domenica 20 luglio 2025

"Più Veloce!": altri approfondimenti dopo la pubblicazione del libro!

Seconda puntata relativa alle scoperte (e alle rivalutazioni nonché agli approfondimenti) in vista di un'eventuale ristampa del mio "Più Veloce!", o anche di un suo semplice supplemento magari da mettere in commercio separatamente. Se vi siete persi la prima puntata, eccovela qua. Per il resto, non perdete tempo e leggetevi anche quest'articolo, che potrebbe interessare chi fra voi ha un culto particolarmente ossessivo nei confronti delle sonorità hardcore più estreme dei primordi.

 

Occhio allo Stato dell’Arizona, dove a Phoenix si stavano facendo rispettare i JFA, altrimenti noti come Jodie Foster’s Army, così chiamati in onore di John Hinckley, il maniaco che il 30 marzo 1981 tentò di assassinare il neopresidente Ronald Reagan per far colpo su Jodie Foster. Però maniaci erano anche i JFA, nel senso che erano tutti degli skater sempre pronti a fare delle acrobazie spericolate sulle loro tavole, come attestato fin dalla copertina del proprio debutto, “Blatant Localism EP”, probabilmente il primo disco skatecore di sempre. Ma notevole la violenza sonora di questo vinile, soprattutto per i convulsi 8 secondi di “Count”, forti anche per un testo capace di ironizzare sull’estrema brevità di tale canzone.

Molto interessante pure l'eccellente "Not So Quiet on the Western Front", una delle prime mega-compilation di sempre, rilasciata in vinile nel 1982 dall'Alternative Tentacles di Jello Biafra con la collaborazione di Maximum RocknRoll, che ne curò gli inserti tanto che questo disco potrebbe essere considerato come il numero 0 di questa poi influentissima fanzine. Attenti alla scaletta: ben 47 band, ognuna con un pezzo a testa, per 79 minuti utili a documentare con una grande varietà la scena punk della California del Nord e, in misura minore, del Nevada, ospitando gente del calibro di Dead Kennedys (ovviamente!), 7 Seconds, MDC, Ribzy e Flipper, oltre ai Lennonburger, il gruppo di Jeff Bale, uno dei redattori fissi della futura fanzine.

Tanti altri però i nomi da citare che possono interessare per la nostra indagine, per un motivo o per un altro. Fra di essi, i Capitol Punishment, notevoli per un cantato talmente rauco da essere quasi in growl. Oppure i Crucifix, fra i primi gruppi americani a far proprio il verbo dei Discharge suonando un brutale d-beat, e che avevano al microfono Sothira, che anni prima era andato via con la famiglia dalla natia Cambogia per fuggire dalla folle dittatura di Pol Pot. O ancora i Demented Youth, a dir poco caotici e semi-inascoltabili anche per via di una produzione ignobile. Infine, i Juvenil Justice, distortissimi e cupissimi un po’ secondo l’emergente maniera scandinava.

Presente anche un buon assortimento di “gruppi antihardcore”[1] che alla durezza e alla velocità sfrenata preferivano sonorità più bradipiche e sperimentali perché si aveva già l’impressione che la scena si stesse omologando in band uguali in tutto. Ecco allora i dissonanti Fang, i sabbathiani NBJ[2], gli alienanti Church Police e, soprattutto, proprio i Flipper.

Decisamente fondamentali questi ultimi, visto che con il loro lento e ipnotico rumorismo avrebbero ispirato nientemeno che i Siege a scrivere un pezzo di questo tipo lungo ben 7 minuti. Ma anche i Cyanamid, assoluti maestri nell’alternare schegge furibonde con infiniti incubi pachidermici di straziante genialità.

Avevano schegge di ultravelocità, e non solo brani mignon (tipo “A”, della durata di 3 secondi e vera antesignana di “You Suffer” dei Napalm Death), anche i Negative Element, quartetto che veniva da Willow Springs, un sobborgo di Chicago, città che aveva una scena piuttosto operosa capeggiata dagli Effigies dello skin Matt Kezdy. E di questa scena, dominata da sonorità abbastanza melodiche, i Negative Element ne erano di sicuro gli esponenti più divertenti ma anche quelli più violenti, come testimonia il loro “Yes, We Have No Bananas!”, un EP pubblicato nel 1983 dalla locale Version Sound il cui titolo atroce (come anche la copertina) tradiva una certa attitudine disimpegnata. Per dire, questi osarono proporre testi sia su Pacman, il famoso videogioco giapponese uscito nel 1980, che su Elmer Fudd, l’acerrimo nemico di Bugs Bunny da noi conosciuto come Taddeo, alternati però ad altri più seri e usuali contro gli sbirri e la religione. Nonostante ciò, avevano roba sì grezza ma dinamica e, soprattutto, insolitamente supersonica come “Temples of Corruption”, “Police Beat (on Me)” e la mezza rockeggiante “No Way Out”, 3 degli 8 pezzi del disco, ognuno più o meno lungo un minuto. Tutto bello, peccato però che si sciolsero poco dopo la pubblicazione dell’EP, finendo perlomeno in bellezza la propria esistenza durata 3 anni con un’ultima data a Chicago, di supporto ai Minor Threat.

Non paghi di suonare nei Disgust, sia Pieter De Swart che Martin Van Kleef, rispettivamente il chitarrista e il batterista della band, portavano avanti anche un progetto collaterale chiamato Incest, con il quale eseguivano un thrash non solo più standard ma anche più variegato con tanto di accenni addirittura melodici, quindi meno intransigente rispetto a quello della loro formazione principale.

Al contrario, paurosamente molto più intransigenti erano gli Zwaar Klote, dove invece militava Danny dei Pandemonium, che in questo progetto spaccava la propria batteria a suon di sganassoni allucinanti elargiti veramente alla velocità della luce. Ascoltare per credere il loro split condiviso proprio con gli Incest e pubblicato nel 1984 con il titolo rassicurante di “RIP”. Fra l’altro, con il beneplacito della Limbabwe dello squatter Matski Aerts, quindi stampato ovviamente solo in formato cassetta. Entrambi i gruppi avevano però già dato il benservito a fine anno, come segnalato da Tim Yohannan nella relativa recensione uscita su Maximum RocknRoll #20, pubblicato a dicembre[3].

Chi ebbe l’(in)grato compito di aprire questa produzione? Esattamente, proprio gli Zwaar Klote, e così via subito con le mazzate! Solo che queste erano talmente violente ed estreme, e pure così vicine sia ai Lärm che a certa roba svedese alla Asocial, da avvicinarsi già terribilmente agli stilemi del grindcore che sarebbe nato di lì a qualche anno. Incredibili da questo punto di vista tutte e 4 le canzoni, con una menzione d’onore a “Mac Donalds”, una furiosa ma abbastanza dinamica invettiva contro il noto fast food americano dal riffing cupissimo e pieno di primordiali derive black/death metal degne dei primissimi Napalm Death. A completare tutto ciò dei testi gonfi d’odio abbaiati e urlati a pieni polmoni scagliati anche contro i fascisti, il nucleare e gli sbirri, dolcemente vilipendiati nella traccia d’apertura, “Pigs”, poi inserita pure in una compilation molto interessante sull'hardcore belga/olandese intitolata “Alle 55 Kort”.

Sotto l’ala protettiva della Mutha Records, nota label del New Jersey, si trovava un quartetto da Midland Park chiamato The Burnt, dalla vita piuttosto travagliata. Spuntarono infatti perfino nel 1979 con l’intenzione iniziale di seguire le orme di gruppi punk77 come Ramones, Dead Boys e Sham 69, anche se agli esordi, per convincere i gestori dei bar locali a ingaggiarli, dicevano loro di essere una band metal. Dopo poco la verità venne a galla ma fortuna che un bel giorno furono adocchiati proprio da Mark Chesley della Mutha. Così, grazie a lui pubblicarono prima, nel 1983, il caotico “M.P.E.P.” e poi, nel 1985, addirittura un album contenente 19 canzoni fresche di conio, tutte registrate nel seminterrato del bassista, e alcune delle quali incredibilmente violente: “Where’s My Head?”.

 Infatti, ad accogliere subito gli incauti ascoltatori, ecco “DWI”, un pezzo basato su uno schema lento/superveloce ai limiti del blast beat, con in mezzo delle particine horror con tanto di risate sadiche da parte del cantante. Più avanti però ecco una doppietta di schegge impazzite costituita sia dai 40 secondi di “Action Action”, vero fastcore dall’inizio alla fine molto incentrato sui cori, che, specialmente, dai 10 secondi di “Garbage Can”, praticamente una missilata grind definita da Steve Spinali su Maximum RocknRoll come “un mini-classico”[4]. E a fine scaletta ecco l’ossessiva “Who Says”, strutturalmente simile a “DWI” ma con un finale spietato come pochi. In breve, questi ragazzi suonavano un thrash talvolta veramente estremo capace però di offrire una certa varietà, regalando in tal modo perle come l’anthemica e divertente “Holiday in Guyana”, 4 minuti di un lento hard rock dai forti connotati blues anche negli assoli.

Da segnalare inoltre la seconda compilation sfornata dalla Smurf Punk Tapes, “24 Love Songs Part II”, uscita nel 1986 con una simpatica copertina ritraente un Adolf Hitler in versione sodomita mentre abusa di un povero maiale. Composta effettivamente da 24 canzoni, con in più 5 brevi poesie senza o con un minimo di musica in sottofondo curate dai sudafricani Paddy Vacant and the Acid Heads, nient’altro che alcuni dei Powerage, anch’essi presenti in scaletta, alle prese con la poesia militante. Oltre a loro però altre 12 band, fra cui i belgi A-Strant (che a fine anno cambiarono nome in Dawn of Liberty), piuttosto fantasiosi ma particolarmente veloci nella per certi versi strana “No Big Business”, fra l’altro delegata ad aprire la raccolta. E pure i sorprendentemente furiosi Chaos S.A., compatrioti dei Powerage, abbastanza dinamici eppure caotici anche grazie a una registrazione non proprio di loro aiuto.

A parte però pubblicare queste compilation, i ragazzi dello Smurf Punx si stavano facendo le ossa organizzando nello stesso anno vari concerti, 4 in totale, svoltisi fra Dendermonde e Aalst, dimostrando un respiro decisamente internazionale. Infatti, fra gli ospiti gruppi ovviamente olandesi come i Lärm e gli Indirekt ma anche i nordirlandesi Stalag 17, i tedeschi Ceresit e perfino i Toxic Reasons[5].



[1] Steven Blush – “American Punk Hardcore: una storia tribale”, pag. 59 (Shake Edizioni).

[2] Anche conosciuti come Nazi Bitch and the Jews, erano capitanati dalla povera Annelle Zingarelli, morta a soli 22 anni per overdose da eroina nell’ottobre 1983, assolutamente peculiare con le sue vocals salmodianti e crudeli al tempo stesso.

[3]   https://www.maximumrocknroll.com/review/mrr-20/r-i-p-split-cassette/.

[4] https://www.maximumrocknroll.com/review/mrr-28/wheres-my-head-lp/.

[5]   Per ottenere informazioni di prima mano su questi concerti e, in generale, sullo Smurf Punx, vi invito a visitare il sito sul collettivo gestito da uno dei suoi agitatori, Brob, in realtà solo più avanti fra le sue fila e allora militante negli effimeri Repulsives, fra l’altro inseriti in “24 Love Songs Part II”. Eccovi il link:

https://smurfpunx.wordpress.com.

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