venerdì 14 dicembre 2012

Rohes Fleisch/Minas Ithil - "Melt Soul to Blood" (2012)

Split (Mother Death Productions, 2012)

Formazione Rohes Fleisch (2008):   Zeyros – voce/chitarre/basso;
                                                            Azharn – batteria elettronica.

Provenienza:                                      Frosinone/Roma, Lazio.

Canzone migliore del gruppo:

“Emperor of the Almighty Black Thorn”.

Punto di forza:

il caos sprigionato con una follia incredibile e organizzata.
Un giorno, mentre stavo ascoltando per la prima volta questo split, e più precisamente gli assordanti Rohes Fleisch, sento all’improvviso mia madre dirmi qualcosa dalla sua stanza. Così, metto in pausa lo stereo, e chiedo “A ma’, che c’è?”, e lei “Ma cos’è ‘sto rumore?”, domanda stavolta più che giustificabile. Ma il bello è che io me ne sono uscito con una delle risposte più assurde di tutti i tempi, cioè un insensato “E’ un gruppo romano”, come se noi romani fossimo particolarmente bravi a creare il caos in musica. Che poi io mi sia mezz’ora dopo spaparanzato sul divano a godermi “3 Cuori in Affitto” con il grande e compianto John Ritter e la bellissima nana Joyce DeWitt è un altro conto… ma questo per favore non ditelo a nessuno. “Troppo tardi idiota, e poi mi stai dicendo forse che la tua mano sa scrivere da sola?”. Ops, mano cattiva, scrivi quello che devi scrivere, e subito!

Zi, padrone. Oggi Mano vi parla di “Melt Soul to Blood”, split fra due realtà nostrane che propongono visioni black metal fra loro completamente contrapposte sia dal punto di vista musicale/atmosferico, sia purtroppo da quello qualitativo. Se ben ricordate, dei Rohes Fleisch ho recensito tempo fa il loro primissimo demo “First Journey to Flesh of Human Nature”, che si è beccato un modesto 68, mentre Minas Ithil è praticamente alla prima esperienza discografica.

Partiamo dai Rohes Fleisch, che a questo giro si mettono in discussione preferendo un approccio meno industriale e molto più rumoristico e caotico. In parole povere, si tratta del più becero noise black metal nel quale protagoniste assolute sono le chitarre, che vengono utilizzate nei modi più diversi. Si va per esempio da arpeggi addirittura melodici a riffs furiosi di impronta svedese (“Emperor of the Almighty Black Thorn”), da orde di feedback alle dita che strisciano minacciosamente sulle corde. Ma a dir poco fondamentale è la chitarra solista, che riesce a completare il riff della compagna anche con intuizioni atipiche, seppur soltanto in “Underskin Cold Beauty” ci sia un assolo, bello isterico e rapido (curiosamente anche nel precedente disco vi è un solo… assolo. Ormai sta diventando una tradizione…).

Pure la batteria si rivela capace, sia pure a suo modo, di creare più caos. Prima di tutto, essa va quasi sempre in tupa – tupa, tanto che solo nelle ultime due canzoni va in blast. Ma il suo andamento è non poche volte stranamente spezzettato, e in quest’ultimo caso o si ferma o non segue un vero e proprio ritmo (o almeno così pare), e intanto il riffing continua il suo incubo.

La cosa assurda è che questo black metal riesce a essere imprevedibile attraverso una struttura che in teoria dovrebbe essere soffocante perché è spesso bella ossessiva, solo che poi si dimostra particolarmente fluida e in un certo senso accessibile. Ciò anche perché in canzoni come la strana “Leave Your Hope”, che ha una lunga introduzione con sola chitarra arpeggiata e pure un memorabile passaggio stradaiolo più volte “ritardato” (altro aspetto curioso della struttura – tipo dei pezzi), lo schema è abbastanza lontano dall’essere sequenziale, quindi è sufficientemente libero. Però certo, talvolta tale metodologia strutturale non sempre appare efficace, come nel finale statico e senza sviluppo di “Life Dressed in Red”, ma questa è la classica eccezione che conferma la regola.

La produzione, sporchissima ma comprensibile e graffiante, rappresenta invece ancora una volta il trionfo delle chitarre, mentre tutti gli altri strumenti sono messi in secondo piano, seppur una tale scelta non mi piaccia particolarmente anche se atmosfericamente funziona. Il rullante della batteria risulta però poco efficace e lontano dalla chiarezza (beh, più o meno) del demo. La voce è invece ovattata e parecchio effettata, ed è divisa fra urla malate e una piccola dose di voci pulite semi – parlate.
Insomma, i Rohes Fleisch sono cambiati molto dall’ultima volta, e pure in meglio, immettendo di conseguenza non poche novità, fra cui un riffing più vecchia scuola e dissonante, talvolta anche più imponente del solito (in “The Art of Torment” c’è il massimo da questo punto di vista). E soprattutto i nostri sono riusciti a creare volutamente un caos, per così dire, musicale, fatto cioè veramente bene e senza esperimenti pretenziosi, magari mascherati da un concept allettante, come spesso capita. Ma del gruppo ne sentiremo parlare presto, perché è in programma sia l’album “Defecate Human Kind” sia lo split con i messicani Acrimonia.

Voto: 76

Scaletta:

1 – Underskin Cold Beauty/ 2 – Life Dressed in Red/ 3 – Leave Your Hope/ 4 – The Art of Torment/ 5 – Emperor of the Almighty Black Thorn

FaceBook:


MySpace:


Formazione Minas Ithil (2008):   Icemoon – voce/chitarre/basso/batteria elettronica;
                                                       Nera Morte - voce (in "Moon, Queen of the Night").

Provenienza:                                 Bologna, Emilia Romagna.

Canzone migliore del progetto:

“Moon, Queen of the Night”.

Punto di forza:

la voce.

Con Minas Ithil (fino all’anno scorso conosciuto come Solar Radiation) siamo da tutt’altra parte, visto che il nostro Icemoon propone un black metal malinconico dai toni sognanti. Quindi, Mano entra qui in un territorio minato, dato che io non sono affatto un grande sostenitore di questo tipo di sonorità, anche perché ‘sto progetto racchiude in sé e talvolta estremizza le caratteristiche tipiche di questo particolare modo di sentire il black.

Prima di tutto, la batteria elettronica è veramente poco incisiva, non soltanto per il suono in sé ma anche perché il suo andamento risulta troppo asettico, cioè non aiuta gli altri strumenti a enfatizzare il discorso così da atrofizzarsi sempre sugli stessi rilassati ritmi, senza nessuna reale variazione. E poi va sempre più o meno lenta, non c’è mai e poi mai un passaggio veloce o qualcosa che faccia scaldare gli animi.

La voce è un urlo rauco e ultra – grattato, ed è stato doppiato in un modo un po’ curioso tramite una eco che fa sembrare che si stia cantando in due, creando così perlomeno un buon effetto di disorientamento.

La struttura delle canzoni è invece così minimalista che al confronto i Von sono quasi dei dilettanti. Sì, perché i pezzi procedono non solo statici ma anche tremendamente ossessivi, con lunghi riffs melodici e (quasi) perennemente in tremolo, mai arpeggiati, cosa che sicuramente avrebbe dato più atmosfera e fantasia al tutto.

In compenso, i brani si diversificano abbastanza bene fra di loro. A titolo di esempio, “Ruin” presenta un buon lavoro di chitarra solista (mai nessun assolo comunque); “Moon, Queen of the Night” è unica nella sua specie avendo un alone misterioso ed esotico anche grazie a delle semplici tastiere e addirittura a un vellutato canto femminile molto interessante, mentre “Light Never Shrines” parte e si conclude all’insegna di un ambient con chitarra acustica paranoica e non priva di errori, con la parte centrale black.
In parole povere, sarò forse di parte ma le cosiddette atmosfere da sogno di Minas Ithil appaiono troppo povere e anche poco funzionali, visto che per me i sogni in musica devono scatenare sempre una botta di Vita, un’evasione dalla soffocante routine quotidiana, un po’ come fatto in passato dai sardi Streben, sognanti ma selvaggi (a proposito, tra un po’ recensisco il ritorno nelle scene di Satya Lux Aeterna, adesso nelle fila dei Nahabat). A ogni modo, consiglio ad Icemoon di ripartire assolutamente da “Moon, Queen of the Night” e quindi dall’uso più frequente delle tastiere.

Mano, adesso sei libera… ehi, non dici niente? Oh? AOH, SVEGLIA!

“SONO STANCA, FANCULO FLAVIE’ E ARIDATECE JOHN RITTER, CONTENTO?”

Caz…

Voto: 57

Flavio “Claustrofobia” Adducci

Scaletta:

6 – Loneliness/ 7 – The Magical City/ 8 – Ruin/ 9 – Moon, Queen of the Night/ 10 – Light Never Shrines

FaceBook:

domenica 9 dicembre 2012

Animus Infirmus - "Nell'Odio" (2009)

Demo autoprodotto (Aprile 2009), poi ristampato (Mother Death Productions, Luglio 2012)

Formazione (2008):     Marte - voce/chitarra (poi sostituito da Spettro);
                                     Astaroth - chitarra (poi sostituito da Order);
                                     Spettro - basso (poi sostituito da Nèfas);
                                     Militia Sagittarius - batteria.

Formazione:               Ostia, Lazio.

Canzone migliore del demo:

"Divina Terra".

Punto di forza del disco:

la batteria.
Certo che è divertente: il black metal, oltre a essere un genere praticamente unico, è il solo a mettere d'accordo tutti quando si comincia a parlare dei Darkthrone, gruppo così inarrivabile come pochi quanto maestro per molti. Cioè, ci sono per esempio gli anarchici ultra - incazzati Black Trinity, che sfornano canzoni lunghissime dai tupa - tupa in stile crust; ci sono i cristiani apocalittici Abdijah, che pestano ossessivamente in blast come se non ci fosse un fottuto domani; e ci sono i fascisti Animus Infirmus (che dal latino significa all'incirca "mente debole"), di cui mi appresto a recensire la ristampa del loro primissimo e finora unico demo "Nell'Odio", al quale è stata aggiunta, guardacaso, la cover di "Lifeless" (molto fedele all'originale) dei Darkthrone, che è comparsa la prima volta in una compilation - tributo italiana di 2 anni fa.

Il quartetto laziale propone un purissimo black metal molto semplice e perfettamente equilibrato fra i tempi veloci e quelli più lenti, che, classicissimi e tonanti, risultano molto importanti (si ascolti ad esempio "Kalashnikov") e non manca neanche una buona dose di groove. Anche il riffing si nutre di opposti, visto che le schitarrate gelide vengono alternate a melodie evocative e battagliere, magari rasentando (raramente) pure intuizioni più vicine al black depressivo.

Un po' meno di contrasti vive la struttura dei vari pezzi, che spesso procedono ossessive nel loro discorso, anche modificando semplicemente la parte ritmica. E, come insegna il Darkthrone - style, gli stacchi e le pause sono veramente roba rara da queste parti, pur essendoci un'eccezione significativa nel terzo brano, cioè "Spedizione Punitiva", che ha fra l'altro una parte centrale con tanto di basso in evidenza.

La voce riserva invece delle sorprese interessanti. Infatti, è sufficientemente malata così da rendere più intenso l'intero insieme, anche perchè le urla vengono combinate con una certa frequenza con dei grugniti niente male. Ma il nostro ha un'inventiva quasi insospettabile perchè per esempio in "Divina Terra" se ne esce addirittura con una voce pulita, che non sarà il massimo ma comunque si rivela funzionale; mentre in "Smarrito nel Buio" a tratti sembra che stia "cantando" un corvo con il suo tipico verso. Purtroppo però che la voce sia stata messa un po' in secondo piano, cosa che rende incomprensibili i testi, pur cantati in madrelingua.

Gli Animus Infirmus sono inoltre completamente restii a vomitare anche una misera ombra di assolo, limitandosi al massimo a una chitarra solista che completa, spesso in maniera minimalista, il riff della compagna. L'esempio migliore che si possa fare è praticamente l'introduzione di "Divina Terra", che poi sarebbe la canzone più riconoscibile di tutto il lotto, anche perchè presenta un discorso più articolato del solito, delle partiture sui tom - tom davvero niente male, e un riffing abbastanza fantasioso.

Infine, la produzione è davvero bella sporca e graffiante, ma stiamo parlando di una sporcizia, per così dire, cristallina. Le cose cambiano un po' con "Lifeless", che da una parte è più piena (la batteria) e dall'altro più disturbata (chitarre e voce) e, sarò strano, ma preferisco quest'ultima, decisamente folle, anche se venuta sicuramente in maniera non voluta.

Insomma, gli Animus Infirmus sono semplicemente un gruppo onesto, molto migliorabile sia in fase di rifinitura dei pezzi (per esempio, le intuizioni caotiche simil - "Transilvanian Hunger" sono state purtroppo relegate soltanto nella parte finale di "Smarrito nel Buio"), sia nella fase strutturale degli stessi (e qui esemplificativo è sempre il brano soprammenzionato perchè ha una parte centrale sviluppata male). Comunque bravo il batterista, abile a enfatizzare il lavoro dei compagni attraverso delle puntualizzazioni anche rare da trovare in circolazione. Ma in ogni caso, "Divina Terra" è (oddio, ormai "era", visto che tra un po' uscirà sotto la romana Mother Death il primissimo album del gruppo, "Rivolta") il pezzo da dove ricominciare, e insieme a "Spedizione Punitiva" è uno degli episodi più riusciti del demo.

Voto: 69

Flavio "Claustrofobia" Adducci

Scaletta:

1 - Nell'Odio/ 2 - Kalashnikov/ 3 - Spedizione Punitiva/ 4 - Divina Terra/ 5 - Smarrito nel Buio/ 6 - Lifeless

MySpace:

http://www.myspace.com/animusinfirmus

sabato 8 dicembre 2012

Dark Confessions - "Insanity" (2012)

Album (Art Gates Records, 26 Ottobre 2012)

Formazione (2007):    Enrique Balsalobre Martinez - voce;
                                    Vicente Cremades - chitarra;
                                    Jose Ángel Moreno Garrido - chitarra;
                                    David Palazón Gamero - basso;
                                    Sébastien Alcolea Garrido - batteria.

Provenienza:              Murcia (Spagna)

Canzone migliore dell'album:

"Inferno Infection".

Punto di forza dell'opera:

la varietà.
Oggi parliamo dei prolifici Dark Confessions, che sono già al secondo album dopo aver dato alla luce l'anno scorso il debutto "Century of Blood", senza prima aver pubblicato nemmeno un demo e fuffa varia come solitamente si fa. Molti obietterebbero che forse i nostri hanno fatto il passo più lungo della gamba, ma è anche vero che loro pestano veramente bene sfornando canzoni pure abbastanza inventive. Però stavolta andiamo dall'altra parte della barricata, visto che abbiamo a che fare con un gruppo dal suono decisamente moderno.

Il suono è un death metal venato di brutal (lo è specialmente in "The Voice of the Apocalypse", dal riffing talvolta fatalista, e nella più isterica e tecnica "Bloodshed") e di metalcore, e di conseguenza non poche volte si fanno vivi duri tempi medio - lenti, dalle schitarrate magari stoppate, che vanno perfettamente in equilibrio con i passaggi più veloci. Dal punto di vista vocale, grugniti abbastanza grossi si alternano a urla scartavetranti, seppur non manchino vocalizzi più gutturali tipici del brutal, che comunque sono rari(ssimi).

La prima caratteristica dei Dark Confessions che colpisce l'ascoltatore è sicuramente la cura riposta nelle chitarre, con la solista che interviene frequentemente, sia per completare il riffing della compagna, sia per produrre degli assoli niente male, non così lunghi ma molto vari, passando magari da intuizioni rockeggianti ad arabeggianti. E' curioso però il fatto che gli assoli siano completamente assenti nelle ultime due canzoni, e questo è un peccato perchè non sempre queste si rivelano efficaci come le precedenti.

La fantasia è comunque molto importante per il gruppo spagnolo, così che i vari pezzi possano essere diversi non soltanto dal punto di vista musicale ma anche da quello atmosferico. A titolo di esempio, si citi l'apocalittica "Sea of Oblivion", che ha una lunga introduzione molto evocativa e dall'ascia solista quasi cosmica; oppure "Distorted Reality", che addirittura si basa sui tempi medi e soltanto alla fine esplode con i blast - beats, seppur concludendosi subito dopo. Talvolta invece vengono partoriti degli intermezzi acustico/ambientali dall'ottimo taglio drammatico (il memento mori di "Prelude to Tragedy" è esemplificativo), cosa che contrasta un po' con la musicalità poco melodica della formazione.

Strutturalmente i brani sono sì sequenziali ma non troppo, anche perchè ce ne sono alcuni che seguono un andamento molto libero nel quale i Dark Confessions si scatenano letteralmente. A tal proposito, "Inferno Infection" fa una bellissima figura anche per via di certe sorprese che lo rendono ancor più imprevedibile, ossia delle incursioni stradaioli o un basso finalmente protagonista. A questo punto, "Inferno Infection" poteva chiudere in bellezza il disco, avendo fra l'altro un "finale" in dissolvenza.
Insomma, il secondo album, dalla produzione pulita e bella compatta, dei Dark Confessions, è notevole, pieno di interessanti trovate e anche - ops, dimenticavo - di ricche dosi di groove con tanto di riffing thrasheggiante (come in "My Turn"). Però certo, è lontanissimo dall'essere perfetto, per esempio i nostri si dilungano un po' troppo in alcuni passaggi facendo così scemare l'intensità, quindi i margini di miglioramento sono molti e pure promettenti. Ma per ora godiamoci quest'onesto esempio di deathcore con un lavoro di chitarra solista molto curato.

Voto: 75

Claustrofobia

Scaletta:

1 - Frozen Soul (intro)/ 2 - My Turn/ 3 - Sea of Oblivion/ 4 - Biohazard/ 5 - The Voice of the Apocalypse/ 6 - Prelude to Tragedy/ 7 - Scars of Insanity/ 8 - Denigration/ 9 - Inferno Infection/ 10 - Distorted Reality/ 11 - Bloodshed

FaceBook:

http://www.facebook.com/pages/Dark-Confessions/166378370082453

MySpace:

http://www.myspace.com/darkconfessionsdc

sabato 1 dicembre 2012

Decrepitaph - "Forgotten Scriptures - The Collection" (2012)

Compilation (Selfmadegod Records, 10 Settembre 2012)

Formazione (2005):   Sinworm – voce/chitarre;
                                    Elektrokutioner – basso/batteria.

Provenienza:              San Diego, California (Stati Uniti).

Canzone migliore del disco:

“Paradise in Decomposition”.

Punto di forza dell’opera:

la batteria.
E finalmente oggi entriamo nel mondo di Elektrokutioner, che altri non è che uno dei musicisti più attivi dell’intero universo, uno che ha così tanto tempo libero da suonare e aver suonato in una miriade di gruppi, specialmente di death antico. A titolo di esempio, cito gli Encoffination, i Beyond Hell, i più famosi Father Befouled, mentre i Decrepitaph sono una delle sue formazioni principali. Purtroppo però che "Forgotten Scriptures" sia una raccolta di canzoni, per così dire, minori, prese di petto dai vari split condivisi, fra gli altri, con gli italianissimi Eroded, autori proprio qualche mese fa del primissimo album “Engravings of a Gruesome Epitaph”, ma ci sono anche pezzi mai pubblicati (“Vengeance of the Abyss”) e dal vivo (“Unholy Crucifixion”).

Comunque, la prima cosa da dire è che i Decrepitaph sono letteralmente asfissianti come se non ci fosse un domani. Mai nessun assolo, al massimo c’è qualche rarissima sovraincisione di chitarra solista, i grugniti sono cupissimi, talvolta doppiati o effettati, e occasionalmente vengono sparate delle urla pure belle notevoli, mentre la struttura delle canzoni è spesso e volentieri sequenziale e quasi senza stacchi né pause. Come ultimo, la produzione, che ovviamente cambia da brano a brano, ma che in ogni caso è sempre nel segno del buio pesto quasi senza avere profondità (da questo punto di vista “Vengeance of the Abyss” è l’esempio massimo, con una batteria dal suono impossibile). E se ciò non bastasse, bisogna assolutamente dire che i Decrepitaph amano torturare i timpani dell’ascoltatore con del death/doom nel quale i tempi lenti più catacombali si alternano con passaggi più veloci e grooveggianti, che però non sono quasi mai dei veri tupa – tupa. Insomma, in parole povere, prima di ascoltarli preparatevi con molta calma, se no è la fine, ve l’assicuro (ma questa non è per caso la caratteristica di tutto il death metal?)!

In compenso, i nostri hanno una sufficiente fantasia nel diversificare i vari pezzi tra di loro, anche se naturalmente non abbiamo a che fare con dei geni. Per esempio, ci sono episodi che contengono perfino i blast – beats oppure dei passaggi più stradaioli al limite del thrash metal se non addirittura melodici, cosa dell’altro mondo per questo gruppo USA. In “Paradise in Decomposition”, una delle poche canzoni realmente riuscite, il discorso ritmico è più vario e imprevedibile anche durante una stessa soluzione musicale. Ma, andando più nello specifico, la batteria è effettivamente lo strumento più curato dai nostri, vista la buona inventiva e intensità che ci mette l’instancabile Elektrokutioner.

Fra l’altro, il massacro indiscriminato portato avanti dai due conosce qualche pausa, come nella lenta e melodica e fatalista “Forever Christ Forsaken”, dove vi è incredibilmente una seconda chitarra a rinforzare la prima, e nell’intro puramente ambientale “Resurrected”. L’unico problema è più che altro il fatto che questi episodi (entrambi brevi) siano praticamente attaccati fra di loro, cosa non proprio efficace e strategica dato che ferma un po’ troppo il putridume vero e proprio del gruppo.

Inoltre, la struttura delle canzoni non è molto funzionale, dato che:

1)      tende ad aumentare ancor di più la natura claustrofobica della musica;

2)      spesso si allunga il brodo perdendo così magari la buona intensità raggiunta qualche attimo prima, e in questo modo i pezzi durano più o meno tutti dai 4 ai 5 minuti… ma ovviamente questa non è una novità per questo genere.

E peccato che alcune intuizioni interessanti siano praticamente contate sulle dita di una mano, perché per esempio quelle pochissime urla che ci sono riescono a enfatizzare tranquillamente tutto l’insieme.
Ma vabbè, questa è in fin dei conti una compilation, non un album, quindi, se volete conoscere il gruppo in una maniera più sicura ascoltatevi dischi migliori come “Beyond the Cursed Tombs” del 2010. Però certo, con tutto quello che i nostri hanno partorito, è molto difficile beccare l’opera giusta ma, come si dice, la speranza è sempre l’ultima a morire.

Voto: 58

Flavio “Claustrofobia” Adducci

Scaletta:

1 – Vengeance of the Abyss/ 2 – Rot in the Grave/ 3 – Paradise in Decomposition/ 4 – Obsessed with Oblivion/ 5 – Throne of the Diabolical Ones/ 6 – Forever Christ Forsaken/ 7 – Resurrected (intro)/ 8 – Apocalyptic Pandemonium/ 9 – The Undead Shrines/ 10 – … Rotting (outro)/ 11 – Horrid Visions of Mutilation/ 12 – Summoned for Sacrifice/ 13 – Unholy Crucifixion

FaceBook:


MySpace:

martedì 27 novembre 2012

Maelstrom - "Change of Season" (2012)

EP autoprodotto (2012)

Formazione:    Ferdinando Valsecchi – voce/chitarre/basso/batteria elettronica
                        M. Simonelli – testi.

Provenienza:    Firenze, Toscana.

Canzone migliore del disco:

“Waiting for the Spring”, assolutamente da pelle d’oca.

Punto di forza dell’opera:

la sua poesia.

Curiosità:

“Change of Season” è stato concepito come una continuazione di “The Passage”. Ne consegue, come scritto nel booklet, che i due EP trattano altrettanti aspetti della vita di un uomo. Inoltre, tutte le canzoni sono da intendersi come un pezzo intero.

          “Dicono che suicidarsi sia da vigliacchi.” In effetti, se ci si pensa, da un certo punto di vista il suicidio è un atto veramente coraggioso, se non addirittura l’atto per eccellenza. Sì, perché da una parte abbandoni tutto, mentre dall’altro confidi forse nel fatto che la morte sia una liberazione, per poi magari ritrovarti sul serio a essere un albero agonizzante come immaginato dal divin Dante. Eppure, “Change of Season" si conclude con la Primavera, con la rinascita della Vita quindi, dopo il gelo inesorabile dell’Inverno, e quindi con i fringuelli che cantano le loro lodi alla Natura (oggi mi sento poetico!).

Ritorna così, e sempre provocando delle riflessioni molto profonde, questa strana creatura chiamata Maelstrom. Ma lo fa in un modo del tutto diverso rispetto all’opera precedente, visto che "The Passage" era vitalistico, la musicalità era sia melodica sia rumorista, e i pezzi contenevano degli assoli niente male. “Change of Season” invece cambia letteralmente le carte in tavola, seppur lo stile sia sempre molto riconoscibile e personale, però ora è decisamente malinconico. E lo è in una maniera molto strana, asettica e tremendamente energica allo stesso tempo.

Asettica perché le sonorità si sono fatte generalmente rilassate e tristi, gi assoli di chitarra sono stati del tutto banditi per un approccio più collettivo (che però non manca di sorprese), mentre le parti acustiche hanno assunto un’importanza maggiore che in passato tanto da far partire tutte le canzoni, che comunque, a dir la verità, vengono sempre introdotte (tranne "Waiting for the Spring") e concluse da suoni naturalistici, come le onde del mare con tanto di gabbiani di "Summer Breeze" o il gelo temporalesco di "Winter Snow". Ma i passaggi acustici possono ora essere pure belli lunghi e ossessivi, magari senza batteria, come in "Waiting for the Spring". Inoltre, la struttura delle canzoni è decisamente particolare, visto che è più o meno ciclica, quindi sequenziale, e tutto gira su una singola e spesso “infinita” melodia che viene variata in diversi modi.

Energica perché, prima di tutto, la batteria risulta pressoché fondamentale nell’enfatizzare tutto l’insieme tanto da sembrare quasi suonata veramente. Da tal punto di vista, "Waiting for the Spring" è l’esempio massimo che si può fare, anche perché  a un certo punto la batteria va più veloce del solito. Anche il basso offre delle prestazioni maiuscole, soprattutto nella seconda parte del disco, dove riesce a dare una mano al riffing completando splendidamente la melodia. E le canzoni riescono comunque a esplodere anche grazie all’accumulazione di suoni/strumenti/effetti, quindi lo stesso impianto strutturale è molto partecipato e vivo, seppur in maniera minimalista.

E’ cambiato qualcosa anche per quanto concerne la voce. Sì, va bene, è sempre parlata, ma il nostro Ferdinando risulta molto più sicuro nei propri mezzi, sia perché in certi e brevi momenti di "Autumn Leaves" prova perfino a cantare (e bene), sia perché si diverte a manipolare la sua voce, come in "Winter Snow" (peccato però che l’eco offuschi un po’ le parole), e "Waiting for the Spring", dove essa è attutita per poi schiarirsi sempre di più, pur ripetendo ossessivamente le stesse cose. E i testi continuano a essere in madrelingua, nonostante i titoli delle canzoni siano in inglese.

Per il resto, bisogna menzionare la fredda produzione, perfetta per i temi affrontati; e la durata progressivamente più lunga dei pezzi, partendo dai quasi 5 minuti di "Summer Breeze" ai 10 di "Waiting for the Spring".

Insomma, stavolta l’obiettivo è stato realmente centrato. Se prima c’era qualche indecisione, adesso il progetto è veramente maturo per il grande salto dell’album. Già, l’album… chissà come sarà? Per ora, gustiamoci questo pezzo di assoluta poesia in musica.

Voto: 82

Flavio “Claustrofobia” Adducci

Scaletta:

1 – Summer Breeze/ 2 – Autumn Leaves/ 3 – Winter Snow/ 4 – Waiting for the Spring

SoundCloud:

lunedì 19 novembre 2012

War Possession - "Through the Ages" (2012)

Album (Hellthrasher Productions, 15 Novembre 2012)

Formazione (2008):      Vaggelis P. – voce;
                                      Kolozis P.K - voce aggiuntiva in "Medieval Bloodlust"; 
                                      Haris V. – chitarre;
                                      Christos S. – basso;
                                      John A. – batteria.

Provenienza:                 Atene, Attica (Grecia)

Canzone migliore del disco:

“World War Domination”.

Punto di forza dell’opera:

la varietà.
Copertina: Milovan Novakovic

Quando si pensa al cosiddetto war metal, la mente va a quei gruppi a dir poco fissati con le tematiche guerresche/post – nucleari, con un immaginario spesso ricco di minacciosi e buffi soldati vestiti di tutto punto, con maschere antigas, cartucciere, borchie gigantesche, mitra ciclopici impugnati alla Rambo, e così via. Solo che tale sottogenere, dal punto di vista meramente musicale, è una chimera, cioè non esiste perché, a parte l’ossessione generale per le velocità più allucinanti, possono essere etichettati in questo modo i gruppi più diversi, dai Bestial Warlust agli At War. Per non parlare di quelli che, facendo i gran fighi (… peccato che il gran figo lo stia facendo io proprio adesso…), definiscono war gruppi che non trattano i tipici temi di questo pseudo – genere, come i Black Witchery oppure gli Impetuous Ritual. E così la confusione regna ancor più sovrana. Quindi, qual è la soluzione a questo assillante problema? Personalmente ne ho trovate ben 2, ossia: 1) bisogna catalogare il gruppo secondo la musica che effettivamente suona e 2) facciamola finita con queste quisquilie e facciamola finita!

Allora, ch fanno i War Possession? Beh, calma perché si deve dire che ‘sti greci hanno partorito un disco incredibilmente fantasioso e ricco di spunti, seppur migliorabile in taluni punti. E’ comunque assodato che suonano un semplice death alla vecchia maniera, con in più una buona dose di black/death bestiale a là Nocturnal Blood, dati soprattutto certo riffing minimalisti e i grugniti bassissimi del cantante, talvolta aiutati da un ignorante effetto d’eco, e tale influenza la si sente anche in alcuni rallentamenti pieni di groove. Risulta però importante anche il doom metal, che fa sentire il suo puzzo catacombale specialmente nell’asettica “Medieval Bloodlust”, il tour de force dell’EP visti i suoi 6 minuti. Insomma, quello dei War Possession è un interessante mischione di vari generi che finisce con “Deathmarch”, outro ambientale con tastiere elementarissime e ruggiti da oltretomba.

Tale fantasia la si evince anche nella struttura delle varie canzoni. Infatti:

-          “Medieval Bloodlust” (dove compare Kolozis P.K. dei Nocturnal Vomit è il brano più sequenziale di tutto il lotto, e che contiene nel finale funeral un plagio ai mitici Vasaeleth di “Born Crypt & Tethered to Ruin”, specie nel riffing;

-          “World War Domination” ha un andamento decisamente più libero, e guardacaso è il pezzo più riuscito, anche perché vi si trova un ottimo apporto della chitarra solista, che fra l’altro sciorina sempre vari, molto atmosferici e primi anni ’90. Inoltre, è proprio in tale canzone che si fanno vive incursioni nel black e nel thrash;

-          “In the Shadow of the Ancient Gods” e “A Taste of Things to Come (Chaos Awaits)” (che ha un’introduzione dalle ritmiche heavy anni ’80) si assomigliano di più, visto che danno più importanza ai botta e risposta fra due soluzioni non esagerando però mai. Solo che la seconda utilizza la chitarra solista in maniera molto minimale, mentre la prima in modo più capillare ed efficace, seppur si dilunghi forse un po’ troppo.

Il minimo comun denominatore della struttura dei vari brani è dato dall’ossessività di certe soluzioni, che così vengono ripetute più del previsto, anche variandole un poco. Ciò dona un andamento piuttosto lento alle canzoni, che in tal modo possono anche non possedere un climax vero e proprio. Ma tale approccio talvolta funziona, mentre in altre proprio no. Nel primo caso, è esemplificativa “Medieval Bloodlust”, che, priva completamente di una qualche chitarra solista, riesce a fare effetto soprattutto grazie a quella pausa seguita da un minaccioso stacco vocale che risolve tutto, facendo subito ripartire l’assalto. Nel secondo caso, è da menzionare “A Taste of Things to Come (Chaos Awaits)”, che però è sostanzialmente immobile e con passaggi atmosferici sfruttati male.
Foto: Olak

In parole povere, “Through the Ages” è sicuramente un buon disco, anche perché partorito da musicisti di sicura esperienza e provenienti per esempio dagli Embrace of Thorns (per cui si spiega la soprammenzionata tendenza all’ossessività). Ma è comunque penalizzato da alcune indecisioni di fondo, e da un’ultima canzone che in teoria dovrebbe sempre concludere in bellezza qualsiasi opera, ma che alla fine si dimostra troppo debole. Perlomeno la scena greca mostra ancora di essere molto valida, ed è questo ciò che conta.

Voto: 73

Claustrofobia

Scaletta:

1 – In the Shadow of the Gods/ 2 – Medieval Bloodlust/ 3 – World War Domination/ 4 – A Taste of Things to Come (Chaos Awaits)/ 5 – Deathmarch (Outro)

MySpace:


FaceBook: