Thursday, August 5, 2010

Hobnailed - "Inhuman Doomsday Scenario" (2010)

Ragazzi, dopo aver finito di trascrivere la rece su Word, ho saputo da Metal-Archives che il cantante Andrea “Babu” Malfatto purtroppo ci ha lasciati il 18 del mese scorso. Ciò che leggerete sarà quindi dedicato a Lui, che ha regalato ai posteri l’ultima sua testimonianza artistica. E non importa se non l’ho mai conosciuto di persona. Merita rispetto lo stesso.

Ciao Babu!

1. INTRODUZIONE.
Il mese di Maggio è stato un periodo veramente molto strano, il periodo delle ricomparse, dei gruppi che addirittura più di un anno dopo il primo contatto si sono rifatti vivi, ricordandomi di me e della mia ancor modestissima rivista. Prima è successo, come si è recentemente visto, ai grandiosi black/deathettoni siciliani Aposthate ed ora tocca al turno dei ferraresi Hobnailed, i quali, precisamente nella persona di Mario Ranieri, chitarrista del quartetto, sono andati anche ben oltre; mi hanno infatti mandato per posta tradizionale la propria nuova opera, figurando quindi tra le formazioni di cui conservo gelosamente, come un guardiano, i dischi originali (e ce ne saranno ancora parecchi!). Veramente molto strano il mese di Maggio. Avrà forse influito l’eccezionalità di quella maledetta pioggia che è caduta fino a molte settimane fa sulle nostre teste ormai battute da un sole incessante e spacca-pietre? Mah, chissà.

2. PRESENTAZIONE EP.
Gli Hobnailed, nati nel lontano 2003 ed attualmente costituiti, oltre che da Mario, da Andrea “Babu” Malfatto voce, Andrea “Sque’” Squerzanti basso, e Nico Malanchini batteria, durante l’inizio di Maggio hanno rilasciato, dopo tante peripezie (vi segnalo a tal proposito che il disco era già pronto nel Gennaio dell’anno scorso, guarda caso nello stesso periodo in cui li ho contattati – pure loro? Eh sì, gli Aposthate insegnano!) e presso la stessa etichetta del cantante, cioè la lovecraftiana Horrors of Yuggoth, l’ep “Inhuman Doomsday Scenario”, pargolo che segue di ben 4 anni il primissimo demo “Smell of Rotting Life”. Ed ammirando la magnifica e spettrale copertina (disegnata proprio da Babu) della nuovissima opera, nel quale rintraccio sia forti richiami a quelle del brutal moderno (e qui ecco in mio aiuto l’allucinante verdastro nella sua parte superiore) che i disegni “spartani” e malati tipici della vecchia scuola del death, si potrebbe già capire (beh, oddio…) con quali pezzi dall’alone terrificante si ha a che fare, e mi dispiace che finora è stato un genere trattato abbastanza poco nelle pagine di “Timpani Allo Spiedo”: il brutal. E così i nostri ci rimbombano sadisticamente i timpani attraverso 4 canzoni condite all’incirca per un quarto d’ora di durata, proponendo a mio parere un brutal nuovo stampo, ossia bello isterico e pieno di cambi di tempo, piuttosto tecnico ed abbastanza vario e fantasioso seppur senza esagerare, ed ovviamente (quasi) povero di melodie. E devo dire fin da subito e senza tanti convenevoli che tutto questo marasma sonico mi è tremendamente piaciuto, cosa a dire il vero quasi scontato da sottolineare dato che finora la maggior parte dei dischi brutal da me recensiti (dai rozzi ma con una buonissima inventiva Engorgement in Veins agli eleganti e “positivisti” Fleshgod Apocalypse, per finire con i più grindsters, diretti e semplici Dr. Gore) mi hanno fatto quest’effetto ed in pratica solo gli assurdi e psicotici Putridity non son riusciti nell’impresa, pur apprezzando la loro originalità. Eppure credo che si potrebbe limare qualcosina per quanto concerne l’ep dei ferraresi, di cui parlerò naturalmente nei paragrafi appositi, seppur non sia nulla di così effettivamente grave.

Molto interessante è secondo me la struttura stessa dei pezzi, che se non sbaglio si muovono su coordinate caratteristiche del brutal più moderno, anche se qui non si raggiunge la complessità estrema cara a formazioni quali gli Embryonic Depravity o gli stessi Putridity, che sostanzialmente da questo punto di vista sono quasi imprendibili ed incomprensibili. Infatti, rispetto a loro, gli Hobnailed sono in un certo senso più attenti a proporre uno schema che si avvicina a quello classico del Metal, magari offrendo persino un qualcosa che abbia a che fare da vicino con lo schema strofa-ritornello, che comunque si trova soltanto nella sola “Repugnance Towards Purity”, e precisamente nei momenti iniziali della canzone si sciorina se non sbaglio un 1 – 2 – stacco di batteria – 1 – 2 – 3 – pausa brevissima – 4 – 2. Inoltre, viene data una particolare importanza alle sequenze più o meno fisse di soluzioni, e quel “più o meno” sta a significare che esse vengono spesso e volentieri modificate, e tale discorso riguarda con una buona frequenza le battute che interessano un passaggio, come nello stesso schema strofa-ritornello di cui sopra, oppure nel finale di 3 – pausa – 4 – 2, dove in entrambi i casi l’ultima soluzione è sottoposta, nella propria ultima apparizione, ad una sola mezza battuta in luogo se non erro della precedente una intera. Non poche volte invece dentro una sequenza viene aggiunto un altro passaggio, di solito una variazione di quella del tema successivo, proprio come succede sia in “Paroxysm of Virulent Intercourse” che, ma in misura leggermente diversa, in “Mocking the Wretched”. Nella lunga sequenza rappresentata a grandi linee dall’1 – 1 mod. – 1 anc. mod. – 1 anc. mod.2 della prima canzone sopraddetta, e precisamente nella sua seconda ed ultima apparizione, non solo vengono eliminati i due stacchi iniziali (il primo tra l’ 1 e l’1 mod., mentre l’altro tra quest’ultimo passaggio ed il successivo) ma viene variato enormemente lo stesso 1 mod., già molto imprevedibile e dinamicissimo in precedenza. E tale “sballamento” viene secondo me previsto ottimamente dalla stessa improvvisa e nuova variazione della stessa 1 mod., la quale è in sostanza un suo repentino e breve rallentamento. In “Mocking the Wretched” il discorso è un po’ diverso perché, in luogo del precedente 2 – 3 – 3 mod., viene completamente eliminata la soluzione che sta al centro di tale mini-schema, così da sostituirla con il 3 anc. mod.. Insomma, la musica qui è piuttosto isterica, cosa che forse aumenta ulteriormente se si pensa che da queste parti le battute, quasi perennemente modificate, non superano mai e poi mai il massimo di 4, e che, e ciò è ancor peggio, i differenti passaggi vengono sottoposti in poche occasioni ad una sola battuta oppure a delle vere e proprie “malformazioni” durante il loro discorso, nel senso che questo viene bruscamente bloccato in modo da offrire in sostanza delle mezze battute, come avviene con una particolare enfasi per l’1 di “Ode to Gangrening”, il quale, povero lui, viene storpiato sempre e comunque. E bisogna dire inoltre, come ultima cosa, che gli Hobnailed sono uno di quei gruppi che non esagera poi così tanto con gli stacchi, tant’è che sia in “Repugnance Towards Purity” che in “Mocking the Wretched” se non sbaglio essi non superano le 2 apparizioni, e tra l’altro a mio parere vengono usati pure abbastanza bene, visto che sono spesso brevissimi, delle vere mazzate in solitario, oltre che persino non poco fantasiosi, dato che in pratica ogni strumento ha un suo perché durante questi saettanti momenti, il che aumenta probabilmente l’interesse nell’ascoltatore.

Per quanto concerne invece la buonissima produzione del disco, prima di tutto è da segnalare che essa è indicata molto per chi adora a più non posso i suoni puliti, ormai caratteristici del brutal. Tutto si sente piuttosto bene, anche se non è stata secondo me data una particolare enfasi alla traballante cassa, il cui suono, almeno in certi momenti, mi è apparso alle volte debole e quindi non esattamente comprensibile, e ciò specialmente quando il suo discorso non è continuo e fissato sul doppio pedale (attenzione, ascoltando l’opera direttamente con le cuffie, sarà quasi scontato farvelo osservare, ma la cassa la si becca con più facilità). Rispetto ad alcune produzioni tipiche del genere, le frequenze di “Inhuman Doomsday Scenario” mi paiono basate sui medi, mossa a mio parere molto azzeccata in quanto così facendo si tende a non nascondere su volumi assordanti l’impatto della musica, in modo anche di non arroventare in poco tempo i “malcapitati” timpani (che spiegazioni pseudo-tecniche che do’!) di chi ascolta.

3. ANALISI STRUMENTI.
La voce del nostro Babu è terrificante. Sì, perché, durante tutto l’arco dell’ep, scorrazza “allegro e felice” con dei vocalizzi che sono dei perenni grugniti abbastanza bassi, seppur non esattamente gutturali ed estremi. Riescono a dare secondo me un ulteriore atmosfera a tutto l’insieme, e tra l’altro sono piacevolmente a mono tono, come a voler dare l’impressione di un uomo agonizzante in una gabbia minuscola e senza nessuna via di fuga, “vivendo” ogni giorno come se fosse il primo in cui ha messo il piede per la prima (ed ultima) volta in quel manicomio su scala nana. Il tormento è sempre lo stesso. E quindi, direte voi, è tutto qui? Eh no, perché il nostro, ma solo in (poche) occasioni, riesce a dare un tocco maggiore di depravazione eruttando dalla propria gola dei veri e propri gutturalismi acuti in pieno stile vecchi Prostitute Disfigurement, però espressi in maniera meno lancinante ed estrema. Ciò è dovuto a mio parere molto al fatto che tali vocalizzi si fanno vivi sempre e comunque insieme a quelli principali, questi quasi onnipresenti, così che alla fine, pur dando l’impressione di una mente continuamente e brutalmente sgozzata e violentata anche perché l’uomo di cui sopra non ha nessuna concreta possibilità di suicidarsi, le linee vocali, e di conseguenza la potenza della voce, non risultano sfruttate totalmente a dovere. Credo infatti che ai vocalizzi maialeschi dovessero essere attribuiti anche degli interventi più in solitario, in modo da usare la loro carica rivoltante per dare ulteriore fastidio (ed effetto) verso i timpani dell’ascoltatore. Buona comunque l’idea di relegare in secondo piano tale tipo di voce, e ciò perché a lungo andare, se utilizzata con notevole frequenza come faceva appunto qualche tempo fa la sopraccitata formazione olandese, l’effetto da poco descritto perde secondo me il proprio fascino immensamente perverso, considerando pure la sua poco espressività. Da notare inoltre che Babu non fa un grande uso degli effetti, tant’è vero che se non sbaglio ce n’è uno soltanto nel finale di “Paroxysm of Virulent Intercourse” in cui si conclude il brano con uno spaventoso e cavernoso eco tempestivamente innestato sulla voce.

Ottimo il lavoro di Mario che, pur non essendo così vario e fantasioso ma neanche così monolitico, riesce a regalare una buona dose di riffs il cui tasso di complessità, sia tecnica che strutturale, non mi sembra abbia a che fare con quelli che spesso tirano fuori gruppi tecnicissimi come gli Psycroptic, rientrando perlopiù nell’area più classica del brutal moderno. Tra l’altro, nonostante ci sia solo uno dietro le asce, la loro potenza, dal suono pieno e compatto, è tremendamente notevole. L’andamento del riffing è solitamente piuttosto dinamico, e ad esempio si passa da schitarrate belle malvagie ed un pochino più minimaliste del previsto, le quali possono essere anche sporcate da seppur vaghe influenze thrasheggianti, come succede in “Repugnance Towards Purity”, mentre nell’ultima “Mocking the Wretched” fanno capolino delle melodie intrise di una cattiveria assurda, come beffarde e senza pietà. La melodia, però, in un modo completamente diverso, molto più movimentato e, sempre se si possa usare tale termine, più “solare”, è presente pure in “Paroxysm of Virulent Intercourse”. Curiosamente da queste parti si è abbastanza restii a vomitare soluzioni dal piglio schizofrenico, quelle cioè che in maniera brusca e dolorosa, vengono “abbellite” tramite delle note più acute, e da questo punto di vista si possono prendere come esempio-principe “Repugnance Towards Purity” e, in misura più tipica ma con meno frequenza, nella stessa “Ode to Gangrening”. Per quanto riguarda le partiture più lente mi è piaciuta molto la (quasi) assenza di quei minacciosi riffs “grattati” e da pelle d’oca tendenti a certo doom, i quali ultimamente nel genere stanno sempre più andando di moda – brutta parola se usata per il Metal estremo. Ed infatti, Mario ha avuto la buona idea di reinterpretarli rendendoli più freschi e quindi non banali e/o scontati (a tal proposito si sentano gli incubi strazianti di “Repugnance Towards Purity”) ma, come ormai è classico del genere, anche negli Hobnailed la chitarra solista quasi non esiste, preferendo quindi un approccio più diretto e meno cervellotico, e se per voi quest’osservazione, riferita ad un disco di tal fatta, è superflua, allora vi consiglio di ascoltare l’apocalisse perpetrata dai Fleshgod Apocalypse. In sostanza, l’unica sovraincisione di chitarra che ho beccato in tutti e 4 i pezzi è stata nella sola “Ode to Gangrening”. In tale occasione, la solista è secondo me completamente azzeccata, dato che, con interventi brevissimi anche se non proprio violenti e comunque basati sulle note più acute che paiono urla assurde, riesce a chiudere brillantemente il discorso della compagna. Il nostro però non si ferma soltanto a questo “piccolo” dettaglio, ma va oltre, anche se comunque pure qui si rimane nella più pura classicità. Infatti, ecco che in “Ode to Gangrening” viene vomitato un assolo isterico e semi-rumorista, e tra l’altro di una brevità saettante, ma comunque il capolavoro a mio parere lo si raggiunge nella seguente “Mocking the Wretched”, dove il solismo assume forse un’impronta più personale, visto che non è altro che una melodia terribilmente malvagia ed amara, creando così un’atmosfera veramente da brividi. Inoltre, tale assolo, rispetto al precedente, possiede un’importanza maggiore anche perché è stranamente lungo tanto da occupare qualcosa come 7 battute e mezzo, cosa che lo rende ulteriormente azzeccato per il brano stesso, in modo da trasmettere ancora di più il beffardo odio verso i tormenti del miserabile. Avrei preferito a dir la verità un uso maggiore dei solismi, dato che finora non ho mai sentito un gruppo brutal dare loro un’importanza fondamentale (a parte i leggendari – per la posizione che occupano nella storia della nostra cara musica – Excoriate, che però puri brutallari non erano) e soprattutto visto l’effetto ottimamente atmosferico presentato, anche perché nel genere se non erro si tende ad eruttare note caotiche come in “Ode to Gangrening” e quindi consiglio a Mario di procedere sulla strada di “Mocking the Wretched”. Interessante poi il rigore strategico con cui è stata utilizzata la chitarra solista, una strategia (semi)-progressiva che nelle ultime due canzoni fa esplodere il tutto con immane ferocia, ma stranamente non ho trovato poi così malato ed efficace il primissimo assolo, più che altro nella sua parte conclusiva, forse fin troppo sbrigativa e nella stessa scelta delle note finali, che non raggiungono l’effetto probabilmente desiderato. L’ultima considerazione riguarda la quasi totale assenza della chitarra durante gli isterici e funambolici stacchi, caratteristica abbastanza rara in campo estremo, tant’è vero che sia in “Paroxysm of Virulent Intercourse” che in “Ode to Gangrening” essi non sono mai e poi mai attribuiti all’ascia di Mario, anche se assume un’importanza un poco maggiore nelle introduzioni dei vari pezzi, come succede sia in “Repugnance Towards Purity” (qui però è preceduto da una batteria solitaria) che specialmente in “Mocking the Wretched”.
Ed ora parliamo del basso, il cui lavoro a grandi linee non si discosta poi così tanto da quello classico di questo strumento, ergo non aspettatevi cose a là Ghouls oppure a là Sacradis, eppure ciò che Sque riesce a sputare in quest’opera secondo me è veramente da apprezzare, ed a tal proposito si prendano soprattutto gli stacchi di “Paroxysm of Virulent Intercourse” (ben 2, ed il secondo insieme alla voce) e l’unico in solitario di “Ode to Gangrening”. Stacchi fulminei eppur “ingentiliti” (bel paradosso) dal suono per niente “ignorante” ma per nulla raccomandabile del basso, il quale addirittura introduce, in coro con Nico, l’ultima canzone sopraccitata, dimostrando ancora una volta di essere sfruttato veramente bene, in modo da dare un tocco in più di fantasia a tutto l’insieme.
Se è per questo non ha niente da invidiare neanche la batteria. Prima di tutto, devo fare i complimenti per il suono scelto, decisamente molto lontano dalle triggerate (anche se belle potenti) un poco “plastiche” di molti produzioni brutal, preferendo invece qui sì per un approccio pulito ma dal taglio più genuino rispetto ad altre formazioni. Ma per chi vuole uno stile molto vario e fantasioso, come potrebbe essere quello di Rasez degli appena recensiti Aposthate, allora mi sembra giusto segnalare che Nico, da perfetto brutallaro, ama da morire i ricami continui e lineari di una doppia cassa impazzita ed incontrollabile, ed infatti solo pochissime volte questa viene sostituita da discorsi diversi del solito, come nel breve momento doomeggiante di “Paroxysm of Virulent Intercourse”, mentre se non erro nella precedente “Repugnance Towards Purity” ci sono anche dei lontani richiami al thrash, visto che viene eruttato un tupa-tupa non molto veloce accompagnato da una cassa seghettata e quasi nervosa. Ma nonostante i tempi veloci la fanno assolutamente da padroni, le ritmiche più groovy, anche se spesso e volentieri inframmezzate da dei continui cambi di tempo, hanno un proprio bello spazio, sia nella forma più classica dei rallentamenti tipici del genere, sia in quella più personale, come in “Ode to Gangrening”, in cui tra l’altro nei momenti interessati si può far vivo pure un pericoloso e squillante ride. Mi sono reso conto inoltre che probabilmente è proprio nei tempi meno sostenuti che Nico riesce a dare un’impronta più riconoscibile, come nelle trame disturbanti ed a-lineari dello stesso pezzo sopraccitato, oppure nei tom-tom + piatti di “Mocking the Wretched”, e quindi il nostro si dimostra talvolta capace di regalare forse più interesse anche agli ascoltatori più esigenti. L’andamento del discorso è molto movimentato ed imprevedibile, seppur Nico non paia molto interessato a variare uno stesso pattern in diversi modi, come invece farebbe benissimo Stefano Franceschini dei romani Ghouls, eppure non mancano delle vere e proprie genialate in tal senso, come in “Repugnance Towards Purity”, dove nell’ultima apparizione della primissima soluzione del pezzo il lavoro del ride viene completamente capovolto, e tra l’altro tale variazione non l’ho percepita subito ai primissimi ascolti, dunque l’ho trovata ulteriormente da ammirare. Da notare infine che la batteria agisce non poche volte da propulsore, in quanto, come nello stesso brano sopraccitato, ed insieme al basso in “Ode to Gangrening”, fa partire il discorso attraverso agili interventi, pur avendo un’importanza minore per quanto concerne gli stacchi.
4. IL PEZZO MIGLIORE.

Per quanto riguarda invece la canzone che più mi ha entusiasmato del lotto, la scelta mi è stata piuttosto facile dato che l’attenzione è caduta immediatamente su “Mocking the Wretched”, cioè l’episodio conclusivo, e tale considerazione non riguarda soltanto il particolarmente lungo e melodico assolo di chitarra perché comunque ho intravisto in questa canzone vari spunti d’interesse, e tutti secondo me si mostrano coerentissimi con il concetto stesso di fine disco.
Infatti, prima di tutto, è l’unico pezzo che presenta uno spezzone (lungo circa 24 secondi) totalmente in italiano e che sembra sia stato preso da un film con Charlton Heston, vista la voce del suo doppiatore storico. E la scelta della scena a mio parere è completamente azzeccata, in linea anche con il titolo del brano, che in pratica è una specie di monito rivolto ai cosiddetti uomini “soddisfatti e ben pasciuti come porci” ed a quelli con “occhi di bue”, e l’ultima frase è tremendamente esplicita: “Vi rendete conto che questa può essere la vostra ultima ora?”. In quest’ep tale spezzone viene forse usato per denunciare gli individui ciechi e che si accontentano semplicemente di soddisfare soltanto i propri bisogni materiali, come se la realtà circostante fosse fatta di cartapesta, sciupando di fatto il proprio tempo così da utilizzarlo soltanto per l’appropriazione senza fine e ghiotta di materia?

Il secondo spunto d’interesse è rappresentato ottimamente dal finale infinito, che in sostanza è l’unico momento dell’intero disco ad essere ripetuto per molte (e molte) battute, dissolvendosi nell’eternità, come se quella famosa ora si fosse fermata all’improvviso senza che l’infelice abbia avuto l’opportunità di vedere cosa sarebbe successo dopo. Ma il tormento continua, completando in maniera veramente esemplare l’introduzione parlata, il suo monito, in modo da rappresentare l’infinito errore egoistico (anche verso la propria persona) la cui importanza e stupidità verranno ricordati sempre nei secoli, fungendo così lo stesso finale da monito;

il seguente aspetto fondamentalmente è legato al finale eterno (che si protrae dal momento della sua apparizione, su un angoscioso tempo medio abbastanza lineare e su doppia cassa, alla fine circa per un minuto), e riguarda per l’appunto il minutaggio della canzone. A tal proposito, grazie ad esso qui si riesce a superare “Repugnance Towards Purity” attraverso qualcosa come 14 secondi in più che fanno in totale 4 minuti e 20.

Ma a mio parere “Mocking the Wretched” possiede un legame con “Ode to Gangrening” molto profondo e di certo non percepibile all’istante, e che risulta determinato dalla struttura dei due episodi, per certi versi decisamente similare.
Prima di tutto, lo schema della prima canzone è approssimativamente il seguente: introduzione di chitarra – 1- stacco collettivo – 2 – stacco di chitarra + voce – 2 – 3 – 3 mod. – stacco di chitarra – 4 – 4 + 3 – 4 + 3 (assolo) – 2 – 3 anc. mod. – 3 mod. – 5 – 3 anc. mod. – ennesima modificazione del 3, però all’infinito. Nei momenti iniziali dei pezzi interessati si fanno vive rapidamente le prime 3 soluzioni, di cui una viene ripresa subito dopo uno stacco (in “Ode to Gangrening” è il primissimo passaggio), mentre un’altra, ossia la terza, viene sottoposta ad una modificazione, che negli Hobnailed concerne quasi sempre sia il riffing che le ritmiche, solo che in “Mocking the Wretched” tale variazione non aggiunge l’esistenza di una sequenza più o meno fissa di soluzioni che si ripetono consequenzialmente nel tempo, contrariamente all’altra canzone, che grazie al 3 mod. fa partire una specie di strofa-ritornello con la sua origine. Poi, in entrambe si presenta uno stacco che in “Mocking the Wretched” evolve il discorso attraverso il 4, cosa che non succede per niente in “Ode to Gangrening”, in cui invece si riprende l’1 – 2 precedente. Nel mio brano prediletto comunque dopo lo stacco viene eruttato la prima ed unica combinazione di passaggi dell’intero disco, in modo da formare la melodia sui cui si costruirà l’assolo, il quale curiosamente anche in “Ode to Gangrening” interessa la quarta soluzione e tra l’altro in entrambe ha una posizione molto simile che quasi tocca i momenti finali del brano, come se si trattasse in effetti dello schema che più classico non si può. Ma da questo punto di vista vi è persino di più, dato che, non so se sia un caso o meno, dal passaggio successivo in poi sono sempre 6 i cambiamenti di soluzioni che si susseguono sequenzialmente. Successivamente, si conclude la canzone con 2 ulteriori modificazioni (in “Ode to Gangrening” sono le stesse di prima) dopo aver ampliato ancora di più il discorso con la quinta soluzione (ennesimo legame). Diverse sono invece la costruzione delle battute e la quantità di stacchi presenti, considerando che le prime in “Ode to Gangrening” sono brevi e saettanti, mentre i secondi sono una parte oserei vitale di quest’ultima canzone visto che ce ne sono se non sbaglio ben 5.

Si può quindi dire alla luce di tutte queste considerazioni che “Mocking the Wretched” estremizzi praticamente quasi in toto il discorso di “Ode to Gangrening”, proponendo fra gli altri una maggiore libertà strutturale costituita da una presenza largamente minore di sequenze più o meno fisse di soluzioni, le quali esistono pure qui, ma in maniera un poco nascosta (avete presente il 2 – 3 – 3 mod. dei momenti iniziali del pezzo? In quelli di poco finali il 3 di mezzo viene ulteriormente modificato e comunque l’unica sequenza che c’è è costruita su un numero di battute decisamente variabile ed imprevedibile, togliendo così ancora più appigli a chi ascolta), e notevole importanza possiedono anche proprio i pochissimi stacchi presenti, che dimostrano non soltanto ancora una volta la capacità del gruppo di variare da brano a brano, ma pure l’interessante abilità di creare un insieme fluido ed incontrollabile che viene potenziato solo con le proprie armi, “pesando” quindi sull’ascoltatore, che in caso contrario avrebbe avuto un qualche “riposo” sonico in più. Insomma, credo che tale promettente caratteristica in futuro dovrebbe essere maggiormente sfruttata a dovere, anche perché in campo estremo mi sembra che degli stacchi si abusa fin troppo.

5. CONCLUSIONI.
Beh, ragazzi, la rece sta volgendo al termine (“finalmente!”, dirà qualcheduno) e quindi, riassumendo, il brutal puramente moderno degli Hobnailed sa essere tecnico ma senza esagerare risultando forse (paradosso benvoluto) abbastanza accessibile, anche perché hanno avuto la buona pensata di arricchire il discorso con delle trovate melodiche di varia natura che strutturalmente non sono poi così difficili da digerire, e che talvolta riescono a dare un’atmosfera nera a tutto l’insieme (attenzione però, che è veramente arduo superare in tal senso le vette immani e spaventose degli Shredded Corpse), eppure, nonostante ciò, le chitarre non sono state secondo me completamente sfruttate (leggasi l’assolo sbrigativo di “Ode to Gangrening” e l’uso probabilmente fin troppo ponderato dei solismi, i quali sono in grado di dare quell’onta di pece e di intensità che alle volte mi paiono mancare nei pezzi, cosa che comunque si può anche spiegare grazie al paragrafo precedente, ergo quest’ultimo è un difetto per certi versi secondario), né i gutturalismi acuti riescono a regalare alla musica quel senso totale di depravazione che a mio parere giustamente dovrebbero dare, e per ultima c’è una cassa che in certe occasioni può sembrare deboluccia e senza forza. E per quanto riguarda quello che considero come il principale punto di forza del gruppo in quest’ep, devo dire che la scelta è stata particolarmente difficile, ma alla fine ce l’ho fatta, facendo cadere la mia attenzione sulla struttura stessa delle canzoni, che tiene sempre sul filo del rasoio attraverso un andamento molto dinamico e nervoso e che fra l’altro sa dimostrarsi pure abbastanza varia e fantasiosa, magari rendendo visibili dei buoni spunti futuri, come può essere benissimo la già citata capacità del quartetto di non dare tregua a nessuno offrendo anche una miseria di stacchi. Da applaudire anche i bruschi e lancinanti finali, delle vere e proprie coltellate che spesso concludono improvvisamente un brano. Però, comunque si vedano le cose, “Inhuman Doomsday Scenario” è a mio avviso un disco che mostra ulteriormente come se la passa il rivoltante brutal nel nostro paese, che lentamente si sta sempre più infettando tramite questa folle e malata evoluzione del death metal.

Voto: 82

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Repugnance Towards Purity/ 2 – Paroxysm of Virulent Intercourse/ 3 – Ode to Gangrening/ 4 – Mocking the Wretched

MySpace:
http://www.myspace.com/hobnailed

Wednesday, August 4, 2010

Aposthate - "Catharsis/Raebellion" (2010)

1. INTRODUZIONE.

Curiosissima la storia che lega i siciliani Aposthate a “Timpani Allo Spiedo”, una storia che si può dire abbia in pratica radici antichissime in quanto il tutto è nato se non sbaglio addirittura negli inizi del 2009, ossia nel periodo e-mail di questa rivista, ormai internettiana. Ma in quel momento il quintetto siciliano, da me conosciuto perfino attraverso l’entusiasta recensione su Rock Hard del primissimo demo, pubblicato nell’A.D. 2005, “First Born Hate”, stava registrando la nuovissima opera, e da lì tanto tempo è passato, ed io nei primi mesi non ho neanche nascosto loro la mia classica pignoleria da infarto garantito. Ma la cosa strana (certo, se si possa ancora definire così) è che non ho saputo più niente di questi ragazzi finchè incredibilmente e magicamente l’ormai terzetto da Caltanissetta, durante il mese di Maggio ovviamente di quest’anno, si è ricordato di me, prima dandomi la notizia della nuova uscita, poi inviandomela integralmente attraverso la posta virtuale! Finalmente anche “Timpani Allo Spiedo” sta avendo la sua fetta di riguardo dalla scena metallica italica. E cazzo se è stata una mossa giusta sopra ogni dire, perché, cari miei, come si suol dire, gli Aposthate spaccano culi che è un piacere! A questo punto credo che abbiano giovato moltissimo anche i 5 lunghissimi anni di assenza discografica, data la moltitudine di rabbia che si può sentire in tutto il nuovo pargolo.

2. PRESENTAZIONE DEMO.

“Catharsis/Raebellion” (già il titolo è tutto un programma) è stato pubblicato, come in fin dei conti lo stesso “First Born Hate”, dalla piccolissima (ma molto interessante) TAF Recordings, etichetta siciliana nata nel 2004 (proprio come il gruppo, il quale attualmente è composto da P.A. Midgard voce/chitarre, K. Adept basso, e Rasez batteria/voce), di cui quest’ep ne rappresenta soltanto la sua sesta uscita. L’opera consiste di 6 pezzi (chissà perché proprio 6...) per un totale di quasi 25 minuti ed in cui si può gustare un massacro violentissimo eppur meravigliosamente vario e fantasioso, anche dal punto di vista ritmico, e tremendamente ricco di tempi spacca-ossa, di una velocità (e di una tecnica) colossali. Andando più nel dettaglio gli Aposthate suonano a mio avviso ciò che ho cercato per tutto questo tempo per quanto riguarda il Metal estremo della nostra cara penisola, una contaminazione fra due generi che mancava addirittura dal 5° numero di “Timpani Allo Spiedo” quando fu il turno dell’occulto demo di “Et Jaghet Cughe S’Ossa Sua” dei sardi Vultur: il black/death, sotto-genere che io amo tantissimo e di cui è letteralmente piena la mia collezione di dischi, solo che, rispetto alla formazione sopraccitata, la materia in questa sede viene secondo me trattata attraverso un taglio un poco più moderno (produzione compresa), amalgamando il tutto con delle frequenti incursioni in un thrash bello tosto ed, in misura piuttosto simile, in un tipo di brutal isterico e contorto che mi ha fatto rimandare continuamente alla mente i più bestiali gruppi d’oggigiorno del genere. E quindi aspettatevi sempre pezzi molto diversi fra loro, anche se mi chiedo il senso della definizione (brutal death metal) data da Metal-Archives alla musica che propongono questi anticristiani fanatici, a mio parere sì errata ma fino ad un certo punto. Ma per chi vuole delle sonorità che diano una buona importanza alle melodie, allora è meglio che cambi recensione in quanto, è quasi superfluo farlo osservare viste anche le influenze derivanti dal brutal, da queste parti viene rispettata la tipica tradizione del black/death metal, famosa proprio per essere molto violenta e senza pietà, eppure ho ravvisato qui e là suoni decisamente originali per una formazione di tal fatta, dei quali parlerò, come sempre, più avanti.

La produzione di “Catharsis/Raebellion” l’ho trovata piuttosto curiosa, per certi versi simile a quella di “Wings of Antichrist” degli svedesi blackettoni Triumphator, e stavolta non mi riferisco precisamente ai suoni scelti in sé ma di per sé. Infatti, questa similitudine fra i due lavori ha secondo me come paragone principale la potenza della musica rapportata al tipo di frequenze quivi contenute, dato che le ho riscontrate sui medio/bassi, eppure la prima è immensa e a dir poco distruttiva, merito a mio parere non soltanto di una pulizia stupenda che risalta magnificamente ogni strumento, ma anche di un buon bilanciamento che non dimentica in pratica nessuna cosa per la strada (ma non ci sono solo questi due motivi, ma il terzo è ancora un po’ presto per scoprirlo, che però ve lo dirò implicitamente in fase di chiusura), risultando così molto lontana dalle classiche ma comunque bellissime produzioni dell’universo del black/death. Paradossalmente però, questo è uno dei dischi che preferisco ascoltare facendo male alle orecchie direttamente con le cuffie più che a spararmelo con lo stereo, e ciò perché cammin facendo ho scoperto che esso, a dispetto della scarna e semplice copertina (bel contrasto ragazzi!), è abbastanza ricco di particolari semi-nascosti (offerti in particolar modo dalle chitarre), dando così un ulteriore interesse e curiosità da parte dell’ascoltatore (almeno così è successo a me), seppur da questo punto di vista io abbia ravvisato un difettuccio, il quale naturalmente sarà argomento di discussione tra qualche pagina (amo far soffrire in questo modo la gente eheheh!! “Non dategli retta che è un matto!”).

3. ANALISI STRUMENTI.

Adesso andiamo ad analizzare uno per uno ogni strumento, partendo ovviamente dalla voce.
Essa mi è tremendamente molto piaciuta. Prima di tutto, qui i vocalizzi principali sono rappresentati da dei grugniti fieri tipici del death metal e quindi non molto bassi, i quali sono poco inclini ad essere monotoni per quanto riguarda i toni utilizzati ed infatti talvolta vengono sparate delle urla spesso e volentieri veramente da posseduto, vuoi perché in certe occasioni sono all’improvviso dolorosamente acutissime e sferraglianti (e gli interventi di questo tipo sono brevi e saettanti), vuoi anche perché, con una frequenza maggiore, diventano come “serpentine” (e qua sentitevi soprattutto “Catharsis/Raebellion”). In una sola occasione invece (ossia in “Betrayed, Victim, Deviated”) vi è persino una specie di brusìo della folla che prende il sopravvento (termine un po’ imbarazzante in questo caso dato che esso si sente debolmente, è quasi incomprensibile). Mossa a mio parere molto azzeccata proprio perché in tal maniera si vuole forse rappresentare l’insignificanza di una massa preoccupata e stupita di fronte al cosiddetto demone, il “deviato” (guarda caso, tale brusìo è stato messo nei minuti iniziali dell’ep, come a voler simboleggiare l’inizio della ribellione del nostro, questo volto ad un lento sviluppo spirituale completamente libero, e così il primo brano ne rappresenta l’introduzione, anche perché è quello più breve – 3 minuti esatti). Decisamente interessante l’effetto “sotterraneo” innestato continuamente sulla voce, in modo da farla sembrare come veramente proveniente da un posto lontano dell’Inferno, un demone la cui rabbia ed il cui odio vengono a galla sulla Terra spesso in maniera non così forte, ma tale è perché ogni suo colpo è una minaccia terribile contro il potere costituito, ed un monito contro un’umanità passiva ed incolore. Un altro effetto messo sulla voce, seppur usato con molta più parsimonia rispetto al primo già descritto, concerne quello dell’eco, e qua si trova a mio avviso come esempio-principe l’ultima e probabilmente più pazzesca canzone del lotto, cioè “Plague Around the Cross”, dove viene tra l’altro usato in modo pressoché perfetto durante uno stacco, in pratica facendo presagire una tensione ed una tempesta sonica ancor più spaventose di quelle precedenti. Per non parlare delle frequenti e sempre puntuali sovraincisioni, come se si volesse rappresentare la forza e la potenza di un ribelle che ha effettivamente la forma di un’unica persona, ma che dentro di sè possiede orde di demoni che gli amplificano senza remore alcuno per il prossimo la propria intensità. Reputo meraviglioso ed importante il ruolo della voce nella musica degli Aposthate, anche perché le sue linee le considero decisamente azzeccate, rabbiose e sferzanti, mentre sono non poche volte assurde e deliranti nelle stesse ripartenze, nelle quali una parte fondamentale la possono avere pure le urla più acute tramite dei bruschi e fulminanti interventi senza parole – lo spavento dell’incubo moderno?

Le chitarre non si comportano da meno, dimostrando non solo, come già osservato, un livello tecnico grandioso ma anche una varietà e fantasia notevoli che alle volte possono sfociare pure in una certa complessità di fondo molto originale, pur segnalando fin da subito che la maggior parte dei riffs bada al sodo, benché non in modo così esagerato, come accade nei Black Witchery oppure nei Bestial Warlust. Infatti, oltre alle mazzate black e death, le quali alle volte vengono mischiate in una sola soluzione, si possono beccare qui e là stridenti ed isterici richiami al brutal, di cui esempio principale è a mio avviso “Curses from Backdrops of Kedron”, canzone condita da schitarrate sì dello stesso genere ma dal piglio decisamente più marcio dato l’uso esclusivo delle note più basse, espresse qui in maniera abbastanza lineare. In tal senso, l’influenza viene fuori secondo me, stavolta nel formato “grattugiato”, nel finale assurdo di “Plague Around the Cross”. In altre occasioni è invece il thrash a farla da padrone (eccetto nella sola “City of Blood Flames”), e bisogna dire che probabilmente fra tutte rappresenta una delle matrici più melodiche della chitarra (specialmente in “Plague Around the Cross”), anche se, come nel finale di “Catharsis/Raebellion”, può risultare così estrema da essere travestita da death, e comunque è proprio nella curiosa introduzione del pezzo appena citato che il thrash per la prima ed unica volta si esprime in una forma un po’ più grooveggiante del solito posandosi quindi su un tempo medio-lento. Il nostro chitarrista P.A. Midgard ci prova pure con dei motivi a dir poco inaspettati ed imprevedibili, che personalmente hanno rimandato alle sonorità gracchianti e visionarie del mathcore (e per quanto riguarda più strettamente i gruppi di “Timpani Allo Spiedo”, mi vien da citare soprattutto i sardi Egomass), ed a tal proposito vengono in aiuto “City of Bloody Flames” e, in una maniera forse più divertita, “Curses from Backdrop of Kedron”. Sempre in quest’ultima, durante un sostanzioso rallentamento, viene offerto un riff tremendamente roccioso, minaccioso e piuttosto semplice (almeno così pare a me), il quale viene stoppato più e più volte, come un pericolo che lentamente ed “ad intermittenza” si avvicina sempre di più alla sua preda. In certi momenti invece (piuttosto rari) viene dato spazio anche ad alcune soluzioni dal sapore pericolosamente doom, e quindi dalle note più dilatate del solito (da questo punto di vista si mostra ancora utile l’ultimo brano citato). Ritornando per un po’ alla melodia, mi pare che qui il black metal abbia un ruolo piuttosto importante in materia, sia per esempio in alcune svisate molto dinamiche e movimentate di “Catharsis/Raebellion”, sia per dare al tutto un’interessante monolite di guerriero epicismo come nell’oscura “Iconoclastic Legion”, aumentando così ulteriormente l’atmosfera battagliera, rivolta contro la chiesa e tutto ciò che essa rappresenta. Ma nonostante P.A. Midgard sia effettivamente l’unica ascia del gruppo, ha voluto comunque donare a tutto l’insieme una maggiore carica emotiva utilizzando anche la chitarra solista. Va bene, qui non siamo negli stessi territori degli ultimi Vultur che la usano in un modo ricercatissimo e contorto, ma pure il nostro siciliano la sa utilizzare benissimo, altro che semplicisticamente. Prima di tutto, le sovraincisioni di chitarra non sono così frequenti come probabilmente potrebbero far sembrare le mie frasi di poco precedenti, ma riescono ad occupare nella musica degli Aposthate un ruolo importantissimo ed oserei dire vitale, anche perché son presenti in tutti gli episodi dell’opera. Un ruolo che passa dal semplice “imbastardimento” dell’assalto proponendo sulle note più acute lo stesso riff della ritmica (e da cui può nascere persino un brevissimo e minimalista assolo quasi seppellito dal resto degli strumenti eppur in grado di dare al discorso un alone spaventosamente caotico come si può gustare benissimo in “City of Bloody Flames”), all’arricchimento discorsivo tramite nuovi motivi, cosa che succede curiosamente con una buona frequenza nei momenti meno sostenuti dei pezzi (come in “Betrayed, Victim, Deviated”, “Catharsis/Raebellion” e “Curses from Backdrop of Kedron”), dove la ritmica assume spesso toni rocciosi , come a voler dare colore ad un paesaggio arido ed agonizzante come è la chiesa, prigione eterna dell’umanità. Da questo punto di vista, mi sono accorto che la solista ha pochissimi momenti di questo tipo durante i tempi più veloci (a tal proposito ecco farsi viva “Iconoclastic Legion”), ma il suo utilizzo è sempre comunque ben ponderato e tempestivo, a mio avviso in maniera praticamente perfetta, anche quando, in un rallentamento di “Curses from Backdrop of Kedron”, si viene sopraffatti da ben due chitarre soliste, tra l’altro abbastanza melodiche, che si ergono su una ritmica (pora lei!). E che dire invece degli assoli? Pure qui le parole si sprecano, e l’entusiasmo prende ancora di più in possesso il mio io! I solismi sono a dir poco fantastici e per niente scontati. A questo punto, bisogna citare il breve, ipnotizzato, malato, contorto eppur non esattamente dinamico e con una buona melodia di fondo non propriamente “cattiva”, assolo di “City of Bloody Flames”, oppure i due, saettanti e rumoristi manco fossero stati vomitati dalle visioni apocalittiche dei Bestial Warlust, di “Catharsis/Raebellion”? Od ancora la più lunghetta e molto dinamica scorribanda di “Curses from Backdrop of Kedron”, o preferite la dose di melodia più accessibile di “Iconoclastic Legion”? E qua ho riscontrato una notevole differenza di fondo tra i solismi della prima parte e quelli della seconda, quasi come se quelli dell’una rappresentassero la superficie filosofica ed in crescita del ribelle, mentre l’altra è contrassegnata da interventi più meditati ed approfonditi, pregni di una nobiltà assassina, come se simboleggiassero appieno uno sviluppo più responsabile, maturo e senza pietà del suo pensiero. In tale delirio musicale non credo sia esatto dire che le chitarre abbiano la parte dominante nel suono degli Aposthate, ma mi sembrano averla negli stacchi che i nostri tirano fuori con tanta violenza, in modo da valorizzare quel “poco” che basta tutto l’insieme. Alle asce sono attribuite se non sbaglio 10 stacchi, ossia poco meno di 2 per pezzo. Da notare infine che nell’introduzione di “Catharsis/Raebellion” viene usata sì sempre la chitarra elettrica ma stavolta in maniera pulita (insieme all’altra con tanto di feedback, quasi a voler mettere in musica la quiete prima della tempesta, seppur sia una quiete piuttosto minacciosa).

Per quanto concerne invece il lavoro di K.Adept, devo subito osservare che la sua prestazione non mi pare si discosti poi così tanto da quello dei più classici bassisti black/death (e non solo) che usano il proprio strumento vincolandolo completamente a ciò che fanno le chitarre agendo quindi da ulteriore propulsore per rendere la musica ancor più greve e pesante. Ma ridurre il lavoro del nostro soltanto a questo lo considero un gravissimo delitto, perché K.Adept sa essere anche molto più fondamentale di quanto si creda. E da questo punto di vista prendete per esempio “Iconoclastic Legion”, pezzo che pure per questo si meriterà un paragrafo apposito. Per ora vi basti sapere che in tale episodio il basso sputa un motivo abbastanza diverso dall’ascia, e che nella precedente “Curses from Backdrop of Kedron” dove erutta con un fulmineo stacco in solitario che non lascia tregua all’ascoltatore. Un plauso va fatto inoltre al suo stesso suono, che non l’ho riscontrato proprio rozzo, com’è classico del genere, anche se comunque una bella “ignoranza” devastante la possiede lo stesso.

La batteria è un altro bellissimo capolavoro, un monolite di velocità, potenza e tecnica a dire il vero piuttosto raro in circolazione. Per non parlare della varietà e fantasia che Rasez si ritrova, non perdendo fra l’altro mai un colpo. Come già segnalato, i tempi che da queste parti si prediligono sono quelli veloci, eppure in “Catharsis/Raebellion” non si viene sopraffatti dal solito circo di blast-beats con doppia cassa continua e senza pietà, dato che le scarnificanti ritmiche thrash, pur non avendo esattamente la meglio, vengono tirate fuori con una notevole regolarità, cedendo non poche volte il passo a dei tupa-tupa con una cassa dal piglio nervoso e seghettato, perché velocissima ad intervalli rapidi (e qui sentitevi soprattutto l’assalto di “City of Bloody Flames”). Tupa-tupa che incredibilmente possono essere persino portati avanti in una maniera “ad elicottero”, che mi ha rimandato molto allo speed metal, e non a caso questo secolare ma sempre fresco ritmo viene tirato in ballo nei momenti più melodici della schizofrenica “Plague Around the Cross”. E naturalmente, parlando degli Aposthate e delle loro (quasi) continue scorribande veloci, i blast-beats hanno un’importanza vitale, non solo perché sono frequentissimi ed alle volte parrosisticamente più violenti del solito come proprio nel finale di “Plague Around the Cross” (e qua il paragone, sempre tra gli amici di “Timpani Allo Spiedo”, è con i romani Dr. Gore ed anche per un’ascendenza brutal riguardante il riffing), ma pure in quanto è precisamente in questi assalti che, se non sbaglio, vengono proposte delle variazioni spacca-ossa e molto fantasiose (in ogni senso), le quali personalmente hanno rimandato ad alcune distruzioni di Markus Hellkunt versione Bestial Warlust (attenzione però con tale paragone: quest’ultimo all’epoca era in pratica molto statico nei ritmi – andava in sostanza sempre in blast-beats e spesso era più semplice e classico nelle variazioni ad uno stesso pattern), valorizzando così a più non posso tutto l’insieme, e qui gli esempi si sprecano. Tra l’altro, nell’ultimo minaccioso stacco, sempre di “Plague Around the Cross”, è presente un lunghissimo intervento simile e degno dell’introduzione (metallica) di “Holocaust Wolves of the Apocalypse”, brano contenuto nel primo, immenso album “Vengeance War ‘Till Death” del gruppo sopraccitato (eppure, sono interventi formalmente molto diversi ma con un effetto forse non così differente). Batteristi come Rasez li ho trovati pochissimi in giro, e questa è un’altra freccia al proprio arco. Ma c’è un ennesimo aspetto interessante del suo stile percussivo, ossia la capacità ottima nel saper creare una trama isterica di ritmi sempre diversi, in modo da modificare costantemente anche una stessa soluzione, come durante un tempo medio stupendamente imprevedibile di “Catharsis/Raebellion”. Ritmi che definirei talvolta piuttosto originali, come le stesse rullate “drogate” dello stesso pezzo, ma anche ritmi un po’ più comuni come il rallentamento simil-metalcore monolitico di “Iconoclastic Legion” con tanto di cassa seghettata, e vi ricordo che, nonostante tutto, spesso i tempi di batteria sono abbastanza lineari ma uniteli ad una fantasia incontrollabile e forse vi renderete subito conto del piacevole “rimbambimento” di testa che si riceve ascoltando un tale massacro. “Incontrollabile” mi sembra proprio la parola giusta, dato che nel caso degli Aposthate il ruolo della batteria pare rappresentare effettivamente in toto un indomabile desiderio di libertà nei confronti della tirannia religiosa, sputandole in faccia il diritto di ogni individuo di non essere calpestato da nessun suo simbolo semplicemente perché “dio comanda”.

E come ultime, c’è una sorpresina benvoluta, rappresentata addirittura dalle tastiere, incredibili da beccare in un’opera così dura e senza scrupoli. Un esperimento che fra l’altro consiglio di usare con più frequenza non soltanto perché per un gruppo del genere lo trovo molto originale, ma anche perché, se si prende in considerazione la sola “Iconoclastic Legion”, le tastiere si dimostrano totalmente coerenti, probabilmente pure dal punto di vista concettuale, con il suono dei nostri, visto che riescono brillantemente ad aggiungere un alone di mistero a tutto il discorso musicale, e pure un ulteriore senso di crudeltà molto elegante. Le tastiere, suonate da P.A. Midgard, vengono suonate in modo abbastanza semplice, ergo non aspettatevi cose tecniche, e tra l’altro non vengono usate sempre, ma qui ci sono gli unici due difettucci che ho ravvisato in questo ep: 1) in alcuni momenti, e quindi per fortuna non in tutti, non è che si sentano poi così bene (almeno in tal modo pare ai miei timpani), affossando in questa maniera le ottime melodie proposte (e ciò succede anche con le cuffie); 2) la seguente osservazione sarà un’inezia, eppure non trovo perfettamente funzionale certo riffing (specialmente quello dell’introduzione metallica) con l’atmosfera stessa data dalle tastiere, probabilmente troppo malvagie ma allo stesso tempo disperate , rispetto alla chitarra, la quale entra nel discorso con un thrash semi-melodico che non sembra possedere nessuna delle due caratteristiche emozionali delle sue compagne. E dire che io spesso adoro i contrasti, però credo che i nostri in tal modo si siano dimostrati capaci lo stesso di dosare la violenza ed il climax al punto giusto, senza quindi andare di fretta, aspettando pazientemente la venuta della vera e propria tempesta di rabbia ed odio.

4. “CATHARSIS/RAEBELLION”.

Ed adesso andiamo a sciorinare una per una alcune canzoni, ben sapendo che così rischierei di affossare la qualità delle altre. Ma, come si vedrà tra qualche pagina, tale ulteriore analisi dell’ep la sto facendo per un motivo ben preciso che nei seguenti episodi è forse (di poco) accentuato.
Si parte quindi con “Catharsis/Raebellion”, la quale risulta molto interessante già dal punto di vista strutturale, anche perché, per un caso un po’ bizzarro, essa a tal proposito sembra fungere (molto implicitamente) da propulsore per ciò che si sentirà dopo. E quel “molto implicitamente” sta a significare che questa modifica strutturale è radicata in pratica nel profondo della musica degli Aposthate, ed estremamente radicale. E da cosa è rappresentata? Dal numero di soluzioni presenti nel brano. Infatti, se da questo punto di vista “Betrayed, Victim, Deviated” è l’inizio del percorso spirituale del ribelle, mentre il successivo “City of Bloody Flames” è la sua lenta crescita e consapevolezza di un caos organizzato che governa gli uomini sopraffandoli con le bugie (guarda caso, proprio questa canzone è l’unica di tutto il lotto che possiede una sequenza di soluzioni che si ripetono consequenzialmente secondo un ordine preciso quale è determinato dal seguente schema: stacco collettivo – 1 anc. mod.2 – 1 anc. mod.3 – 1 anc. mod.2 – 2, e non si scordi fra l’altro che è la sequenza più lunga proposta nel disco), “Catharsis/Raebellion” rappresenta probabilmente l’ulteriore distacco dall’ingenuità iniziale per procedere verso un completamento di sé stesso (non a caso, mi dice qualcosa in tal senso lo stesso titolo dato a tale brano), che qui assume anche le vesti di un odio incontrollabile e nervoso a cui però manca ancora la vera coscienza, quel richiamo assassino che cancelli le sporie di una società già passata per la decadenza e che ora si sta volgendo verso l’autodistruzione. Tale odio abissale è determinato a mio avviso da vari aspetti del brano, come possono essere appunto il numero di soluzioni quivi presenti, le quali per la prima ed unica volta raggiungono se non sbaglio persino le 7 unità “distruggendo” così il discorso quasi monolitico di “Betrayed, Victim, Deviated” e “City of Bloody Flames”, canzoni basate esclusivamente sulla modificazione del primo passaggio offerto e che rispettivamente contano soltanto 2 e 3 soluzioni, un numero quasi atto a rappresentare l’ancor immatura “intellettualità” del nostro che per ora pensa secondo uno schema rigido, chiuso e molto semplicistico, e quindi generalizzante;

il secondo punto d’interesse risulta rappresentato dall’isterismo e dalla velocità della luce dei due solismi, che quasi si rincorrono a vicenda essendo quasi l’uno attaccato all’altro e che costituiscono secondo me una delle caratteristiche puramente vecchia scuola della musica degli Aposthate, essendo tali assoli figli della più classica e malata tradizione sia di stampo black/death che black/thrash. E proprio questa vicinanza estrema dei due assoli concorre a mio parere brillantemente a quest’atmosfera totalmente di distruzione, tremendamente irrazionale e perciò pericolosa anche per sé stesso, proprio perché essi sembrano volersi battere a vicenda per decidere chi sia il più folle e rumoroso, stringendo così l’ascoltatore in una morsa infernale e senza vie di scampo;

il terzo è sicuramente la struttura del brano nel suo complesso, la quale se non erro poggia le sue fondamenta su un impianto prettamente moderno, e che forse è l’estremizzazione (anche, come si è visto, musicale) delle prime due canzoni, e tale considerazione non riguarda soltanto il già discusso argomento delle soluzioni, di un punto di riferimento quale può essere l’esistenza di una sequenza fissa di soluzioni che si ripete pure nel tempo. Infatti, prima di tutto, oltre alle variazioni ritmiche date dalla batteria (a dire il vero non esattamente estreme come può capitare invece nei Ghouls e nei Whiskey & Funeral) ed alle soluzioni dalle battute per così dire “informi” (nel senso che nella musica dei nostri un passaggio spesso e volentieri non è formalmente classico, e così perché esso può essere sì costituito da ripetizioni di 2 battute – che sono in genere quelle preferite dal trio siciliano, in modo che quasi mai niente è “dato per le lunghe” – ma queste ultime possono venire “stuprate” così che la seconda sia semplicemente simile, in maniera fissa, alla prima, e tale discorso vale anche per il riffing molto imprevedibile anch’esso), si aggiunge in sostanza una sorta di estremizzazione dell’ultima caratteristica sopraccitata, visto che, per quanto riguarda il terzo passaggio, tale “stupro” avviene se non sbaglio durante la terza battuta (su 4), alzando per un breve tempo lancinante il tono del riffing. Per giunta, l’ascoltatore qui viene secondo me ulteriormente “maltrattato” grazie ad una curiosa ripetizione di passaggi, che pare il corrispettivo della spietata tecnica del bombardamento verso la mente dell’individuo, la quale, così espressa, è l’unica che si trova in tutto l’ep. A questo punto riporto in toto quello che più o meno dovrebbe essere lo schema del pezzo: introduzione pulita – 1 ritorno breve al pulito – stacco di chitarra – 2 – stacco collettivo – 3 – 4 – 3 4 – 5 – 6 – 5 – 6 – stacco di chitarra – 7 – pausa – 7 mod. – 7 anc. mod. – 7 mod. – 7 anc. mod. – 3 – 4 – 2 – stacco collettivo – chiusura. Mini-sequenza di soluzioni che sono come delle fitte sullo stomaco, e che comunque non stancano per nulla l’ascoltatore perché il gruppo s’inventa tempestivamente un particolare che psicologicamente spara un effetto a dir poco bombastico utilizzando qualsiasi strumento (anche se per il basso il meglio arriva poco dopo), sfruttando così anche benissimo gli stacchi, ed in questa maniera l’intensità e la potenza non vanno mai a farsi benedire. Ed a proposito degli stacchi, mi sono accorto che “Catharsis/Raebellion” funge da propulsore per il resto delle canzoni anche per ciò che concerne essi, in quanto qui se ne trovano 4, mentre invece nei primi due episodi ce ne sono sempre e solo 3. Insomma, il loro discorso è stato anche da questo punto di vista estremizzato, anche perché, come ultima considerazione, come introduzione viene tirato fuori un minaccioso passaggio pulito dal tempo lentissimo, quasi assente, che però presenta un po’ in lontananza una disturbante chitarra elettrica in feedback, inframmezzando il tutto con un thrash medio-lento, utile a spezzare lentamente l’attesa precedente, la quale però si ripresenta poco dopo, in maniera forse un pochino più estrema. Ed ecco sentire improvvisamente qualche rullata e tom-tom che introducono perfettamente ad uno stacco dominato specialmente da una chitarra che sciorina un thrash maledettamente bastardo accompagnato attraverso un brevissimo ed efficace intervento dei piatti stoppati della batteria e di un basso lancinante che con il passare dei (pochi) secondi diventano più violenti, intensi e quindi veloci.

5. “ICONOCLASTIC LEGION”.

La seconda canzone che a mio parere merita una trattazione a parte è “Iconoclastic Legion”, la quale apparentemente potrebbe probabilmente sembrare il pesce fuor d’acqua di tutto il disco, ma che secondo me è stata collocata in una posizione tremendamente strategica, in linea con una sorta di concetto (almeno strettamente musicale) che muove l’intero ep.
Infatti, se il precedente pezzo, cioè “Curses from Backdrop of Kedron”, può rappresentare, grazie alle sue tessiture di chiaro stampo brutal ora isteriche e malate adesso marce e catacombali, appunto il marciume e la depravazione di una chiesa che promette astrusi mondi migliori a patto di venerarla e di essere suo suddito, il successivo episodio pare una specie di minaccia verso di essa e tutto ciò che questa ha creato, è una decisa presa di posizione che cancella completamente il vago bene clericale, mettendo a nudo solo il Male. Guarda caso, la maledetta e tormentata introduzione del pezzo tramite delle tetre tastiere, ha toni dapprima minacciosi, per poi approdare lentamente in un crescendo impietoso e dove trovano sfogo altre tastiere (quelle più cupe incredibilmente molto somiglianti a quelle dell’intro delle leggende delle Legioni Nere francesi Torgeist nello split con i Vlad Tepes), e se non sbaglio ci sono pure archi e violini, verso sonorità più tristi, anche perché, come già segnalato, l’ascoltatore viene sopraffatto dalle terribili urla dei condannati. Tale lunga (beh, oddio, quasi 40 secondi edi tutto ciò) introduzione, appena conclusa, lascia subito dopo spazio ad una chitarra thrasheggiante e piuttosto veloce, un po’ melodica che in sostanza esegue un motivo della stessa introduzione e tra l’altro gli Aposthate hanno avuto una genialata pazzesca inerente proprio l’entrata della chitarra, dato che il suo intervento in solitario viene interrotto quasi improvvisamente grazie ai piatti stoppati di Rasez ed al basso di K. Adept. Trovata decisamente azzeccata, vista la lunga introduzione e la violenza e l’intensità dei successivi momenti del brano, le quali qui raggiungono vette altissime che si avvicinano veramente alle trame assurde della conclusiva “Plague Around the Cross”.
Ma “Iconoclastic Legion” è un brano particolare non soltanto per queste tastiere che riescono magnificamente a donare una pericolosa atmosfera dal taglio black, ma anche perché sa vivere di momenti pure apparentemente diversi dal punto di vista emozionale da quelli che si sentono di solito nell’ep. Ovviamente non mi sto riferendo principalmente a quell’onta di epicismo guerriero già segnalato nel paragrafo dell’analisi strumenti eppure è proprio quest’ultimo, attraverso la sua melodia blackeggiante e monumentale ma paradossalmente più “solare” del previsto, a far nascere i siffatti momenti. Si prenda a tal proposito quello che mi pare l’ulteriore modificazione del primo passaggio, il cui riffing epico viene accompagnato da una batteria che sembra impazzita e che erutta anche dei blast-beats. Bene, poco dopo, quasi verso gli assalti finali della canzone, avviene l’Impossibile, quell’evento musicale che da un gruppo simile non ti aspetteresti praticamente mai: una soluzione “festaiola”, con Rasez che sciorina ciclicamente un numero diverso di rullate su uno stesso tempo, una chitarra ritmica semplice (almeno così sembra), “grattata” e veloce, ed un basso che pare essersi tolto un peso. Ma non è finita qui, manca qualcosa, il colpo di grazia: l’assolo. Si fa presente subito, a passaggio iniziato, e si mantiene coerente con tutto l’insieme tanto da essere piuttosto tecnico e terribilmente movimentato, e pure lungo (mi pare che le battute in cui esso si esprime sono ben 8), suonando anche durante tutta la modificazione (soprattutto ritmica dato che tutto diventa più veloce) di questa soluzione un assolo che si dimostra completamente azzeccato, pare burlarsi del Male e del suo potere in fin dei conti terreno, rasentando quindi l’auto-celebrazione anche attraverso la sua lunghezza, valido punto di riferimento per misurare (semmai sia possibile) la grandezza di un percorso spirituale ormai sempre più inafferrabile dalla crudele società. Ma, come già segnalato, qualcosa s’incrina, la musica diventa pericolosamente più furiosa e “negativa”. Infatti, quando l’assolo finisce, si viene sopraffatti da uno dei passaggi più violenti di tutto il disco e che tra l’altro appare nel brano per la terza ed ultima volta. Una soluzione violentissima con tanto di tastiere catacombali e che strutturalmente nella sua parte finale conosce ogni volta un breve rallentamento, condito dai burrascosi tom-tom e riffing “fastidiosamente grattato”, abile così a potenziare il resto dell’orda assassina riempita da saettanti blast-beats di tale passaggio. Ma è nel finale che avviene l’irreparabile. Se prima, i succitati feroci momenti vengono preceduti, seppur indirettamente, dal 2 (“indirettamente” perché queste due soluzioni sono separate al centro dalla modificazione proprio dell’ultima citata, modificazione che è un nudo e crudo crescendo imbottito da chitarra solista che alla fine prende un largo pazzesco, così da introdurre effettivamente alla violenza del 3), adesso è precisamente il 3 che precede il 2. E viene partorito un finale pazzesco (senza le tastiere, beninteso)! Un tupa-tupa grandioso che viene stuprato in pratica continuamente da una cassa drogata e che cambia spesso il discorso, da un riffing secco e semplicissimo e da un basso che proprio alla fine del 2 compie il suo capolavoro, tirando fuori una linea che fa (quasi) esplodere il tutto. Sì, perché poco dopo ci si posa su un tempo medio pur proponendo lo stesso riff di prima, ma la voce non conosce tregua, lancia un urlo che pare soprattutto di dolore eppur forte e non rassegnato (un urlo più umano rispetto a quelli da me elencati nel paragrafo apposito). Ora, tutti i suoni si annullano, e ritornano le tastiere, che con i loro toni tristi e tetri sembrano preannunciare la fine della chiesa, facendo levare all’infinito le proprie minacce terribili. Dissolvenza.
Dopo questo sfogo, per i più profani ecco più o meno la struttura di “Iconoclastic Legion”: introduzione con tastiere ed urla – stacco di chitarra – 1 – 1 mod. – stacco di chitarra – 2 – 1 mod. – 2 – 2 mod. – 3 – 4 (questo è un azzeccatissimo passaggio brutal, riffing isterico e tempo medio piacevolmente grooveggiante) – 3 – 1 – 1 anc. mod. – (5 – 5 mod.)assolo – 3 – stacco di chitarra – 2.

Segnalo due curiosità: la prima è inerente un’anomalia nella musica degli Aposthate, dato che in questo brano le battute che interessano le varie soluzioni raggiungono spesso e volentieri, magari anche superandole, le 4 unità classiche, preferendo quindi per un approccio apparentemente più lento ma che comunque si rende a mio parere perfettamente funzionale al significato concettuale dell’episodio, in modo forse da rappresentare la lunga ed assurda agonia che ha portato finora con sé l’antico nemico e che poi verrà usata come contrappasso;

la seconda è più bizzarra, secondo me veramente difficile da comprendere, e quindi probabilmente questa coincidenza è solo un caso, però essa continua. Infatti, da “City of Bloody Flames” ad “Iconoclastic Legion” i pezzi vengono finiti tutti categoricamente tramite la seconda soluzione, ed il 2 è un numero pari, come le canzoni e la successione consecutiva di tale eredità, rappresentata appunto dal numero 4. Perché?

6. “PLAGUE AROUND THE CROSS”.

E l’ultima canzone che mi interessa trattare in modo più specifico è la sesta, cioè la profetica “Plague Around the Cross”, ossia il perfetto compimento della ribellione, la catarsi resa concreta realtà, la fine della croce, simbolo di un’umanità passiva che utilizza la vana preghiera sperando in una vaga salvezza, che ha come scopo la dolorosa eternità, per arrivare ad un disegno più giusto ed umano. E l’agonia di questo assurdo ciclo viene perpetrata in pratica secondo la regola della ripetitività delle soluzioni, così da proporre una sorta di catarsi paranoica, di dilatazione psichedelica che ha come unico ed intoccabile obiettivo l’annichilimento più truce e sofferto della chiesa e della religione in generale, così che si arrivi effettivamente alla più completa catarsi, essendo tale pezzo un crescendo talvolta contorto e quindi non direttamente lineare. “Dilatazione psichedelica” che non a caso viene qui espressa spesso da passaggi sottoposti a 2 fulminanti battute oppure questi ultimi son così veloci e brevi da creare praticamente un’inquietante tempesta pronta per l’esplosione più autentica, la quale curiosamente viene compiuta sparando all’ascoltatore 6 tipi di soluzioni (6…è proprio un numero scelto a caso?) e così si ritorna in un certo senso allo schema-tipo fatto partire da “Catharsis/Raebellion”, dopo i 4 passaggi della precedente “Iconoclastic Legion”. E tale “dilatazione psichedelica” sembra rimandare a quel “disegno più giusto” citato in precedenza, ad un incrollabile desiderio dell’ordine voluto dal basso, reso caotico non solo dall’intensità intrinseca e pungente, soprattutto del finale, ma anche da quegli stacchi terribili, di solito collettivi, con cui si viene sopraffatti nella maniera più perfetta che forse si possa immaginare. E gli stessi stacchi concorrono secondo me brillantemente a quest’atmosfera apocalittica e senza scampo alcuno per chi dell’umanità ha fatto un rivoltante manichino per le proprie perversioni religiose, dato che in tutto il brano se ne trovano ben 5, caso unico di questo genere nell’intero ep.

La vera esplosione a mio parere comincia a partire dalla terza soluzione in poi, tra l’altro allacciando i vari momenti con una lucidità ed un senso pazzeschi abbastanza rari da trovare in circolazione. Sì, perché, prima di tutto, il 3 è in pratica un lento passaggio doom da brividi, che in teoria procede entro 4 battute ma alla fine questo passaggio è così lungo e meditato da sembrare infinito, ed inoltre contiene pure una propria variazione in modo che le battute di cui sopra diventano 2 + 2. Il suo percorso è piacevolmente “snervante” e tortuoso, abile a preparare un assalto terribile che adesso viene imbottito soltanto da una rabbia minacciosa e come messianica, ma improvvisamente qualcosa si sta muovendo, come un serpente maledettamente silenzioso. Infatti, il momento doom finisce improvvisamente, e ciò grazie ad uno stacco inquietante rappresentato da un grugnito bestiale con tanto di effetto d’eco, la voce dell’odio che fino ad ora si è protratta controllata nei secoli, la voce che si alza per la vendetta. Ciò è “solo” un momento brevissimo, per far sì che l’assalto ricominci il suo corso. Ed ecco il funambolico 4° passaggio, il quale si apre con un urlo acutissimo, tonante ed angosciante, capace di potenziare subito l’effetto d’eco di un secondo prima. Tale soluzione è a dir poco incontrollabile, soprattutto per via di una batteria impazzita che su doppia cassa cambia continuamente la sua corsa indomabile senza esternare pace alcuna, e questo nonostante il riffing non sia proprio “cattivissimo”, visto che contiene un’intensissima buona melodia di fondo che alla fine viene completata mirabilmente dall’altrettanto funambolico stacco collettivo. Pare che qui la melodia venga qui usata come per celebrare la venuta del nuovo mondo, ergo tale melodia non credo si possa definire esattamente come “solare”, seppur non si tratti di melodia di stampo black metal. Ed è da qui che incomincia il delirio più puro ed assurdo, proponendo in pratica un brutal/grind sparato senza pietà alla velocità della luce, inframmezzando ogni volta una soluzione con lo stesso velocissimo stacco di cui sopra, anche se quest’ultimo cammin facendo evoluisce sempre un pochino di più così da farlo diventare maggiormente indomabile ed imbottito fra l’altro da dei giochi sui tom-tom a dir poco stupendi. Questi sono momenti isterici che non ci vedono letteralmente più tanto qua si è accecati da una rabbia ed un odio che stavolta riescono a superare vette altissime di tensione. Tensione che pare sciogliere la propria presa soffocante con l’ultimo stacco (di chitarra), questo non esattamente breve e lancinante come i precedenti, e tra l’altro non è proprio in solitario visto che quasi subito Rasez esegue in pratica un assolo di batteria anche piuttosto lungo, dando in tal modo uno scossone mirabolante che riesce a preannunciare un finale dolorosissimo, mentre l’ascia offre un riff semplice e leggermente più complesso di quelli passati, oserei dire dal taglio death. La tensione così viene un po’ spezzata, come a dar l’impressione di quell’inquietante attesa prima del terribile colpo di grazia finale, il quale dev’essere come psicologicamente più violento possibile (non a caso, si è scelto per un riffing decisamente più cattivo). E l’assalto ritorna con assurdi blast-beats d’ordinanza, ma è solo un momento perché poco dopo si ritorna alla variazione della soluzione precedente, che se non sbaglio neanche riesce a compiere più di una battuta che il discorso viene letteralmente stuprato, facendolo finire bruscamente, fra l’altro con una serie di plettrate così da far ancor più male. Un finale brusco che secondo me è totalmente azzeccato, dato che funziona effettivamente come un colpo di grazia, una picconata infernale sulle gengive inferta con un’immensa e spaventosa potenza che ti strappa anche via la testa. Per non parlare dell’aiuto dei piatti sulle plettrate, in modo da concludere degnamente, con il proprio suono squillante e frastornante, l’esplosione appena avvenuta. La chiesa ha fatto il suo tempo, e le sue barbarie verranno ricordate come un giusto ammonimento così da non far ripetere un altro e più forte sterminio dell’umanità.

E per come l’ep si conclude, a mio parere è proprio “Plague Around the Cross” la canzone più bella di tutto il lotto, ed ogni altra parola è superflua per descrivere un episodio del genere, quindi a questo punto mi sembra inutile riportare in toto la struttura di tale brano tanto mi sono espresso.

7. CONCLUSIONI.

Adesso avete capito perché ho cercato di descrivere il più possibile queste 3 canzoni? Ed attenzione che non mi riferisco soltanto al lato concettuale e progressivo della musica, la quale è di una varietà e fantasia spaventose soprattutto per quanto riguarda il black/death (un termine che ultimamente ho riscontrato tremendamente stretto e riduttivo viste le varie influenze che il terzetto siciliano si porta appresso), ma soprattutto al fatto che da queste parti ogni cosa è a mio avviso al suo posto, pure il più “misero” dettaglio così da costruire un insieme la cui potenza ed intensità vengono potenziate praticamente ad ogni occasione, ed in tal modo l’ascoltatore non viene fatto letteralmente respirare. Alla luce di tali considerazioni, è questo secondo me il principale punto di forza del gruppo, ossia il saper colpire tempestivamente con ogni tipo di sorpresa, e quindi il saper sfruttare anche qualunque strumento coniugando alla perfezione tecnica, velocità, quantità e qualità, e per non parlare dell’aspetto strutturale della musica degli Aposthate, una volta libero in quest’altra paranoico fino alla follia. Certo, gli unici difetti sono rappresentati dalle tastiere, ma vi ricordo che il loro secondo “problema” è stato contrappesato addirittura attraverso due spiegazioni, ergo quest’ultimo si può considerare, anche se non proprio “alla leggera”, come secondario. Per il resto, “Catharsis/Raebellion” è un disco che ritengo praticamente perfetto sotto ogni punto di vista, e se questo è solo un ep, non riesco ad immaginarmi come sarà l’album. “Catharsis/Raebellion” è un monumento che dimostra ancora una volta com’è messa la nostra scena, alla faccia di quelli che dicono che noi italiani non sappiamo fare assurdi monoliti metallici. Questa è Arte nella sua più pura concezione.

Voto: 97

Claustrofobia

Scaletta:

1 - Betrayed, Victim, Deviated/ 2 – City of Bloody Flames/ 3 – Catharsis/Raebellion/ 4 – Curses from Backdrop of Kedron/ 5 – Iconoclastic Legion/ 6 – Plague Around the Cross

MySpace:
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