, mi sovviene l’estrema meccanizzazione della struttura – tipo che amano snocciolare i 3 ragazzi. E quando scrivo “estrema” è nel più puro senso del termine. Lo è così tanto nel lunghissimo finale dal riff intermittente di “Above Trimphs and Tribulations”, monotono e spaventosamente sfiancante. Ma è nelle linee generali che il termine “estrema” fa più effetto. Il manifesto di questa politica che stavolta favorisce brani più lunghi del previsto è il tour de force di “Carrion Season”, compiendio punk – black di quasi 8 minuti che farebbero la felicità dei Fall e delle loro 3 “r” (“Repetition Repetition Repetition”) tanto è infinita la sequenza 1 – 2 – 1- 2 – 3 – 4 – 3 – 4 – 5 – 6 che viene ripetuta per una seconda volta (quasi) uguale a sé stesso per circa 3 minuti e 30, se non ci fosse stato quell’incredibile e semplice assolo (assolo?) ad occupare come un falso pesce fuor d’acqua la ripartenza della suddetta sequenza. Eppure, pare strano a dirsi, Frozen non esista a dinamicizzare il discorso con delle interessanti variazioni ritmiche, seppur con pochissima frequenza. Eppure, la voce lo scuote ancora con le sue imprevedibili sorprese, magari anche durante una stessa soluzione musicale. Eppure, come per contraddire a queste caratteristiche dinamiche, la musica procede imperturbabile rifiutando in senso quasi assoluto qualunque intervento in solitario che spesso nel metal estremo sono d’obbligo, e stessa identica sorte alle pause. E così l’effetto da “strozza l’ascoltatore come un fiume in piena che non conosce tregua sta per essere completato.
Poi c’è l’esempio rappresentato dal tipo di riffing del gruppo torinese, altro elemento caratterizzante. Infatti, quando si parla degli odierni Lilyum si pensa sempre ad un lavoro di chitarra molto semplice, minimalista e freddamente monotono, data anche la lunghezza esorbitante di quasi ogni singolo riff. Bene, adesso non solo dovete ridurre e rendere più digeribile quest’ultima, ma dovete combinare questa personale e spaventosa interpretazione del black metal con un riffing più classico per il genere. Detto in altre parole: il lavoro è diventato un pochettino più dinamico, vario e meno industri aloide, comprendendo persino degli inquietanti arpeggi, mentre a volte si fa addirittura quasi magniloquente (“Whence not even Reflections Escape”) nonostante le rozze influenze di marca black ‘n’ roll che esaltano “Self Necrosis” e “Order of the Locust” fino, come già scritto, a sputare fuori una bella dose di punk in “Carrion Season”, canzone nella quale la melodia prende il largo soprattutto grazie ad una chitarra solista sorprendentemente… dolce. E pensare che in “Fear Tension Cold” la melodia era praticamente tabù. Come lo erano anche certe melodie epiche e battagliere di “Tighten the Ranks”.
La chitarra solista appunto, ennesimo tratto del black a là Lilyum. In “Fear Tension Cold” a dir la verità chiamarla solista può essere un complimento esagerato. Se infatti lì non aveva per nessuna ragione al mondo un’importanza veramente melodica, intenta com’era a suonare su tonalità semplicemente più alte il riff della chitarra cosiddetta ritmica. Eppure, era così lontana, così “fastidiosamente” urlante, un residuo stridulo industriale da trasmettere terrore supremo. In “Crawling in the Past” invece viene utilizzata in maniera più fantasiosa, oltre ad essere più cristallina (a parte in “The Knives of Transience”, dove è così remota e minacciosa da sembrare una motosega assetata di sangue) riuscendo non solo a partorire due bei assoli (l’altro è in “Tighten the Ranks”) ma anche a sviluppare e ad allargare il motivo fondante. Anche per questo avrei desiderato un uso più frequente della stessa, più che altro perché è completamente assente in brani come “Above Triumphs and Tribulations”.
Infine, c’è l’ultimo baluardo, la caratteristica forse più spaventosa, ciò che rende la musica del trio una fortezza impenetrabile: l’estasi del vuoto. Un’estasi da incubo che rende alcuni pezzi volutamente senza una vera e propria conclusione. Prendete il finale dell’ultima canzone sopraccitata, che procede testardi per più di un minuto a ripetere sempre la stessa solfa facendo tenere sulle spine l’ascoltatore per chissà quale trambusto improvviso. Prendete il finale dalla melodia più che aperta di “Tighten the Ranks”, nonostante Lord J. H. Psycho pronunci disperato il verso “A warrior soul till the very end”. E prendete la lunga outro che dà il titolo all’album, i cui arpeggi black metal si fanno timidamente vivi con il volume che si alza con gradualità per poi cadere rovinosamente solo dopo una decina di secondi scomparendo nello stesso modo in cui sono comparsi. Ciò dopo chitarre acustiche e melodiche sull’orlo della disperazione e successivamente, insieme al basso (si sentono fra l’altro benissimo i suoi tonfi sull’ampli), attendiste e tetre. Tutto questo come se fosse la celebrazione del pressappochismo.
Alla fine, l’assoluto elemento di novità è rappresentato da Frozen, batterista in carne e ossa che nei Lilyum mancava dal primissimo album “Oigres” (2007). E questo nuovo ingresso non poteva che giovare. Certo, così facendo viene a mancare la cruda e severa meccanicità ma la potenza di una batteria vera è incalcolabile, anche perché non solo finalmente è stata ottimamente bilanciata con il resto degli strumenti (in “Fear Tension Cold” infatti era in pratica seppellita) ma in tal modo risulta molto in linea con la musicalità un po’ più “umana” di “Crawling in the Past”. E ciò riducendo il discorso ritmica ad uno stile essenziale e ben equilibrato in grado di enfatizzare il riffing (ragion per cui sono letteralmente memorabili i furiosi uno – due punk di “Above Triumphs and Tribulations”).
In altre parole, i Lilyum hanno superato sé stessi, anche facendo partecipare (con però pochissima frequenza) il basso, ora in grado di sviluppare talvolta il discorso delle chitarre. Riuscirà quindi Kosmos Reversum a superare anche questo limite con il solo ausilio di Xes, proveniente dagli Infernal Angels?
Voto: 94
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Whence not even Reflections Escape/ 2 – A Fundamental Negation/ 3 – Above Triumphs and Tribulations/ 4 – Self Necrosis/ 5 – Order of the Locust/ 6 – Carrion Season/ 7 – The Knives of Transience/ 8 – Tighten the Ranks/ 9 – Mine is the Silence/ 10 – Crawling in the Past
MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum
ReverbNation:
http://www.reverbnation.com/lilyum