Tuesday, March 29, 2011

Intervista ai Black Therapy!

1) Ehilà ragazzi, come la va? Siete pronti a sorbirvi quest’intervista?
Ciao! Noi siamo pronti e ti ringraziamo per averci concesso quest'opportunità!

2) Certo che per essere un gruppo ancor giovanissimo non avete esitato a creare un death metal melodico piuttosto raffinato che si ciba spesso e volentieri di ritmiche non comuni e di una struttura dei pezzi dalle sequenze per nulla brevi. Per giunta, vi nutrite anche di diverse influenze come il thrash ed in misura minore il black metal (“Chaos Before the End”). Che ne dite della mia sintesi? Credete che sia corretto aggiungere alla definizione della vostra musica il termine “tecnico”? In futuro pensate inoltre di aumentare ancor di più le parti di chitarra solista?

Cerchiamo sempre di trovare il giusto connubio tra melodia, atmosfera e potenza, fondamentalmente ci riteniamo un gruppo death di matrice svedese con molte influenze provenienti dalle atmosfere black e dalle ritmiche "schuldineriane".

Per quanto riguarda la tecnica, non è assolutamente la nostra priorità, preferiamo immergere l'ascoltatore nel nostro mondo piuttosto che lasciare spazio a virtuosismi di carattere tecnico (il termine "tecnico" curiosamente viene sempre interpretato in maniera diversa a seconda delle persone. Per quanto mi riguarda, non lo intendo come un eccessivo sfoggio di tecnica ma come l'utilizzo di una metodologia strutturale difficile da comprendere immediatamente, ergo così a - lineare da essere a primo acchito quasi caotica. Ed è proprio questa la prima impressione che ho ricevuto ascoltandovi, un po' come mi è successo con i nostri conterranei Mass Obliteration. Nda Claustrofobia).

3) In un certo senso mi avete ricordato molto gli abruzzesi Resumed che, per quanto diversi(ssimi), sono soliti utilizzare un riffing ben memorizzabile e solitamente dalle melodie brevi, unito all’utilizzo di ritmiche bizzarre che però in questo caso sono jazz. Oltre ad avere caratteristiche simili, ritmicamente parlando riuscite ad “alleggerire” il tutto con dei tempi che mi ricordano più gruppi speed come gli At War. In pratica c’è questo pesante contrasto complessità/semplicità che vi rende ancor più interessanti. Credete che la mia analisi sia corretta?

I nostri riff sono sempre ben memorizzabili ma mai banali, la complessità deriva dalle linee di basso non convenzionali e dalle ritmiche articolate della batteria, che cercano di dare un tocco di originalità alle chitarre da cui parte il tutto.

4) Uno degli aspetti più inquietanti del demo è la voce, che mi pare un po’ come la versione isterica e blackizzata di Evil Chuck. E’ stato un lavoro difficile “educare” in questo modo le urla, ed effettivamente dietro c’è il black metal? Allo stesso tempo, in tal modo credo si continui con buona personalità la tradizione vocale del death melodico, da sempre molto ricettivo ad urlare ai timpani la propria disperazione.

Quando è entrato nei Black Therapy, il nostro cantante aveva già sviluppato il suo stile di canto, che prende proprio ispirazione dalla tradizione svedese del death melodico, in particolare da Stanne (Dark Tranquillity).

5) “Chaos Before the End” la trovo come una canzone particolarissima, soprattutto per quel finale lunghissimo dall’angosciante gusto black. Che rapporto ha quest’ultimo con il testo, ed in fase di composizione avete pure pensato al significato strategico del brano, magari per far rimanere in febbrile attesa l’ascoltatore in vista dell’ultimo brano? Dal vivo il finale di “Chaos Before the End” lo riproducete fedelmente o vi lasciate a qualche libertà in più?

“Chaos Before The End” tratta del panico che invaderà il nostro mondo quando la sua fine sarà prossima, il black di sottofondo allo screaming qui maggiormente straziato denuncia il fatto che pur arrivato al capolinea l'uomo invece di essere solidale si abbandona alle peggiori nefandezze. Sul demo si trova come terzo brano perché finisce in fading per poi lasciare spazio all'arpeggio iniziale di “Path To Hell”. Dal vivo ovviamente non possiamo riprodurre l'effetto di fading, ma abbiamo trovato una conclusione adeguata.

6) Pure la stessa “Path to Hell” non scherza e dico fin da subito che è la mia canzone preferita. Ha una parte centrale che in sostanza dopo una estenuante sequenza si blocca, viene strozzata per poi riprendere quest’ultima ma lasciando presagire un climax pazzesco che forse verrà successivamente. Solo che esso si esplica nella maniera più insospettabile e difficile, ossia con le chitarre acustiche ed un assolo elettrico struggente. Come mai avete optato per una conclusione così a sorpresa, così cinica e senza speranza? Credo comunque che se aveste utilizzato al contrario un finale più tradizionale e metallico forse questo avrebbe fatto più direttamente effetto. Non trovate? Dal vivo, che riscontri ottiene il pezzo?

“Path To Hell”, dopo il Chaos della fine del mondo, si muove tra riff infernali e assoli incrociati di chitarra, proseguendo nel cammino che porta alla pace del nostro essere, rappresentata dal finale che non poteva essere altro che soave e celeste. Dal vivo ottiene un riscontro molto positivo.

7) Sono rimasto letteralmente scioccato dalla vostra capacità di creare un impasto sonoro molto fantasioso che dimostra un bel coraggio che poi per me rappresenta il vostro punto di forza. Finali infiniti, schemi complessi, ritmiche non convenzionali, perfino una lunga pausa nella quale duellano fra loro le due asce. E siete al primissimo demo! Siete d’accordo? Domanda forse banale ma cosa ha determinato farvi prendere tutti questi rischi già all’opera di debutto (fra l’altro dopo un solo anno di esistenza)? Siete stati veloci….

Tutto ciò che componiamo è soltanto il frutto della nostra mente. Così come lo abbiamo in testa cerchiamo di riprodurlo in musica sperando che qualcuno lo comprenda. Questo è quello che siamo, non credo sia un rischio essere se stessi.

8) Black Therapy è un nome che mi affascina non poco. E’ come se voleste esorcizzare i vostri sentimenti più oscuri usando però un mezzo costruttivo quale è la musica?

La terapia nera è quello che cerchiamo di fare in ogni nostra nota, in ogni nostro testo, con l'intento di risvegliare la coscienza collettiva nell'essere delle persone. Una sorta di musicoterapia portata agli estremi.

9) Parlatemi invece della copertina molto significativa.

La copertina esprime la nostra idea della società moderna, superficiale, materiale e guidata dal consumismo. L'uomo in copertina che brucia ma non muore rappresenta noi e chi come noi non crede in questo sistema moderno. Cogliamo l'occasione per salutare Sergio (Adhiira Art), il nostro grafico, che ha curato questa splendida copertina.

10) L’umanità sembra sempre più allo sbaraglio eppure la situazione non pare poi così cambiare da quella di secoli e secoli fa. Pessimismo od ottimismo? Questo è il dilemma. Utilizzando un linguaggio quasi ebete, l’essere umano secondo voi nasce buono o cattivo o ciò è un fatto talmente soggettivo così da far rendere scienza la teoria del cromosoma criminale XYY de “Il Gatto a Nove Code” di Dario Argento (oddio…)?

L'essere umano è affetto dalla sete di potere, siamo abbastanza pessimisti su questo aspetto, crediamo che ci sarà pace solo nella morte e il nostro pianeta sopravviverà solo con l'estinzione della razza umana.

11) La guerra mondiale è stata l’incubo del secolo scorso eppure qualcuno ci potrebbe vedere un elemento paradossalmente positivo, quasi necessario a lungo termine: la riduzione/equilibrio della popolazione per evitare il sovraffollamento della Terra. Sarei interessato ad avere la vostra opinione in merito. Di conseguenza, la violenza può essere giusta?

La violenza non è MAI giusta.

12) Vorrei sapere cosa ne pensate della guerra che si sta tenendo attualmente in Libia.

Purtroppo è il petrolio a muovere le nazioni, non vogliamo scadere nel banale quindi ti rimandiamo alla nostra risposta numero 10.

13) In questi ultimi anni stanno andando letteralmente di moda i film apocalittici nel quale un uomo se la vede tutto solitario con un mondo ormai ostile. Si pensi a “Io Sono Leggenda”, “The Road” e “Codice: Genesi”. Quest’ultimo film sembra avere quasi una morale cristiana, il cristianesimo come redenzione di un mondo andato in rovina. Insomma, credete sia possibile una cosa del genere? In generale, come vi rapportate con la religione?

Ti rispondiamo con una citazione:

Se Dio non può sconfiggere il male allora non è onnipotente,

Se può sconfiggerlo e non vuole farlo allora Dio è malvagio,

Se invece non vuole e non può farlo allora perché chiamarlo Dio?

14) Che cosa bolle nella pentola dei Black Therapy?

Puntiamo per adesso a farci conoscere con questo demo e nel frattempo continuiamo a elaborare nuovi brani (alcuni li proporremo in sede live) che poi andranno a comporre un nostro Full Lenght tra un anno e mezzo/due anni.

15) Volete mandare un ultimo messaggio agli avidi lettori di Timpani Allo Spiedo?

Ti ringraziamo nuovamente per il tempo concessoci e ricordiamo a tutti i nostri contatti: Il nostro myspace http://www.myspace.com/blacktherapyband La nostra mail blacktherapyband@gmail.com e vi invitiamo a seguirci anche su facebook http://www.msplinks.com/MDFodHRwOi8vd3d3LmZhY2Vib29rLmNvbS9wYWdlcy9CbGFjay1UaGVyYXB5LzE0NTcyNDM4NTQ1NDA1MQ== Stay Death!

Wednesday, March 23, 2011

Funeral Oration - "Come Here with Us" (1990)

Demo autoprodotto

Formazione (1989): Giuseppe, voce;
Luca, chitarre;
Francesco, basso;
Pierpaolo, batteria.
Provenienza: Taranto, Sicilia
Punto di forza del demo:
la produzione, malata e inumana come poche.
Canzone migliore:
forse la stessa "Come Here with Us", per la sua capacità di miscelare violenza incontrollabile, paranoia e melodia.
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Tra i massimi gruppi italiani dell’estremo che abbiano mai distrutto nei primi ’90 i timpani degli ascoltatori, i Funeral Oration sono una storia nella storia che occupa un arco di tempo piuttosto lungo oltreché non soltanto di carattere musicale.

Infatti, negli ultimissimi anni vi ha militato Nick Curri, cantante nell’album del 1996 “Sursum Luna”, che i più veterani di voi forse ricorderanno per essere stata una delle firme di Flash, giornale metallico fortunatamente ancora in attività, alla fine degli anni ’90. Ma scartabellando meglio sono venuto a conoscenza, grazie ad un articolo comparso su ApulianDestruction.it, che Nick è stato letteralmente uno dei pionieri delle fanzine metalliche del nostro paese, dimostrando così ancora una volta che il Sud non ha mai avuto niente da invidiare alla scena del resto d’Italia. Fondatore di Metal Destruction nel 1985, ha portato avanti l’esperienza per pochi ma fruttuosi anni avendo avuto l’onore di ospitare, tramite l’aiuto di un collaboratore brasiliano, perfino i Sepultura periodo “Schizophrenia”. E bisogna dire che non era neanche una rivista esattamente artigianale, come invece era uso all’epoca, visto che, per far capire un po’ la portata della cura che si poneva su questo progetto, le spese ammontavano sempre intorno a quelli che oggi sarebbero 1000 euro. Mica bruscolini!

Ma i Funeral Oration, di cui Luca La Cara professione chitarrista è stato l’unico superstite originale, sono stati importanti per altri due motivi piuttosto diversi fra loro, l’uno riguardante ancora la loro fase “decadente” mentre l’altro è di natura più propriamente storica, sia in relazione alla retriva scena italiana che addirittura a quella mondiale.

Infatti, prima di tutto non si può sorvolare sul fatto che negli ultimi vagiti della formazione pugliese vi abbia suonato come bassista quel Malfeitor Fabban che, trapiantatosi nella Capitale, avrebbe dato il via agli Aborym, da più parti considerati come la prima entità di black metal industriale che attualmente si vanta dei servigi percussivi di Bard “Faust” Eithun, famoso per la sua militanza nei grandiosi e solenni Emperor. E poi, cari miei, i Funeral Oration mischiavano l’intensità e la potenza del death metal con la pura malattia e la glacialità ipnotica del black metal avendo così il merito di essere stati tra i primi a farlo in maniera precisa e completa, ossia senza le divagazioni speed/thrash dei tedeschi Poison o dei brasiliani Sarcofago.

In fin dei conti, il momento ormai era giunto. Molto probabilmente i finlandesi Beherit influenzarono profondamente i nostri Funeral Oration, almeno agli inizi, e guardacaso “Come Here with Us” è una scarica pazzesca di beats alla velocità della luce, sparati però con una certa cognizione di causa che solo pochi gruppi black/death possiedono, come i canadesi Conqueror. Cognizione di causa che rende meno semplificativo ed immediato il discorso ritmico, e da questo punto di vista i velocissimi uno – due di “Euthanasia” sono esemplificativi. Cognizione di causa che ancora rende più fantasioso e meno fracassone il massacro ritmico che altrimenti avrebbe perso in incisività a forza di tempi ultra – veloci, e qui gli irregolari tempi medi perfettamente accentati di “Complete Catalepsy” sono un vero capolavoro. Cognizione di causa che infine rende sicuramente più potente l’intera musica attraverso per esempio la girandola infinita di piatti dell’ultima canzone sopraccita che irrompono con un timing che definire brutale è un eufemismo.

“Come Here with Us” è letteralmente una scia di momenti memorabili che vanno dal thrash melodico (la melodia, che dilemma!) infarcito di scale suonate al fulmicotone di “Come Here with Us”, al finale assurdo di “Evil Alienation” completo di brevissimo assolo rumorista dall’impatto tale che il vuoto lasciato dalla sua assenza ha dato un’efficacia assurda agli ultimi millisecondi del pezzo dominato da un rigging secco in tremolo picking con pennellata finale, necessaria per risolvere una situazione dall’alto tasso adrenalinico.

Ma quello che combinarono con la produzione è impensabile, e ogni volta che li ascolto mi chiedo se quel suono così spaventosamente alieno, freddo, ipnotico avrebbe fatto lo stesso effetto anche senza smanettare troppo in studio. E qui è doverosa una premessa, qualcosa che ho respirato nell’aria ascoltando già l’intro: un abisso lovecraftiano di suoni alieni e lontani con una chitarra acustica che orribilmente mutilata ricama trame di indicibile orrore, un abisso che alla fine inghiotte tutto come se si fosse svegliato il Grande Cthulhu per il dominio eterno sul Cosmo. Poco più di un minuto che sintetizza pienamente l’atmosfera malata di tutto il demo e che trova la sua maggiore esemplificazione nella voce: manipolata in modo terribile come se venisse da un’altra dimensione , è spaventosa e quasi assordante. Guardacaso il primo paragone che mi è venuto in mente sono stati i Belketre dello split con i Vlad Tepes “March of the Black Holocaust”, solo che diversamente da questi due leggendari gruppi black metal qua si alternano grugniti ad urla che sembrano vomitate, gli ultimi violenti sussulti di un posseduto pronto a scoppiare d’odio.

Nella produzione di “Come Here with Us” niente è veramente normale, o almeno non completamente. L’unico strumento “a posto” in buona sostanza è il basso che si sente a meraviglia e pesa come un macigno sull’ascoltatore con il suo suono greve. Le chitarre sono fragili ma taglienti come fil di ferro, anche perché in certi momenti il riffing è quasi incomprensibile portando la sua ventata di dolore ed immane oscurità su malcapitati timpani intenti disperatamente a decifrarlo (niente paura che con le cuffie si risolve tutto!). La batteria invece è così strana che può rivaleggiare per bizzarria con il quadro assurdista della voce. E’ così infame da avere un suono quasi impossibile, una versione meglio rifinita della batteria dei primissimi Beherit con un rullante che gli manca poco per assomigliare alla cassa. Solo che quest’atmosfera di malata irrealtà, questa sagra degna del peggior manicomio da “Complete Catalepsy” in poi viene un po’ rovinata, più che altro perché la batteria da lì assume un suono sì grezzo e “ignorante” ma vivo e vero. In sé non sarebbe neppure male perché regala una potenza maggiore ma è il di per sé che mi convince poco, ed il perché già lo sapete.
Ma non dimentichiamoci per nessuna ragione al mondo l’impalcatura strutturale dei 4 pezzi che compongono il demo. E bisogna dire che aumenta e di molto la brutalità per 2 motivi:

1) l’assenza di vere e proprie introduzione in canzoni come “Complete Catalepsy” e “Euthanasia”, che partono velocissime senza dare nessun preavviso (oddio, ci sarebbe il charleston d’apertura della prima ma è così rapido da essere quasi impercettibile);
2) la fluidità a volte estrema della musica quivi contenuta, visto che le pause, gli stacchi e relative ripartenze non sono proprio frequenti, così da costruire un discorso praticamente senza pietà alcuna per l’ascoltatore ma allo stesso tempo decisamente più complesso da potenziare, eppure i Funeral Oration ci riuscivano con una facilità esagerata.

E ciò nonostante un dinamismo molto ben accentuato costruito intorno a delle sequenze di soluzioni talvolta non rispettate del tutto. Ma ovviamente c’è l’eccezione che conferma la regola, ossia la spaventosa “Come Here with Us”, la cui sequenza, dopo averla suonata tranquillamente la prima volta, viene sottoposta ad un tira e molla infinito ed ipnotico fra la prima e la seconda soluzione che alla fine esplode con un assolo fulminante prima di concedersi finalmente quel fatidico rallentamento.

Ultima osservazione: a mano a mano i brani diventano sempre più brevi, come se fosse la tremenda conseguenza di un accumulo d’odio destinato a deflagrare non solo l’universo circostante ma anche gli stessi componenti del gruppo…dall’interno.

Voto: 87

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Come Here with Us/ 3 – Complete Catalepsy/ 4 – Evil Alienation/ 5 - Euthanasia

Sunday, March 20, 2011

Intervista ai Lamiera!

1) Ehilà carissimi, va tutto bene? Pronti a rispondere alla mia
infinita sfilza di domande?


Izzy, voce e chitarre: Minchia mi fai paura, vai!

Emanuele, basso: Tutto bene, procedi pure!

2) Voi, per essere dei thrashettoni amanti della vecchia guardia,
proponete un thrash metal indubbiamente coraggioso soprattutto per via
di un riffing schizoide e che rimanda talvolta da vicino al mathcore.
Si offrono così delle strutture particolarmente difficili da digerire
e che trovano il picco in “Layer”. E, nonostante a primo acchito
sembriate molto interessati a distruggere i timpani con velocità belle
sostenute dopo un po’ riuscite a creare un buon equilibrio fra i tempi
più lenti e quelli più veloci. Concordate con le mie affermazioni?
Nelle vostre influenze figura anche Giovanni Sollima, sarei curioso di
sapere come l’avete esplicato nelle vostre sonorità…


Izzy: Concordiamo appieno, abbiamo sempre cercato di fare “qualcosa in
più” del solito Thrash e offrire qualcosa di nuovo alla scena. Per
quanto riguarda la figura del Sg. Sollima figurava come influenza in
quanto è il padre del nostro primo batterista: Matteo

Emanuele: Il contrasto tra parti veloci e parti lente e melodiche è
sicuramente una caratteristica dei nostri pezzi da evidenziare. Sono
le parti dove l’ascoltatore si ferma un attimo per riflettere su
quello che è accaduto poco prima alle sue orecchie.

3) E guardacaso per me la canzone migliore del lotto è “Layer”, perché
in pratica estremizza molti vostri aspetti, in primis una struttura
più nervosa del solito che fra l’altro ha una parte finale molto
rifinita ed un po’ particolare se rapportata a quella degli altri
brani. Tale episodio ha avuto una genesi tutta speciale ed è stata
quella più difficile da riproporre? Sbaglio o è stata l’ultima ad
essere composta? Suppongo che il vostro concerto-tipo lo concludiate
proprio con “Layer” (a parte l’inevitabile cover finale)…


Izzy: Si esatto, le canzoni sono nello stesso ordine in cui sono state
composte, ed appunto “Layer” oltre rappresentare la summa della nostra
idea di thrash, è stata l'ultima. In quanto alla genesi non è stato
niente di diverso dalle altre, ovvero è stata composta interamente in
midi e poi leggermente modificata alle prove.

Emanuele: Beh se la scaletta comprende solo i pezzi della demo, Layer
è messa per ultima. Come le altre canzoni è nata dalla mente di Izzy,
e quando lo ascoltai la prima volta sapevo che sarebbe diventato il
mio preferito. E’ stata l’ultima ad essere composta, probabilmente per
questo riassume in maniera lampante il concetto Lamiera.

4) Il riffing è invece per me il principale punto di forza del demo.
Potenza e tecnica asservite ad una schizofrenia che regala al tutto un
che di inquietante e che per giunta è immessa in una cornice in fin
dei conti tradizionalista (merito ancora maggiore). Da non dimenticare
anche quegli assoli impazziti che stranamente sono brevi a dispetto
dei vostri tecnicismi. Siete d’accordo? Effettivamente c’è una ragione
particolare per cui i solismi non occupano uno spazio così importante
nei Lamiera o lo farete in un futuro non lontano?


Izzy: Semplicemente non ci piace dilungarci in assoli troppo
esagerati, ogni assolo ha la sua precisa funzione nella struttura
della canzone e non è stato messo lì a caso, magari in futuro daremo
più spazio ai solismi qualora essi siano richiesti. Aggiungici che mi
secca profondamente scrivere gli assoli :D

Emanuele: Io vedo i nostri pezzi come una dose di verità sputata in
faccia nella maniera più aggressiva possibile. C’è anche del “dolce”,
le parti lente, che servono ad assimilare il pezzo nella sua
completezza. Gli assoli sono in sintonia con i pezzi, brevi, veloci,
aggressivi e, come dici tu, impazziti.

5) Perché avete voluto mettere come cover “Piranha” degli Exodus? Ve
lo chiedo soprattutto per via di una cupezza e di melodie dal gusto
epico che voi non sparate per niente? E’ giusto ritenere che gli
ultimi pezzi inediti introducano all’assalto più posato di “Piranha”
dimostrandosi così funzionali a quest’ultima? Dal vivo quali altre
cover proponete e curiosamente qual è in generale quelle che
“attizzano” maggiormente il pubblico? Non era meglio però suonare una
cover con liriche simili agli altri episodi?


Izzy: nella demo tra le altre cose volevamo dimostrare di saper
suonare un po' di tutto, anche pezzi thrash più “old school” rispetto
a quello che facciamo di solito. Per questo la scelta è ricaduta su
Piranha. Dal vivo abbiamo proposto una valanga di cover: Ausgebombt,
Surf Nicaragua, Whiplash, Killing Peace, ultimamente suoniamo spesso
“Refuse Resist” con Mattia in veste di bassista/cantante.

Emanuele: Piranha è un pezzo che aggredisce. Direi che è in sintonia
con gli altri per aggressività. Magari non come struttura, partendo
dall’assolo decisamente lungo. Va preso come un pezzo tributo alla
vecchia scuola. Non ci siamo dimenticati di quella per chi non
l’avesse notato!

6) Vabbè, questa è una domanda d’obbligo: perché avete fatto la
versione kraut di “To the Truth”, e per giunta perché avete scelto
proprio tale canzone? Suppongo che qualcuno di voi studi il tedesco.
Lo trovo come un esperimento interessante ma per la foga e la
spontaneità preferisco decisamente l’originale. E’ stata difficile
cantarla così?


Izzy: Si, cantarla in tedesco è stata decisamente un impresa!
Nonostante io studi e parli la lingua, le metriche tedesche sono molto
più lunghe e l'adattamento è stato un bel problema, ho scelto questa
lingua perché la ritengo perfetta per il thrash, forse più
dell'inglese, e “to the truth” si adattava bene ad essere cantata in
questo modo. Ti anticipo che nel futuro album ci sarà un pezzo cantato
esclusivamente in tedesco.

Emanuele: A me l’idea è piaciuta da subito. Qui da noi vengono spesso
turisti tedeschi, sono i primi ad interessarsi della nostra storia. Un
tributo turistico direi che ci voleva, infondo lo stesso Goethe è
stato un ammiratore della nostra città.

7) Raccontatemi della copertina. E’ una vera e propria foto?

Izzy: La vecchia copertina era una foto vera e propria, messa lì senza
modifiche in quanto rappresentava bene l'idea e il concept che sta
dietro i Lamiera, l'abbiamo dovuta togliere per motivi di copiright, e
sostituirla con un disegno realizzato a mano.

Emanuele: la vecchia copertina era una foto della nonna del vecchio
batterista, se l’è portata con se.

8) Perché avete scelto di chiamarvi in italiano ma poi di cantare
(quasi) totalmente in inglese? Magari in futuro canterete anche in
madrelingua, non si sa mai…


Izzy: Ancora dobbiamo decidere, il nome Italiano è stato scelto più
che altro perché genera curiosità e non è il solito nome thrash, in
quanto alla madrelingua attualmente non abbiamo progetti, ma se
proprio dobbiamo farlo, aspettatevi più un pezzo in dialetto
palermitano che in italiano!

Emanuele: Non è da escludere qualche pezzo in italiano. L’inglese
arriva sicuramente a più persone. Il fenomeno della Mafia è conosciuto
in tutto il mondo ormai e i nostri pezzi possono interessare anche a
persone non italiane.

9) Nel retro del disco mettete subito in chiaro di essere siciliani e
di conseguenza di voler parlare di guerre concrete. Perché assumere un
tale atteggiamento? Il vostro è un “manifesto” inteso a “schernire”
chi preferisce trattare fantasie più che la crudeltà di situazioni
reali in modo da evadere in un certo senso dalla monotonia
dell’esistenza (parole grosse ragazzi!)?


Izzy: No, il nostro atteggiamento segue una logica precisa: Il Thrash
come ci insegnano i grandi nomi affronta spesso la tematica della
guerra: noi abbiamo la NOSTRA guerra da raccontare, ovvero di quella
contro la mafia, non ha senso parlare di qualcosa che non ci
appartiene come il Vietnam o la guerra del golfo. Preferiamo
raccontare la nostra (purtroppo) quotidianità e la nostra cronaca.

Emanuele: Puntiamo al concreto. I tempi cambiano, la funzione
educatrice della musica resta. Proporre pezzi aggressivi, immediati,
con testi vaghi o per lo più “classici” non avrebbe lo stesso effetto.
Gli ascoltatori devono sentirsi partecipi, devono poter dire: “cazzo,
questa canzone è mia, mi riguarda!” Il messaggio dei testi è
ovviamente reinterpretabile anche in altri contesti rispetto a quello
mafioso.

10) A parte il carattere anti-mafioso dell’opera del grande Giovanni
Falcone, l’avete citato anche in rapporto alla sua stessa sicilianità,
oltre che l’essere un palermitano doc come voi? Ma il coraggio può
essere anche il silenzio inteso come la perdita della propria dignità
ai limiti della sopportazione umana? Un coraggio più filosofico
insomma se così si può definire. Comunque da dove l’avete presa la
citazione e in che sede la disse Falcone?


Izzy: La citazione è stata presa da uno dei suoi ultimi discorsi, e
questa frase rappresenta la summa del suo pensiero: L'invito a non
aver paura, o almeno a saperla accettare come parte integrante della
vita, ha dato e continua a dare un messaggio bellissimo a tutti i
giovani siciliani, ed il fatto che le sue parole siano nell'intro non
è un caso: volevamo fare in modo che sia lui a dare l'inizio al tutto.

Emanuele: Il coraggio per Falcone era qualcosa di concreto,
dimentichiamoci della filosofia per un attimo. Lui parlava chiaramente
di omertà e voleva combatterla, voleva vedere gente senza paura, gente
che accusava e denunciava i torti che gli venivano fatti. Ovviamente
in uno stato dove la mafia ha un ruolo anche politico la giustizia va
a farsi fottere. Il coraggio inteso come silenzio, visto come perdita
della propria dignità ai limiti della sopportazione umana, è quello
che Falcone denunciava.

11) Avete citato anche lo studioso palermitano (aridanghete!) Giuseppe
Pitrè. Ma in che senso “la forza individuale è il solo arbitro di ogni
conflitto”?


Izzy: Questa frase si sposa bene con il testo della canzone Layer, che
appunto parla di come sia stratificata l'organizzazione criminale,
Pitré vuole fare intendere come tutte le decisioni riguardo alle lotte
vengano assunte in base ad una esagerata percezione della forza
singola.

Emanuele: Ognuno sa per cosa combatte, se credi veramente in quello
che fai, allora puoi portare avanti una guerra da solo. E’ la forza
del singolo che decide le sorti di un conflitto.

12) La mafia è combattuta sia dalla destra che dalla sinistra, ma nei
vostri testi “nascondete” una precisa collocazione politica o
preferite non avere niente a che fare con la politica?


Izzy: Preferiamo non averci niente a che fare con la politica. Siamo
già abbastanza schifiati!

Emanuele: La mafia viene sfruttata a chi è utile, all’infuori dello
schieramento politico. Collocarsi in uno schieramento o nell’altro
renderebbe il nostro messaggio vago.

13) Sarei curioso di sapere cosa ne pensate di grandissimi film come “C’era una
Volta l’America” o la saga de “Il Padrino”? Credete che la mafia venga
un po’ troppo mitizzata entrando così nell’immaginario collettivo?


Emanuele: Quei film fanno riferimento ad una Mafia ormai mutata. E’
giusto che la gente li apprezzi, quelli della Mafia sono senza dubbio
meccanismi affascinanti. Oggi però il lavoro della mafia ha raggiunto
il suo obiettivo, la mentalità delle persone. Le persone ragionano con
mentalità mafiosa: “io sono il più forte”, “io ho tutto”, “non sai chi
sono io”. La mafia ormai è diversa rispetto a quei film. Quella è
storia.

14) Cosa bolle ultimamente in pentola in casa Lamiera?

Izzy: Ci stiamo muovendo parecchio, abbiamo 3 pezzi nuovi pronti al
100% e a breve finiremo di comporre l'album che penso registreremo per
fine 2011. Dopodiché ci muoveremo per trovare un etichetta che ci
supporti e stampi il disco.

Emanuele: Inediti, tra i quali ne spicca uno “allegro”, parodia di uno
dei fenomeni predominanti a Palermo ma anche nel sud Italia in
generale.

15) Va bien, l’intervista è finita. Volete mandare un ultimo messaggio
agli avidi lettori di Timpani Allo Spiedo?


Grazie a voi Timpani allo Spiedo per la bella ed interessante
intervista e grazie a voi lettori e ascoltatori. Ricordiamo che la
demo è interamente ascoltabile dal nostro
Facebook: http://www.facebook.com/?ref=hp#!/pages/Lamiera/120100058012274
o dal nostro canale Youtube: http://www.youtube.com/user/LamieraOfficial
e a breve verrà messa in download gratuito, approfittiamo per
annunciare un piccolo cambio di formazione, in quanto il nostro
batterista: Giulio Scavuzzo, ha lasciato la band per problemi
personali, ringraziandolo per il contributo e il grande impegno dato
alla band, accolgiamo con grande piacere il nuovo drummer Antonino
Venezia.

Continuateci a seguire e a supportare!

Saturday, March 19, 2011

Lilyum - "Crawling in the Past" (2010)

Album, MalEventum Records (6 Dicembre 2010)

Provenienza: Torino, Piemonte (Frozen invece dalla siciliana Catania)

Formazione: Lord J. H. Psycho, voce, chitarra (anche acustica), basso in “Order of the Locust” e “Tighten the Ranks”, campioni e rumori ambientali in “Whence not even Reflections Escape” e “Crawling in the Past”;

Kosmos Reversum, chitarra e basso;

Frozen, batteria

Punti di forza dell’album:

1) sicuramente la capacità del gruppo di unire vecchie e nuove proprie caratteristiche, anche prendendo i classici del genere;

2) la voce, più malata che mai, più fantasiosa che mai.

Migliore canzone:

sicuramente “Carrion Season”, che in quasi 8 minuti unisce incredibilmente grandiosa freddezza e melodie inaspettate.

Dei Lilyum è stata pubblicata anche la recensione di "Fear Tension Cold".

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Devo confessarlo subito: quando ho saputo dell’entrata in formazione di un batterista in carne e ossa il mio naso ha iniziato a prendere pieghe strane. Inizialmente infatti non ne ero assolutamente convinto, convinto com’ero che si potesse ulteriormente sviluppare l’inumana freddezza di “Fear Tension Cold” conservando l’immane glacialità della drum-machine. Ed invece, appena ho messo nello stereo “Crawling in the Past” i dubbi si sono gradualmente estinti, ridotti ad un semplice cumulo di macerie. Anche perché, cari miei, mi sembra scontato scriverlo vista la natura camaleontica dei Lilyum ma ‘sti ragazzi sono riusciti per l’ennesima volta a cambiare la propria musicalità così da creare un’opera praticamente onnicomprensiva. Senza abbandonare le proprie coordinate che ormai li caratterizzano.

Già. La voce, ad esempio. O meglio, le voci e ciò perché Lord J. H. Psycho abbraccia uno spettro così ampio di possibilità espressive che è letteralmente impossibile non restare ammaliati da questo continuo gioco vocale in cui schifosissime urla a là Vlad Tepes e grugniti ripugnanti classici del black danno il posto a varie voci pulite, siano essere spiritate, melodiche (cosa?), parlate, sussurrate, e si sono fatti vivi addirittura i cori come anche degli insospettabili “HI-HA” manco si stesse trattando dei cavalieri dell’Apocalisse (“Tighten the Ranks”). Ma il risultato è sempre e comunque lo stesso: un pozzo pieno di malattia e pazzia memore della più orribile isteria che declama specialmente la sua mastodontica pericolosità in pezzi come “Mine is the Silence”, nel quale ad un certo punto a dei vocalizzi puliti e sofferti segue immediatamente un urlo così acuto da far spavento, mostrando in tal modo delle notevoli capacità tecniche negli improvvisi cambiamenti di registro. Quel che è peggio è che la voce non soltanto appare lontana come se stesse eruttando i propri anatemi da oscure profondità siderali ma l’inquietudine da essa trasmessa va persino oltre. Nelle metriche, che sono angoscia pura. Procedono spesso così lente da favorire la cruda accentazione delle parole maledette che pian piano “colorano” di infinita desolazione tutto quanto. Andando allo stesso tempo quasi in contrasto con le velocità a cui va spesso e volentieri il trio, come a voler esprimere il lento e inesorabile disfacimento della frenetica umanità.
Ma per fare un altro esempio, mi sovviene l’estrema meccanizzazione della struttura – tipo che amano snocciolare i 3 ragazzi. E quando scrivo “estrema” è nel più puro senso del termine. Lo è così tanto nel lunghissimo finale dal riff intermittente di “Above Trimphs and Tribulations”, monotono e spaventosamente sfiancante. Ma è nelle linee generali che il termine “estrema” fa più effetto. Il manifesto di questa politica che stavolta favorisce brani più lunghi del previsto è il tour de force di “Carrion Season”, compiendio punk – black di quasi 8 minuti che farebbero la felicità dei Fall e delle loro 3 “r” (“Repetition Repetition Repetition”) tanto è infinita la sequenza 1 – 2 – 1- 2 – 3 – 4 – 3 – 4 – 5 – 6 che viene ripetuta per una seconda volta (quasi) uguale a sé stesso per circa 3 minuti e 30, se non ci fosse stato quell’incredibile e semplice assolo (assolo?) ad occupare come un falso pesce fuor d’acqua la ripartenza della suddetta sequenza. Eppure, pare strano a dirsi, Frozen non esista a dinamicizzare il discorso con delle interessanti variazioni ritmiche, seppur con pochissima frequenza. Eppure, la voce lo scuote ancora con le sue imprevedibili sorprese, magari anche durante una stessa soluzione musicale. Eppure, come per contraddire a queste caratteristiche dinamiche, la musica procede imperturbabile rifiutando in senso quasi assoluto qualunque intervento in solitario che spesso nel metal estremo sono d’obbligo, e stessa identica sorte alle pause. E così l’effetto da “strozza l’ascoltatore come un fiume in piena che non conosce tregua sta per essere completato.

Poi c’è l’esempio rappresentato dal tipo di riffing del gruppo torinese, altro elemento caratterizzante. Infatti, quando si parla degli odierni Lilyum si pensa sempre ad un lavoro di chitarra molto semplice, minimalista e freddamente monotono, data anche la lunghezza esorbitante di quasi ogni singolo riff. Bene, adesso non solo dovete ridurre e rendere più digeribile quest’ultima, ma dovete combinare questa personale e spaventosa interpretazione del black metal con un riffing più classico per il genere. Detto in altre parole: il lavoro è diventato un pochettino più dinamico, vario e meno industri aloide, comprendendo persino degli inquietanti arpeggi, mentre a volte si fa addirittura quasi magniloquente (“Whence not even Reflections Escape”) nonostante le rozze influenze di marca black ‘n’ roll che esaltano “Self Necrosis” e “Order of the Locust” fino, come già scritto, a sputare fuori una bella dose di punk in “Carrion Season”, canzone nella quale la melodia prende il largo soprattutto grazie ad una chitarra solista sorprendentemente… dolce. E pensare che in “Fear Tension Cold” la melodia era praticamente tabù. Come lo erano anche certe melodie epiche e battagliere di “Tighten the Ranks”.

La chitarra solista appunto, ennesimo tratto del black a là Lilyum. In “Fear Tension Cold” a dir la verità chiamarla solista può essere un complimento esagerato. Se infatti lì non aveva per nessuna ragione al mondo un’importanza veramente melodica, intenta com’era a suonare su tonalità semplicemente più alte il riff della chitarra cosiddetta ritmica. Eppure, era così lontana, così “fastidiosamente” urlante, un residuo stridulo industriale da trasmettere terrore supremo. In “Crawling in the Past” invece viene utilizzata in maniera più fantasiosa, oltre ad essere più cristallina (a parte in “The Knives of Transience”, dove è così remota e minacciosa da sembrare una motosega assetata di sangue) riuscendo non solo a partorire due bei assoli (l’altro è in “Tighten the Ranks”) ma anche a sviluppare e ad allargare il motivo fondante. Anche per questo avrei desiderato un uso più frequente della stessa, più che altro perché è completamente assente in brani come “Above Triumphs and Tribulations”.

Infine, c’è l’ultimo baluardo, la caratteristica forse più spaventosa, ciò che rende la musica del trio una fortezza impenetrabile: l’estasi del vuoto. Un’estasi da incubo che rende alcuni pezzi volutamente senza una vera e propria conclusione. Prendete il finale dell’ultima canzone sopraccitata, che procede testardi per più di un minuto a ripetere sempre la stessa solfa facendo tenere sulle spine l’ascoltatore per chissà quale trambusto improvviso. Prendete il finale dalla melodia più che aperta di “Tighten the Ranks”, nonostante Lord J. H. Psycho pronunci disperato il verso “A warrior soul till the very end”. E prendete la lunga outro che dà il titolo all’album, i cui arpeggi black metal si fanno timidamente vivi con il volume che si alza con gradualità per poi cadere rovinosamente solo dopo una decina di secondi scomparendo nello stesso modo in cui sono comparsi. Ciò dopo chitarre acustiche e melodiche sull’orlo della disperazione e successivamente, insieme al basso (si sentono fra l’altro benissimo i suoi tonfi sull’ampli), attendiste e tetre. Tutto questo come se fosse la celebrazione del pressappochismo.

Alla fine, l’assoluto elemento di novità è rappresentato da Frozen, batterista in carne e ossa che nei Lilyum mancava dal primissimo album “Oigres” (2007). E questo nuovo ingresso non poteva che giovare. Certo, così facendo viene a mancare la cruda e severa meccanicità ma la potenza di una batteria vera è incalcolabile, anche perché non solo finalmente è stata ottimamente bilanciata con il resto degli strumenti (in “Fear Tension Cold” infatti era in pratica seppellita) ma in tal modo risulta molto in linea con la musicalità un po’ più “umana” di “Crawling in the Past”. E ciò riducendo il discorso ritmica ad uno stile essenziale e ben equilibrato in grado di enfatizzare il riffing (ragion per cui sono letteralmente memorabili i furiosi uno – due punk di “Above Triumphs and Tribulations”).

In altre parole, i Lilyum hanno superato sé stessi, anche facendo partecipare (con però pochissima frequenza) il basso, ora in grado di sviluppare talvolta il discorso delle chitarre. Riuscirà quindi Kosmos Reversum a superare anche questo limite con il solo ausilio di Xes, proveniente dagli Infernal Angels?

Voto: 94

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Whence not even Reflections Escape/ 2 – A Fundamental Negation/ 3 – Above Triumphs and Tribulations/ 4 – Self Necrosis/ 5 – Order of the Locust/ 6 – Carrion Season/ 7 – The Knives of Transience/ 8 – Tighten the Ranks/ 9 – Mine is the Silence/ 10 – Crawling in the Past

MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum

ReverbNation:
http://www.reverbnation.com/lilyum

Wednesday, March 9, 2011

Tuam Nescis - "Algophobia" (2010)

Demo autoprodotto
Provenienza: Palermo, Sicilia

Formazione: Ivan Vega – voce
Danyel Burton – basso e programming
Vincent Purple – batteria
K. Mega – tastiere

Session (o come si vogliano chiamare) alle chitarre:
Giorgia Matesi
Alessandro Parrino
Giulio Di Gregorio

Punto di forza del demo:
sicuramente la contraddizione contrastante tra il minimalismo e la semplicità della chitarra e la schizofrenia e la complessità a volte presente nella batteria.

Miglior canzone:
il piccolo tour de force di “Transplants”, tetra e potente come poche.

Nota 1:
faccio presente che nel gruppo è da poco entrata una chitarrista, ossia Federica Viola. Ovviamente mi sembra giusto augurarle buona permanenza nella formazione.
Nota 2:
vi prego, guardate 'sto video di It Came from the Desert e scoprirete la somiglianza incredibile che intercorre tra le tastiere più pesanti presenti in "Algophobia" e alcuni passaggi della colonna sonora di questo videogioco immortale:
http://www.youtube.com/watch?v=KTWd_eyAmgQ&feature=player_embedded
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It Came from the Desert. Sarà una mera cazzata ma l’atmosfera cupissima e minimalista dei pezzi ambient di “Algophobia” (ossia, "paura del dolore") mi ha ricordato uno dei videogiochi più belli mai concepiti per l’Amiga, il computer che scoprì e sfruttò per la prima volta come autentica arte la grafica (peccato però che cominciai ad usarlo nel suo periodo di decadenza, nel 1993, ossia alla tenera età di 4 anni…). Certo, lì si trattava di sventare l’invasione delle formiche giganti in omaggio alla fantascienza anni ’50, ma le tastiere più grevi, quelle che in pratica fungono da accompagnamento al pianoforte, che ci si creda o no, sono state usate quasi paro paro come nella colonna sonora di quel monumento firmato dalla grande Cinemaware nel lontano 1989. Ma in quest’ultimo c’era qualcos’altro di facilmente accomunabile ad Algophobia: l’inesorabile tic – tac – tic – tac del tempo minaccioso e cieco di fronte a ogni cosa. In It Came from the Desert c’era un memento mori continuo, il fattore – tempo era un’arma a doppio taglio, soprattutto quando le creature mutanti o i rockers ti facevano finire all’ospedale e tu, un geologo, non potevi permetterti di perdere ore preziose perché dovevi sbrigarti a trovare il nido di quelle bestiacce per sterminarle per sempre. Se no, Game Over e tanti saluti. Ecco, anche i Tuam Nescis “giocano” con il tempo, grazie a quell’inquietante orologio in copertina che quasi ricorda, prima dell’atto finale, di “donare luce alle speranze buie, donare gloria alle sconfitte, donare vita in fin di vita (ho citato le parole di Danyel Burton sul retro di copertina). C’è quindi un messaggio piuttosto positivo, ma ciò non toglie che i Tuam Nescis siano uno dei gruppi musicalmente più pericolosi che io abbia ascoltato ultimamente.
Infatti, i nostri palermitani violentano i timpani degli ascoltatori con un death metal a suo modo particolarissimo e non poco personale. Ciò più che altro perché in loro vi sono delle contraddizioni che riescono nell’impresa di rendere difficoltoso un ascolto che, prendendo in considerazione da subito le chitarre, inizialmente pare semplice.

Le chitarre appunto. Di una semplicità disarmante, così memorizzabili che persino i Black Witchery avrebbero un pizzico d’invidia a sentire questo tipo di riffing che in sostanza è costituito da una sequenza di note spesso brevissima accompagnata quasi inevitabilmente da una variazione soltanto tonale del tema fondante. Così il discorso diventa monotono, avvolgente nella sua perpetua angoscia, completamente a-melodico nel suo rifiuto di sviluppare qualsiasi melodia, e quel che è “peggio” è che non si intravvede per la verità neanche la più miserrima delle luci per quanto il settore chitarre è privo in senso letterale di ogni tipo di chitarra solista. Anzi, penso che la luce venga totalmente debellata in “Transplants” dove nella parte centrale il riffing diventa paurosamente black lasciando per un po’ da parte i modernismi death che dominano il discorso “melodico”. Un panorama desertico, senza speranza, né più né meno…ovviamente da amare.

Meno desertica ed essenziale è invece la sezione ritmica, che poi rappresenta il principale elemento che regala al tutto una nevrosi, una schizofrenia da brivido. Ciò specialmente grazie alla batteria che mena fendenti anche quando incalza con i suoi amati tempi medi come nel filo – jazz isterico di “Algophobia”, con tanto di decelerazioni e accelerazioni completamente imprevedibili, o nel raffinato lavoro di “Transplants” decorato dai tocchi improvvisi del charleston, e nella quale fra l’altro si fa un uso perfetto dei china, che con il loro minaccioso ed “ignorante” frusciare distruggono psicologicamente l’ascoltatore. E per far capire l’importanza propria della sezione ritmica, bisogna segnalare assolutamente che il basso, autore di un’ottima linea nella canzone sopraccitata, ha l’appannaggio quasi esclusivo degli interventi in solitario, a volte utilizzando pure l’effetto disorientante del suono che esce da una parte all’altra del supporto usato (stereo o cuffie che siano), facendo così (ri)partire il discorso a partire (scusate il gioco di parole…) dal taglio greve di questo strumento.

Ma l’effettistica non è isolata soltanto al basso visto che la voce ne beneficia spesso e volentieri. Certo, è un’effettistica usata in maniera ponderata ma ho apprezzato molto quegli avvolgenti effetti di lontananza che bombardano entrambi i timpani come se stessero cercando di entrare nelle viscere dell’anima. Il fatto però è che per Ivan Vega è facile farlo in continuazione grazie ad una prova vocale stupefacente e sofferta. Le urla sono così pesanti ma umane che mi hanno rimandato alla scuola melodica del death svedese, eppure il nostro non manca di variare con ottima abilità il proprio tormento con vocalizzi più cupi. Così, ecco serviti veri e propri grugniti veramente bastardi ma non catacombali (molto simili a quelli sentiti ultimamente dai sardi Simulacro) che spesso vengono utilizzati nelle sovraincisioni, oppure voci rauche quasi sussurranti (“Transplants”).
Oddio, non è che qui sia tutto rose e fiori. Prima di tutto, due pure e nude canzoni per qualcosa come 9 minuti sono troppo poche per valutare sufficientemente il valore del collettivo. E se si pensa che gli altri 6 minuti sono tutti a base di tastiere e campioni si potrebbe pensare facilmente che “Anxiety” e “Calvario” siano dei semplici esercizi di stile seppur efficaci, soprattutto perché K. Mega sembra che si giri i pollici nei due veri brani. Eh sì, perché o il nostro interviene con passaggi spesso isolati dal resto degli strumenti concedendosi solo qualche momento di gloria (“Algophobia” riprende addirittura per qualche secondo i passaggi finali di “Anxiety”. Peccato che non siano state fatte mosse simili anche successivamente perché l’esperimento era davvero interessante) oppure entra veramente nel discorso metallico – in maniera meravigliosa – ma soltanto per circa un minuto e 30 secondi nonostante i quasi sei minuti della versione breve di “Transplants”. In parole povere, perché non rendere più partecipe il “discriminato” K. Mega?

Voto: 73

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Anxiety/ 2 – Algophobia/ 3 – Transplants/ 4 – Calvario

MySpace:
http://www.myspace.com/tuamnescis

FaceBook:
http://it-it.facebook.com/pages/Tuam-Nescis/136180666417039

Monday, March 7, 2011

Ab Noctem - "Promo Ep 2010"

Ep autoprodotto (27 Ottobre 2010)

Provenienza: Alessandria, Piemonte

Formazione (A.D. 2009): Jole “Yuka” – voce e tastiere
Andrea – voce e basso
Jack – chitarra
Marco – batteria

Punto di forza dell’ep:
indubbiamente il comparto vocale, ispirato e ricco di soluzioni nonostante la partenza un po’ deludente.

Migliore canzone:
i memorabili quasi 7 minuti (di cui la maggiorparte in doom) di “Lu Rusciu te lu Mare”, da cui il gruppo potrebbe ripartire per un suono che fondi veramente il black metal con le parti folk. Finale affidato alle eterne onde del mare. E pensare che è un brano memore della formazione originaria!

Gli Ab Noctem rappresentano in maniera per nulla forzata un gruppo di portata storica per Timpani Allo Spiedo. Per due semplici motivi: con loro si segna il ritorno in queste stesse pagine della corrente folk del black metal dopo aver ospitato i sardi Streben addirittura comparsi nel primissimo numero della rivista (parlo del 10 Agosto del 2008…) ormai webzine; e allo stesso tempo si segna il ritorno di una donna in formazione dopo che l’ultimo onore venne riserbato ai livornesi Profanal nel 5° numero, cioè poco più di un anno fa.

Ma il paragone con gli Streben quasi si deve fermare lì, soprattutto perché dal punto di vista atmosferico siamo pressoché da tutt’altra parte. Se il trio sardo ormai da un pezzo sciolto immergeva infatti l’ascoltatore in una romantica dimensione onirica quasi da Summoning, e che fra l’altro spesso usava il flauto, la chitarra acustica in momenti completamente isolati dalla controparte black metal, con gli Ab Noctem si entra in tutta un’altra realtà. Una realtà eroica più da Ensiferum, più da autentica e divertente sagra paesana (la parte centrale di “The Last Dawn” è esemplificativa) nella quale riffs di impronta più epica e spesso per nulla black abbondano insieme per l’appunto al flauto (che poi si scoprirà come lo strumento inusuale maggiormente utilizzato), alla fisarmonica, ma non manca neanche il pianoforte, tutti suoni prodotti dalla diligente Yuka. Questo effettivamente è folk metal (e vichingo) nella sua pura accezione (almeno rispetto agli Streben), solo “intaccata” da qualche momento dal taglio veramente black, come nella valanga di note che ad un certo punto fa capolino in “Keepers of the Earth” e nelle struggenti melodie di “Lu Rusciu Te Lu Mare”, sicuramente la canzone più particolare di tutto il lotto contrassegnata com’è anche da un’ossessiva e semplice struttura che si ripete uguale a sé stesso quasi all’infinito fino all’esplosione del finale in cui si prende il largo con tanto di rullate militari e blast-beats, giocandosela però principalmente e meravigliosamente con la voce pulita e le sovraincisioni della cantante, aiutata alle volte da Andrea.

Il comparto vocale è uno di quelli che più mi ha sorpreso. Oddio, la partenza è stata un po’ in sordina non tanto nelle linee generali ma quanto per la stessa Yuka, inizialmente abbastanza trattenuta e non molto espressiva riparando però al “torto” con le stupende e fantasiose prove nelle canzoni successive. La combinazione maschio/femmina per come è stata sfruttata mi ha rimandato decisamente al metallo gotico nel quale è per l’appunto utilizzata spesso e volentieri. E, come solitamente accade, al primo è riservata la parte selvaggia del discorso, vomitando fuori un perenne grugnito bello potente e a volte urlato.

Mi dispiace però per la batteria. Tranquilli, non fraintendetemi, il lavoro in sé è ottimo, vario, tecnicamente capace ed abile ad enfatizzare, con ritmi spesso memorizzabili e concentrati per lo più sui tempi medi, la potenza del riffing, oltre che autrice di efficaci e vari stacchi in “Keepers of the Earth”, dove è in pratica l’assoluta protagonista del pezzo. Ma il “però” continua a veleggiare “minaccioso” nella mia testa, ed è da individuare solo e semplicemente nella produzione che, per quanto pulita, ben bilanciata e non “casinara” (ossia, frequenze impostate sui medi in modo da non alterare artificiosamente l’impatto della musica), ha imprigionato letteralmente una batteria che pare una vera e propria drum-machine. Una mancanza che si sente purtroppo in particolar modo nei momenti in cui il collettivo riprende per un po’ il fiato, e specialmente per quanto concerne i piatti. Fra l’altro strozzando prematuramente il loro “rumore” caratteristico subito dopo il colpo inferto (“Through the Ages of Wars and Gods”). Qualche dose di naturalità non farebbe per niente male anche perché per essere il primo disco è prodotto in maniera sorprendentemente professionale.

Altra per così dire mancanza, seppur dalla natura del tutto secondaria, è la struttura-tipo dei pezzi, più che altro perché talvolta il gruppo dà l’impressione di non dare quel colpo di grazia che una canzone come “The Last Dawn” necessiterebbe come il pane e l’acqua. Parlo della parte centrale in cui all’improvviso sembra di essere in uno di quei innumerevoli paesi italici stando insieme ad un’orda festante…Solo che finisce lì, c’è un 1 – 2- 1 che poteva essere concluso con un coro (come in “Through the Ages of Wars and Gods”), un breve e semplice assolo di flauto come poi Yuka ha dimostrato nel finale di “Lu Rusciu te lu Mare”. Invece si è preferito essere statici. Vabbè, non è che siamo in territori strutturali così complessi come confermano le rigorose sequenze di soluzioni presenti in ogni canzone non esenti però da qualche modifica (come quando Andrea, nella ripartenza della sequenza di “The Last Dawn”, inverte la propria linea vocale cantando nelle ultime due battute in luogo delle prime due), preferendo quindi per un approccio praticamente a strofa-ritornello lungi dall’essere digerito in maniera difficoltosa.


D’altro canto, è anche vero che non m’aspettavo un’opera di così promettente valore che mostra già una buona maturità ed una capacità di osare perfettamente incarnata nel tour de force in salentino di “Lu Rusciu te lu Mare”. Bisognerebbe forse incoraggiare quest’impronta nazionalista di scegliere come seconda lingua (oltre all’italiano s’intende) il proprio dialetto e non il quasi innaturale inglese? Ragazzi, non sarebbe affatto male…

Voto: 77

Claustrofobia

Scaletta:

1 – The Last Dawn/ 2 – Through the Ages of Wars and Gods/ 3 – Keepers of the Earth/ 4 – Lu Rusciu te lu Mare

MySpace:
http://www.myspace.com/abnoctemale

YouTube:
http://www.youtube.com/AbNoctem

Thursday, March 3, 2011

Blessed Dead - "Secret of Resurrection" (2010)

Demo autoprodotto (30 Giugno 2010)

Provenienza: Brescia, Lombardia

Formazione: Patrick, voce (sostituito poi da Gian)
Shon, chitarra ritmica
Ale, chitarra solista
Tolo, basso
Jonny, batteria (sostituito recentemente da Niko)

Punto di forza del demo:
la capacità del gruppo di reinterpretare caso per caso la struttura-tipo della musica migliorandola sempre lentamente.

Migliore canzone:
sicuramente “Secret of Resurrection”, in parole povere la più complessa, curata ed imprevedibile di tutte.

Cari miei, senza girare in tondo e pur essendo consapevole che potrà un po’ dispiacere almeno a farlo subito presente, questo “The Secret of Resurrection” l’ho trovato ricco sia di luci che soprattutto di ombre. Essendo però i Blessed Dead parecchio giovani avranno tutto il tempo di questo mondo per limare il proprio suono, il quale presenta degli spunti veramente interessanti che lasciano ben presagire per il futuro grazie specialmente ad una personalità già piuttosto marcata.

Trattasi infatti di un death metal quasi esclusivamente giocato sui tempi medi e che ben poco riserva a quelli più veloci che comunque sono sempre dei blast-beats (e loro varianti) più o meno estremi del tutto assenti nella sola “Secret of Resurrection”. Si gioca quindi una carta pericolosa, quella cioè di una musica la cui intensità viene poco a poco che altresì si sarebbe immediatamente fatta sentire con velocità belle sostenute. D’altro canto non è che ci siano così tante parti veramente doomeggianti, care a gruppi come Asphyx ed Autopsy, e da questo punto di vista è esemplare “Nightbreed”.

L’andamento del discorso musicale non procede però lento solo in virtù della tipologia di tempi usata e conseguente effetto psicologico sull’ascoltatore che a sua volta crea un lato infrequente nel death metal. Tale aspetto viene infatti abbondantemente accentuato se si pensa che il quintetto bresciano ama in maniera quasi morbosa delle soluzioni musicali belle lunghe e che presentano un riffing a tratti piacevolmente contorto che non si risparmia neanche in qualche tecnicismo e nemmeno nell’amore per le schitarrate schizoidi prese da certo brutal moderno (“I Am the Blessed Dead”) o per la minacciosa cupezza del death metal vecchia scuola (“Nightbreed”). Fra l’altro, nonostante il cupissimo nome che si portano dietro, le melodie non sono da ritenere infrequenti nei Blessed Dead anche perché le due asce sono capaci di spararne di insospettabili, dal sapore perfino epico (“Secret of Resurrection”). In questa cornice musicale si affacciano pure delle ritmiche che non lesinano qualche stranezza (“I Am the Blessed Dead” è l’esempio sicuramente più notevole) rendendo così meno digeribile la proposta musicale.

Un altro fattore di natura strutturale che rallenta notevolmente la musica dei 5 giovini è la tendenza, almeno nei primi due pezzi (specialmente nel primo, l’unico che per giunta rispetta più o meno un classico schema a 2 soluzioni altrimenti detto a strofa-ritornello), a proporre uno stacco preferibilmente di chitarra che introduce a quasi ogni passaggio. Solo che in “I Am the Blessed Dead” ognuno è similare all’altro perché il sistema usato è sempre e soltanto quello della chitarra in solitario. In “Dance of the Insane” invece la metodologia utilizzata risulta più fantasiosa anche grazie ai piatti stoppati che regalano al tutto un po’ più di selvaggia intensità.

Parlando in linee generali, la struttura-tipo dei pezzi si confà allo stile adottato da questi death metalloni. E’ infatti non poco arzigogolata e richiamante in un certo senso la “prolissità” degli ultimi Death solo semplificati per l’occasione, resa com’è una variante leggermente più complessa dello schema a strofa-ritornello. Ci si avvicina quindi, per fare un esempio con un altro gruppo partecipante a Timpani Allo Spiedo, ai territori cari ai romani Black Therapy, anche se questi ultimi prediligono soluzioni più brevi e delle sequenze più fluide caratterizzate da 2 – 3 passaggi principali mentre nei Blessed Dead una – due in più risultando di conseguenza piuttosto ostici.

Un’altra caratteristica degna di nota proviene dal lavoro, assolutamente esente da qualsiasi sovraincisione ma non da un effetto d’eco che qui e là regala una bella dose di inquietudine, di Patrick che ad un grugnito classico e “regolare” (né basso né alto) ma non così profondo e “cattivone” alterna, raramente ma non troppo, una specie di via di mezzo quasi diabolica e tremendamente aggressiva tra un urlo ed un grugnito che poi si rivela più d’effetto della voce principale (ne vengono fuori praticamente dei vocalizzi molto simili a quelli utilizzati nel death melodico anni ’90, solo sparati con meno violenza); ed in qualche occasione si fa sfoggio di un urlo forse più adatto al metalcore solo che a mio avviso viene sfruttato male, pare forzato e non sufficientemente convinto anche perché “gracchia” pochissimo se non per nulla.

Purtroppo però le ombre non si fermano soltanto a questo dettaglio. Infatti, 1) vi è una produzione malamente bilanciata, con le chitarre dalle frequenze basse che fanno letteralmente a cazzotti con quelle più alte della batteria e della voce seppellendosi automaticamente nei momenti più concitati. D’altro canto il basso, in perfetta tradizione death metal, è messo bene in evidenza e del resto, abituato come sono io ad apprezzare le peggio produzioni, si può anche accettare volentieri la cavernosità delle chitarre e quindi tale “errore” si rivela secondario. E’ anche vero però che può essere pericoloso abbandonare al proprio destino il principale fattore atmosferico del metal estremo quale è la chitarra;

2) la batteria si presenta come il punto debole dell’opera in quanto alla fine si dimostra ripetitiva, interessata com’è, nonostante delle brillanti intuizioni, a prendere di petto soprattutto un dato ritmo che è in pratica un tempo medio bello lineare e con doppia cassa incorporata che quasi non si ferma mai. Oddio, in sé non sarebbe neanche una brutta idea, ma così facendo non dà sufficiente manforte al riffing che al contrario necessiterebbe, in rapporto alla sua complessità, di un lavoro di cassa più fantasioso e sicuramente meno semplicistico. Oppure si potrebbe dare un ruolo più importante ai piatti in modo da accentare maggiormente il riffing, od ancora utilizzare con più coraggio ritmiche meno convenzionali appesantendo delle sonorità già notevoli da questo punto di vista;

3) la lentezza esorbitante di “I Am the Blessed Dead” che si ritrova suo malgrado piena di stacchi, pause e relative ripartenze, così da rendere il discorso poco fluido e veramente poco pesante oltreché semplicistico nonostante i tempi potenzialmente assassini che offrono i Blessed Dead.
In compenso, si ha come l’impressione che mano a mano ogni pezzo si estremizzi strutturalmente parlando raggiungendo il picco in “Secret of Resurrection”, che consta fra l’altro di un assolo che quasi nella parte finale blocca temporaneamente e a sorpresa la lunga sequenza principale. Insomma, i Blessed Dead sanno bene reinterpretare caso per caso e con fantasia la propria metodologia, avendo così la capacità di migliorarsi dopo un inizio sì traballante ma comunque valido come introduzione ai pezzi successivi.

Voto: 68

Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Am the Blessed Dead/ 2 – Dance of the Insane/ 3 – Nightbreed/ 4 – Secret of Resurrection
MySpace:
http://www.myspace.com/blessedmetals