sabato 21 gennaio 2012

Crowned in Thorns - "Plague/Oblivion" (2010)

Demo autoprodotto (3 Agosto 2010)
Formazione:
WLKN, voce;
Saahve, chitarre (sostituito poi da Herr 413, ma nel MySpace non figura…);
Alessandro, basso (andatosene dopo anche lui);
Mark, batteria.

Provenienza: Cagliari, Sardegna.

Canzone migliore del demo:
senz’ombra di dubbio la delirante “My Own Redeemer”. Per il perché leggete attentamente la recensione.

Punto di forza del gruppo:
la batteria, che nonostante i blast – beats a go – go non perde mai né il controllo né l’inventiva.

-------------------------------------------------------------------------------------------------Curiosità:
il gruppo ha reso disponibile da scaricare su MegaUpload il primo e finora unico demo. Il link lo trovate proprio sul MySpace dei Crowned in Thorns. Però mi raccomando: visto che loro sono stati corretti dando la possibilità a tutti di scaricarlo, mi sembra ovvio che nel caso vi piaccia siete moralmente obbligati a comprare direttamente il disco.

Ancora Sardegna, ancora black metal, anche se declinato stavolta, rispetto agli Hieros Gamos, in versione decisamente più tradizionalista ma allo stesso tempo pure più qualitativa. Oddio, delle sorprese belle inaspettate i Crowned in Thorns le presentano, e fra l’altro confermano ancora una volta il “trend” attuale di Timpani allo Spiedo rappresentato dai gruppi black/death metal, pur essendo stavolta lontanissimi da gruppi “ignoranti” e a là Blasphemy come i Blasphemous Noise Torment, Nocturnal Blood e Witchrist.

Ciò anche perché, rispetto a questi gruppi, i Crowned in Thorns possiedono sul serio nelle proprie vene il black metal, grazie per esempio ad un riffing non poche volte imponente e glaciale così da trasmettere tutto un altro tipo di atmosfera. Altra notevole differenza è l’assenza pressoché totale dei rumorismi offerti dagli assoli di chitarra, la quale non si concede neanche qualche sovrapposizione di riff, se non leggerissimamente. In pratica, abbiamo a che fare con una specie di black metal svedese tremendamente blasteggiante con frequenti concessioni al death metal se non, seppur vagamente, al thrash metal (come in “My Own Redeemer”).

Il death metal lo si sente però molto anche nel comparto vocale, dato che tra urla assatanate vi si trovano vari tipi di grugniti, fra cui uno cupissimo che ad ogni modo viene utilizzato soltanto come sovraincisione.

Ciò che però mi ha più impressionato è la batteria, dato che Mark presenta uno stile bello dinamico e sempre puntuali negli accenti utili ad enfatizzare tutto l’insieme. E lo fa quasi sempre tramite blast – beats sempre freschi, concedendo però qualcosina anche a magnifici tupa – tupa mai fuori luogo. Fra l’altro, un plauso va al suono molto naturale della batteria, cosa che si percepisce in particolare nei rari tempi lenti dove per esempio “l’ignoranza” del rullante predomina su tutto.

La dinamicità della batteria si riflette però anche nella musica intesa nel suo insieme. Infatti, oltre ad offrire una struttura dei pezzi per niente semplice e/o banale (per esempio, “I Deny” è fondato sulle ripartenze mentre “Generator of Dead Humans” scorre fluido come un treno in corsa), i vari episodi si sviluppano in maniera molto fantasiosa distinguendosi così notevolmente fino al gran finale di “Thornscrowned”, dalle tinte addirittura epiche e da alcuni passaggi perfino arpeggiati.

Ma in tutto il lotto si distingue specialmente il pezzo “My Own Redeemer”, che praticamente raggiunge altezze praticamente folli per un gruppo del genere visto che conta le seguenti caratteristiche:

1) la sua struttura è totalmente libera e rinforzata fra l’altro da ripartenze da capogiro;

2) vi è per la prima ed unica volta un passaggio doom nel vero senso della parola e non relegato ad essere una semplice comparsa;

3) nel lungo momento doom è presente come voce aggiuntiva un “alieno” cantato pulito freddissimo;

4) lo stesso passaggio viene chiuso splendidamente da una linea di basso inaspettata.

In parole povere, “My Own Redeemer” è una specie di esperimento che per le future produzioni del gruppo dovrebbe essere preso in seria considerazione dato che, oltre ad essere ben riuscito, offre anche spunti molto ma molto originali. Sarebbe quindi veramente un peccato non proseguire su questa strada. Il merito poi è nettamente più grande se si pensa che esso è l'unico pezzo a raggiungere e superare di una cinquantina di secondi i 4 minuti.

Per chiudere il cerchio, tocca parlare della produzione, che risulta essere piuttosto pulita e compatta, quindi molto lontana dalle tipiche produzioni che passano da queste parti. Inoltre, il gruppo gioca, anche se con la giusta misura, con l’effettistica, e da questo punto di vista ascoltatevi il finale di “Thornscrowned”.

Voto: 85

Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Deny/ 2 – Generator of Dead Humans/ 3 – My Own Redeemer/ 4 – Thornscrowned

MySpace:
http://www.myspace.com/crownedinthorns

FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/CROWNED-IN-THORNS/193209594089422

martedì 17 gennaio 2012

Hieros Gamos - "Bionic Era of Psychosis" (2011)

Demo autoprodotto (2011)
Formazione (2005): Marco Proietti, voce;
Roberto Moro, chitarra/basso/batteria elettronica/tastiere.
Marco Brivio, chitarra solista.

Provenienza: Ittiri/Lecco/Roma, Sardegna/Piemonte/Lazio.

Canzone migliore del demo:
sicuramente quella omonima, soprattutto perché dal punto di vista solistico è praticamente stupenda oltreché costruita molto bene strutturalmente parlando.

Punto di forza del disco:
la chitarra solista, che aggiunge tutto un altro tipo di atmosfera al progetto, riuscendo lo stesso ad essere tremendamente azzeccato.

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Molto è cambiato negli Hieros Gamos, una delle esperienze estreme più controverse ed originali degli ultimi anni, sia all’estero che in Italia. Prima di tutto, Roberto Moro ha reclutato nel suo progetto ben 3 nuove persone, comprendendo fra queste anche Bloody Hansen, altra conoscenza di Timpani allo Spiedo (visto che è la mente che sta dietro alle litanie horror di The Providence il cui ultimo disco è stato recensito su queste stesse pagine), che ha collaborato alla stesura dei testi, che devono molto a “1984” di George Orwell. Ma è anche vero che, paradossalmente, pure con tale nuova formazione si sono riproposti ancora una volta i limiti, quasi storici, di Hieros Gamos.

Limiti che sono da rintracciare ancora una volta sia nella voce che nella batteria elettronica, e ciò perché:

1) nonostante il comparto vocale sia stato passato ad un altro, esso non incide mai come invece dovrebbe essere, visto che il grugnito grosso del mio conterraneo Marco Proietti non è soltanto monotono ma anche ripetitivo nelle linee vocali, che spesso sembrano andare in disaccordo con l’intera musica (cosa questa che però non succedeva con le urla spettrali di Roberto). Ciò significa in parole povere che il nostro manca di sufficiente espressività per dare manforte ai compagni;

2) la batteria elettronica invece ha un suono purtroppo molto plastico e finto, più che altro per quanto concerne il rullante e i tom – tom, smorzando così un po’ la buona intensità presente nel comparto chitarre e nella costruzione (la quale però difetta un po’ nelle ripartenze, e ciò è una conseguenza talvolta ingigantita rispetto alle passate produzioni, delle mancanze menzionate) stessa dei pezzi. E’ anche vero che Roberto ha programmato stavolta la batteria in modo piuttosto fantasioso e molto convincente, magari sfoggiando inaspettati passaggi groovy.

Com’è inaspettato il fatto che i 4 pezzi del disco, annunciato nell’intervista a Hieros Gamos del 2° numero di Timpani, siano quasi degli inediti veri e propri, nonostante i proclami del passato, con qualche reminiscenza proveniente dal passato, specialmente per quanto riguarda “Bionic Era of Psychosis”. In pratica sono stati giustamente attualizzati secondo il diverso momento storico e secondo ovviamente i nuovi membri in formazione (di cui riconoscibilissimo è Marco Brivio). Ma quello che più incuriosisce di più è la durata spesso incredibilmente dimezzata dei vari brani, che ora vanno addirittura dai 2 (e dico 2!) ai 5 minuti, e devo dire che tale pesante razionalizzazione è stata davvero intelligente, più che altro perché si è così permesso ai nostri di racchiudere tutta l’intensità della musica in maniera, per così dire, più semplice. Se pensiamo infatti alla difficoltà estrema di digerire specialmente l’assurdo “The Sound of Doom” questo traguardo non può che essere benvoluto.

Traguardo che viene ulteriormente facilitato dagli assoli fantasiosi di Marco Brivio che naturalmente, rispetto ai suoi Bahal nei quali scarica tutta la sua verve virtuosistica, si è limitato nella durata (e nel numero) degli stessi. Com’è anche vero che non si è limitato nella costruzione di melodie che riescono a intessere un discorso ultra – emotivo da far accapponare la pelle tanto da essersi permesso di incidere ben due chitarre soliste in “Three Days to Dawn”. L’unico rammarico (molto relativo) è che non ci sono più gli assoli arabeggianti con cui Roberto si è fatto conoscere, ma perlomeno i nuovi riescono a risolvere con più facilità i pezzi.

Per il resto, la musica è rimasta quasi la stessa, ossia viene sfoggiato un discorso nervoso da infarto con un sacco di cambi di tempo, riffing tremendamente complesso che però è divenuto ancora più spaventoso per via di dissonanze spaventose non disdegnando allo stesso tempo un po’ di melodie, influenze arabe nello stesso riffing (che fra l’altro ha aggiunto qualche vago tocco thrasheggiante) e tanta, tanta, tanta pazienza nell’ascolto.

Oddio, tanta pazienza non con l’ultimo pezzo, che poi, quasi per provocazione, sarebbe la cover, semplificata anche perché più breve rispetto all’originale, di “Gut Feeling” dei magnifici Devo, ottimo gruppo che dal geniale punk sperimentale delle origini è passato ad un più convenzionale pop rock. Solo che bella l’intenzione ma la cover è troppo fedele all’originale (blast – beats – un po’ piatti – esclusi per esempio), e quindi troppo poco Hieros Gamos. Chissà insomma come sarebbe uscito se avessero rispettato anche sé stessi. Ecco perché “tanta pazienza non con l’ultimo pezzo”.

Infine, anche la produzione risulta molto diversa da quella degli altri dischi, con un suono cioè più pieno e meno cupo, e con una batteria elettronica finalmente più comprensibile.

Voto: 69

Claustrofobia

Scaletta:
1 – Your Mind Was Elsewhere/ 2 – Two Minutes of Hate/ 3 – Bionic Era of Psychosis/ 4 – Three Days to Dawn/ 5 – Gut Feeling (Devo cover)

MySpace:
www.myspace.com/hierosgamositalia

Sito ufficiale:
www.hierosgamos.sardegna@gmail.com

domenica 15 gennaio 2012

Detestor - "In the Circle of Time" (1995)

Album (1995, Dracma Records)

Formazione (1986):
Jaiko, voce/tastiere;
Paola, chitarra;
Niki, chitarra;
Ale, basso/voce aggiuntiva;
Rigel, batteria.

Provenienza: Genova, Liguria.

Canzone migliore dell’opera:
senz’ombra di dubbio “Neurocircuit”, ossia l’episodio più lungo del lotto essendo di circa 5 minuti e mezzo, il quale conta alcune delle più belle melodie dell’album, in tal caso epiche come poche.

Punto di forza del disco:
la drammaticità che i Detestor si ritrovano, aiutata da una costruzione dei pezzi nervosa e quasi istintiva, e da un bagaglio melodico decisamente sofferto.

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Questo disco, questa reliquia di metal italico – pensate un po’ – qualche giorno fa ha passato un viaggio da incubo purissimo. In parole povere, appena finito di ascoltarlo, ovviamente prendo il cd per riporlo nell’apposita custodia. Ma invece di farlo… mi sfugge di mano. Naturalmente mi chino per riprendermelo… per scivolarmi ancora di mano così da infilarsi proprio sotto il mobile su cui c’è un casino di cose, in primis il televisore, il lettore dvd e fuffa varia. Il panico mi ha preso, mi ha preso perché ho profanato senza volerlo un cd prezioso, un cd d’oro, un cd comprato in offerta al mio negozio di fiducia, Star Music, sporcandolo della maledetta polvere! Ho così cercato di riprendermelo, prima con le mani (quando ancora sbucava, anche se leggerissimamente, dal mobile), poi con un intero servizio di coltelli e…. dopo è arrivata mia madre che, meglio di Superman, l’ha scovato per rifargli vedere la luce! Che storia toccante, nevvero?

La storia è toccante anche perché i Detestor, dopo una decina d’anni, si sono da poco riformati così da pubblicare qualche mese fa l’album del ritorno, “Fulgor”. In pratica, colgo l’occasione per omaggiare un gruppo geniale che si meritava di più e che si è fatto coraggiosamente vivo in uno dei periodi più bui per il death metal, soppiantato com’era a quel tempo dal cugino malfatto del black metal.

Infatti, i Detestor di “In the Circle of Time” suonano un death metal piuttosto sui generis e difficile da digerire, anche perché i pezzi dell’album sono addirittura 13. Quindi, consiglio fin da subito di ascoltare il disco, per meglio comprenderlo, a mano a mano, non tutto intero in una sola botta. Pezzi anche molto vari per impostazione, dato che vi si trovano in maniera intelligente e perfettamente funzionale alla lunghezza dell’album, perfino delle strumentali, cioè “Death Inside” e “Silence”, vere e proprie finezze.

La prima caratteristica che balza all’occhio del gruppo è l’uso pressoché continuo della melodia, che spesso e volentieri fa assumere all’intera musica un taglio drammatico veramente notevole per intensità e costruzione e a cui prende parte, in non poche occasioni, anche il basso, strumento che solitamente nel death metal non possiede (ingiustamente) tutta questa importanza. E’ di importanza vitale nell’intero discorso anche la chitarra solista, in grado di dare spesso manforte alla ritmica. Fate conto però che, nonostante tutte queste belle parole, il gruppo quando vuole pestare, pesta veramente di brutto, blast – beats compresi.

Di conseguenza, la tecnica si rivela fondamentale per i Detestor, per esempio sia nell’uso di ritmiche che di certo non si sentono tutti i giorni, sia nell’utilizzo, comunque misurato, degli assoli, abbastanza lunghetti e solitamente opera di Paola, pur se di poco. L’unico strumento in cui non vi si presentano tutte queste doti tecniche è la tastiera (la quale si presenta solo in poche momenti, beninteso), minimalista ma non troppo quanto basta per offrire un’atmosfera che a tratti ha quasi del romantico.

Tecnica che però si riflette nella struttura – tipo adottata, che rifugge in ogni modo dal proporre soluzioni semplici e che amplifica ulteriormente la drammaticità propinata dai Detestor. Loro in pratica fanno uso di sequenze spesso lunghe e con un’infinità di cambi di tempo puntuali come un orologio svizzero. Anche se talvolta, in questa babele nella quale il concetto di invenzione pura viene rispettato appieno, i Detestor possono non concedere il giusto spazio di approfondimento a qualche passaggio, ma ciò è fisiologico per un gruppo del genere.

Caratteristica più standard è l’alternanza tra un grugnito grosso (la voce principale) ma ben portato ad efficaci variazioni tonali, ed un urlo scartavetrato. Alternanza che permette dei giochi vocali ben giostrati e che concede perfino qualcosina alla voce pulita, quasi sempre narrante (quindi non aspettatevi voci melodiche) e mai invasiva. Semmai, se questa fosse più espressiva non sarebbe affatto male…. In ogni caso, un plauso va ai testi, che trattano tematiche serie e concrete (tanto per fare un esempio, vengono mandati affanculo i politici), che arrivano a tributare esplicitamente il punk!

Decisamente meno comune è la produzione, più che altro perché i Detestor amano usare gli effetti, così da manipolare, ma con la giust misura, molti strumenti, tra cui la voce. Questa cosa di utilizzarli mi è sembrata sempre una cosa molto artificiosa e poco coerente con gli spettacoli dal vivo (dato che di fatto solo pochi gruppi li riproducono sul serio), ma pazienza. Per il resto, è una produzione sporchetta e con il basso bene in evidenza, ma con qualche problemino sulla batteria, più che altro sul rullante, dato che da un pezzo all’altro può capitare che il suo suono cambi.

Ma soprattutto, CHISSENEFREGA, perché “In the Circle of Time” è e rimarrà sempre un capolavoro con i controzebedei!

Voto: 90

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Clear the World/ 2 – Life Goes/ 3 – Alone/ 4 – E.S.P./ 5 – Death Inside/ 6 – I Have the Power/ 7 – Kill me/ 8 – Lord of Gold/ 9 – Silence/ 10 – Neurocircuit/ 11 – Well of Madness/ 12 – In the Circle of Time/ 13 – Outro

MySpace:
http://www.myspace.com/detestorofficial

giovedì 12 gennaio 2012

Rotorvator - "NeroEP" (2011)

Ep (Cosmesi & CSS Teatro Stabile d’Innovazione del FVG, 1 Novembre 2011)
Formazione (2006): sconosciuta

Provenienza: Belluno, Veneto

Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “4:51”, episodio che si conclude in una maniera assurda e completamente aperta, quasi come un incubo lovecraftiano.

Punto di forza dell’opera:
ho una preferenza particolare per la struttura dei pezzi, la quale li riesce a distinguere meravigliosamente ed in maniera tremendamente funzionale all’atmosfera stessa inquietante già dal punto di vista meramente musicale.

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Curiosità:

faccio presente che Merlo, il cantante, ha fondato, insieme ad XV, mente di una vecchia conoscenza di Timpani allo Spiedo, ossia il progetto di black sperimentale Rhuith, il gruppo di black puro The Plague Rides at Dawn, con il quale ha pubblicato, sotto War Command Distro, il demo omonimo del 2011.

I Rotorvator, gruppo visionario come pochi, non sbagliano un colpo, e con “NeroEP”, disco dal vivo registrato nel 2010 in quel di Santarcangelo in provincia di Rimini, in occasione del Festival Internazionale del Teatro in Piazza (probabilmente è per questo che il pubblico non lo si sente mai…). Il bello è che dal punto di vista musicale si trovano soltanto pezzi completamente inediti, che poi hanno la curiosa peculiarità di chiamarsi come la loro durata. Inoltre, la durata dei pezzi è stranamente un pochino più breve del solito, con la presenza di ben 2 pezzi che neanche raggiungono, se non di poco, i 4 minuti.

Ma la differenza forse più grande rispetto ai passati dischi è da identificarsi nella produzione più “umana” e decisamente meno assordante di quanto i Rotorvator ci abbiano mai abituato. Anche se, beninteso, è sempre bella sporca ma ho notato una chitarra paradossalmente meno intelligibile del solito… o forse ho scritto una semplice cazzata?

Quella a non cambiare mai è la qualità della proposta, proposta che però è molto differente da quella propinataci da “Nahum”, pur combinando sempre due generi musicali che vanno molto bene insieme, ossia il black metal e l’industrial. Tanto per fare qualche esempio, mancano del tutto quei passaggi, anche a mo’ di introduzione, completamente fuori di testa e mega – campionati, mentre di quelle che in passato ho chiamato come “pause rumoriste” non ve n’è più traccia. Insomma, i Rotorvator odiano fossilizzarsi, e giustamente sulle stesse soluzioni, sempre però nel rispetto di uno stile piuttosto originale e riconoscibile.

Tale “incapacità” di fossilizzazione si esplica specialmente nella struttura dei pezzi, i quali sono l’uno diversi dall’altro anche da questo punto di vista. Infatti, nell’ordine:

- “5:03” è il brano più isterico ed imprevedibile del lotto e che risulta tutto dominato dalle variazioni indicibili di una batteria elettronica che a volte sembra impazzita, con tanto di blast – beats;

- “3:47” è di tipo più sequenziale, e quindi appare più ordinata, pur avendo dalla sua parte una chitarra spesso tremendamente dissonante;

- “3:46” è invece è pura ipnosi, un viaggio inquietante in un abisso che a un certo punto è sempre uguale a sé stesso, contando infine la cassa della batteria che se ne va solitaria, come incantata, per concludere un pezzo infame;

- “4:51” è una degna conseguenza del pezzo precedente essendo una specie di rituale inconcepibile basato prima su una lenta ma non lineare sovrabbondanza di suoni e rumori, poi su un climax perennemente soffocato e schizzato.

L’ultimo episodio del disco effettivamente si allontana molto dalle direttive degli altri pezzi avendo una natura più atmosferica e super – anticonvenzionale (per quanto i Rotorvator lo siano già di suo) tanto da aver utilizzato perfino la voce pulita in modo molto evocativo. E con questa il raggio d’azione di Merlo si è allargato incredibilmente ancor di più!

Da menzionare inoltre l’ottimo uso della chitarra, che nonostante tutta la violenza, anche psicologica, di cui il gruppo è capace, riesce ad essere talvolta spaventosamente melodica, sparando magari delle melodie addirittura dolci (sì, dolci, avete letto bene!), pressoché inaspettate.

In parole povere, un altro colpo da maestro per questi 3 pazzi scatenati. Solo che ormai sarebbe meglio testarli sulla lunga distanza, ossia con un album vero e proprio, così da controllare se siano capaci di sparare tutta questa montagna di intensità attraverso un disco dal minutaggio più consistente. Anche per semplice curiosità, beninteso.

Voto: 87

Claustrofobia
Scaletta:
1 – 5:03/ 2 – 3:46/ 3 – 3:47/ 4 - 4:51

Sito:
http://rotorvatorblack.blogspot.com

domenica 8 gennaio 2012

Nocturnal Blood - "Devastated Graves - The Morbid Celebration" (2010)

Album (Hells Headbanger Records, 15 Ottobre 2010)
Formazione (2008): Ghastly Apparition, voce/chitarre/basso/batteria

Provenienza: Fontana, California (Stati Uniti)

Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “Ghouls Wrath”, autentico gioiello nero nel quale la fa da padrone un groove sfrenato che fa ballare il culo peggio che nella dance.

Punto di forza dell’opera:
sicuramente l’atmosfera spaventosa ricreata costantemente per tutto l’album, un’atmosfera aiutata paradossalmente anche dalla pochezza di soluzioni che quasi soffocano l’ascoltatore in un abisso infernale.

-------------------------------------------------------------------------------------------------26 minuti! Al nostro sono bastati soltanto 26 minuti per creare un delirio sonoro così semplice ed essenziale eppure intensissimo che fa paura già dalla produzione, che sicuramente qualcuno troverà un po’ discutibile facendo quindi il grave errore di decontestualizzarla in modo da renderla quasi come qualcosa di non voluto dal diretto interessato. Ma chi si intende di black/death a là Blasphemy è abituato a simili scempi, e quindi perchè pretendere per forza qualcos’altro?

Già, la produzione. Chissenefrega se la chitarra a volte è così incomprensibile da non gustarne bene bene ogni nota su stereo (ragion per cui consiglio a tutti di ascoltare l’album con le cuffie). E chissenefrega se la voce (di base un grugnito cupo e bestiale) è così effettato da rendere praticamente quasi confusionarie le varie linee vocali grazie ad un effetto d’eco abbastanza spinto. E va invece più che bene il suono “ignorante” e ultra – naturale della batteria, ma alcuni lo troverebbero troppo poco professionale. Come siano incontentabili, vero?

E’ più che altro vero osservare che Ghastly Apparition ha poca fantasia, magari per quanto riguarda gli accenti, a volte assolutamente perfetti, della batteria, protagonista di una scia quasi ininterrotta di deja – vù. Eppure, per quanto minimalista, il tutto funziona in maniera quasi inaspettata. E’ pur vero che la seconda parte dell’album risulta curiosamente più varia e coraggiosa, aspetto da prendere in buona considerazione nelle future produzioni. Infatti, nell’ordine:

- in "Chaos Mass" il nostro sperimenta a livello vocale, inventandosi fra l’altro delle linee vocali belle ritmate e superlative. Viene quindi sparata anche una voce particolarissima, una specie di “urlo sussurrato” che sembra uscito fuori sul serio da un fantasma;

- "Ritual Lust" si allontana un po’ dal massacro indiscriminato fatto specialmente di blast – beats (e talvolta a dire il vero di consistenti tempi al limite del funeral doom) concedendo incredibilmente più spazio ai tempi medi. Il fatto però che qua si ripeta in maniera identica alla canzone precedente quella bizzarra voce è un altro conto;

- In "Triumph of Impurity" invece, per esempio nell’introduzione, si prova con un tribalismo percussivo a mo’ di tom – tom molto in linea con l’atmosfera maledetta che si respira continuamente nel disco.

Oltre a questa canzone si distinguono un po’ "Impure Devotion", canzone che conosce dei cambi di tempo incredibili proprio perché fanno a cazzotti con l’immediatezza indicibile di Nocturnal Blood (tipo tupa – tupa/blast – beats/tempo medio – lento); e poi “Ghouls Wrath”, che è diventato da mesi uno dei miei pezzi preferiti in fatto di black/death, 4 minuti di delirio in cui si fa vivo il groove spezza ossa, anche su tempi veloci, di cui è capace Ghastly Apparition.

Inoltre, dato l’approccio piuttosto semplice e immediato della proposta, la chitarra solista è limitata soltanto agli assoli, i quali talvolta possono anche non esserci minimamente (e “Ghouls Wrath” è in tal senso un esempio lampante). Assoli che in linea con il genere sono di natura rumorista pur avendo al tempo stesso un’atmosfera che molti gruppi del genere neanche possiedono, visto che non poche volte una stessa nota viene dilatata. La cosa strana è che possono essere anche più lunghi del solito, ma soprattutto non si limitano ad esprimersi solo nei tempi più veloci.
Insomma, alla fine certe volontà di arricchire tutto l’insieme è presente, e soprattutto c’è, da parte del nostro, un’ottima capacità di diversificare abbastanza le proprie esperienze che più o meno gravitano intorno ad una forma bestiale di black/death (ricordo per esempio la sua vecchia militanza negli ormai sciolti Nuclear Desecration, ben più fantasiosi ma molto meno d’effetto). Peccato però che non sia un maestro nella costruzione dei momenti puramente ambientali (infatti l’album parte e finisce con questi), troppo silenziosi e poco inquietanti.

Voto: 78

Claustrofobia
Scaletta:

1 – Devastated Graves/ 2 – Death Calls/ 3 – Impure Devotion/ 4 – Ghouls Wrath/ 5 – Chaos Mass/ 6 - Ritual Lust/ 7 - Triumph of Impurity

venerdì 6 gennaio 2012

Witchrist - "Beheaded Ouroboros" (2010)

Album (Invictus Productions, 23 Agosto 2010)
Formazione (2008): Imprecator, voce;
Occultorture, chitarra;
Abomination, chitarra;
Atrociter, basso;
C. Sinclair

Provenienza: Auckland, Nuova Zelanda

Canzone migliore del disco:
“Deathbitch”, soprattutto perché ha un’atmosfera apocalittica da incubo.

Punto di forza dell’opera:
senz’ombra di dubbio l’equilibrio fra i tempi veloci e quelli più lenti in modo da rendere più atmosferica e meno istintiva tutta la proposta.

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Curiosità:




come si può leggere da Wikipedia l'uroboro è "un simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia, allo gnosticismo e all'ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell'eterno ritorno, e tutto quello che è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine. In alcune rappresentazioni il serpente è raffigurato mezzo bianco e mezzo nero, richiamando il simbolo dello Yin e Yang, che illustra la natura dualistica di tutte le cose e soprattutto che gli opposti non sono in conflitto tra loro".





Molti mesi orsono ho comprato, senza saperlo, i Witchrist. Cosa? Senza saperlo? Eh sì, e pensare che li cercavo pure, solo che io in quel dato momento ambivo ai Diocletian, di cui per una settimana intera possedevo ignaro soltanto la copertina del loro “Deathcult”. Infatti, ancora adesso mi chiedo come la Invictus sia riuscita a scambiare i due dischi, nonostante la grafica del cd di “Beheaded Ouroboros” non rimandi neanche minimamente a “Deathcult” (e viceversa). Ma il dado ormai è tratto, e in ogni caso tale recensione riguarda un capolavoro uscito fra l’altro dall’odierna scena black/death neozelandese. Ciò significa nientepopodimenno che qualità della proposta.

Il black/death dei Witchrist rifugge però dalla bestialità propria dei colleghi. A tal proposito, ascoltatevi "Sorcerer of Lighting", tour de force di ben 8 minuti, di cui i primi 5 sono un abisso di tempi lenti spesso ai limiti del funeral doom più funesto. Da ciò si può evincere un equilibrio fra i vari tempi mantenuto costantemente lungo tutto l’album, così da sciorinare volentieri un groove contagioso e a tratti spaventosamente battagliero. Ma non fatevi ingannare dalla durata di "Sorcerer of Lightning", visto che gli altri brani si aggirano fra i 3 e i 5 minuti (anche se pochi di essi vengono preceduti da introduzioni anche piuttosto atmosferiche, come quella quasi “indiana” di “Adoration of Black Messiah”).




La seconda caratteristica interessante deriva dall’utilizzo, comunque misurato, della chitarra solista. La quale si dimostra particolarmente ricca di soluzioni, soprattutto quando c’è da dare manforte alla ritmica, mentre negli assoli si rivela più monodimensionale (in parole povere, rumorismo a gonfie vele). Per quanto concerne la prima direzione, valgano gli esempi di "Shrine of Skulls" (dove sfoggia addirittura una bella e lenta melodia, caso rarissimo in questo tipo di gruppi) e di "Deathbitch" (nella quale assume toni paurosamente desolanti, aiutati anche dalle frequenze ora piuttosto basse ed atmosferiche della solista), sperimentando fra l’altro pure a livello d’effetti (come nell’assolo “incontrollato” del finale di "Judgement and Torment"). Inoltre, bisogna dire che i nostri hanno la curiosa tendenza a rendere piuttosto lunghi gli assoli, allungandoli forse un po’ troppo data la loro natura rumorista e ripetitiva.

Altra (piccola) nota negativa concerne il comparto vocale, che risulta essere un’alternanza distruttiva fra un grugnito cupo e bassissimo e un urlo tipico del genere. Queste due voci riescono a trasmettere una bella inquietudine sparando delle linee vocali piuttosto lente (mai però come negli angoscianti Vasaeleth!). Solo che tale lentezza a volte si trasforma in lunghi silenzi, interessando così, per esempio, il gran finale rappresentato da "Judgment and Torment", i cui ultimi momenti lasciano un po’ l’amaro in bocca a dispetto di 2 assoli quasi attaccati fra di loro con conseguente imbastardimento finale. Eppure mi sono sempre chiesto come sarebbe uscito fuori il finale se si fosse usata per l’appunto la voce.


In compenso, la produzione risulta ottima, cioè sporca ma decisamente più comprensibile della media, anche se lontanissima dall’essere “ignorante” come quella di “Ancient Insignias” dei mitici Blasphemous Noise Torment. Bisogna dire comunque che i Witchrist fanno talvolta uso di campionamenti, uno fra i quali le classiche campane a morto.

Voto: 85

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sorcerer of Lightning/ 2 – Devour the Flesh/ 3 – Temple of War/ 4 – Adoration of Black Messiah/ 5 – The Cauldron/ 6 – Shrine of Skulls/ 7 – Deathbitch/ 8 – Judgement and Torment


FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Witchrist/100601926657647