giovedì 12 gennaio 2012

Rotorvator - "NeroEP" (2011)

Ep (Cosmesi & CSS Teatro Stabile d’Innovazione del FVG, 1 Novembre 2011)
Formazione (2006): sconosciuta

Provenienza: Belluno, Veneto

Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “4:51”, episodio che si conclude in una maniera assurda e completamente aperta, quasi come un incubo lovecraftiano.

Punto di forza dell’opera:
ho una preferenza particolare per la struttura dei pezzi, la quale li riesce a distinguere meravigliosamente ed in maniera tremendamente funzionale all’atmosfera stessa inquietante già dal punto di vista meramente musicale.

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Curiosità:

faccio presente che Merlo, il cantante, ha fondato, insieme ad XV, mente di una vecchia conoscenza di Timpani allo Spiedo, ossia il progetto di black sperimentale Rhuith, il gruppo di black puro The Plague Rides at Dawn, con il quale ha pubblicato, sotto War Command Distro, il demo omonimo del 2011.

I Rotorvator, gruppo visionario come pochi, non sbagliano un colpo, e con “NeroEP”, disco dal vivo registrato nel 2010 in quel di Santarcangelo in provincia di Rimini, in occasione del Festival Internazionale del Teatro in Piazza (probabilmente è per questo che il pubblico non lo si sente mai…). Il bello è che dal punto di vista musicale si trovano soltanto pezzi completamente inediti, che poi hanno la curiosa peculiarità di chiamarsi come la loro durata. Inoltre, la durata dei pezzi è stranamente un pochino più breve del solito, con la presenza di ben 2 pezzi che neanche raggiungono, se non di poco, i 4 minuti.

Ma la differenza forse più grande rispetto ai passati dischi è da identificarsi nella produzione più “umana” e decisamente meno assordante di quanto i Rotorvator ci abbiano mai abituato. Anche se, beninteso, è sempre bella sporca ma ho notato una chitarra paradossalmente meno intelligibile del solito… o forse ho scritto una semplice cazzata?

Quella a non cambiare mai è la qualità della proposta, proposta che però è molto differente da quella propinataci da “Nahum”, pur combinando sempre due generi musicali che vanno molto bene insieme, ossia il black metal e l’industrial. Tanto per fare qualche esempio, mancano del tutto quei passaggi, anche a mo’ di introduzione, completamente fuori di testa e mega – campionati, mentre di quelle che in passato ho chiamato come “pause rumoriste” non ve n’è più traccia. Insomma, i Rotorvator odiano fossilizzarsi, e giustamente sulle stesse soluzioni, sempre però nel rispetto di uno stile piuttosto originale e riconoscibile.

Tale “incapacità” di fossilizzazione si esplica specialmente nella struttura dei pezzi, i quali sono l’uno diversi dall’altro anche da questo punto di vista. Infatti, nell’ordine:

- “5:03” è il brano più isterico ed imprevedibile del lotto e che risulta tutto dominato dalle variazioni indicibili di una batteria elettronica che a volte sembra impazzita, con tanto di blast – beats;

- “3:47” è di tipo più sequenziale, e quindi appare più ordinata, pur avendo dalla sua parte una chitarra spesso tremendamente dissonante;

- “3:46” è invece è pura ipnosi, un viaggio inquietante in un abisso che a un certo punto è sempre uguale a sé stesso, contando infine la cassa della batteria che se ne va solitaria, come incantata, per concludere un pezzo infame;

- “4:51” è una degna conseguenza del pezzo precedente essendo una specie di rituale inconcepibile basato prima su una lenta ma non lineare sovrabbondanza di suoni e rumori, poi su un climax perennemente soffocato e schizzato.

L’ultimo episodio del disco effettivamente si allontana molto dalle direttive degli altri pezzi avendo una natura più atmosferica e super – anticonvenzionale (per quanto i Rotorvator lo siano già di suo) tanto da aver utilizzato perfino la voce pulita in modo molto evocativo. E con questa il raggio d’azione di Merlo si è allargato incredibilmente ancor di più!

Da menzionare inoltre l’ottimo uso della chitarra, che nonostante tutta la violenza, anche psicologica, di cui il gruppo è capace, riesce ad essere talvolta spaventosamente melodica, sparando magari delle melodie addirittura dolci (sì, dolci, avete letto bene!), pressoché inaspettate.

In parole povere, un altro colpo da maestro per questi 3 pazzi scatenati. Solo che ormai sarebbe meglio testarli sulla lunga distanza, ossia con un album vero e proprio, così da controllare se siano capaci di sparare tutta questa montagna di intensità attraverso un disco dal minutaggio più consistente. Anche per semplice curiosità, beninteso.

Voto: 87

Claustrofobia
Scaletta:
1 – 5:03/ 2 – 3:46/ 3 – 3:47/ 4 - 4:51

Sito:
http://rotorvatorblack.blogspot.com

domenica 8 gennaio 2012

Nocturnal Blood - "Devastated Graves - The Morbid Celebration" (2010)

Album (Hells Headbanger Records, 15 Ottobre 2010)
Formazione (2008): Ghastly Apparition, voce/chitarre/basso/batteria

Provenienza: Fontana, California (Stati Uniti)

Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “Ghouls Wrath”, autentico gioiello nero nel quale la fa da padrone un groove sfrenato che fa ballare il culo peggio che nella dance.

Punto di forza dell’opera:
sicuramente l’atmosfera spaventosa ricreata costantemente per tutto l’album, un’atmosfera aiutata paradossalmente anche dalla pochezza di soluzioni che quasi soffocano l’ascoltatore in un abisso infernale.

-------------------------------------------------------------------------------------------------26 minuti! Al nostro sono bastati soltanto 26 minuti per creare un delirio sonoro così semplice ed essenziale eppure intensissimo che fa paura già dalla produzione, che sicuramente qualcuno troverà un po’ discutibile facendo quindi il grave errore di decontestualizzarla in modo da renderla quasi come qualcosa di non voluto dal diretto interessato. Ma chi si intende di black/death a là Blasphemy è abituato a simili scempi, e quindi perchè pretendere per forza qualcos’altro?

Già, la produzione. Chissenefrega se la chitarra a volte è così incomprensibile da non gustarne bene bene ogni nota su stereo (ragion per cui consiglio a tutti di ascoltare l’album con le cuffie). E chissenefrega se la voce (di base un grugnito cupo e bestiale) è così effettato da rendere praticamente quasi confusionarie le varie linee vocali grazie ad un effetto d’eco abbastanza spinto. E va invece più che bene il suono “ignorante” e ultra – naturale della batteria, ma alcuni lo troverebbero troppo poco professionale. Come siano incontentabili, vero?

E’ più che altro vero osservare che Ghastly Apparition ha poca fantasia, magari per quanto riguarda gli accenti, a volte assolutamente perfetti, della batteria, protagonista di una scia quasi ininterrotta di deja – vù. Eppure, per quanto minimalista, il tutto funziona in maniera quasi inaspettata. E’ pur vero che la seconda parte dell’album risulta curiosamente più varia e coraggiosa, aspetto da prendere in buona considerazione nelle future produzioni. Infatti, nell’ordine:

- in "Chaos Mass" il nostro sperimenta a livello vocale, inventandosi fra l’altro delle linee vocali belle ritmate e superlative. Viene quindi sparata anche una voce particolarissima, una specie di “urlo sussurrato” che sembra uscito fuori sul serio da un fantasma;

- "Ritual Lust" si allontana un po’ dal massacro indiscriminato fatto specialmente di blast – beats (e talvolta a dire il vero di consistenti tempi al limite del funeral doom) concedendo incredibilmente più spazio ai tempi medi. Il fatto però che qua si ripeta in maniera identica alla canzone precedente quella bizzarra voce è un altro conto;

- In "Triumph of Impurity" invece, per esempio nell’introduzione, si prova con un tribalismo percussivo a mo’ di tom – tom molto in linea con l’atmosfera maledetta che si respira continuamente nel disco.

Oltre a questa canzone si distinguono un po’ "Impure Devotion", canzone che conosce dei cambi di tempo incredibili proprio perché fanno a cazzotti con l’immediatezza indicibile di Nocturnal Blood (tipo tupa – tupa/blast – beats/tempo medio – lento); e poi “Ghouls Wrath”, che è diventato da mesi uno dei miei pezzi preferiti in fatto di black/death, 4 minuti di delirio in cui si fa vivo il groove spezza ossa, anche su tempi veloci, di cui è capace Ghastly Apparition.

Inoltre, dato l’approccio piuttosto semplice e immediato della proposta, la chitarra solista è limitata soltanto agli assoli, i quali talvolta possono anche non esserci minimamente (e “Ghouls Wrath” è in tal senso un esempio lampante). Assoli che in linea con il genere sono di natura rumorista pur avendo al tempo stesso un’atmosfera che molti gruppi del genere neanche possiedono, visto che non poche volte una stessa nota viene dilatata. La cosa strana è che possono essere anche più lunghi del solito, ma soprattutto non si limitano ad esprimersi solo nei tempi più veloci.
Insomma, alla fine certe volontà di arricchire tutto l’insieme è presente, e soprattutto c’è, da parte del nostro, un’ottima capacità di diversificare abbastanza le proprie esperienze che più o meno gravitano intorno ad una forma bestiale di black/death (ricordo per esempio la sua vecchia militanza negli ormai sciolti Nuclear Desecration, ben più fantasiosi ma molto meno d’effetto). Peccato però che non sia un maestro nella costruzione dei momenti puramente ambientali (infatti l’album parte e finisce con questi), troppo silenziosi e poco inquietanti.

Voto: 78

Claustrofobia
Scaletta:

1 – Devastated Graves/ 2 – Death Calls/ 3 – Impure Devotion/ 4 – Ghouls Wrath/ 5 – Chaos Mass/ 6 - Ritual Lust/ 7 - Triumph of Impurity

venerdì 6 gennaio 2012

Witchrist - "Beheaded Ouroboros" (2010)

Album (Invictus Productions, 23 Agosto 2010)
Formazione (2008): Imprecator, voce;
Occultorture, chitarra;
Abomination, chitarra;
Atrociter, basso;
C. Sinclair

Provenienza: Auckland, Nuova Zelanda

Canzone migliore del disco:
“Deathbitch”, soprattutto perché ha un’atmosfera apocalittica da incubo.

Punto di forza dell’opera:
senz’ombra di dubbio l’equilibrio fra i tempi veloci e quelli più lenti in modo da rendere più atmosferica e meno istintiva tutta la proposta.

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Curiosità:




come si può leggere da Wikipedia l'uroboro è "un simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia, allo gnosticismo e all'ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell'eterno ritorno, e tutto quello che è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine. In alcune rappresentazioni il serpente è raffigurato mezzo bianco e mezzo nero, richiamando il simbolo dello Yin e Yang, che illustra la natura dualistica di tutte le cose e soprattutto che gli opposti non sono in conflitto tra loro".





Molti mesi orsono ho comprato, senza saperlo, i Witchrist. Cosa? Senza saperlo? Eh sì, e pensare che li cercavo pure, solo che io in quel dato momento ambivo ai Diocletian, di cui per una settimana intera possedevo ignaro soltanto la copertina del loro “Deathcult”. Infatti, ancora adesso mi chiedo come la Invictus sia riuscita a scambiare i due dischi, nonostante la grafica del cd di “Beheaded Ouroboros” non rimandi neanche minimamente a “Deathcult” (e viceversa). Ma il dado ormai è tratto, e in ogni caso tale recensione riguarda un capolavoro uscito fra l’altro dall’odierna scena black/death neozelandese. Ciò significa nientepopodimenno che qualità della proposta.

Il black/death dei Witchrist rifugge però dalla bestialità propria dei colleghi. A tal proposito, ascoltatevi "Sorcerer of Lighting", tour de force di ben 8 minuti, di cui i primi 5 sono un abisso di tempi lenti spesso ai limiti del funeral doom più funesto. Da ciò si può evincere un equilibrio fra i vari tempi mantenuto costantemente lungo tutto l’album, così da sciorinare volentieri un groove contagioso e a tratti spaventosamente battagliero. Ma non fatevi ingannare dalla durata di "Sorcerer of Lightning", visto che gli altri brani si aggirano fra i 3 e i 5 minuti (anche se pochi di essi vengono preceduti da introduzioni anche piuttosto atmosferiche, come quella quasi “indiana” di “Adoration of Black Messiah”).




La seconda caratteristica interessante deriva dall’utilizzo, comunque misurato, della chitarra solista. La quale si dimostra particolarmente ricca di soluzioni, soprattutto quando c’è da dare manforte alla ritmica, mentre negli assoli si rivela più monodimensionale (in parole povere, rumorismo a gonfie vele). Per quanto concerne la prima direzione, valgano gli esempi di "Shrine of Skulls" (dove sfoggia addirittura una bella e lenta melodia, caso rarissimo in questo tipo di gruppi) e di "Deathbitch" (nella quale assume toni paurosamente desolanti, aiutati anche dalle frequenze ora piuttosto basse ed atmosferiche della solista), sperimentando fra l’altro pure a livello d’effetti (come nell’assolo “incontrollato” del finale di "Judgement and Torment"). Inoltre, bisogna dire che i nostri hanno la curiosa tendenza a rendere piuttosto lunghi gli assoli, allungandoli forse un po’ troppo data la loro natura rumorista e ripetitiva.

Altra (piccola) nota negativa concerne il comparto vocale, che risulta essere un’alternanza distruttiva fra un grugnito cupo e bassissimo e un urlo tipico del genere. Queste due voci riescono a trasmettere una bella inquietudine sparando delle linee vocali piuttosto lente (mai però come negli angoscianti Vasaeleth!). Solo che tale lentezza a volte si trasforma in lunghi silenzi, interessando così, per esempio, il gran finale rappresentato da "Judgment and Torment", i cui ultimi momenti lasciano un po’ l’amaro in bocca a dispetto di 2 assoli quasi attaccati fra di loro con conseguente imbastardimento finale. Eppure mi sono sempre chiesto come sarebbe uscito fuori il finale se si fosse usata per l’appunto la voce.


In compenso, la produzione risulta ottima, cioè sporca ma decisamente più comprensibile della media, anche se lontanissima dall’essere “ignorante” come quella di “Ancient Insignias” dei mitici Blasphemous Noise Torment. Bisogna dire comunque che i Witchrist fanno talvolta uso di campionamenti, uno fra i quali le classiche campane a morto.

Voto: 85

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sorcerer of Lightning/ 2 – Devour the Flesh/ 3 – Temple of War/ 4 – Adoration of Black Messiah/ 5 – The Cauldron/ 6 – Shrine of Skulls/ 7 – Deathbitch/ 8 – Judgement and Torment


FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Witchrist/100601926657647

lunedì 2 gennaio 2012

Dr. Gore - "Rotting Remnants" (2012)

Album autoprodotto (1 Gennaio 2012)
Formazione (2002): Alessio “Pacio” Pacifici, voce/basso;
Marco Acorte, chitarra/voce aggiuntiva;
Luigi Longo, chitarra;
Massimo “Mastino” Romano, batteria.

Provenienza: Roma, Lazio.
Canzone migliore dell’opera:sicuramente “Night of the Living Dead”, che offre spunti interessantissimi per il futuro del gruppo.

Punto di forza del disco:
senz’ombra di dubbio l’abilità sopraffina di variare l’assalto rimanendo però (quasi) sempre negli angusti confini del brutal/grind.

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Nota:


i Dr. Gore stanno cercando disperatamente un'etichetta discografica. Quindi, chi è interessato contatti il gruppo attraverso la mail:


band@drgore.net


Era veramente da tempo che aspettavo il secondo album di questo branco di pazzi, che 3 anni fa diedero alla luce il proprio esordio “Rigore Mortis” (recensito in queste stesse pagine), compendio anfetaminico di 6 pezzi assolutamente promettente ma che aveva l’unico difetto di essere troppo breve per essere uscito da un gruppo nato addirittura nel 2002 (durava poco più di un quarto d'ora nonostante fosse fra l'altro classificato come un album...). Anche se, in fin dei conti, è da preferire tale poca prolificità, visto che così facendo l’ispirazione non si trova soffocata dall’operare in tempi ristretti, i quali spesso e volentieri si rivelano controproducenti.

Effettivamente l’ispirazione è qui veramente alle stelle, e la cosa incredibile è che i nostri sono riusciti nel difficile compito di brutalizzare ancor di più una proposta già pesantissima di suo. Infatti, tra blast – beats angoscianti e tupa – tupa battaglieri a là Slaughter vi è pochissimo spazio per i tempi più lenti, che guardacaso quando si fanno vivi sono sempre benvoluti, soprattutto perché qualitativamente fanno a dir poco paura.

Una qualità che si sposa con una semplicità ed immediatezza che colpiscono come un vero e proprio treno in corsa (ascoltatevi “Slaughterhouse” per crederci). Ciò anche perché nei Dr. Gore, nonostante ci siano due asce, non c’è nemmeno la traccia più misera della chitarra solista. Ma anche perché molti pezzi presentano una struttura ossessiva e paranoica da incubo. Il bello è che quando i nostri cercano di dinamicizzare il proprio discorso, ci riescono perfettamente (“Night of the Living Dead”, ultra – isterica e contenente addirittura interessanti parti thrasheggianti), sapendosi quindi re – interpretare senza problemi.

Quest’ultima è in effetti la caratteristica più importante che il gruppo si ritrova, dato che gli permette di arricchire il proprio brutal/grind spietatissimo di una ricchezza di soluzioni esorbitante, praticamente a livello totale. Per esempio:

1) le linee vocali da tal punto di vista sono incredibili, la cui riuscita è aiutata anche dall’uso delle due voci (per quanto le urla spaventose di Marco siano diventate più essenziali e meno protagoniste…), con Alessio abile a variare ottimamente fra grugniti (specialmente) ultra – cavernosi e “lamenti” maialeschi;

2) la batteria, di cui non ho comunque molto apprezzato il suono del rullante, un po’ finto e troppo in linea con le tipiche produzioni brutal di oggigiorno, riesce a potenziare tutto l’insieme tramite degli accenti superlativi, anche sparando blast – beats a singhiozzo (“Butchered”).

In generale vi è però una cooperazione tra i singoli assolutamente fantastica (anche se la pecora nera rimane il basso), non dimenticando nemmeno di sperimentare, ma con misura, a livello di produzione, così da sfoggiare magari qualche eco che dal punto di vista strategico – tattico risulta strabiliante per un gruppo bestiale come i Dr. Gore.
A tutto ciò si aggiunga la tendenza (per i nostri quasi una novità) di introdurre i vari brani attraverso degli spezzoni solitamente (e naturalmente) horror; idealmente la divisione dell’album in 2 parti. “Idealmente” perché la prima non ha nome, e perciò rappresenta la parte “normale” del disco, mentre la seconda si chiama “Corpse Trilogy” ed interessa gli ultimi 3 pezzi (c'è da osservare che questi, rispetto agli altri episodi, sono curiosamente più vari per quanto concerne i tempi presi). Bisogna notare che, sebbene le due parti siano state registrate in studi differenti, la produzione non è che cambi poi così tanto, anzi, a dir la verità in quasi quasi niente; infine, il suono ultra – puzzolente e letteralmente affilato che si ritrovano le chitarre.

Voto: 93

Claustrofobia

Scaletta:
1 – Maggots Under Skin/ 2 – Tools of Torture/ 3 – Gore Surgery/ 4 – G.O.M.B. (Gore Obsession of Mutilated Bodies)/ 5 – Spermatozombie/ 6 – Goreland/ 7 – Slaughterhouse/ 8 – Night of the Living Dead/ 9 – Butchered/ 10 – Autopsy/ 11 Reborn

MySpace:
http://www.myspace/thegoredoctor

FaceBook:
http://www.facebook.com/doctorgore

Sito ufficiale (non proprio utilissimo ma pazienza):
http://www.drgore.net/

martedì 27 dicembre 2011

Blasphemous Noise Torment - "Ancient Insignias" (2011)

Album (Supremacy Through Intolerance, 31 Gennaio 2011)
Formazione (2002): Titanic Furor of the Inexorable March, voce/basso;
Black Pestilence of Mass Destruction, chitarre/voce aggiuntiva;
Murmur, batteria.

Provenienza: Belluno, Veneto

Canzone migliore del disco:
“Cult of Death”, sia perchè presenta alcuni dei passaggi più grintosi di tutto il lotto, sia perchè ha una lunga parte doom da brividi, fra l’altro perfettamente giostrata anche da un notevole siparietto di batteria.

Punto di forza dell’opera:
sicuramente la ricchezza di soluzioni che il gruppo si ritrova, cosa che gli permette di differenziarsi già moltissimo da formazioni simili.

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In questi ultimi giorni mi sono così “intrippato” con questo bestiale terzetto da cercare invano di quantificare la rabbia e l’odio profusi in quest’album, la cui lunga attesa ha forse contribuito ad aumentare a dismisura questi due fattori, dopo più o meno 9 anni di demo, split e fuffa varia. C’entra anche il fatto che il gruppo sia rimasto fermo causa temporaneo scioglimento di 4 anni, ossia dal 2004 al 2008? In ogni caso, è un evento, anche perché di gruppi del genere ce ne sono purtroppo veramente pochi, qui nella cara Italia, beninteso.

Perché? I Blasphemous Noise Torment che suonano? Uno dei miei sottogeneri preferiti, che solitamente si risolve in un massacro senza scampo: il black/death metal guerrafondaio tanto diffuso in Oceania. Più che altro il vero problema è il come ed è per qui che i nostri si dimostrano di saperci immensamente fare. “Immensamente” anche perché, rispetto alle passate produzioni, hanno preferito allungare pericolosamente la durata media dei pezzi, magari con punte da 7 minuti (“Primitive Blood”), riuscendo allo stesso tempo a non stancare l’ascoltatore per mezzo soprattutto di sorprese di ogni tipo sempre puntuali come un orologio svizzero.

‘Sti 3 pazzi hanno infatti la capacità non comune di sapersi re – interpretare in vari modi, magari rendendo un pochino più complicata una struttura che comunque è più o meno di tipo sequenziale e che, proprio per questo, in alcune (rare) occasioni, difetta di troppa meccanicità e prolissità. Tale “camaleontismo” (termine ad ogni modo da prendere con le pinze) lo conferma pure “Awaiting Below”, il pezzo meno convincente del lotto, imbottito com’è di stacchi e pause che rendono semplicistico e troppo controllato tutto il discorso. Ma questa è una nota negativa subito sradicata con assoluta maestria da “Cult of Death” in poi.

Altra caratteristica particolare viene dalle frequenti e angoscianti parti doom che scalzano per un po’ il predominio blasteggiante, il quale permette lo stesso a Murmur di intessere un discorso ritmico imprevedibile (ma sempre bello lineare) abile ad enfatizzare a più non posso tutto l’insieme, attraverso delle variazioni a dir poco gustose. Tale alternanza di tempi molto diversi fra loro permette di metabolizzare meglio l’assalto, magari snocciolando contagiose parti groovy che gente come Conqueror o Bestial Warlust neanche si sognavano (forse perché non le volevano?).

E qui si allarga ancora di più lo spettro d’azione per il tramite di passaggi thrash, i quali alle volte vengono perfettamente integrati con le sonorità più black/death, se non addirittura di ritmiche più heavy metal ("Primitive Blood”, l’unico brano, a tratti rockeggiante, quasi esclusivamente improntato sui tempi più lenti, che però conta un finale in dissolvenza glaciale, ipnotico e tutto in blast – beats). Curioso notare come le parti thrash metal si presentino da “Invert the Moral of the Weak” in poi.

Alle volte sono curiosi anche gli assoli che Black Pestilence of Mass Destruction sputa con il contagocce. “Curiosi” perché in loro può essere presente qualche tocco melodico che quasi fa a cazzotti con il rumorismo da stupro a cui essi sono solitamente sottoposti, come insomma il genere comanda. Vi è però un piccolo appunto inerente il finale di “Awaiting Below”, dove si fanno vive addirittura 2 chitarre soliste, cosa un po’ artificiosa e ingiustificata anche dalla natura profondamente collettiva del gruppo.

Ma se si parla della voce, “Ancient Insignias” diviene un capolavoro come pochi. Infatti, Titanic Furor of the Inexorable March ha una delle voci più espressive che ho mai sentito, essendo capace di sputare di base un grugnito fiero e battagliero che viene supportato:

1) da un effetto d’eco con il quale (per esempio in “Superion War Assault”) si plagiano nientepopodimeno che i Von;

2) dal compagno alla chitarra, autore di una specie di urlo “scatarrato”, in parole povere agghiacciante.

Se poi si aggiungono delle linee vocali spesso strabilianti (da menzionare soprattutto quelle dell’ossessiva “Winds of Apocalyptic Fire”), il quadro diventa completo, e così, contando anche una produzione sporca e “viva” in tutto, tutti gli altri black/deathettoni divengono dei semplici, pulitini mestieranti…

Oddio, i Blasphemophager avrebbero forse qualcuno da ridire a quest’ultima affermazione.

Voto: 91

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Ancient Insignias/ 2 – Awaiting Below/ 3 – Cult of Death/ 4 – Spartan Justice/ 5 – Invert the Moral of the Weak/ 6 – Superion War Assault/ 7 – Winds of Apocalyptic Fire/ 8 – Primitive Blood

MySpace:
http://www.myspace.com/warhorde

lunedì 19 dicembre 2011

Lilyum - "Nothing Is Mine" (2011)

Album (Dusktone, 1 Novembre 2011)

Formazione (2002):
Xes, voce;
Kosmos Reversum, chitarre/basso/batteria elettronica.

Provenienza: Torino/Potenza, Piemonte/Basilicata.

Canzone migliore del disco:
“Into the Fire”, per motivi che verranno esplicati esaustivamente nel corpo della recensione.

Punto di forza dell’opera:
sicuramente la struttura – tipo dei pezzi, anche se bisogna ancora affinarla meglio.

-------------------------------------------------------------------------------------------------Kosmos Reversum me l’ha fatto immaginare come qualcosa di molto diverso dalle produzioni precedenti, ma a dir la verità con quest’album si segna un ritorno, a parte certe differenze (la maggior parte non molto rilevanti), alle sonorità di “Fear Tension Cold”, prendendo però allo stesso tempo in considerazione certo riffing di “Crawling in the Past”. Devo dire che tale regressione non è stata esattamente rose e fuori, soprattutto a partire dal rapporto intercorrente fra la voce e gli altri aspetti dell’esperienza.

La voce, appunto. Xes è un ottimo cantante, su questo non ci piove, e qui e là è anche un maestro nella costruzione delle linee vocali. Però in fase di produzione ha voluto sperimentare un po’ troppo, visto che ha innestato nel cantato un effetto “da ovatta”, e così ne è uscito fuori qualcosa di inespressivo e troppo controllato. Inoltre, il nostro non funziona in pezzi statici come “Fides Belialus” (che dal punto di vista ritmico è spaventosamente uguale a sé stesso) i quali invece sarebbero usciti forse meglio con l’istrionismo assurdista di Lord J.H. Psycho, cantante abilissimo a rendere malato e dinamico un black metal minimalista come quello dei Lilyum.

La musica in generale mal si sposa con l’effetto sulla voce, più che altro perché la struttura dei pezzi è già controllata di suo. Ma in tal caso, si nota un netto miglioramento nella seconda parte dell’opera, dove finalmente si fa vivo un approccio strutturale meno convenzionale per i nostri, cioè (un poco) più libero e meno vincolante e meccanico.

La metodologia strutturale per l’appunto risulta essere la caratteristica più interessante dell’intera proposta, anche per delle variazioni quasi impercettibili, per esempio sulla cassa (“Altar of Darkness”, pezzo in ogni caso tipico dei Lilyum). Consiglio infatti di lavorare ancora di più su tale aspetto, anche per interpretare in maniera diversa uno schema ormai consolidato. Il quale sorregge un discorso tremendamente fluido, privo del tutto di qualsiasi tipo di stacco, ragion per cui gli unici momenti di respiro sono e rimangono delle semplici pause.

L’altra mezza novità è rappresentata dal ritorno alla batteria elettronica, cosa per me incomprensibile visto l’ottimo lavoro di Frozen in “Crawling in the Past”, capace di evolvere un discorso ritmico altrimenti troppo limitato, ripetitivo oltreché spesso non molto brillante nel collegare sufficientemente bene i vari passaggi. In compenso, rispetto a “Fear Tension Cold”, la batteria è stata finalmente messa bene in evidenza, e si nota inoltre la preponderanza dei tempi veloci su quelli più lenti, cosa che fa del nuovo album un’opera più black metal e meno intrisa di influssi rock’n’roll.

L’utilizzo (ma sempre molto misurato) del basso, ereditato da “Crawling in the Past”, nella costruzione dei vari motivi è stato per fortuna mantenuto, aggiungendo quel tocco in più ad un discorso sostanzialmente ultra – collettivo che non offre molto sorprese.
Insomma, nel complesso non è che poi le cose siano tanto cambiate, in prima linea il riffing e la sua impostazione ossessiva, e nel quale qui e là si fanno sentire dei fastidiosi deja – vù, pur mostrando interessanti svisate addirittura melodiche durante i momenti iniziali di “My Darkened Path”; in secondo luogo, l’uso tutto particolare della chitarra solista, quasi totalmente asservita alla sua compagna ma capace comunque di prove più sui generis, come in “Into the Fire”, in cui si fa portavoce di melodie quasi dolci e soprattutto dal lavorìo più dinamico del solito.

In parole povere, “Nothing Is Mine” è da considerare come un album transitorio, forse pubblicato troppo di fretta e che deve fare a cazzotti con le due grandi prestazioni offerte in “Fear Tension Cold” (che riusciva a essere grintoso nonostante la sua estrema meccanicità) e in “Crawling in the Past” (capolavoro di assoluta ispirazione e inventiva). Transitorio anche perché vi sono accennate certe caratteristiche ancora da sviluppare debitamente (come le intuizioni strutturali), e che si spera vengano tenute in buona considerazione in futuro.

Dai che anche i Maestri hanno periodi di stanca, e quindi, come diceva Carlo Verdone in “Un Sacco Bello”: “Abbi fede”!

Voto: 62

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Intro – Nothing Is Mine/ 2 – Altar of Darkness/ 3 – Fides Belialus/ 4 – Slave of Hate/ 5 – Hic Fuit Locus Traitor/ 6 – Into the Fire/ 7 – The Eternal Embrace of Dark Dream/ 8 – I Am the Black Plague/ 9 – My Darkened Path

MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum

FaceBook:
http://www.facebook.com/lilyumofficial1?sk=app_2405167945