giovedì 3 marzo 2011

Blessed Dead - "Secret of Resurrection" (2010)

Demo autoprodotto (30 Giugno 2010)

Provenienza: Brescia, Lombardia

Formazione: Patrick, voce (sostituito poi da Gian)
Shon, chitarra ritmica
Ale, chitarra solista
Tolo, basso
Jonny, batteria (sostituito recentemente da Niko)

Punto di forza del demo:
la capacità del gruppo di reinterpretare caso per caso la struttura-tipo della musica migliorandola sempre lentamente.

Migliore canzone:
sicuramente “Secret of Resurrection”, in parole povere la più complessa, curata ed imprevedibile di tutte.

Cari miei, senza girare in tondo e pur essendo consapevole che potrà un po’ dispiacere almeno a farlo subito presente, questo “The Secret of Resurrection” l’ho trovato ricco sia di luci che soprattutto di ombre. Essendo però i Blessed Dead parecchio giovani avranno tutto il tempo di questo mondo per limare il proprio suono, il quale presenta degli spunti veramente interessanti che lasciano ben presagire per il futuro grazie specialmente ad una personalità già piuttosto marcata.

Trattasi infatti di un death metal quasi esclusivamente giocato sui tempi medi e che ben poco riserva a quelli più veloci che comunque sono sempre dei blast-beats (e loro varianti) più o meno estremi del tutto assenti nella sola “Secret of Resurrection”. Si gioca quindi una carta pericolosa, quella cioè di una musica la cui intensità viene poco a poco che altresì si sarebbe immediatamente fatta sentire con velocità belle sostenute. D’altro canto non è che ci siano così tante parti veramente doomeggianti, care a gruppi come Asphyx ed Autopsy, e da questo punto di vista è esemplare “Nightbreed”.

L’andamento del discorso musicale non procede però lento solo in virtù della tipologia di tempi usata e conseguente effetto psicologico sull’ascoltatore che a sua volta crea un lato infrequente nel death metal. Tale aspetto viene infatti abbondantemente accentuato se si pensa che il quintetto bresciano ama in maniera quasi morbosa delle soluzioni musicali belle lunghe e che presentano un riffing a tratti piacevolmente contorto che non si risparmia neanche in qualche tecnicismo e nemmeno nell’amore per le schitarrate schizoidi prese da certo brutal moderno (“I Am the Blessed Dead”) o per la minacciosa cupezza del death metal vecchia scuola (“Nightbreed”). Fra l’altro, nonostante il cupissimo nome che si portano dietro, le melodie non sono da ritenere infrequenti nei Blessed Dead anche perché le due asce sono capaci di spararne di insospettabili, dal sapore perfino epico (“Secret of Resurrection”). In questa cornice musicale si affacciano pure delle ritmiche che non lesinano qualche stranezza (“I Am the Blessed Dead” è l’esempio sicuramente più notevole) rendendo così meno digeribile la proposta musicale.

Un altro fattore di natura strutturale che rallenta notevolmente la musica dei 5 giovini è la tendenza, almeno nei primi due pezzi (specialmente nel primo, l’unico che per giunta rispetta più o meno un classico schema a 2 soluzioni altrimenti detto a strofa-ritornello), a proporre uno stacco preferibilmente di chitarra che introduce a quasi ogni passaggio. Solo che in “I Am the Blessed Dead” ognuno è similare all’altro perché il sistema usato è sempre e soltanto quello della chitarra in solitario. In “Dance of the Insane” invece la metodologia utilizzata risulta più fantasiosa anche grazie ai piatti stoppati che regalano al tutto un po’ più di selvaggia intensità.

Parlando in linee generali, la struttura-tipo dei pezzi si confà allo stile adottato da questi death metalloni. E’ infatti non poco arzigogolata e richiamante in un certo senso la “prolissità” degli ultimi Death solo semplificati per l’occasione, resa com’è una variante leggermente più complessa dello schema a strofa-ritornello. Ci si avvicina quindi, per fare un esempio con un altro gruppo partecipante a Timpani Allo Spiedo, ai territori cari ai romani Black Therapy, anche se questi ultimi prediligono soluzioni più brevi e delle sequenze più fluide caratterizzate da 2 – 3 passaggi principali mentre nei Blessed Dead una – due in più risultando di conseguenza piuttosto ostici.

Un’altra caratteristica degna di nota proviene dal lavoro, assolutamente esente da qualsiasi sovraincisione ma non da un effetto d’eco che qui e là regala una bella dose di inquietudine, di Patrick che ad un grugnito classico e “regolare” (né basso né alto) ma non così profondo e “cattivone” alterna, raramente ma non troppo, una specie di via di mezzo quasi diabolica e tremendamente aggressiva tra un urlo ed un grugnito che poi si rivela più d’effetto della voce principale (ne vengono fuori praticamente dei vocalizzi molto simili a quelli utilizzati nel death melodico anni ’90, solo sparati con meno violenza); ed in qualche occasione si fa sfoggio di un urlo forse più adatto al metalcore solo che a mio avviso viene sfruttato male, pare forzato e non sufficientemente convinto anche perché “gracchia” pochissimo se non per nulla.

Purtroppo però le ombre non si fermano soltanto a questo dettaglio. Infatti, 1) vi è una produzione malamente bilanciata, con le chitarre dalle frequenze basse che fanno letteralmente a cazzotti con quelle più alte della batteria e della voce seppellendosi automaticamente nei momenti più concitati. D’altro canto il basso, in perfetta tradizione death metal, è messo bene in evidenza e del resto, abituato come sono io ad apprezzare le peggio produzioni, si può anche accettare volentieri la cavernosità delle chitarre e quindi tale “errore” si rivela secondario. E’ anche vero però che può essere pericoloso abbandonare al proprio destino il principale fattore atmosferico del metal estremo quale è la chitarra;

2) la batteria si presenta come il punto debole dell’opera in quanto alla fine si dimostra ripetitiva, interessata com’è, nonostante delle brillanti intuizioni, a prendere di petto soprattutto un dato ritmo che è in pratica un tempo medio bello lineare e con doppia cassa incorporata che quasi non si ferma mai. Oddio, in sé non sarebbe neanche una brutta idea, ma così facendo non dà sufficiente manforte al riffing che al contrario necessiterebbe, in rapporto alla sua complessità, di un lavoro di cassa più fantasioso e sicuramente meno semplicistico. Oppure si potrebbe dare un ruolo più importante ai piatti in modo da accentare maggiormente il riffing, od ancora utilizzare con più coraggio ritmiche meno convenzionali appesantendo delle sonorità già notevoli da questo punto di vista;

3) la lentezza esorbitante di “I Am the Blessed Dead” che si ritrova suo malgrado piena di stacchi, pause e relative ripartenze, così da rendere il discorso poco fluido e veramente poco pesante oltreché semplicistico nonostante i tempi potenzialmente assassini che offrono i Blessed Dead.
In compenso, si ha come l’impressione che mano a mano ogni pezzo si estremizzi strutturalmente parlando raggiungendo il picco in “Secret of Resurrection”, che consta fra l’altro di un assolo che quasi nella parte finale blocca temporaneamente e a sorpresa la lunga sequenza principale. Insomma, i Blessed Dead sanno bene reinterpretare caso per caso e con fantasia la propria metodologia, avendo così la capacità di migliorarsi dopo un inizio sì traballante ma comunque valido come introduzione ai pezzi successivi.

Voto: 68

Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Am the Blessed Dead/ 2 – Dance of the Insane/ 3 – Nightbreed/ 4 – Secret of Resurrection
MySpace:
http://www.myspace.com/blessedmetals

lunedì 28 febbraio 2011

Eloa Vadaath - "A Bare Reminiscence of Infected Wonderlands" (2010)

Provenienza: Rovigo, Veneto

Formazione: Marco Paltanin, voce, chitarra, sitar, tabla
Nicolò Cavallaro, basso, voce aggiuntive
Mirko Cirelli, batteria
Riccardo Paltanin, tastiere, violino, voce

Discografia: "Demo 2007" (Autoprodotto)

Etichetta discografica: Westwitch Records (quest’album è la sua prima produzione)

Punto di forza dell’album:
la capacità di non stancare mai l’ascoltatore con sorprese su sorprese nonostante si rasenti l’ora.

Miglior canzone:
la fantastica “Coalesce Part II”, che ha un magniloquente finale da 3 minuti e poco più che dire d’atmosfera è un eufemismo, concludendo così nel modo più elegante il disco.

Gli Eloa Vadaath sono pura poesia nella quale confluiscono un’infinità di sonorità sempre diverse in perenne simbiosi. A volte fanno ricordare la pienezza melodica del rock progressivo che impazzo negli anni ’70 fino a rimandare in misura praticamente perfetta perfino i maestri Genesis come quando in "Uncontaminated! c’è un siparietto solare di pianoforte assieme alla voce. E soprattutto i nostri sono da considerare un vero e proprio laboratorio di personalità dove le idee più strane trovano una concretezza spesso disarmante esemplificata ottimamente proprio dal brano sopraccitato, dove per esempio non solo si trovano arpeggi di un’angelica arpa ma anche momenti di nevrosi jazz che potrebbero piacere a John Zorn.

Gli strumenti inusuali sono guardacaso una costante di questo giovane quartetto, riuscendo a ridimensionare e a rendere meno preponderante il ruolo delle chitarre, pur avendo queste un ruolo spesso solista (sia per quanto riguarda gli assoli che le melodie atte a completare il lavoro della ritmica). Infatti, per fare qualche esempio, non solo le tastiere sono solitamente indipendenti dalle chitarre concedendosi talvolta anche veri e propri solismi ma – tadan! – il violino prende il sopravvento specialmente nella seconda parte dell’album, sicuramente quella più sperimentale e coraggiosa. Il suo suono conferisce a tutta la musica un’altra atmosfera, una digrignante drammaticità capace di trasformare la sua eleganza in nuda ferocia umoristica per poi chiudersi in un romanticismo da capolavoro che culmina nel lungo finale di "Coalesce Part II", giocato fra l’altro su una magniloquente voce lirica femminile.

Gli Eloa Vadaath sono anche puro contrasto. Di base partono con un death melodico a tratti gotico che possiede alcuni dei vocalizzi più potenti che io abbia mai ascoltato ultimamente, intenti a sferragliare i timpani con grugniti a là Scarve/Hacride che in non poche occasioni danno il posto ad urla belle rauche e tremendamente sentite, le quali “combattono” con voci più pulite mostrando sempre e comunque un buon gusto nelle linee vocali, mai banali e ripetitive. E si finisce a giocare praticamente con tutto, da certa solennità black che campeggia in "Coalesce Part I: A Perverter Among The Kainites" alla disperazione contorta e minacciosa di "Elysian Fields" fino a proporre addirittura un intermezzo orchestrale (anche se non del tutto strumentale) con tanto di violini, archi, pure un oboe, ossia "The Temptation Chronicles". Ed è un intermezzo autentico, perfettamente messo al centro dell’album e che riprende le sonorità talvolta pacate e oscure di "Elysian Fields" introducendo alla fluidità e classicità strutturale di "What Are You Seeing on Your Fork?" (strutturalmente parlando infatti tale pezzo è il più facile da memorizzare) e all’estremo sperimentalismo della seconda parte dell’album.

Quindi gli Eloa Vadaath sono quanto di più lontano dal celebrare un massacro sonico irto di velocità parossistiche. I tempi medi, quasi mai difficilmente memorizzabili e quindi spesso tipici, dettano legge, talvolta con poche ma efficaci svisate jazz. Eppure dei tempi più veloci c’è qualche traccia, come testimoniano (gl)i (unici) blast-beats di "Coalesce Part I: A Perverter Among The Kainites". I nostri insomma continuano con la tradizione che vuole i gruppi più sperimentali (almeno una buona parte di essi) che cercano l’effetto nella maniera al contempo più difficile (con i tempi medi l’intensità e la potenza non sono subito istantanee, e non è un caso che molti dischi di heavy metal partono con brani veloci) e nel modo in un certo senso più facile (l’immissione di strumenti inusuali per il metal provoca sia un senso di spaesamento, consapevolezza nel trovarsi di fronte una creatura libertaria e fuori dagli schemi, che di entusiasmo, ossia la possibilità di nuovi modi di espressione il cui segreto sta nella coesistenza con i “vecchi” modi, ed è proprio questa la sfida più interessante).

Gli Eloa Vadaath d’altro canto (ma quasi non poteva essere altrimenti) hanno scelto la strada indubbiamente più complicata con la struttura-tipo dei pezzi. Poco inclini ad offrire sequenze fisse di soluzioni, seppur non poche volte portatori della tradizione a strofa-ritornello, il loro compito pare quello di decostruire le canzoni attraverso frequenti variazioni ad una stessa soluzione rendendole così parte integrante di un discorso molto dinamico e rapido, ricco di diverse trovate pregne di passaggi talvolta belli lunghi. I quali sono interessati da ripetizioni in sequenza anche di 1 – 2 battute e mezzo abbandonando la quadratura del cerchio delle classiche 2, 4 battute intere. Assomigliano molto ai Kenòs, solo che al contrario qui si dimostra, seppur di poco, una maggiore tolleranza per la tradizione strutturale come l’assenza di variazioni di un passaggio da 4 battute presente in "Towers of Silence", che è però l’unico brano sui cui grava un peccato. Ossia la sovrabbondanza di pause lungo la parte finale, che forse rende un po’ troppo semplicistico e poco fluido il discorso, ma è anche l’effetto del camaleontismo presente in quest’enciclopedica opera. Ma che dire invece dell’estrema democratizzazione degli stacchi, spesso di natura collettiva e perciò dalla natura più massiccia di quelli in solitario?

Gli Eloa Vadaath hanno curato anche dignitosamente la produzione, bella pulita ma dai suoni più “veri” del solito, seppur talvolta “ubriacati” da qualche effetto. Si veda per esempio il suono bellissimo del rullante, lontano dal plasticume di gente come i Fleshgod Apocalypse. Pulita ed elegante sia perché le frequenze sono state impostate sui medi permettendo così alla musica in sé stessa di potenziarsi senza l’intensità esagerata di certe produzioni che possono nascondere la goffa mancanza di potenza di un disco, sia perché quest’album, per essere goduto veramente appieno, deve essere ascoltato attentamente in cuffia, visto sia il lavoro melodico a 360° (è infatti un disco che nasconde segreti ben custoditi) che la segretezza della cassa della batteria e del basso, praticamente messi in secondo piano.

Diciamolo 5 volte: Eloa Vadaath, Eloa Vadaath, Eloa Vadaath, Eloa Vadaath, Eloa Vadaath! Tanto per celebrare anche l’entrata in formazione del nuovo entrato chitarrista Lorenzo Fabbri.

Voto: 88

Claustrofobia
Scaletta:
1 - Coalesce: A Murmuring Plight Of Nephilisms (Intro)/ 2 – Coalesce Part I: A Perverter Among the Kainites/ 3 – 64 A.D. Le Flambeau/ 5 – The Navidson Record/ 5 – Elysian Fields/ 6 – The Temptation Chronicles/ 7 – What Are You Seeing on Your Fork?/ 8 – Uncontaminated/ 9 – Towers of Silence/ 10 – A Bare Reminiscence of Infected Wonderlands/ 11 – Coalesce Part II

MySpace:
http://www.myspace.com/eloavadaath

FaceBook:
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sabato 26 febbraio 2011

Rotorvator - "Nahum" (2009)

Provenienza: Bologna, Reggio Emilia

Formazione: ?

Demo autoprodotto

Punto di forza del demo:

la particolarissima struttura delle canzoni, angosciante ed in lenta esplosione anche al contrario.

Migliore canzone:

indubbiamente "Peace on Earth"....per il perchè leggete la recensione e carpitela.

Follia pura. Due parole che sintetizzano perfettamente il secondo demo di questi alieni che sono pappa e ciccia con XV dell’altrettanto folle solo-progetto black Rhuith e che parecchi mesi fa hanno dato manforte ad una compagnia teatrale chiamata Cosmesi. Ma non credete, miei prodi, che il titolo “Nahum” richiami “Human” e non solo perché fino a prova contraria appena si mette l’opera nello stereo si entra in un mondo visionario e lovecraftiano. Sì, perché i Rotorvator hanno un so che di divino. Nahum (o meglio, Naum) è uno dei profeti ebraici minori e dal cui libro i nostri bolognesi hanno estratto la citazione che compare misteriosa nel booklet:

“Tutte le tue fortezze saranno come piante di fico con fichi primaticci: se sono scosse, cadono in bilico di chi le mangia.”

Parole queste che vanno contestualizzate con l’assedio e la distruzione di Ninive, città del regno assiro effettivamente esistita ed effettivamente distrutta, più precisamente nel 612 a.C. dai Medi e Caldei, popoli asiatici. E non a caso la torre in copertina pare richiamarla.

E non a caso la follia pura con cui sono i nostri sono partiti è completamente al servizio di un’atmosfera apocalittica da cui non c’è scampo. Un’atmosfera dalla catalogazione impossibile perché la musica è un caos nel quale coesistono un sacco di influenze. Il black metal è presente soprattutto nella voce (che è una sorpresa dietro l’altra, come del resto tutta la musica) e nelle chitarre, così disturbate e disturbanti che quasi si perdono nel dolore dell’universo da loro creato. Poi c’è l’allucinante meccanizzazione dell’industrial presente specialmente nella batteria e nella manipolazione sferragliante e assordante di suoni e a tal proposito sono memorabili le sirene orribilmente stuprate di una nave di “Sinking Cathedrals”, che si conclude fra l’altro con richiami marini – e relativi e curiosi “spiaccicamenti”… - che durano in lenta dissolvenza persino per poco più di un minuto (!), che a sua volta fa addentrare l’ascoltatore nei territori insicuri del trip - hop portato da una batteria sonnolenta eppur severa. Dulcis in fundo, e qui mettetevi dei consistenti tappi alle orecchie nonché dei caschi messi belli in testa, c’è l’estremismo bombarolo dell’harsh noise, che fa la sua esagerata figura soprattutto nella disperata e melodica “Peace on Earth”, condita da tastiere travestite talvolta da angeliche voci femminili che contrastano meravigliosamente con la ferocia operaia di blast-beats creati da una drum-machine che dire impazzita è un eufemismo.

Per capire un po’ la notevole fantasia dei Rotorvator bisogna assolutamente dare l’esempio della voce, che ad ogni pezzo è diversa, ma ogni volta sembra l’addio di un uomo che è venuto a conoscenza di una dimensione che non si doveva scoprire. Partendo da “Blessed Eyes” si viene a sapere che le urla occupano un ruolo preponderante, solo che hanno degli alti – bassi vertiginosi dal sapore alieno ma sempre così ripugnanti che paragoni con i Vlad Tepes ed i Belketre non sono da ritenere affatto scomodi. Nella successiva “Sinking Cathedrals” si alza il tiro vomitando delle urla stridule molto somiglianti a quelle dei Lilyum, solo meno trattenute ed impreziosite ad un certo punto da un effetto d’eco che riesce nell’intento di rendere ancora più immensamente irreale il tutto. “Bridal Chamber”, che ha un’interminabile introduzione bizzarra ed assassina irta di pericolose campane a cui segue finalmente la batteria accompagnata da un basso ipnotico e da una chitarra fumosa che si disperde in meccanici ma leggeri feedback, è ricca di urla più classiche nell’impostazione, ossia decisamente meno isteriche e totalmente statiche nel loro gracchiare e sferragliare i timpani dei “poveri” ascoltatori. E “Peace on Earth” sembra quasi il lamento viziato di un bambino disumano intento a martoriare sua madre con urla particolarissime e strozzate. Ma il bello è che si va oltre, oltre le urla. E si finisce con i grugniti ed i ruggiti sussurranti di “Blessed Eyes”, i gutturalismi ritualistici di “Bridal Chamber”, nella quale si ha la netta sensazione che il cantante non sia più veramente parte di questo mondo.

L’estrema visionarietà dei Rotorvator passa anche nella struttura-tipo che regge i vari pezzi su cui operano un vero e proprio processo di decostruzione spesso togliendo od aggiungendo in maniera talvolta impercettibile qualche tassello ad uno schema così minimale ed apparentemente elementare (passaggio più metallico + momenti d’atmosfera, ed il cerchio si ripete) che viene ulteriormente appesantito dalla tendenza del gruppo a sparare per ogni brano delle soluzioni infinite costruite su sequenze di note semplici condite da variazioni tonali fisse che li concludono ogni volta. Ma la prima caratteristica sopraccitata è sorprendente proprio perché regala l’impressione di un vuoto che esplode nel suo nulla totale, l’eliminazione sistematica di una coscienza bombardata continuamente da nuovi stimoli che piano piano la detronizzano.

La produzione è perfetta per rappresentare al meglio il martirio sonico. Disturbatissima e sporchissima come poche, con le chitarre praticamente sotterrate, almeno nei momenti black, ed impostata su frequenze altissime che fanno impallidire perfino “Drained from Suicidal Thoughts” del solo-progetto black depressivo Howling in the Fog, è quanto di più lontano per un metallaro che voglia ascoltare qualsiasi cosa in maniera come minimo sufficientemente comprensibile per non sforzarsi troppo. Di conseguenza, è una produzione così elitaria da far spavento, da provocare dolore. Al massimo si poteva fare qualche cosa per il basso, utile ad aumentare lo spazio greve ed abissale della musica visto che è stato messo in secondo piano ma in fin dei conti ‘sti gran cazzi.

L’effetto massimo lo dà però il finale di “Peace on Earth”, con quell’assalto ultra-blast di una decina secondi, che si conclude nel caos di una chitarra che si libera suonando una scala melodica quasi da “abbandonate ogni speranza, oh voi ch’entrate”. Il rumore musicale si conclude ma non è ancora finito. C’è ancora come un resto di vita, un zanzarìo duro a morire che poi viene totalmente debellato da una specie di effetto-rimbalzo (più o meno) che pare quasi il Grande Cthulhu, colui che inghiotte l’intero universo dominandolo tutto. Ecco la pace sulla terra, l’Olocausto puro.

Voto: 98

Claustrofobia

Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Blessed Eyes/ 3 – Sinking Cathedrals/ 4 – Bridal Chamber/ 5 – Peace on Earth

MySpace:
http://www.myspace.com/rotorvatorblack

giovedì 24 febbraio 2011

Cold Empire . "From the Ashes of the Empire" (2010)

Provenienza: Cagliari, Sardegna

Formazione: Misanthrone, voce;
Valker, chitarra e basso;
Leendert Kersbergen, batteria (olandese, figura soltanto come studio session)
Produzione: Naturmacht Productions, Germania

Punto di forza dell’album:

la batteria, spesso raffinata, difficile da digerire, nasconde sempre qualche sorpresa dietro l’angolo.

Canzone migliore:
“Forest of Hate”, una colata di ghiaccio che con la sua struttura libera ed incontrollata che fa esplodere i timpani con un odio che solo alla fine si dimostra perfettamente indomabile.

I Cold Empire lasciarono ben sperare per il futuro con l’ottimo demo datato 2007 “…and Then Cold Arrived” (voto 8, 1° numero di Timpani Allo Spiedo uscito durante l’Agosto del 2008) ma sinceramente non m’aspettavo un volo così grande. Avrà influito forse il fatto che nel frattempo da quartetto sono diventati un duo? Fra l’altro quest’album da 6 pezzi per quasi 40 minuti di musica è stato recentemente ristampato dalla francese Thor’s Hammer, e ciò significa che effettivamente ha lasciato un bel segno indelebile sulla scena black italiana e non.

Il loro black metal melodico si è fatto di una fantasia, di una complessità e anche di una cattiveria che stordiscono. Hanno aggiunto persino nel loro suono delle influenze di stampo depressivo a dir poco struggenti e desolanti (“Of Woods and Trees”), come pure certi momenti attribuibili più che altro al death metal (“Towards the Eternal Silence”), solo che il massimo della malvagità si raggiunge nella cruda solennità di “Storms Will Rise”, uno dei 3 brani, che è uno dei più epici, ri-registrati per l’occasione (gli altri sono “Nocturnal Sea” e “Forest of Hate”). Una cosa che fa impressione di quest’opera è il contrasto che intercorre fra la chitarra, che qui ha sempre e solo una valenza ritmica dato che ogni tipo di intervento solista è stato completamente debellato, e la batteria che, oltre a sparare un’infinità di blast-beats che per violenza farebbero paura persino ai Black Witchery, offre spesso un discorso non molto convenzionale, e quindi non poco contorto e nervoso. Ma le facce della batteria sono così tante che è impossibile non meravigliarsene. Come restare impassibili con il lento groove di “Of Woods and Trees” imbastito di un lavoro sui tom-tom quasi impercettibile, o con i brevi intermezzi da funeral doom di “Nocturnal Sea”? E’ uno stile tempestoso che può ricordare, in maniera meno essenziale, quello di Lord of Fog dei genovesi Sacradis, pur questi diversissimi dai Cold Empire, che sono ultimamente diventati più melodici e forse è proprio per questo che quando si sfogano in modo più bestiale risultano così immensamente cattivi. Ed io che appena saputo del nuovo batterista ho rimpianto fin da subito il devastante Dark Shadow!

Sulla voce, registrata, missata e masterizzata negli Arcana Studio da Daniele "Dagon" Falqui (gli altri strumenti invece praticamente in casa) invece non è cambiato proprio niente. Misanthrone, che canta anche nei brutallari Mutilated Soul, è sempre su livelli più che buoni urlando e “gracchiando” in pretto stile norvegese (come Snarl dei pescaresi Black Faith per intenderci con un altro gruppo partecipante alla rivista, solo che in quest’ultimo caso i vocalizzi si esprimono in maniera più rauca) pur non disdegnando una voce gutturale non particolarmente profonda ma dal taglio molto narrativo (e qua mi ripeto!), e come esempio vale soprattutto l’inizio di “Forest of Hate”.

La produzione è meravigliosa nonostante le parole di Valker che appena m’ha mandato da fare l’album s’è scusato per il basso budget della produzione. Eppure il black metal è pieno di dischi memorabili anche per queste caratteristiche che le rendono pregni di mistero ed oscurità. Qui le sonorità sono sì sporche, ruvide e cupe ma sono perfettamente comprensibili, quindi ogni scusante non serve a nulla, al massimo è servita per soddisfare la mia curiosità nel constatare l’effettiva qualità della produzione. Va bene, la cassa della batteria non è che si senta poi sempre bene ed il basso è stato messo in secondo piano ma non troppo. Più che altro è su quest’ultimo strumento che grava un peccato che mi ha deluso non poco, dato che in “…and Then Cold Arrived” era stato sfruttato per bene anche come mezzo per completare la melodia della chitarra, cosa che al contrario nell’album accade soltanto in “Forest of Hate”. Ergo, consiglio di riprendere a sfruttare le ottime potenzialità espresse nel demo. D’altro canto, dovreste stare attenti ai timpani, considerando che le frequenze dell’opera sono piuttosto alte ed assordanti manco si stesse trattando di un disco brutal, quindi cercate di regolare nella giusta misura il volume per non sentirli implorare aiuto aiuto!

Un’altra bella cosa interessante è rappresentata dalla struttura-tipo dei pezzi, che dimostra quanto i Cold Empire siano capaci di reggere in piedi le varie canzoni senza eccessivi sotterfugi. Infatti, i nostri propongono un numero pressoché misero di stacchi e ripartenze, e ciò nonostante il minutaggio piuttosto alto dei brani, così che effettivamente la musica scorra fluida scoprendo inoltre una tecnica molto apprezzabile nel cambiare ritmo senza dare tregua all’ascoltatore;

la tendenza misurata di dare in pasto delle soluzioni musicali che talvolta vengono ripetute per più e più volte, a dispetto della buona dinamicità delle canzoni, e se ciò si unisce allo stile sghembo e bizzarro di Leendert allora ne viene qualcosa di molto asfissiante;

la capacità dei nostri di interpretare a seconda dei casi lo schema strutturale da seguire per una determinata canzone. Ad esempio, se “Woods and Trees” segue uno schema che ricorda più quello a strofa-ritornello, ossia con sequenze di soluzioni molto ben precise (almeno inizialmente), il massacro finale di “Forest of Hate”, l’unico che abbia una vera introduzione, un lento narrativo nel quale Misanthrone con il suo grugnito proferisce che il silenzio lo ascolta facendo altrettanto, è una scia quasi ininterrotta di soluzioni sempre diverse, una tempesta pura e cruda a dispetto dell’1 – 2 di un’epicità disarmante che si ripete per 4 volte consecutive e che ad un certo punto si fa vivo in “Nocturnal Sea”.

In sintesi, è un disco da avere.

Voto: 90

Scaletta:
1 – Wasteland/ 2 – Nocturnal Sea/ 3 – Towards the Eternal Silence/ 4 – Of Woods and Trees/ 5 – Storms Will Rise/ 6 – Forest of Hate

MySpace:
http://www.myspace.com/coldempire

FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Cold-Empire/243816802820?ref=ts

Sito Ufficiale:
http://www.freewebs.com/coldempireband/

martedì 15 febbraio 2011

Black Faith - "Jubilate Diabolo" (2010)

Provenienza:
Pescara, Abruzzo

Formazione:
Snarl, voce/chitarra/basso (dal vivo se ne occupava Acheron del basso, che da poco è diventato il bassista ufficiale), Funestum chitarra, Hyakhrist batteria

Anno di formazione:
2004

E’ la primissima volta che mi capita di recensire un disco praticamente monco, visto che la versione dell’ep “Jubilate Diabolo” mandatami da Snarl, membro fondatore dei pescaresi Black Faith, è quella atta a promuovere l’originale, ed ecco perché vi sono solo 5 pezzi inediti + la cover di “Under a Funeral Moon” degli immarcescibili Darkthrone, ma per quanto riguarda soprattutto la durata del disco non c’è niente da lamentarsi dato che c’è poco più di mezz’ora abbondante di musica. Che del resto fa veramente una bella figura, cosa un po’ ovvia considerati i ben 4 anni di “riposo” discografico dopo il primissimo demo “Proclaim my Victory”.

L’omaggio ai Darkthrone non è nemmeno uno scherzo proprio perché, oltre a dimostrare un’ottima fedeltà nel riproporre il pezzo originale (che fra l’altro presenta una produzione più sporca ma compatta rispetto agli altri episodi), ‘sti 3 ragazzi risultano anche belli influenzati dal duo norvegese. E’ pericoloso però ridurli ad un mero clone dato che vanno ben al di là dell’ignoranza e della semplicità che contrassegna pressoché da sempre questi pionieri del black norvegese pur snocciolando una malvagità che non ha niente da invidiare a loro e resa ancora più forte dalle urla tenebrosamente rauche di Snarl, che riesce a non essere monotono per quanto concerne le tonalità proposte e non concedendosi nemmeno il lusso di utilizzare qualsiasi tipo di effettistica, neanche per un momento, aspetto che ammiro profondamente visto che così facendo ci si confida delle proprie capacità umane. Sono capacità totalmente devote a celebrare la grandezza blasfema di Satana fino a sparare fuori (molto probabilmente in maniera involontaria) una voce a mezza strada tra un soffocamento ed un violento sospiro, ma ciò soltanto per un misero ma efficacissimo millisecondo di terrore in “Thy Vital Breath”.

Ma per chi vuole un assalto sonico colmo di velocità assassine dovrà presto ricredersi, non solo perché Hyakhrist ama spiattellare i classici tempi medi ricchi del tonante groove di stampo black metal, ma anche perché non sono pochi i momenti in cui si viene bombardati da un tupa-tupa non molto estremo e di matrice quasi thrasheggiante. I blast-beats invece sono soprattutto il regno del tour de force di “Jubilate Diabolo”, quasi 8 minuti di melodie glaciali eppur epicheggianti come ce ne sono poche in circolazione, una vera e propria tempesta di ghiaccio che conta anche uno stacco di batteria eccezionale, capace di intensificare a meraviglia tutto l’insieme.

Nonostante ciò, essa è forse proprio il punto debole del demo, ed è incredibile come sia presente un buon equilibrio fra lati positivi (dei quali non ultimo per importanza uno stile percussivo quasi immobile che dona una spaventosa e fredda meccanicità anche se comunque siamo lontanucci dalle conseguenze estreme di gente come i primissimi Masturbacion Cristiana) e lati negativi. Ed è qui che la produzione fa sentire il suo peso. Infatti, si poteva meglio rifinire il suono del rullante che, oltre ad essere stato bilanciato un po’ malamente soprattutto nei confronti delle chitarre (che quasi lo seppelliscono) suona “plastico”, poco incisivo e quindi non molto credibile, non molto in sintonia con tutta la sporcizia, anche se non tanto accentuata, che permea l’opera. Cosa che si sente in particolar modo nel finale doom solo batteria/basso (che invece è stato messo in buona evidenza) di “Thy Vital Breath”. E ciò a dispetto di una cassa che si sente, dolce paradosso, brillantemente.

Per giunta, lasciando da parte la produzione, il lavoro di Hyakhrist soffre di una certa ripetizione ritmica che si manifesta nei tupa-tupa. Se si confrontano ad esempio “My Walk in the Dark” (che pure ha delle variazioni sulla cassa tanto – quasi – impercettibili quanto notevoli) e la stessa “Thy Vital Breath” non si potrà non chiedersi: “questo ritmo sbaglio o già l’ho sentito?”. D’altronde è anche vero che si rischia di ricevere una tale impressione con la voce che ha la tendenza a concludere un brano sempre nella stessa maniera, ossia con linee vocali basso-alto che percuotono l’ascoltatore più per la precisione in “Beyond the Night”, “Seduced by the Evil One” e “Jubilate Diabolo”. E non sarebbero neanche male, solo che l’abuso dopo un po’ diventa controproducente.

Sul resto non si discute. A cominciare dal carattere fluido e quasi privo di stacchi e ripartenze del discorso musicale quivi contenuto che “costringe” il gruppo a potenziarlo ogni qualvolta in maniera collettiva dimostrando così un gran bel coraggio, considerato soprattutto il minutaggio medio dei pezzi, non proprio facile da gestire. Ed è fenomenale il lavoro che è stato fatto sulla chitarra solista, molto presente nel discorso (a parte nella sola “Beyond the Night” dove invece essa è totalmente assente) rendendola così dannatamente piena (ma non aspettatevi comunque qualcosa di neanche avvicinabile agli ultimi Vultur che la usano in maniera molto fantasiosa) fino a osare con un breve assolo di una cattiveria darkthroniana in “Seduced by the Evil One”, un solismo così “nero” che è veramente un peccato che non ce ne siano altri.

Non si discute nemmeno sulla varietà del riffing e sulle emozioni che è capace di sputare, facendo notare così una buona capacità di differenziare i vari pezzi. Come non citare a questo proposito le alte melodie evocative e quasi sognanti di “Thy Vital Breath”? Come non citare le inquietanti dissonanze di “Jubilate Diabolo”? Come non citare le note beffarde di “Beyond the Night”? E quelle più rozze e minimaliste di “My Walk in the Dark”? Ed è proprio tutto ciò che fa del settore chitarre il punto di forza dei Black Faith, che ormai, dopo 7 anni dalla loro formazione, sono veramente pronti di fare il grande salto dell’album.

Voto: 75

Claustrofobia
Scaletta:
1 – My Walk in the Dark/ 2 – Beyond the Night/ 3 – Seduced by the Evil One/ 4 – Thy Vital Breath/ 5 – Jubilate Diabolo/ 6 – Under a Funeral Moon (Darkthrone cover)

Note:
Effettivamente, a quanto si legge a Metal-Archives, le 5 canzoni inedite sono state registrate per finire in un vero e proprio album mentre la cover per finire nel tributo italiano ai Darkthrone pubblicato dalla Novecento Produzioni il 4 Aprile dell’anno scorso.

MySpace:
http://www.myspace.com/blackfaithband

Sito ufficiale (che non esiste…):

http://www.blackfaith.tk/

mercoledì 26 gennaio 2011

Black Therapy - Through this Path" (2010)

Apparirò forse un po’ troppo romantico ergo frocieggiante, ma i Black Therapy occupano un ruolo tutto particolare nel mio cuore di metallazzo sempre insoddisfatto. Infatti, sono loro che all’ultimo secondo sono stati scelti per rimpiazzare i Reaktor nel mio primissimo concerto da organizzatore datato 4 Dicembre 2010. Ma alla fine occupano anche un importante ruolo di natura più qualitativa nella mia discografia. Sì, perché i Black Therapy, nonostante siano al primissimo demo dopo sì e no un anno di esistenza, hanno dimostrato di avere un coraggio veramente raro nel concepimento di 4 pezzi ben strutturati e dalle melodie eleganti. Si dà il caso che i nostri 5 giovini ragazzacci romani propongono con orgoglio un death metal melodico che presenta molte caratteristiche interessanti che piaceranno sicuramente a chi cerca un po’ di complessità in un genere che personalmente ha sempre entusiasmato.

Prima di tutto, la voce di Giuseppe Massimiliano Di Giorgio è stupenda. Va bene che in questo genere i vocalizzi urlati abbondano paradossalmente anche nei modi più truci possibili, ma nei Black Therapy le urla sono di una cattiveria improba e di un’isteria alienante che potrebbero andare benissimo per una formazione black metal dimostrandosi come un Chuck Schuldiner dai tratti più agghiaccianti e indubbiamente meno monocordi (bestemmia?). Ed il risultato è anche bello fantasioso nella proposta dei vari stili di canto, ovviamente sparati con minor frequenza come dei grugniti non particolarmente profondi ma adatti proprio per ciò in un nero mondo musicale raffinato e come la grezza voce pulita di “Chaos Before the End”. E non scherzano in quanto a fantasia neanche le varie linee vocali, abili a sposarsi coerentemente nel discorso musicale facendo sempre sorprendere l’ascoltatore.

Nella musica dei Black Therapy ha un’importanza pressoché basilare la chitarra solista. Così basilare che nella parte centrale della bizzarra “Path to Hell” di soliste ce ne sono addirittura 2 in un impasto melodico difficile da sentire in circolazione. Certo, nonostante la gran tecnica che i nostri si ritrovano corredato fra l’altro di un tapping spaventoso nel suddetto brano, non è che si esageri per numero di assoli e lunghezza degli stessi, come al contrario succede nei Resumed, dato che ce n’è uno per pezzo tranne che nella stessa “Path to Hell” dove c’è un altro assolo nella parte conclusiva. Sorge però in questo reparto una piacevole contraddizione: se le due chitarre cercano di rendere più profondo l’intero discorso sovrapponendosi, il riffing al contrario ha un’impostazione molto classica grazie alla semplice e memorizzabile struttura, a parte quel lunghissimo riff black di “Chaos Before the End” che funge da infinita parte conclusiva in lenta dissolvenza. D’altro canto i nostri Daniele Rizzo e Lorenzo “Kallo” Carlini si portano appresso un bagaglio di influenze effettivamente ampio che consta di qualche puntatina nei territori del thrash sempre però aventi un’anima death bella in evidenza.

E poi c’è una sezione ritmica che per un gruppo così giovane è abbastanza particolare. Merito soprattutto della batteria che ha (quasi) sempre voglia di costruire ritmiche non banali e manco così convenzionali, seppur il risultato non si avvicina a quello di Luca Zamberti dei Mass Obliteration, a cui si può al massimo accomunare con assoluta sicurezza la tendenza a non diversificare le varie battute di uno stesso ritmo sparando quindi un’inquietante meccanicità che viene disturbata soltanto nel finale di “Chaos Before the End” in cui il lavoro diventa più movimentato del solito. Una cosa curiosa, anche per un qualsiasi gruppo death, è che, a dispetto della coraggiosa caratteristica sopraccitata, fa ampio uso di ritmiche che mi ricordano più formazioni speed metal (speed, non thrash) come gli At War, e così via con tupa-tupa belli lineari con doppia cassa indiavolata. Fra l’altro Luca Soldati non sfoggia neanche una misera traccia di blast-beats, sparando al massimo dei violenti tupa-tupa come in “Chaos Before the End”, e comunque vi è un ottimo equilibrio tra i tempi veloci e quelli più lenti, perciò anche per tale motivo ‘sto gruppo non è particolarmente indicato per chi cerca un assalto sonoro senza pietà.

Nonostante tutte le stranezze dei Black Therapy, il basso, nella persona di Giulio Rimoli, è l’unico strumento che si può ritenere in “ombra” (bestemmione?), più che altro perché i suoi compiti sono molto classici non dando adito a niente che possa assomigliare a formazioni raffinate come i conterranei Ghouls. In compenso sono letteralmente innamorato del suono elegante del basso, totalmente adatto ai vari tecnicismi del quintetto romano.

Ma tutta questa eleganza non sarebbe niente se non ci fosse una bella struttura-tipo che sorreggi bene i vari pezzi del demo. Infatti, ci troviamo al cospetto di un gruppo che in un certo senso richiama la metodologia strutturale degli ultimi Death (non a caso i Black Therapy talvolta propongono dal vivo “Spirit Crusher”…), riproposta però in una forma molto meno severa, e da questo punto di vista “Path to Hell” può fare da esempio principe e subito chiarificatore. In generale, i Black Therapy offrono una notevole sequenza complessa di 3 – 4 soluzioni che viene ripetuta con sequenzialmente per 2 volte come se si stesse rispettando un comune schema a strofa-ritornello. La cosa curiosa è che in tale sequenza viene ripresa spesso addirittura l’introduzione del brano, che poi costituisce uno dei pochissimi stacchi e pause che i 5 romani sparano visto che il loro discorso solitamente procede in maniera molto fluida e senza tanti giri di parole.

La stessa “Path to Hell” è però a mio avviso pericolosamente a doppio taglio, e qui bisogna rivolgersi direttamente alla parte finale. Infatti, sbrogliando la faccenda a partire dal lato negativo, ho trovato particolarmente ostico strozzare letteralmente il grandioso discorso metallico/melodico con la graduale entrata in scena di 2 chitarre acustiche ed una elettrica particolarmente dolci e disperate. Avrei preferito al contrario lo sviluppo della parte centrale in tapping e tupa-tupa assassini che lasciava prefigurare una bella botta emotiva di raro impatto. Al contrario, un finale simile lo ritengo affascinante proprio perché, invece di avvolgere l’ascoltatore con un finale potente ma disperato si è preferito il rifiuto della “violenza” musicale in luogo di vagiti struggenti e senza speranza che sono la più totale negazione del classico finale metal, ossia coraggio (che poi sarebbe per me il vero punto di forza del gruppo anche perché “Chaos Before the End”, come già scritto, si conclude con un’infinita melodia straziante senza far mai stancare l’ascoltatore) da apprezzare = atipica migliore canzone di tutto il lotto.

Voto: 92

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Drifting Forever/ 2 – The Night Is Mine/ 3 – Chaos Before the End/ 4 – Path to Hell

Lunghezza approssimativa:
18 minuti circa

MySpace:
http://www.myspace.com/blacktherapyband