Album (Armed God Records, 20 Gennaio 2012)
Formazione (2009): Ric Costantino, voce/basso;
Joe Cantagallo, chitarra (sostituito poi da F. Bauso);
Erik Cataudella, chitarra;
Frozen, batteria (rimpiazzato anche lui, precisamente da S. M. Testa).
Provenienza: Catania, Sicilia.
Canzone migliore del disco:
“Death Rides on the Blade", 7 minuti di delirio.
Punto di forza dell’opera:
l’atmosfera battagliera e totalizzante.
A cosa serve la classificazione per generi? Alcuni dicono che serve ai negozianti per avere vita facile nella vendita, altri invece per dividere il popolo dei metallari, ma dato che le divisioni, e di conseguenza le classificazioni, ci sarebbero lo stesso attraverso la nascita di micro – movimenti che “obbediscono” più o meno a un preciso stile (e ciò determina anche l’inaugurazione di un genere dall’interno della scena stessa), si potrebbe dire che l’esistenza dei vari generi serva per sollecitare la fantasia di un recensore. Il quale lo si vede divertirsi mentre ascolta, scrive e si confronta con gli altri, a incasellare un dato gruppo, magari con definizioni ultra – lunghe, per poi descrivere attentamente le caratteristiche proprie di esso. Alla fine della fiera, non c’è niente di male a “ingabbiare” un paio di ragazzi in un determinato modo di intendere la musica perchè le variazioni stilistiche che un genere conosce e può conoscere sono tanto infinite quante sono le persone e quindi quante sono le menti che operano dentro quel genere. In tal modo, anche un genere iper – tradizionalista come il black/death a là Blasphemy, così amato/odiato, diventa una definizione se vogliamo vaga, soprattutto confrontando le singole formazioni fra di loro (per esempio, suonano uguali i Black Witchery e i Bestial Warlust? Assolutamente no!). E’ per questo che sono ritornato a definirmi ufficialmente anarchico, quindi ‘sti gran cazzi!
I Krigere Wolf (ma si dovrebbe dire “Krighere” o “Krigiere”?) rispondono brillantemente a questa lunga introduzione perché non solo, tramite la copertina, li ho confusi fin da subito per dei seguaci dei Bestial Warlust, ma soprattutto per il genere che suonano, ossia il black/thrash metal. Questo viene associato spesso alla rozzezza più blasfema possibile, eppure, un po’ come succede per i grandiosi Bahal, siamo lontanissimi da questo stereotipo idiota. Ciò perché i Krigere Wolf sono uno dei gruppi più eleganti che io abbia mai sentito nonché uno dei più musicalmente democratici. E’ anche per questo che nella seconda puntata di RadioTimpani allo Spiedo ci infilerò "Wielding of the Axe of Suffering", uno degli esempi massimi della musicalità del quartetto catanese (DAJE MONTELLA!).
Prima di tutto, bisogna osservare, checché se ne dica, i pochissimi frammenti di death metal dei Krigere Wolf. Sì, perché essi li si possono ravvisare, ad esempio, in qualche cambio repentino di tempo o in certi momenti melodici. Ma specialmente nel comparto vocale, un grugnito che chiamerei “aperto” (che vorrà dire? Mah, che genio che sono!), ossia per certi versi simile a quanto insegnato dal death melodico, anche se l’apporto delle urla più black è pressoché fondamentale. Bisogna notare però, dato l’elevato tasso strumentale dei nostri, che la voce, come nel tour de force di "Death Rides on the Blade", si concede talvolta lunghi silenzi, compensati meravigliosamente da uno sviluppo sonoro nel quale la sorpresa si nasconde sempre dietro l’angolo.
La melodia è guardacaso un elemento molto importante e viene espressa in vari modi, non ultimo tramite un epicismo battagliero che poi costituisce l’immaginario dentro cui si muove il gruppo. L’utilizzo della melodia infatti non concede prigionieri, visto che più o meno tutti prendono parte al discorso melodico, così si sente spesso il basso ribellarsi verso il tradizionale predominio delle chitarre sparando di conseguenza delle vere e proprie perle ("Wielding the Axe of Suffering" rappresenta il picco massimo delle scorribande di questo strumento), magari andando di concerto con la batteria (a proposito, peccato che Frozen non abbia suonato anche nell'ultimo album dei Lilyum. Leggere relativa recensione per dettagli). La quale aiuta sempre i compagni attraverso variazioni puntuali che possono complicare situazioni in fin dei conti convenzionali per quanto riguarda il riffing, per non parlare poi dei decisi interventi sui tom – tom che riescono a rendere ancora più battagliero il tutto.
Tale estremo individualismo ha però la sua massima espressione nelle chitarre, che si prodigano in lunghi assoli pur misurati per la loro quantità. Lo sono un po’ meno (ma non poteva essere altrimenti…) nell’ottima qualità e nella varietà, tanto da ravvisare, per esempio in "Death Rides on the Blade", suggestioni più rockeggianti.
A tutto ciò si aggiunga una struttura dei pezzi piuttosto complessa, nonostante venga spesso proposto inizialmente il più tipico degli 1 – 2; l’uso interessante ma minimalista delle tastiere in "Died in Battle"; ed una produzione ottima, pulita e corretta nei confronti dell’ascoltatore per quanto concerne le frequenze, impostate sui medi.
Però peccato per il finale dell’opera, visto che la bellissima "Death Rides on the Blade", con il suo progressivo volgersi verso i tempi più veloci, con quei passaggi groovy e guerrafondai con il basso in prima linea, i suoi due assoli uno meglio dell’altro, la struttura per certi versi strana e statica date le ripetizioni insistite di molte soluzioni così da costruire uno sviluppo più sofferto, poteva finire veramente in bellezza un album per il resto senza lacune, se non forse per qualche variazione ripresa un po’ troppo da parte della batteria.
“Ma allora Claustrofobi’, che genere suonano i Krigere Wolf?”.
Black/thrash metal epico/melodico e bello dinamico con tocchi death. E cazzo!
Voto: 88
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Battle Song/ 2 – Demons from Beyond the Sea/ 3 – A Voice Oppressing Warriors/ 4 – Death Rides on the Blade/ 5 – Wielding the Axe of Suffering/ 6 – Scorching Flames of Damnation/ 7 – Died in Battle/ 8 – Death’s Litanies
FaceBook:
https://www.facebook.com/pages/Krigere-Wolf/130857883600868
Monday, February 27, 2012
Saturday, February 25, 2012
Blessed Dead - "Sick Human Essence" (2012)
Demo autoprodotto (Gennaio 2012)
Formazione (2009): Gian, voce (uscito da poco dal gruppo);
Shon, chitarra;
Flavio, chitarra (idem);
Tolo, basso;
Nico, batteria.
Provenienza:
Brescia, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Evocation from the Unconsious Void”.
Punto di forza dell’opera:
La struttura – tipo dei pezzi.
Un anno e mezzo dopo il rilascio di “Secret of Resurrection”, demo non proprio esaltante ma che lasciava trasparire interessanti potenzialità, prima fra le quali la prevalenza dei tempi medi su quelli più veloci, i Blessed Dead ci riprovano con “Sick Human Essence”, opera che registra non soltanto la tracklist del demo precedente ma anche i due nuovi arrivati del gruppo, ovvero Gian e Nico. Cambi di formazione che aggiungono quel qualcosa in più che mancava a questi giovani bresciani, anche se bisogna dire che dei due risulta più fondamentale il secondo.
Infatti, il nostro ha letteralmente indurito l’intero suono, cioè utilizzando spesso e volentieri i tempi più sparati, blast – beats compresi, oltre a rendere il tutto più dinamico e imprevedibile per il tramite di variazioni e cambi di tempo funzionali e intensi. Ciò non significa però che i Blessed Dead abbiano perso quella leggera complessità ritmica che caratterizzava “Secret of Resurrection”, e da questo punto di vista ascoltatevi “Palace of Rupture”. L’importanza del batterista nel gruppo si è acuita notevolmente anche grazie a degli interventi in solitario che riescono a dosare per bene l’impatto del discorso musicale.
Il comparto vocale invece appare meno incisivo, pur apprezzando l’idea di associare a un death metal fondamentalmente melodico un grugnito caratteristico del death più bastardo, vuoi perché in quanto a linee vocali Gian non risulta esattamente fenomenale (se la cava meglio nelle parti più aggressive), vuoi di conseguenza per una non sempre sufficiente intensità. Quindi, ovviamente non c’entra niente il campo d’azione più limitato rispetto al predecessore dato che al massimo il nostro spara qualche classico urlo scartavetrato comunque di buon effetto. Faccio notare però che in “Evocation from theUnconscious Void” la voce risulta più alta a confronto degli altri pezzi (parla uno che in fatto di bilanciamenti dei vari strumenti fa pressoché ridere…).
In compenso, è molto buona la caratterizzazione dei vari brani, che vanno dall’insistita “Mental Collapse” ai lampi crudeli di “Evocation from the Unconscious Void” per finire con il groove a tratti epico di “Secret of Resurrection”. Oddio, bisogna osservare a dir la verità che i pezzi pari, chissà poi perché, presentano un discorso che stenta a decollare, visto che offrono, in un minutaggio fra l’altro non indifferente, sempre le stesse soluzioni senza troppa fantasia, non tenendo così in debito conto quanto di valido fatto negli episodi restanti.
“Mental Collapse” è quella che presenta più lacune dato che emotivamente, a dispetto delle premesse di base più che convincenti, trasmette poco soprattutto considerati alcuni passaggi non sviluppati bene ma anche perché il batterista, pur essendo bello incarognito, si limita ad essere più meccanico e meno istintivo. “Secret of Resurrection” invece riesce comunque a salvarsi, almeno per qualche invenzione ritmica di indubbio valore, anche se la si poteva re – interpretare meglio secondo il diverso momento storico del gruppo. E' strano ma nella rece precedente avevo elevato proprio la tracklist a miglior episodio del lotto....
Eppure, “Evocation from the Unconscious Void” è un’ottima canzone, seppur sia l’unica a non possedere neanche un mignolo di assolo. Nella selvaggia parte centrale, il quintetto si sfoga totalmente sciorinando fra le altre cose un momento molto atmosferico e arpeggiato, con un basso capace di sfoggiare una linea notevole, per poi subito dopo distruggere i padiglioni con un death metal fracassone e brutale. Le capacità interpretative di tale brano sono quindi un ottimo punto di partenza per le produzioni future.
La struttura delle canzoni si rivela infatti piuttosto interessante. La cosa curiosa è che il gruppo, soprattutto in quelle migliori, fa uso di una tipica sequenza di soluzioni da un lato rigida ma dall’altro incredibilmente flessibile. Ciò, specialmente per mezzo di passaggi nuovi che si intromettono nel discorso oppure di stacchi (ben più rari di prima, beninteso) e roba simile che rendono ancora più imprevedibile il tutto. L’assolo poi viene, per così dire, “ritardato” (come in “Mental Collapse”), ossia puntualmente collocato nei momenti più o meno finali dell’episodio, anche quando la sequenza non è che sia così consistente. Il procedimento, come si è notato, è ancora abbastanza acerbo ma con il tempo darà sicuramente i suoi frutti migliori.
Il bello è che se si rilegge la rece di “Secret of Resurrection” ci si accorge che il rapporto pregi/difetti è all’incirca identico, nonostante ciò la nuova opera contiene indubbiamente più qualità a livello di canzoni singole, e quindi la scrittura di esse si dimostra più matura. E poi non scordiamoci del diverso taglio stilistico intrapreso (che per me rappresenta ad ogni modo un pregio perché significa capacità di mettersi in discussione) e dell’interessante metodologia strutturale. Il gruppo è giovane, quindi lasciamolo crescere con calma.
Voto: 72
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Palace of Rupture/ 2 – Mental Collapse/ 3 – Evocation from the Unconscious Void/ 4 – Secret of Resurrection
MySpace:
http://www.myspace.com/blessedmetals
Formazione (2009): Gian, voce (uscito da poco dal gruppo);
Shon, chitarra;
Flavio, chitarra (idem);
Tolo, basso;
Nico, batteria.
Provenienza:
Brescia, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Evocation from the Unconsious Void”.
Punto di forza dell’opera:
La struttura – tipo dei pezzi.
Un anno e mezzo dopo il rilascio di “Secret of Resurrection”, demo non proprio esaltante ma che lasciava trasparire interessanti potenzialità, prima fra le quali la prevalenza dei tempi medi su quelli più veloci, i Blessed Dead ci riprovano con “Sick Human Essence”, opera che registra non soltanto la tracklist del demo precedente ma anche i due nuovi arrivati del gruppo, ovvero Gian e Nico. Cambi di formazione che aggiungono quel qualcosa in più che mancava a questi giovani bresciani, anche se bisogna dire che dei due risulta più fondamentale il secondo.
Infatti, il nostro ha letteralmente indurito l’intero suono, cioè utilizzando spesso e volentieri i tempi più sparati, blast – beats compresi, oltre a rendere il tutto più dinamico e imprevedibile per il tramite di variazioni e cambi di tempo funzionali e intensi. Ciò non significa però che i Blessed Dead abbiano perso quella leggera complessità ritmica che caratterizzava “Secret of Resurrection”, e da questo punto di vista ascoltatevi “Palace of Rupture”. L’importanza del batterista nel gruppo si è acuita notevolmente anche grazie a degli interventi in solitario che riescono a dosare per bene l’impatto del discorso musicale.
Il comparto vocale invece appare meno incisivo, pur apprezzando l’idea di associare a un death metal fondamentalmente melodico un grugnito caratteristico del death più bastardo, vuoi perché in quanto a linee vocali Gian non risulta esattamente fenomenale (se la cava meglio nelle parti più aggressive), vuoi di conseguenza per una non sempre sufficiente intensità. Quindi, ovviamente non c’entra niente il campo d’azione più limitato rispetto al predecessore dato che al massimo il nostro spara qualche classico urlo scartavetrato comunque di buon effetto. Faccio notare però che in “Evocation from theUnconscious Void” la voce risulta più alta a confronto degli altri pezzi (parla uno che in fatto di bilanciamenti dei vari strumenti fa pressoché ridere…).
In compenso, è molto buona la caratterizzazione dei vari brani, che vanno dall’insistita “Mental Collapse” ai lampi crudeli di “Evocation from the Unconscious Void” per finire con il groove a tratti epico di “Secret of Resurrection”. Oddio, bisogna osservare a dir la verità che i pezzi pari, chissà poi perché, presentano un discorso che stenta a decollare, visto che offrono, in un minutaggio fra l’altro non indifferente, sempre le stesse soluzioni senza troppa fantasia, non tenendo così in debito conto quanto di valido fatto negli episodi restanti.
“Mental Collapse” è quella che presenta più lacune dato che emotivamente, a dispetto delle premesse di base più che convincenti, trasmette poco soprattutto considerati alcuni passaggi non sviluppati bene ma anche perché il batterista, pur essendo bello incarognito, si limita ad essere più meccanico e meno istintivo. “Secret of Resurrection” invece riesce comunque a salvarsi, almeno per qualche invenzione ritmica di indubbio valore, anche se la si poteva re – interpretare meglio secondo il diverso momento storico del gruppo. E' strano ma nella rece precedente avevo elevato proprio la tracklist a miglior episodio del lotto....
Eppure, “Evocation from the Unconscious Void” è un’ottima canzone, seppur sia l’unica a non possedere neanche un mignolo di assolo. Nella selvaggia parte centrale, il quintetto si sfoga totalmente sciorinando fra le altre cose un momento molto atmosferico e arpeggiato, con un basso capace di sfoggiare una linea notevole, per poi subito dopo distruggere i padiglioni con un death metal fracassone e brutale. Le capacità interpretative di tale brano sono quindi un ottimo punto di partenza per le produzioni future.
La struttura delle canzoni si rivela infatti piuttosto interessante. La cosa curiosa è che il gruppo, soprattutto in quelle migliori, fa uso di una tipica sequenza di soluzioni da un lato rigida ma dall’altro incredibilmente flessibile. Ciò, specialmente per mezzo di passaggi nuovi che si intromettono nel discorso oppure di stacchi (ben più rari di prima, beninteso) e roba simile che rendono ancora più imprevedibile il tutto. L’assolo poi viene, per così dire, “ritardato” (come in “Mental Collapse”), ossia puntualmente collocato nei momenti più o meno finali dell’episodio, anche quando la sequenza non è che sia così consistente. Il procedimento, come si è notato, è ancora abbastanza acerbo ma con il tempo darà sicuramente i suoi frutti migliori.
Il bello è che se si rilegge la rece di “Secret of Resurrection” ci si accorge che il rapporto pregi/difetti è all’incirca identico, nonostante ciò la nuova opera contiene indubbiamente più qualità a livello di canzoni singole, e quindi la scrittura di esse si dimostra più matura. E poi non scordiamoci del diverso taglio stilistico intrapreso (che per me rappresenta ad ogni modo un pregio perché significa capacità di mettersi in discussione) e dell’interessante metodologia strutturale. Il gruppo è giovane, quindi lasciamolo crescere con calma.
Voto: 72
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Palace of Rupture/ 2 – Mental Collapse/ 3 – Evocation from the Unconscious Void/ 4 – Secret of Resurrection
MySpace:
http://www.myspace.com/blessedmetals
Friday, February 17, 2012
Mefitic - "Signing the Servants of God" (2009)
Demo – cassetta (Drakkar Productions, Giugno 2009)
Formazione (2004): G., voce/basso;
Atror, chitarra;
KrN, chitarra;
AnguiciouS, batteria.
Provenienza: Bergamo, Lombardia.
Canzone migliore del demo:
probabilmente “Prayer to Lamashtu”, pezzo nel quale si fanno vive delle schitarrate da brividi che tanto mi ricordano persino i Vlad Tepes, e dove fra l’altro si può sentire una minacciosa (e volga rotta) voce femminile con parlato in italiano. Anzi no, preferirei più che altro "Execrable Precept of Ha - Melekh Ha - Goel", da ricordare per un finale tribale che lo collega con l'introduzione del successivo pezzo, ossia "Diseased Ruth"; e per un effetto catacombale che si fa vivo al momento giusto generando un "casino" quasi estraniante.
Punto di forza dell’opera:
per motivi elencati nel corpo della recensione, scelgo la batteria, strumento sfruttato ottimamente e capace di accentare meravigliosamente l’operato dei compagni.
Nota:
prossimamente i Mefitic rilasceranno il 7’’ “Columns of Subsidence”, sempre sotto la Drakkar.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
In quanto fan sfegatato del black/death metal più rozzo e bastardo mi fa sempre piacere (oddio, più o meno) recensire un gruppo dello stivale che sguazza in simili sonorità. E pensare che fino a qualche tempo mi lamentavo di una presunta carenza di queste formazioni sul suolo italico, a parte qualche rara eccezione, ed invece devo constatare che non solo ne abbiamo di sufficienti ma anche di valide. Poi oh, l’Italia non è che sia un paese così gigantesco come il Canada, patria dei Blasphemy e gentagna affine.
Stavolta vi presento i Mefitic che, oltre a presentare un suono per certi versi particolare che per il genere, è pure abbastanza coraggioso nella costruzione dei pezzi, o meglio nella loro durata, visto che, nonostante la rozzezza generale, essi durano sempre e comunque sui 5 minuti se non addirittura sui 6 di “Prayer to Lamashtu”. Eppure, non aspettatevi nulla di tecnico oppure di strutturalmente complesso.
Avviso però immediatamente, per chi non sia avvezzo a queste sonorità, la “rozzezza generale” si riferisce anche al tipo di produzione, molto sporca, cupa fin quasi all’oppressione e che presenta varie “storture” che per così dire in naturalizzano una musica già in sé pesante. Prima fra le quali la batteria, il cui rullante, per fare un esempio, è ovattato, soffocato; oppure come non osservare il fatto che in certi momenti la voce affoga le chitarre, anche se non in maniera così estrema come nei primi demo dei Beherit? E ciò avviene anche per “colpa” di un effetto di riverbero molto in linea con l’atmosfera da incubo che permea tutto il disco.
Essa è infatti un tipo di atmosfera che rimanda continuamente alla sfera più misteriosa dell’occulto, quindi niente cavolate superficiali sul satanismo e similari. Così, ecco che si trova un riffing che da una parte ricorda i vari Antichrist, Proclamation, Black Witchery e così via, ma dall’alltro assume toni più black metal facendo quindi uso di motivi ipnotici e tremendamente dissonanti se non addirittura dall’incedere bello monotono (indicativo a tal proposito il finale spaccaossa di “Henosis of Void”). Fra l’altro, non si spara neanche il più misero assolo, preferendo quindi soffocare l’ascoltatore attraverso un approccio collettivo, pur inserendo qua e là una chitarra solista che s’insinua minacciosa come uno spirito (si senta soprattutto “Sepulcrum Antistitis XIII”).
Il bello è che i nostri non dimenticano mai questo tipo di atmosfera pur andando spesso e volentieri a mille all’ora, come insomma la tradizione comanda. Ciò anche perché vi è un tipo di voce cupissimo e soffocante, un grugnito perenne molto vicino a quello di O.A. dei Vasaeleth, pur nella differenza enorme fra le due esperienze in fatto di linee vocali, che come si sa sono lontanissime nel duo statunitense. E poi dai quei nomi stranissimi, memori di qualche abisso insondabile e indicibile dell’Egitto più malato, offrono una dimensione che molti gruppi si sognano soltanto!
Concorrono a far strizzare di panico l’ascoltatore anche i tempi doom che, nonostante quanto scritto prima, non sono neanche così rari dato che alla fin della fiera vi è un particolare equilibrio fra i vari tempi (più o meno). Alcuni momenti doom sono sviluppati veramente bene sfociando in veri e propri climax, i quali a dire il vero non costituiscono un fattore dominante vista l’aura statica dei pezzi, sicuramente un fatto voluto anche se non totalmente efficace se messo in rapporto alla durata forse un po’ eccessiva degli episodi.
Fra tutti gli strumenti però, la batteria risulta essere lo strumento più curato, capace com’è anche di intessere oscure danze sui tom – tom a dir poco ritualistiche e tribali, per non dimenticare poi qualche momento più grooveggiante, e tremendamente contagioso.
Insomma, questo disco è straconsigliatissimo, sempre tenendo a mente la difficoltà di metabolizzazione del demo, determinata dalle curiose caratteristiche soprammenzionate. Però peccato che dopo tutti questi anni non abbiano ancora pubblicato nemmeno un album, strumento utile per testare la qualità di qualsiasi gruppo sulla lunga distanza. In compenso, i Mefitic hanno rilasciato nel 2010, sempre sotto Drakkar Productions, lo split “Misled Conjunction of Evil” condiviso con i Necrovomit, altro gruppo affine (beh, più o meno).
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Henosis of Void/ 2 – Execrable Precept of Ha – Melekh Ha – Goel/ 3 – Diseased Ruth/ 4 – Prayer to Lamashtu/ 5 – Sepulcrum Antistitis XIII
MySpace:
http://www.myspace.com/mefitic
Sito ufficiale:
http://mefitic.atspace.com/
Formazione (2004): G., voce/basso;
Atror, chitarra;
KrN, chitarra;
AnguiciouS, batteria.
Provenienza: Bergamo, Lombardia.
Canzone migliore del demo:
probabilmente “Prayer to Lamashtu”, pezzo nel quale si fanno vive delle schitarrate da brividi che tanto mi ricordano persino i Vlad Tepes, e dove fra l’altro si può sentire una minacciosa (e volga rotta) voce femminile con parlato in italiano. Anzi no, preferirei più che altro "Execrable Precept of Ha - Melekh Ha - Goel", da ricordare per un finale tribale che lo collega con l'introduzione del successivo pezzo, ossia "Diseased Ruth"; e per un effetto catacombale che si fa vivo al momento giusto generando un "casino" quasi estraniante.
Punto di forza dell’opera:
per motivi elencati nel corpo della recensione, scelgo la batteria, strumento sfruttato ottimamente e capace di accentare meravigliosamente l’operato dei compagni.
Nota:
prossimamente i Mefitic rilasceranno il 7’’ “Columns of Subsidence”, sempre sotto la Drakkar.
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In quanto fan sfegatato del black/death metal più rozzo e bastardo mi fa sempre piacere (oddio, più o meno) recensire un gruppo dello stivale che sguazza in simili sonorità. E pensare che fino a qualche tempo mi lamentavo di una presunta carenza di queste formazioni sul suolo italico, a parte qualche rara eccezione, ed invece devo constatare che non solo ne abbiamo di sufficienti ma anche di valide. Poi oh, l’Italia non è che sia un paese così gigantesco come il Canada, patria dei Blasphemy e gentagna affine.
Stavolta vi presento i Mefitic che, oltre a presentare un suono per certi versi particolare che per il genere, è pure abbastanza coraggioso nella costruzione dei pezzi, o meglio nella loro durata, visto che, nonostante la rozzezza generale, essi durano sempre e comunque sui 5 minuti se non addirittura sui 6 di “Prayer to Lamashtu”. Eppure, non aspettatevi nulla di tecnico oppure di strutturalmente complesso.
Avviso però immediatamente, per chi non sia avvezzo a queste sonorità, la “rozzezza generale” si riferisce anche al tipo di produzione, molto sporca, cupa fin quasi all’oppressione e che presenta varie “storture” che per così dire in naturalizzano una musica già in sé pesante. Prima fra le quali la batteria, il cui rullante, per fare un esempio, è ovattato, soffocato; oppure come non osservare il fatto che in certi momenti la voce affoga le chitarre, anche se non in maniera così estrema come nei primi demo dei Beherit? E ciò avviene anche per “colpa” di un effetto di riverbero molto in linea con l’atmosfera da incubo che permea tutto il disco.
Essa è infatti un tipo di atmosfera che rimanda continuamente alla sfera più misteriosa dell’occulto, quindi niente cavolate superficiali sul satanismo e similari. Così, ecco che si trova un riffing che da una parte ricorda i vari Antichrist, Proclamation, Black Witchery e così via, ma dall’alltro assume toni più black metal facendo quindi uso di motivi ipnotici e tremendamente dissonanti se non addirittura dall’incedere bello monotono (indicativo a tal proposito il finale spaccaossa di “Henosis of Void”). Fra l’altro, non si spara neanche il più misero assolo, preferendo quindi soffocare l’ascoltatore attraverso un approccio collettivo, pur inserendo qua e là una chitarra solista che s’insinua minacciosa come uno spirito (si senta soprattutto “Sepulcrum Antistitis XIII”).
Il bello è che i nostri non dimenticano mai questo tipo di atmosfera pur andando spesso e volentieri a mille all’ora, come insomma la tradizione comanda. Ciò anche perché vi è un tipo di voce cupissimo e soffocante, un grugnito perenne molto vicino a quello di O.A. dei Vasaeleth, pur nella differenza enorme fra le due esperienze in fatto di linee vocali, che come si sa sono lontanissime nel duo statunitense. E poi dai quei nomi stranissimi, memori di qualche abisso insondabile e indicibile dell’Egitto più malato, offrono una dimensione che molti gruppi si sognano soltanto!
Concorrono a far strizzare di panico l’ascoltatore anche i tempi doom che, nonostante quanto scritto prima, non sono neanche così rari dato che alla fin della fiera vi è un particolare equilibrio fra i vari tempi (più o meno). Alcuni momenti doom sono sviluppati veramente bene sfociando in veri e propri climax, i quali a dire il vero non costituiscono un fattore dominante vista l’aura statica dei pezzi, sicuramente un fatto voluto anche se non totalmente efficace se messo in rapporto alla durata forse un po’ eccessiva degli episodi.
Fra tutti gli strumenti però, la batteria risulta essere lo strumento più curato, capace com’è anche di intessere oscure danze sui tom – tom a dir poco ritualistiche e tribali, per non dimenticare poi qualche momento più grooveggiante, e tremendamente contagioso.
Insomma, questo disco è straconsigliatissimo, sempre tenendo a mente la difficoltà di metabolizzazione del demo, determinata dalle curiose caratteristiche soprammenzionate. Però peccato che dopo tutti questi anni non abbiano ancora pubblicato nemmeno un album, strumento utile per testare la qualità di qualsiasi gruppo sulla lunga distanza. In compenso, i Mefitic hanno rilasciato nel 2010, sempre sotto Drakkar Productions, lo split “Misled Conjunction of Evil” condiviso con i Necrovomit, altro gruppo affine (beh, più o meno).
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Henosis of Void/ 2 – Execrable Precept of Ha – Melekh Ha – Goel/ 3 – Diseased Ruth/ 4 – Prayer to Lamashtu/ 5 – Sepulcrum Antistitis XIII
MySpace:
http://www.myspace.com/mefitic
Sito ufficiale:
http://mefitic.atspace.com/
Wednesday, February 15, 2012
Disease - "Stream of Disillusion" (2011)
Album autoprodotto (15 Settembre 2011)
Formazione (1994): Flavio Tempesta, voce/chitarra;
Marco Mastruzzi, chitarra;
Leonardo Orazi, basso;
Massimo Tempesta, batteria.
Provenienza: Genzano di Roma, Lazio.
Canzone migliore dell’opera:
per motivi menzionati nel corpo stesso della recensione, ho una netta predilezione per “Infinity: Enter the Wave”. Oddio, “netta” proprio no, data la qualità spesso elevatissima dei diversi brani.
Punto di forza del disco:
indubbiamente la capacità rarissima di costruire climax raffinati, sempre vari ed anche belli sofferti.
Nota:
faccio notare, per far capire la mentalità completamente condivisibile, che il gruppo, in barba al profitto, ha caricato gratis su MegaUpload il proprio album. Ma, dati i recenti vergognosi avvenimenti che hanno distrutto uno dei più bei strumenti democratici degli ultimi tempi, il gruppo ha "trasferito" il proprio album (ma prossimamente anche tutta la discografia) su MediaFire. Eccovi quindi il link:
http://www.mediafire.com/?d8jkm7umys3xp4h
Nel caso il disco vi piaccia, vi consiglio caldamente di comprarlo chè supportare un gruppo che merita è sempre cosa buona e giusta.
No, questa spiegatemela: ormai è una tradizione molto curiosa di Timpani allo Spiedo ma sta di fatto che, a parte gli Eloa Vadaath, tutti i gruppi qui recensiti composti da fratelli/cugini sono di Roma e dintorni. Quindi ai vari Ghouls e Whiskey & Funeral si aggiungono i veterani Disease, i quali, passando a cose più serie, suonano uno dei miei sottogeneri preferiti, ossia quello che preferisco chiamare in maniera generica, ma alla fine neanche troppo, metal estremo progressivo (l’altro è il black/death a là Blasphemy. Insomma, mi piacciono gli estremi!). E quando mi arriva un gruppo di tal fatta (la cosa è decisamente rara e di conseguenza sempre benvoluta), la bava scende copiosamente dalla bocca come neanche la vista di una bella gnocca (oddio, se la musica ti fa quest’effetto allora ti consiglio di curarti! In compenso, ho fatto la rima ahahah – SBOINK!) perché si ha la possibilità di essere avvolti da una musica oserei dire totale nella quale la soluzione stramba è sempre ad aspettarti assassina all’angolo e dove ogni strumento partecipa attivamente nella costruzione delle melodie (e nei nostri il basso, da questo punto di vista, è veramente superlativo). E i Disease hanno fra l’altro suonato un mese fa qui a Roma per promuovere l’album, in una delle tante serate organizzate dalla Metal Massacre (solo una cosa: aprite un cazzo di locale dalle mie parti – Baldo degli Ubaldi e limitrofi – che metta ovviamente in cartellone gruppi metal! Per questo beato chi è in periferia…).
E pensare che il nuovo album, il terzo della serie, inizialmente mi ha sì impressionato, ma in maniera stranamente negativa. Poi, quando l’ho testato in cuffia, la situazione si è completamente capovolta, scoprendo un vero e proprio capolavoro, una perla che, contrariamente a gruppi analoghi come gli Eloa Vadaath e i giovanissimi Ammonal, rimane (quasi) sempre nei confini del metal, ovviamente non solo estremo, ed utilizzando i più classici strumenti, a parte qualche breve momento con la chitarra acustica.
Il bello è che, pur mostrando un’ottima predilezione per la melodia, i Disease sanno pestare, e quando lo fanno sanno sciorinare una cattiveria non da poco (a tal proposito, ascoltatevi soprattutto “Release the Emptiness” e “Infinity: Enter the Wave”) andando così spesso a nozze con il death metal più complesso e strutturalmente più sghembo e inquietante. Inoltre, i nostri non disdegnano neanche qualche puntatina nel black metal melodico (“ New Closer of Hypocrisy” ad esempio) e nel thrash, presentando quindi un quadro piuttosto completo che tiene conto di vari stati d’animo e sottogeneri metallici.
Tra le più diverse sfaccettature si erge il brillante comparto vocale, una vera e propria sorpresa. Sì perché Flavio non è soltanto l’autore di un urlo molto spinto che in un certo senso ricorda quello di Alessio Giudice, ex - cantante dei Kenòs, ma spesso e volentieri preferisce usare una voce pulita, veramente poco estrema e molto melodica da permettersi la costruzione di linee vocali sempre fresche. Oddio, a dir la verità forse il nostro esagera un po’ troppo con le sovraincisioni, generando così qualche momento di confusione e anche di non – funzionalità con l’attività più meramente concertistica (insomma, questa babele di sovraincisioni è riproducibile dal vivo soltanto con l’aiuto di qualche altro compagno). Se non altro, tale sperimentazione aggiunge un po’ più di imponenza al tutto, e fra l’altro essa si estende all’uso piuttosto frequente dell’effettistica, specialmente sulla voce.
Data tutta questa raffinatezza, risulta basilare la caratterizzazione dei vari pezzi, che infatti, sorreggendosi spesso su una iniziale struttura sequenziale (ma non esattamente rigida), riescono efficacemente a differenziarsi l’uno dall’altro, mostrando inoltre volentieri dei climax che vengono sviluppati ottimamente. Obiettivo che non viene dimenticato tanto nell’episodio più libero e selvaggio, ossia “Release the Emptiness”, quanto nel pezzo finale, cioè “In This Morning”, che ha una parte conclusiva da brividi con alcune linee vocali molto insistite, quasi come se si stesse celebrando un rito (per niente blasfemo, beninteso). Il climax viene sviluppato anche attraverso momenti molto atmosferici nei quali la tensione si accumula a poco a poco in maniera molto naturale ma bizzarra, cosa che viene esplicata soprattutto in una canzone molto particolare come “Infinity: Enter the Wave”, perfetto esempio della versatilità del gruppo.
Prima di tutto, bisogna dire che tale canzone è incredibilmente lunga, dato che dura la bellezza di 9 minuti, tempo nel quale succede praticamente di tutto, fra le altre cose anche il desiderio di estremizzare al massimo un discorso musicale già non molto tollerante di suo con l’ascoltatore. Cosa che si evince dall’insistenza del gruppo, che propone una parte finale sempre florida di sorprese anche quando la canzone sembra finire; e soprattutto da una fuga strumentale totalmente assurda nella parte centrale, fantasiosa ma strutturalmente statica, un po’ prolissa ma comunque funzionale. Ma quello che più colpisce di tale brano è proprio la sua inquietante e paradossale staticità, così da non avere un vero e proprio climax, pur funzionando perfettamente lo stesso data l’atmosfera da incubo.
Un brano che però non mi è proprio piaciuto, almeno in linea del tutto relativa, è la cover di “Empty” degli Anathema. Ciò perché, pur essendo abbastanza diversa dall’originale (infatti è molto più grintosa e rockeggiante), è troppo poco Disease, similmente a quanto è accaduto per “Gut Feeling” dei Devo riproposta dai sardi Hieros Gamos. Ciò significa che strutturalmente è più semplice e convenzionale del solito, e più prevedibile dal punto di vista delle soluzioni adottate che risultano infatti meno virtuose e quindi meno d’effetto, presentando allo stesso tempo un minutaggio molto lontano da quello degli altri pezzi, che invece durano sempre all’incirca ben 6 minuti, mentre la cover 3 in meno. Probabilmente essa risulta così “povera” e disimpegnata proprio per congedare nel modo più amichevole l’ascoltatore, e/o forse per chiudere il cerchio con “Different Suns”, una specie di intro che dà inizio alle danze in maniera infatti per niente traumatica. In ogni caso, la cosa più importante è aver concluso il proprio lotto di pezzi in maniera più che dignitosa, ma per la prossima volta consiglio al gruppo di interpretare in modo più personale le cover.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Different Suns/ 2 – A New Closer Hypocrisy/ 3 – The Stream of Disillusion/ 4 – Release the Emptiness/ 5 – Infinity: Enter the Wave/ 6 – For My Deliverance/ 7 – In This Morning/ 8 – Empty (Anathema cover)
MySpace:
http://www.myspace.com/metaldisease
FaceBook:
http://www.facebook.com/home.php#/pages/Disease-thrash-prog-death-from-Italy/41815222046?ref=ts
BlogSpot:
http://diseaseprogstreme.blogspot.com/
Formazione (1994): Flavio Tempesta, voce/chitarra;
Marco Mastruzzi, chitarra;
Leonardo Orazi, basso;
Massimo Tempesta, batteria.
Provenienza: Genzano di Roma, Lazio.
Canzone migliore dell’opera:
per motivi menzionati nel corpo stesso della recensione, ho una netta predilezione per “Infinity: Enter the Wave”. Oddio, “netta” proprio no, data la qualità spesso elevatissima dei diversi brani.
Punto di forza del disco:
indubbiamente la capacità rarissima di costruire climax raffinati, sempre vari ed anche belli sofferti.
Nota:
faccio notare, per far capire la mentalità completamente condivisibile, che il gruppo, in barba al profitto, ha caricato gratis su MegaUpload il proprio album. Ma, dati i recenti vergognosi avvenimenti che hanno distrutto uno dei più bei strumenti democratici degli ultimi tempi, il gruppo ha "trasferito" il proprio album (ma prossimamente anche tutta la discografia) su MediaFire. Eccovi quindi il link:
http://www.mediafire.com/?d8jkm7umys3xp4h
Nel caso il disco vi piaccia, vi consiglio caldamente di comprarlo chè supportare un gruppo che merita è sempre cosa buona e giusta.
No, questa spiegatemela: ormai è una tradizione molto curiosa di Timpani allo Spiedo ma sta di fatto che, a parte gli Eloa Vadaath, tutti i gruppi qui recensiti composti da fratelli/cugini sono di Roma e dintorni. Quindi ai vari Ghouls e Whiskey & Funeral si aggiungono i veterani Disease, i quali, passando a cose più serie, suonano uno dei miei sottogeneri preferiti, ossia quello che preferisco chiamare in maniera generica, ma alla fine neanche troppo, metal estremo progressivo (l’altro è il black/death a là Blasphemy. Insomma, mi piacciono gli estremi!). E quando mi arriva un gruppo di tal fatta (la cosa è decisamente rara e di conseguenza sempre benvoluta), la bava scende copiosamente dalla bocca come neanche la vista di una bella gnocca (oddio, se la musica ti fa quest’effetto allora ti consiglio di curarti! In compenso, ho fatto la rima ahahah – SBOINK!) perché si ha la possibilità di essere avvolti da una musica oserei dire totale nella quale la soluzione stramba è sempre ad aspettarti assassina all’angolo e dove ogni strumento partecipa attivamente nella costruzione delle melodie (e nei nostri il basso, da questo punto di vista, è veramente superlativo). E i Disease hanno fra l’altro suonato un mese fa qui a Roma per promuovere l’album, in una delle tante serate organizzate dalla Metal Massacre (solo una cosa: aprite un cazzo di locale dalle mie parti – Baldo degli Ubaldi e limitrofi – che metta ovviamente in cartellone gruppi metal! Per questo beato chi è in periferia…).
E pensare che il nuovo album, il terzo della serie, inizialmente mi ha sì impressionato, ma in maniera stranamente negativa. Poi, quando l’ho testato in cuffia, la situazione si è completamente capovolta, scoprendo un vero e proprio capolavoro, una perla che, contrariamente a gruppi analoghi come gli Eloa Vadaath e i giovanissimi Ammonal, rimane (quasi) sempre nei confini del metal, ovviamente non solo estremo, ed utilizzando i più classici strumenti, a parte qualche breve momento con la chitarra acustica.
Il bello è che, pur mostrando un’ottima predilezione per la melodia, i Disease sanno pestare, e quando lo fanno sanno sciorinare una cattiveria non da poco (a tal proposito, ascoltatevi soprattutto “Release the Emptiness” e “Infinity: Enter the Wave”) andando così spesso a nozze con il death metal più complesso e strutturalmente più sghembo e inquietante. Inoltre, i nostri non disdegnano neanche qualche puntatina nel black metal melodico (“ New Closer of Hypocrisy” ad esempio) e nel thrash, presentando quindi un quadro piuttosto completo che tiene conto di vari stati d’animo e sottogeneri metallici.
Tra le più diverse sfaccettature si erge il brillante comparto vocale, una vera e propria sorpresa. Sì perché Flavio non è soltanto l’autore di un urlo molto spinto che in un certo senso ricorda quello di Alessio Giudice, ex - cantante dei Kenòs, ma spesso e volentieri preferisce usare una voce pulita, veramente poco estrema e molto melodica da permettersi la costruzione di linee vocali sempre fresche. Oddio, a dir la verità forse il nostro esagera un po’ troppo con le sovraincisioni, generando così qualche momento di confusione e anche di non – funzionalità con l’attività più meramente concertistica (insomma, questa babele di sovraincisioni è riproducibile dal vivo soltanto con l’aiuto di qualche altro compagno). Se non altro, tale sperimentazione aggiunge un po’ più di imponenza al tutto, e fra l’altro essa si estende all’uso piuttosto frequente dell’effettistica, specialmente sulla voce.
Data tutta questa raffinatezza, risulta basilare la caratterizzazione dei vari pezzi, che infatti, sorreggendosi spesso su una iniziale struttura sequenziale (ma non esattamente rigida), riescono efficacemente a differenziarsi l’uno dall’altro, mostrando inoltre volentieri dei climax che vengono sviluppati ottimamente. Obiettivo che non viene dimenticato tanto nell’episodio più libero e selvaggio, ossia “Release the Emptiness”, quanto nel pezzo finale, cioè “In This Morning”, che ha una parte conclusiva da brividi con alcune linee vocali molto insistite, quasi come se si stesse celebrando un rito (per niente blasfemo, beninteso). Il climax viene sviluppato anche attraverso momenti molto atmosferici nei quali la tensione si accumula a poco a poco in maniera molto naturale ma bizzarra, cosa che viene esplicata soprattutto in una canzone molto particolare come “Infinity: Enter the Wave”, perfetto esempio della versatilità del gruppo.
Prima di tutto, bisogna dire che tale canzone è incredibilmente lunga, dato che dura la bellezza di 9 minuti, tempo nel quale succede praticamente di tutto, fra le altre cose anche il desiderio di estremizzare al massimo un discorso musicale già non molto tollerante di suo con l’ascoltatore. Cosa che si evince dall’insistenza del gruppo, che propone una parte finale sempre florida di sorprese anche quando la canzone sembra finire; e soprattutto da una fuga strumentale totalmente assurda nella parte centrale, fantasiosa ma strutturalmente statica, un po’ prolissa ma comunque funzionale. Ma quello che più colpisce di tale brano è proprio la sua inquietante e paradossale staticità, così da non avere un vero e proprio climax, pur funzionando perfettamente lo stesso data l’atmosfera da incubo.
Un brano che però non mi è proprio piaciuto, almeno in linea del tutto relativa, è la cover di “Empty” degli Anathema. Ciò perché, pur essendo abbastanza diversa dall’originale (infatti è molto più grintosa e rockeggiante), è troppo poco Disease, similmente a quanto è accaduto per “Gut Feeling” dei Devo riproposta dai sardi Hieros Gamos. Ciò significa che strutturalmente è più semplice e convenzionale del solito, e più prevedibile dal punto di vista delle soluzioni adottate che risultano infatti meno virtuose e quindi meno d’effetto, presentando allo stesso tempo un minutaggio molto lontano da quello degli altri pezzi, che invece durano sempre all’incirca ben 6 minuti, mentre la cover 3 in meno. Probabilmente essa risulta così “povera” e disimpegnata proprio per congedare nel modo più amichevole l’ascoltatore, e/o forse per chiudere il cerchio con “Different Suns”, una specie di intro che dà inizio alle danze in maniera infatti per niente traumatica. In ogni caso, la cosa più importante è aver concluso il proprio lotto di pezzi in maniera più che dignitosa, ma per la prossima volta consiglio al gruppo di interpretare in modo più personale le cover.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Different Suns/ 2 – A New Closer Hypocrisy/ 3 – The Stream of Disillusion/ 4 – Release the Emptiness/ 5 – Infinity: Enter the Wave/ 6 – For My Deliverance/ 7 – In This Morning/ 8 – Empty (Anathema cover)
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Thursday, February 9, 2012
Orror - "Monstro Brasilis" (2012)
Album (15 Marzo 2012)
Formazione (2011): Pellizzetti, voce/batteria;
Perazzo, chitarre/basso.
Provenienza: Rio de Janeiro (Brasile).
Canzone migliore dell’opera:
per motivi esplicati nella rece, ho una netta preferenza per “Imune”.
Punto di forza del disco:
difficile menzionarne uno date le notevoli carenze, ma se proprio devo scegliere citerei i tempi medi, che riescono a dare un po’ di dinamismo ad una musica forse fin troppo statica.
Se i Bodhum, con l’ep “Extremo”, mi avevano entusiasmato con la loro miscela assassina di thrashcore e death/grind, gli Orror, solo – progetto dell’ex – cantante/batterista dei primi, mi colpiscono purtroppo veramente poco con questo album ancora da pubblicare. E sì che le due esperienze possiedono in fin dei conti caratteristiche anche molto diverse fra loro, eliminando quindi fin da subito sensazioni da deja – vù. Inoltre, l’ascolto del disco è iniziato nel migliore dei modi, epperò… c’è sempre quel maledetto dubbio che mi pervade ogni volta che mi metto ad ascoltare questi 20 minuti nei quali nonostante tutto si fa sentire un artista tecnicamente preparato e che sa il fatto suo. Epperò…
Cominciamo ad ogni modo col dire cosa cribbio suonano gli Orror, ossia quello che si potrebbe definire vagamente un death/grind con frequenti cambi di tempo nei quali stranamente domina un tupa – tupa non poi così sostenuto, e che successivamente si rivelerà come uno dei punti deboli del disco (con calma che poi vi spiegherò tutto). Il tutto viene esplicato attraverso un approccio collettivo comunque meno rigido che nei Bodhum, visto che non manca qualche (rarissimo) frammento di chitarra solista che a volte s’insinua in maniera oserei dire bizzarra e poco immediata durante il discorso (consiglio quindi fin da subito il nostro di sviluppare ancor di più tale caratteristica).
Ovviamente, le differenze fra i due gruppi non si fermano qui, ed infatti bisogna osservare che:
1) negli Orror lo sviluppo del pezzo procede spesso in modo molto fluido, disdegnando quindi quegli stacchi in solitaria che si possono sentire invece nei Bodhum;
2) se in questi ultimi molte canzoni si risolvono in soli 30 secondi, gli Orror preferiscono un approccio un pochino più meditato (“Imune” per esempio è incredibilmente lungo quasi 3 minuti), anche se ciò non impedisce loro di “partorire” episodi da… un secondo (“Cadaver”).
La voce è di fatto l’unico vero comun denominatore delle due esperienze, grazie al grugnito, anche piuttosto dinamico, di Pellizzetti, grugnito che viene rafforzato con urla “umane” che comunque si ascoltano meglio con le cuffie visto che senza non sono poi così comprensibili.
Epperò… vi ricordate l’epperò, vero? Ad ogni tipo di risposta, contro rispondo che dopo un po’ il tutto risulta molto ripetitivo, non soltanto per quel tupa – tupa riproposto con non molta fantasia ma anche per un rifing spesso ossessivamente “gracchiato”. I problemi poi derivano anche dalla presenza un po’ troppo invasiva dei tempi veloci che non permettono di colpire bene l’ascoltatore per il tramite di una struttura sicuramente più razionale che viene seguita in rari pezzi (ossia “Imune” e “Parasite”), riuscendo solo in questi casi a trasmettere veramente qualcosa attraverso i tempi più lenti, per niente frequenti nonostante un minutaggio che li consente. Probabilmente non aiutano molto alla causa delle linee vocali, spesso onnipresenti, che non fanno digerire sufficientemente tutto il discorso musicale, sommandosi quindi alla sua fluidità.
Insomma, belle le intenzioni ma sicuramente mi aspettavo una qualità migliore. E’ anche vero che, come dico spesso in questo tipo di situazioni, consiglio ai curiosi di ascoltare gli Orror, in modo da farsi un’idea tutta propria del gruppo... perché, sapete, non si sa mai.
Voto: 55
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Imune/ 2 – Letargia/ 3 – Brut/ 4 – Dengue/ 5 – Versus/ 6 – Santi/ 7 – Morto/ 8 – Cadàver/ 9 – Parasite/ 10 – Colheita/ 11 – Fantoche/ 12 – Emgov/ 13 – Escola
MySpace:
http://www.myspace.com/orrorbrasil
Formazione (2011): Pellizzetti, voce/batteria;
Perazzo, chitarre/basso.
Provenienza: Rio de Janeiro (Brasile).
Canzone migliore dell’opera:
per motivi esplicati nella rece, ho una netta preferenza per “Imune”.
Punto di forza del disco:
difficile menzionarne uno date le notevoli carenze, ma se proprio devo scegliere citerei i tempi medi, che riescono a dare un po’ di dinamismo ad una musica forse fin troppo statica.
Se i Bodhum, con l’ep “Extremo”, mi avevano entusiasmato con la loro miscela assassina di thrashcore e death/grind, gli Orror, solo – progetto dell’ex – cantante/batterista dei primi, mi colpiscono purtroppo veramente poco con questo album ancora da pubblicare. E sì che le due esperienze possiedono in fin dei conti caratteristiche anche molto diverse fra loro, eliminando quindi fin da subito sensazioni da deja – vù. Inoltre, l’ascolto del disco è iniziato nel migliore dei modi, epperò… c’è sempre quel maledetto dubbio che mi pervade ogni volta che mi metto ad ascoltare questi 20 minuti nei quali nonostante tutto si fa sentire un artista tecnicamente preparato e che sa il fatto suo. Epperò…
Cominciamo ad ogni modo col dire cosa cribbio suonano gli Orror, ossia quello che si potrebbe definire vagamente un death/grind con frequenti cambi di tempo nei quali stranamente domina un tupa – tupa non poi così sostenuto, e che successivamente si rivelerà come uno dei punti deboli del disco (con calma che poi vi spiegherò tutto). Il tutto viene esplicato attraverso un approccio collettivo comunque meno rigido che nei Bodhum, visto che non manca qualche (rarissimo) frammento di chitarra solista che a volte s’insinua in maniera oserei dire bizzarra e poco immediata durante il discorso (consiglio quindi fin da subito il nostro di sviluppare ancor di più tale caratteristica).
Ovviamente, le differenze fra i due gruppi non si fermano qui, ed infatti bisogna osservare che:
1) negli Orror lo sviluppo del pezzo procede spesso in modo molto fluido, disdegnando quindi quegli stacchi in solitaria che si possono sentire invece nei Bodhum;
2) se in questi ultimi molte canzoni si risolvono in soli 30 secondi, gli Orror preferiscono un approccio un pochino più meditato (“Imune” per esempio è incredibilmente lungo quasi 3 minuti), anche se ciò non impedisce loro di “partorire” episodi da… un secondo (“Cadaver”).
La voce è di fatto l’unico vero comun denominatore delle due esperienze, grazie al grugnito, anche piuttosto dinamico, di Pellizzetti, grugnito che viene rafforzato con urla “umane” che comunque si ascoltano meglio con le cuffie visto che senza non sono poi così comprensibili.
Epperò… vi ricordate l’epperò, vero? Ad ogni tipo di risposta, contro rispondo che dopo un po’ il tutto risulta molto ripetitivo, non soltanto per quel tupa – tupa riproposto con non molta fantasia ma anche per un rifing spesso ossessivamente “gracchiato”. I problemi poi derivano anche dalla presenza un po’ troppo invasiva dei tempi veloci che non permettono di colpire bene l’ascoltatore per il tramite di una struttura sicuramente più razionale che viene seguita in rari pezzi (ossia “Imune” e “Parasite”), riuscendo solo in questi casi a trasmettere veramente qualcosa attraverso i tempi più lenti, per niente frequenti nonostante un minutaggio che li consente. Probabilmente non aiutano molto alla causa delle linee vocali, spesso onnipresenti, che non fanno digerire sufficientemente tutto il discorso musicale, sommandosi quindi alla sua fluidità.
Insomma, belle le intenzioni ma sicuramente mi aspettavo una qualità migliore. E’ anche vero che, come dico spesso in questo tipo di situazioni, consiglio ai curiosi di ascoltare gli Orror, in modo da farsi un’idea tutta propria del gruppo... perché, sapete, non si sa mai.
Voto: 55
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Imune/ 2 – Letargia/ 3 – Brut/ 4 – Dengue/ 5 – Versus/ 6 – Santi/ 7 – Morto/ 8 – Cadàver/ 9 – Parasite/ 10 – Colheita/ 11 – Fantoche/ 12 – Emgov/ 13 – Escola
MySpace:
http://www.myspace.com/orrorbrasil
Monday, February 6, 2012
Vibratacore - "Good Morning Pain" (2011)
Ep (Audiozero Records, 11 Aprile 2011)
Formazione (2002): Andrea, voce;
Fango, chitarre;
Lorenzo, basso;
Marco, batteria.
Ospiti:
Teg (dei miei conterranei Beyond Murder), voce in "Faithless";
Paolo di Rocco in "Good Morning Pain".
Provenienza: Teramo/Val Vibrata, Abruzzo.
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio la stessa “Good Morning Pain”, e per sapere perché leggete la recensione.
Punto di forza dell’opera:
il riffing, così nervoso da far paura.
E con questa recensione finisco (beh, più o meno) praticamente il catalogo, per ora poverissimo (ma interessante), della Audiozero Records, casa indipendente nella quale figura fra gli altri AldoHC dei Mud, gruppo che rispetto al primo presenta sicuramente più personalità, anche se questo non significa necessariamente avere più qualità. “E perché Claustrofobi’?”. Non andiamo di fretta, signore e signori, che come disse un bel giorno quello sconosciuto fossile “chi va piano va sano e va lontano”!
Prima di tutto, i Vibratacore non suonano musica per così dire “normale”, pur avendo le proprie fasi del punk/HC. Ma lo stuprano a dovere rendendolo riconoscibile solo in alcuni (comunque non così rari) momenti, con il batterista che di conseguenza procede con tupa – tupa non eccessivamente sostenuti.
Dal punk/HC discendono non soltanto tali passaggi ma anche la tendenza a non offrire neanche un misero assolo, tutt’al più un leggero accento di chitarra solista così da dare manforte alla ritmica, riuscendoci efficacemente.
Però dal genere di base non proviene la grande tecnica che i nostri si ritrovano, cosa che permette loro di seguire partiture ritmiche più complesse ed un lavoro di chitarra più sghembo, che poi costituisce il lato più interessante della proposta. Sì perché spesso il riffing è psicotico, spara dissonanze da mettere i brividi sulla schiena, pur non dimenticando una velocità d’esecuzione volentieri elevata. Eppure, in mezzo a tutte queste trovate delirante che ricordano più da vicino il mathcore, viene dato qualche spazio alla melodia, alle volte così sofferente e tremendamente evocativa (quasi di impronta black) da commuovere (ascoltatevi la bellissima parte finale di "Good Morning Pain").
La cosiddetta tracklist è infatti l’episodio che più colpisce, anche per dei passaggi acustici dalla rara atmosfera, facendo così riposare le orecchie da una violenza spesso estrema, risaltando allo stesso tempo un basso dalle linee superlative. Ma anche perché è uno dei pezzi del lotto dalla struttura più libera e selvaggia, con la quale i Vibratacore sembrano essere più a proprio agio anche perché così facendo possono esprimere tutta la propria emotività.
Emotività che quasi contrasta con le freddissime urla di Andrea, cantante che rimanda spesso e volentieri allo stile altrettanto agghiacciante di Jens Kidman dei Meshuggah. E la freddezza risulta spaventosamente doppiata attraverso l’utilizzo piuttosto frequente delle sovraincisioni, cosa irriproducibile dal vivo se non con l’aiuto di qualche altro membro del gruppo. Ma è anche vero che viene usata talvolta la voce pulita (mai però in maniera melodica, beninteso), “umanizzando” così un discorso quasi indicibile.
Altrettanto “umanizzanti” (ma in modo purtroppo negativo) sono le mancanze che colpiscono la maggiorparte dei pezzi dispari, ossia “Doomsday” e “Confident Liar”. E ciò perché il primo mostra il lato decisamente meno istintivo ma anche meno approfondito, non riuscendo quindi a far sufficientemente del “male” all’ascoltatore; mentre l’altro pezzo ha una parte finale molto insistita e poco convincente, ragion per cui penso che sarebbe stato meglio per esempio offrire, dopo un po’, delle variazioni al livello del riffing.
Insomma, “Good Morning Pain” non è un disco così riuscito ma in compenso il gruppo presenta delle potenzialità molto interessanti. Ad esempio, la melodia, non sempre utilizzata. Nonostante ciò, è da consigliare per chi cerca "roba" coraggiosa e che va oltre i canoni precostituiti che tanto conosciamo.
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Doomsday/ 2 – Faithless/ 3 – Confident Liar/ 4 – Good Morning Pain/ 5 – Ciuwetta
MySpace:
http://www.myspace.com/vibratacore
MySpace Audiozero:
http://www.myspace.com/audiozerorecords
Formazione (2002): Andrea, voce;
Fango, chitarre;
Lorenzo, basso;
Marco, batteria.
Ospiti:
Teg (dei miei conterranei Beyond Murder), voce in "Faithless";
Paolo di Rocco in "Good Morning Pain".
Provenienza: Teramo/Val Vibrata, Abruzzo.
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio la stessa “Good Morning Pain”, e per sapere perché leggete la recensione.
Punto di forza dell’opera:
il riffing, così nervoso da far paura.
E con questa recensione finisco (beh, più o meno) praticamente il catalogo, per ora poverissimo (ma interessante), della Audiozero Records, casa indipendente nella quale figura fra gli altri AldoHC dei Mud, gruppo che rispetto al primo presenta sicuramente più personalità, anche se questo non significa necessariamente avere più qualità. “E perché Claustrofobi’?”. Non andiamo di fretta, signore e signori, che come disse un bel giorno quello sconosciuto fossile “chi va piano va sano e va lontano”!
Prima di tutto, i Vibratacore non suonano musica per così dire “normale”, pur avendo le proprie fasi del punk/HC. Ma lo stuprano a dovere rendendolo riconoscibile solo in alcuni (comunque non così rari) momenti, con il batterista che di conseguenza procede con tupa – tupa non eccessivamente sostenuti.
Dal punk/HC discendono non soltanto tali passaggi ma anche la tendenza a non offrire neanche un misero assolo, tutt’al più un leggero accento di chitarra solista così da dare manforte alla ritmica, riuscendoci efficacemente.
Però dal genere di base non proviene la grande tecnica che i nostri si ritrovano, cosa che permette loro di seguire partiture ritmiche più complesse ed un lavoro di chitarra più sghembo, che poi costituisce il lato più interessante della proposta. Sì perché spesso il riffing è psicotico, spara dissonanze da mettere i brividi sulla schiena, pur non dimenticando una velocità d’esecuzione volentieri elevata. Eppure, in mezzo a tutte queste trovate delirante che ricordano più da vicino il mathcore, viene dato qualche spazio alla melodia, alle volte così sofferente e tremendamente evocativa (quasi di impronta black) da commuovere (ascoltatevi la bellissima parte finale di "Good Morning Pain").
La cosiddetta tracklist è infatti l’episodio che più colpisce, anche per dei passaggi acustici dalla rara atmosfera, facendo così riposare le orecchie da una violenza spesso estrema, risaltando allo stesso tempo un basso dalle linee superlative. Ma anche perché è uno dei pezzi del lotto dalla struttura più libera e selvaggia, con la quale i Vibratacore sembrano essere più a proprio agio anche perché così facendo possono esprimere tutta la propria emotività.
Emotività che quasi contrasta con le freddissime urla di Andrea, cantante che rimanda spesso e volentieri allo stile altrettanto agghiacciante di Jens Kidman dei Meshuggah. E la freddezza risulta spaventosamente doppiata attraverso l’utilizzo piuttosto frequente delle sovraincisioni, cosa irriproducibile dal vivo se non con l’aiuto di qualche altro membro del gruppo. Ma è anche vero che viene usata talvolta la voce pulita (mai però in maniera melodica, beninteso), “umanizzando” così un discorso quasi indicibile.
Altrettanto “umanizzanti” (ma in modo purtroppo negativo) sono le mancanze che colpiscono la maggiorparte dei pezzi dispari, ossia “Doomsday” e “Confident Liar”. E ciò perché il primo mostra il lato decisamente meno istintivo ma anche meno approfondito, non riuscendo quindi a far sufficientemente del “male” all’ascoltatore; mentre l’altro pezzo ha una parte finale molto insistita e poco convincente, ragion per cui penso che sarebbe stato meglio per esempio offrire, dopo un po’, delle variazioni al livello del riffing.
Insomma, “Good Morning Pain” non è un disco così riuscito ma in compenso il gruppo presenta delle potenzialità molto interessanti. Ad esempio, la melodia, non sempre utilizzata. Nonostante ciò, è da consigliare per chi cerca "roba" coraggiosa e che va oltre i canoni precostituiti che tanto conosciamo.
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Doomsday/ 2 – Faithless/ 3 – Confident Liar/ 4 – Good Morning Pain/ 5 – Ciuwetta
MySpace:
http://www.myspace.com/vibratacore
MySpace Audiozero:
http://www.myspace.com/audiozerorecords
Thursday, February 2, 2012
"Slaughtergrave/Warpeace Split" (2011)
Split (Deathforce Records, 2011)
SLAUGHTERGRAVE.
Formazione (2002): Pavel, voce;
Kostas, chitarra;
Spiros, chitarra/basso/voce;
Jim, batteria.
Provenienza: Thessaloniki/Siena, Grecia/Toscana (sì, come già detto Spiros vive in Italia).
Canzone migliore degli Slaughtergrave:
per motivi che menzionerò nel corpo della recensione, ho una netta prevalenza per “Rats in the Sewer”.
Punto di forza degli Slaughtergrave:
dico chissenefrega, e scelgo la capacità estrema di non fossilizzarsi sulle stesse soluzioni (ma anche sullo stile musicale).
Gli Slaughtergrave sono una creatura veramente indomabile perché non sai mai cosa aspettarti da un gruppo che in quasi ogni disco sembra proporre un’enciclopedia della musica estrema. Certo, così facendo gli Slaughtergrave appaiono molto indecisi sulla strada da prendere, pur essendo sempre molto immediati, ma perlomeno sperimentano in modo da mettersi sempre in discussione (e questa è una prerogativa dei grandi gruppi…. Non “grandi” in quanto più famosi, beninteso). Oddio, con questa politica qualche passo falso l’hanno fatto, ma non con questo split. E come ormai tradizione con i dischi di questi pazzi greci, vediamo nel dettaglio cosa hanno tirato fuori di delirante. Quindi:
1) il delirio parte già dal titolo del primo pezzo, ossia “The Beginning of Destruction (New York Against the Belzebu)”, che poi è una specie di intro dall’impronta grind e con una chitarra praticamente impazzita che cerca ma invano di sviluppare un assolo. Inoltre, similmente al demo “Antifa Psychedelic” si fa vivo quel grugnito bello cupo che successivamente verrà usato in maniera più grintosa. Il tutto per una quindicina di secondi…;
2) “Rats in the Sewer (Fuck Nazis)” mostra, dopo tanto patire, quel riffing death metal tanto decantato nello Space del gruppo, oltre a snocciolare quel groove contagioso in cui i nostri sono ormai maestri. Ma quello che più interessa è che tale pezzo è l’unico a raggiungere e superare di 30 secondi circa i 2 minuti, ragion per cui è strutturalmente quello più complesso, contando fra l’altro un’ottima parte finale dominata dalle variazioni di Jim ed introdotta da uno stacco di basso superlativo;
3) “Brain Downfall” è invece uno dei pezzi meno convincenti perché l’introduzione minacciosa in pieno stile death metal poteva essere approfondita, eppure si è scelto subito dopo di andare sempre e solo in blast – beats;
4) Con “Toe the Line” comincia quella che si può considerare come la parte più punk/HC degli Slaughtergrave visto che tale brano è un contagioso tempo medio grooveggiante dal sapore punk/metal. E qui si fanno vive per la prima volta delle belle urla;
5) le ibridazioni continuano con “Cliental State” (mai titolo è stato più azzeccato), pezzo praticamente speedcore con una bellissima melodia quasi epica;
6) “No to Modern Football” è assurda sia per il titolo sia per la musica. Infatti, ricorda nelle parti lente “Mo – Mo Producer” di “Antifa Psychedelic”, in più ci aggiunge una vaga e psicotica influenza (o che dir si voglia) proveniente dal reggae mentre per le accelerazioni si mantiene più sul punk/HC classico;
7) Però agli Slaughtergrave dovrebbero essere molto preoccupati per la piega che ha preso il calcio perché il prossimo pezzo si chiama “Say Again No… to Modern Football”. Si distingue molto da quello precedente non soltanto per l’esigua durata (circa 40 secondi) ma anche per la parte finale da assalto condita da grugnite ed urla impazziti;
8) E con la “cover” di Virus dei Sore Throat i nostri continuano invece la tradizione che li vede stupratori di pezzi grindcore (avete mai sentito per esempio la loro “riproposizione” di “You Suffer” dei Napalm Death?). Infatti, quello che si sente è semplice, puro rumore condito dai piatti della batteria che se ne vanno quasi “a cazzo di cane”. Notare che è l’unico pezzo strumentale degli Slaughtergrave, e comunque congratulazioni a loro perché le cover non devono essere mai identiche all’originale (almeno così penso io).
La cosa curiosa è che gli Slaughtergrave hanno (quasi) completamente abbandonato il concetto di assolo, ma perlomeno se ne sono usciti fuori con canzoni spesso intense anche se nelle ultime Jim appare stranamente un po’ ripetitivo in alcune variazioni.
Voto: 71
WARPEACE.
Formazione (2008): Andre’, voce;
Nico, chitarra;
Giorgia, basso/voce;
Andrea, batteria.
Provenienza: Tivoli/Roma, Lazio.
Canzone migliore dei Warpeace:
senz’ombra di dubbio la bellissima “Incubo di Sempre”, che poi rappresenta quasi una novità assoluta per i nostri.
Punto di forza dei Warpeace:
decisamente la versatilità del gruppo di risultare intenso e potente pur cambiando coraggiosamente le proprie direttive musicali.
Il quintetto dei Warpeace invece, dallo split con i Disabled, sono piuttosto cambiati e questo non può che essere un piacere, anche perché la produzione dei pezzi è tornata un po’ ai fasti di “Submission”, quindi risulta piuttosto sporca ma comprensibile (a parte i blast non così chiari), e di conseguenza più diretta e funzionale, (senza cioè, per esempio, le sovrainsioni di chitarra).
Infatti, sembra che i Warpeace abbiano voluto fare il gioco degli Slaughtergrave, rendendo quindi piuttosto fantasioso la propria pur riconoscibile musica, e allo stesso tempo strutturando meglio i vari episodi che ora sono inoltre più lunghi del solito, quasi per compensare la parte dei compagni greci.
Per fare un esempio lampante, “Incubo di Sempre” è addirittura inconsueta per i Warpeace. Parte infatti lenta, solo con basso/batteria, con una melodia che s’insinua disperata e maledetta nelle viscere dell’ascoltatore. E l’introduzione dura pure circa 50 secondi (!), cosa che influisce sulla durata stessa del brano, di quasi 3 minuti. Poi l’assalto comincia, però sempre in versione melodica ed epicheggiante.
Nonostante però tutta questa voglia di cambiare i nostri hanno riproposto una vecchia canzone, ossia “Brutti Porci”, che riconferma allo stesso tempo la poliedricità del gruppo, visto che è notorio il groove spaccaossa e ball abilissimo di tale canzone. Eppure, il nuovo batterista ha avuto la bella pensata di cambiare, e di molto, la parte centrale, ora sparata e assolutamente potente.
A proposito del batterista, bisogna dire che è decisamente migliorato, soprattutto perché adesso propone delle variazioni sopra le righe e totalmente imprevedibile.
Però anche qui Giorgia non è che sia molto presente nel discorso vocale, visto che il suo ottimo apporto manca in 2 pezzi su 4, purtroppo anche nella rivisitata “Brutti Porci”.
Voto: 84
Claustrofobia
Scaletta:
SLAUGHTERGRAVE:
1 – Beginning of the Destruction (New York Against the Belzebu/ 2 – Rats in the Sewer (Fuck Nazis)/ 3 – Brain Downfall/ 4 – Toe the Line/ 5- Cliental State/ 6- No to Modern Football/ 7 – Say Again No… to Modern Football/ 8 – Virus (Sore Throat cover)
WARPEACE:
9 – Mercanti di Schiavi/ 10 – Logica del Profitto/ 11 – Incubo di Sempre/ 12 – Brutti Porci!
MySpace:
SLAUGHTERGRAVE: http://www.myspace.com/slaughtergrave
WARPEACE: http://www.myspace.com/warpeacepunk
SLAUGHTERGRAVE.
Formazione (2002): Pavel, voce;
Kostas, chitarra;
Spiros, chitarra/basso/voce;
Jim, batteria.
Provenienza: Thessaloniki/Siena, Grecia/Toscana (sì, come già detto Spiros vive in Italia).
Canzone migliore degli Slaughtergrave:
per motivi che menzionerò nel corpo della recensione, ho una netta prevalenza per “Rats in the Sewer”.
Punto di forza degli Slaughtergrave:
dico chissenefrega, e scelgo la capacità estrema di non fossilizzarsi sulle stesse soluzioni (ma anche sullo stile musicale).
Gli Slaughtergrave sono una creatura veramente indomabile perché non sai mai cosa aspettarti da un gruppo che in quasi ogni disco sembra proporre un’enciclopedia della musica estrema. Certo, così facendo gli Slaughtergrave appaiono molto indecisi sulla strada da prendere, pur essendo sempre molto immediati, ma perlomeno sperimentano in modo da mettersi sempre in discussione (e questa è una prerogativa dei grandi gruppi…. Non “grandi” in quanto più famosi, beninteso). Oddio, con questa politica qualche passo falso l’hanno fatto, ma non con questo split. E come ormai tradizione con i dischi di questi pazzi greci, vediamo nel dettaglio cosa hanno tirato fuori di delirante. Quindi:
1) il delirio parte già dal titolo del primo pezzo, ossia “The Beginning of Destruction (New York Against the Belzebu)”, che poi è una specie di intro dall’impronta grind e con una chitarra praticamente impazzita che cerca ma invano di sviluppare un assolo. Inoltre, similmente al demo “Antifa Psychedelic” si fa vivo quel grugnito bello cupo che successivamente verrà usato in maniera più grintosa. Il tutto per una quindicina di secondi…;
2) “Rats in the Sewer (Fuck Nazis)” mostra, dopo tanto patire, quel riffing death metal tanto decantato nello Space del gruppo, oltre a snocciolare quel groove contagioso in cui i nostri sono ormai maestri. Ma quello che più interessa è che tale pezzo è l’unico a raggiungere e superare di 30 secondi circa i 2 minuti, ragion per cui è strutturalmente quello più complesso, contando fra l’altro un’ottima parte finale dominata dalle variazioni di Jim ed introdotta da uno stacco di basso superlativo;
3) “Brain Downfall” è invece uno dei pezzi meno convincenti perché l’introduzione minacciosa in pieno stile death metal poteva essere approfondita, eppure si è scelto subito dopo di andare sempre e solo in blast – beats;
4) Con “Toe the Line” comincia quella che si può considerare come la parte più punk/HC degli Slaughtergrave visto che tale brano è un contagioso tempo medio grooveggiante dal sapore punk/metal. E qui si fanno vive per la prima volta delle belle urla;
5) le ibridazioni continuano con “Cliental State” (mai titolo è stato più azzeccato), pezzo praticamente speedcore con una bellissima melodia quasi epica;
6) “No to Modern Football” è assurda sia per il titolo sia per la musica. Infatti, ricorda nelle parti lente “Mo – Mo Producer” di “Antifa Psychedelic”, in più ci aggiunge una vaga e psicotica influenza (o che dir si voglia) proveniente dal reggae mentre per le accelerazioni si mantiene più sul punk/HC classico;
7) Però agli Slaughtergrave dovrebbero essere molto preoccupati per la piega che ha preso il calcio perché il prossimo pezzo si chiama “Say Again No… to Modern Football”. Si distingue molto da quello precedente non soltanto per l’esigua durata (circa 40 secondi) ma anche per la parte finale da assalto condita da grugnite ed urla impazziti;
8) E con la “cover” di Virus dei Sore Throat i nostri continuano invece la tradizione che li vede stupratori di pezzi grindcore (avete mai sentito per esempio la loro “riproposizione” di “You Suffer” dei Napalm Death?). Infatti, quello che si sente è semplice, puro rumore condito dai piatti della batteria che se ne vanno quasi “a cazzo di cane”. Notare che è l’unico pezzo strumentale degli Slaughtergrave, e comunque congratulazioni a loro perché le cover non devono essere mai identiche all’originale (almeno così penso io).
La cosa curiosa è che gli Slaughtergrave hanno (quasi) completamente abbandonato il concetto di assolo, ma perlomeno se ne sono usciti fuori con canzoni spesso intense anche se nelle ultime Jim appare stranamente un po’ ripetitivo in alcune variazioni.
Voto: 71
WARPEACE.
Formazione (2008): Andre’, voce;
Nico, chitarra;
Giorgia, basso/voce;
Andrea, batteria.
Provenienza: Tivoli/Roma, Lazio.
Canzone migliore dei Warpeace:
senz’ombra di dubbio la bellissima “Incubo di Sempre”, che poi rappresenta quasi una novità assoluta per i nostri.
Punto di forza dei Warpeace:
decisamente la versatilità del gruppo di risultare intenso e potente pur cambiando coraggiosamente le proprie direttive musicali.
Il quintetto dei Warpeace invece, dallo split con i Disabled, sono piuttosto cambiati e questo non può che essere un piacere, anche perché la produzione dei pezzi è tornata un po’ ai fasti di “Submission”, quindi risulta piuttosto sporca ma comprensibile (a parte i blast non così chiari), e di conseguenza più diretta e funzionale, (senza cioè, per esempio, le sovrainsioni di chitarra).
Infatti, sembra che i Warpeace abbiano voluto fare il gioco degli Slaughtergrave, rendendo quindi piuttosto fantasioso la propria pur riconoscibile musica, e allo stesso tempo strutturando meglio i vari episodi che ora sono inoltre più lunghi del solito, quasi per compensare la parte dei compagni greci.
Per fare un esempio lampante, “Incubo di Sempre” è addirittura inconsueta per i Warpeace. Parte infatti lenta, solo con basso/batteria, con una melodia che s’insinua disperata e maledetta nelle viscere dell’ascoltatore. E l’introduzione dura pure circa 50 secondi (!), cosa che influisce sulla durata stessa del brano, di quasi 3 minuti. Poi l’assalto comincia, però sempre in versione melodica ed epicheggiante.
Nonostante però tutta questa voglia di cambiare i nostri hanno riproposto una vecchia canzone, ossia “Brutti Porci”, che riconferma allo stesso tempo la poliedricità del gruppo, visto che è notorio il groove spaccaossa e ball abilissimo di tale canzone. Eppure, il nuovo batterista ha avuto la bella pensata di cambiare, e di molto, la parte centrale, ora sparata e assolutamente potente.
A proposito del batterista, bisogna dire che è decisamente migliorato, soprattutto perché adesso propone delle variazioni sopra le righe e totalmente imprevedibile.
Però anche qui Giorgia non è che sia molto presente nel discorso vocale, visto che il suo ottimo apporto manca in 2 pezzi su 4, purtroppo anche nella rivisitata “Brutti Porci”.
Voto: 84
Claustrofobia
Scaletta:
SLAUGHTERGRAVE:
1 – Beginning of the Destruction (New York Against the Belzebu/ 2 – Rats in the Sewer (Fuck Nazis)/ 3 – Brain Downfall/ 4 – Toe the Line/ 5- Cliental State/ 6- No to Modern Football/ 7 – Say Again No… to Modern Football/ 8 – Virus (Sore Throat cover)
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9 – Mercanti di Schiavi/ 10 – Logica del Profitto/ 11 – Incubo di Sempre/ 12 – Brutti Porci!
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WARPEACE: http://www.myspace.com/warpeacepunk
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