Wednesday, June 22, 2011

Bahal - "Ikelos" (2010)

Recensione pubblicata il 6 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.

Album autoprodotto (1° Dicembre 2010)
Formazione (2005): Lord Bahal, voce, chitarre, basso, batteria elettronica
Giulia Sidhe, arpa celtica in "Tra le Braccia di Morfeo" (ora bassista ufficiale dei Bahal)

Provenienza: Lecco, Lombardia

Discografia: “Gazing at the Winter Moon” (Album, 2005)
“Striges” (Album, 2009)
“Hieros Gamos/Bahal/Cenere Split” (Split, 2010)

Canzone migliore dell’album:
Senza nessunissima ombra di dubbio il tour de force di ben 10 minuti de “Il Labirinto”: disperato, poetico, tutto costruito su un climax emotivo fenomenale dove la chitarra solista detta legge. Da non dimenticare nemmeno le grandiose pause d’effetto dominate da suggestive chitarre acustiche. Un vero e proprio viaggio sonoro.

Punto di forza dell’album:
la suddetta chitarra solista. Lord Bahal si è preoccupato così tanto di curare il settore chitarre da metterne in certi momenti addirittura 3 come sono notevoli quelle brevi, isteriche e sferzanti variazioni della solista che qui e là fanno capolino nel discorso.

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Curiosità:
la musicalità di Bahal è sempre stata impregnata di riferimenti aulici, spesso a partire dal titolo dell'album. Che in questo caso prende di mira una divinità greca come Icelo la quale, come suo fratello Morfeo (citato anch'esso nei testi dell'ultima fatica), fa parte del corteo dei sogni. Ma non credete che sia una divinità positiva perchè non è nient'altro che il dio delle apparizioni, delle fobie e degli incubi.

Se gli Ammonal rappresentano il trionfo individualista del collettivo, il solo - progetto Bahal è l’apice del vero e proprio individualismo oserei dire egocentrico. Non a caso, una delle figure storiche di Timpani allo Spiedo, Roberto Moro del progetto sardo Hieros Gamos, altra formazione strambissima che a suggestioni di natura freudiana unisce un black metal ultra – contorto e dalle minacciose melodie arabeggianti, ha ultimamente reclutato Lord Bahal per le parti di chitarra solista in vista del proprio primissimo album. Ma se gli Hieros Gamos hanno abbandonato la vecchia scuola per un approccio legato alle esperienze di gruppi africani/asiatici ancorati, come giustamente dovrebbe essere, alla tradizione musicale della propria cultura, Bahal è uno dei primi 5 casi più bizzarri che mi siano mai capitati di ascoltare. Praticamente il nostro è stato capace di dire qualcosa di personale senza stravolgere praticamente nulla.

Infatti, “Ikelos” dalla copertina sembrerebbe un disco intellettualoide. In un certo senso lo è, ma di ciò è tutto merito delle grandiose liriche, impregnate di una poeticità lontana anni luce dalla misantropia ingenua tipica del black metal (e fra l’altro nella nostra lingua!). Ma musicalmente si è perfino dalle parti di un black/thrash metal comunque molto diverso dalla bestiale “ignoranza” e rozzezza di molte formazioni del genere richiamando però allo stesso tempo la vecchia scuola dell’estremo. Questo divario fra Bahal e gruppi come Horned Almighty, Bunker 66 e compagnia non è soltanto determinato dalla capacità del lecchese di partorire pezzi pericolosamente lunghi eppure distanti dalla macchinosità difficilmente emotiva degli Hieros Gamos. Eh sì, perché per questa sorta di eleganza, che paradossalmente rifugge da soluzioni complicate e non facilmente assimilabili (il riffing per esempio di solito è bello classico), concorrono sia in misura secondaria il fatto che i momenti black e thrash sono spesso autonomi fra di loro, offrendo così poche occasioni in cui i due generi effettivamente si combinano (di conseguenza il discorso chitarristico e meno primitivo e pennellato); sia primariamente il lavoro mai invasivo della chitarra solista che fa sentire il suo “peso” con una frequenza notevole e piuttosto rara da beccare in circolazione riuscendo a immettere spesso nei pezzi un’atmosfera tempestosa (si ascolti a tal proposito l’attacco de “Il Labirinto”… ma anche “La Rosa” non scherza per niente).

Una delle caratteristiche più particolari di questo progetto musicale è appunto il ruolo preponderante della chitarra solista. Lord Bahal possiede un’abilità pressoché stupefacente nello sfruttare le sue possibilità tecnico – espressive erigendo monologhi virtuosi e melodici che con la loro immane fantasia possono risolvere pezzi altrimenti più difficili da concludere. In tal modo si costruisce un crescendo emotivo molto personale per il concetto di Metal estremo partendo comunque, almeno per quanto riguarda gli assoli veri e propri, da basi metalliche prettamente ottantiane, anche perché talvolta lo schema dei pezzi assume connotati molto classici, con il solismo che magari si presenta dopo la tipica sequenza 1 – 2 – 1 – 2.

Quindi, è esatta la definizione data a Bahal su Metal – Archives? In parte sì, in parte no. Infatti, il termine “progressivo” è stato usato in maniera forse impropria, più che altro perché il nostro non partorisce una musica dalla grande e avvolgente pienezza melodica che alla fine è a esclusivo appannaggio del settore chitarre. Al massimo, le uniche cose riconducibili a tale concezione sono la già menzionata “prolissità” epica di alcuni brani e soprattutto la semi – emarginazione della voce che guardacaso è stata discriminata chissà quante volte nel rock progressivo nostrano (avete presente Il Rovescio della Medaglia, i Campo di Marte o i Picchio dal Pozzo?).

Invece il cantato rappresenta forse l’unico elemento veramente death, termine che campeggia quasi inspiegabilmente nell’etichetta regalata al progetto. Trattasi di un grugnito bello cupo ed un po’ statico molto simile a quello dei sardi Vultur, anche se non mancano poche, modeste ma efficaci “alzate” di tono, e nemmeno qualche occasionale sussurrìo (entrambe le cose sono presenti in “Erebo”). Eppure tale cupezza non ha impedito di creare delle grandiose linee vocali che tradiscono una dimensione eroica e tremendamente agguerrita mostrando così un discorso semplice ma bello potente e sufficientemente inventivo da avere esso stesso una cadenza ritmica eccezionale. Le parole spesso vengono accentuate, altre vengono dilatate, permettendo di conseguenza una comprensibilità delle liriche che certi gruppi si sognano soltanto. Appunto per tutto ciò avrei preferito che la voce avesse avuto maggiore importanza, anche perché accade non poche volte che si assenti per parecchi minuti (la lunga parte centrale de “Il Labirinto”) mentre in altre occasioni così facendo si conclude addirittura un brano come “La Rosa” – che comunque per impostazione rimane un qualcosa di superlativo visto che contiene inoltre uno stacco di chitarra in solitario severa e magniloquente, una vera chicca per intenditori. Dai, non facciamo gli errori del nostro prog che a vantaggio di un esasperato virtuosismo ha spesso abbandonato le magnifiche immagini poetiche donate dalla voce!

Il secondo punto debole dell’album è la batteria che, proprio come negli Hieros Gamos, è completamente elettronica. Ma qui vale un discorso simile a quanto detto sulla voce, ossia essa rappresenta un punto debole non esattamente in sé ma di per sé. Infatti, programmata in maniera efficace anche se talvolta non risulta abile ad accentare il riffing (“Danza del Crepuscolo”), la batteria ha più che altro problemi di bilanciamento con gli altri strumenti. La produzione da questo punto di vista è a volte “birichina”, visto che tra un pezzo e l’altro può capitare che la drum appaia più debole costringendo così l’ascoltare a riabituarsi a diverse frequenze, e la musica a fare qualche sforzo in più per risultare più incisiva possibile (ed il bello è che tale impresa non sembra poi così difficile…. Merito ancora maggiore).

Altra cosa da discutere è la struttura che regge le varie composizioni, già difficilmente gestibile per la lunghezza delle stesse ma d’altro canto è un “problema” quasi inesistente. Però bisogna far osservare che i ‘sto ragazzo a volte pare voler esagerare con i cambiamenti repentini di umore partorendo in tal modo brusche virate prive di un effettivo sviluppo emotivo. Questa osservazione grava purtroppo specialmente proprio sull’ultimo brano, che a un tempo medio thrash fa seguire all’improvviso dei blast – beats con tanto di chitarra solista evocativa ed un grugnito disperato: un momento atmosfericamente veramente troppo troppo diverso da quello precedente.

In compenso, è da notare come sia stata molto intelligente la cura riposta nel posizionamento dei pezzi. Per fare un solido esempio, mi pare validissimo l’elegantissimo intermezzo di 2 minuti de “Il Bardo” che, utilizzando due chitarre acustiche di cui una solista (e qua non si parla affatto di banali e semplicissimi arpeggi!) con tanto di armonico conclusivo, risulta praticamente perfetto per blandire gli animi dopo una prima parte dai brani apparentemente infiniti e belli in tensione. E che dire invece della rimaneggiata “Marcia Funebre” di Chopin che funge da elegante introduzione dell’album? E della riposante atmosfera quasi da “ninna – nanna” dell’outro “Tra le Braccia di Morfeo” dove una chitarra acustica si staglia su una produzione che da inquietante contrasto è di una sporcizia ineffabile, atta quasi a rappresentare la definitiva corruzione dell’animo umano che vuole continuare a vedere il Sole ma non ad accorgersi della schifosa realtà che gli sta intorno?

Pura poesia.

Voto: 73

Claustrofobia
Scaletta:
1 – La Tormenta/ 2 – Il Sentiero/ 3 – Erebo/ 4 – Il Bardo/ 5 – Il Labirinto/ 6 – La Rosa/ 7 – Danza del Crepuscolo/ 8 – Tra le Braccia di Morfeo

MySpace:
http://www.myspace.com/bahalblackmetal



2 comments:

  1. "Tra le braccia di Morfeo" è eseguita da un'arpa celtica, non da una chiatrra acustica

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