Monday, February 15, 2010
A Buried Existence - "Ferocity" (2008)
Nota dell'ultim'ora:
faccio notare subito una cazzatella che ho scritto. Nella rece ho confuso "Reborn in the Sick" con "Perverted Church". Quando si dice essere intelligenti...
I Land of Hate, vecchi ricordi. Mi custodisco ancora gelosamente come una reliquia il 3° numero in cui loro hanno partecipato a quello che una volta era, usando le parole di Hagalaz dei sardi Streben, una “Underground E-mail ‘Zine”. Ed i Land of Hate, in merito al loro demo “Gener(H)ate”, si beccarono un sonoro e luminoso 76, ossia tra i migliori gruppi di quel numero. Ma, direte voi, che minkia c’entrano loro con gli A Buried Existence? C’entrano, eccome se c’entrano, dato che il cantante Marko è membro di entrambe le formazioni, ed in effetti sentendo “Ferocity” ho riconosciuto da subito i suoi vocalizzi lancinanti, ma quello che più mi sorprende è che anche gli A Buried Existence sono creatori a mio avviso di uno stile abbastanza personale, proprio come i Land of Hate, solo che stavolta una classificazione mi sembra tremendamente deleteria in quanto credo che nessuna sia capace di descrivere sinteticamente la musica del demo che vado adesso a recensire. Ah, e non scordiamoci di un’altra cosa: in questo nuovo gruppo calabrese ci suonano anche membri degli Zora, e ciò è già un tutto dire!
“Ferocity” è nient’altro che la primissima testimonianza (curiosamente pubblicata il 31 Agosto 2008) degli A Buried Existence, quartetto formatosi nello stesso anno del primo pargolo in quel di Catanzaro ed attualmente costituito, oltre al cantante già citato, da Gianluca Molè chitarra, Giuseppe “Tato” Tatangelo (anche negli Zora) ed Alessandro Vinci batteria, ma l’ep ha contato anche la partecipazione del chitarrista Francesco Merante (che suona negli Uranium 235, dove canta – aridanghete! – lo stesso Marko) e Peppe “Populi” Pasquali, batteria elettronica degli Zora (guardacaso…). L’opera si compone di 4 pezzi decisamente digeribili per quanto riguarda il minutaggio, ed infatti ci si aggira fra i circa 2 minuti e 40 di “Reborn in Sick” ai 3 e 40 (scusate la ripetizione) di “Perverted Church”, ed in tutto questo arco di tempo (circa 12 minuti complessivi) si trova una musica per me particolare, la quale non considero come “tecnica death metal/metalcore” come la definisce Metal-Archives, dato che qui ci si ciba, se non sbaglio, di diverse influenze, anche non esattamente facenti parte del calderone metallico estremo. Ci si snoda effettivamente a mio avviso tra richiami del death e del metalcore, ma penso che si raggiungano pure territori mathcore (“Revenge”), punk/hardcore (sempre la canzone appena citata), se non persino con i ritmi trascinanti ed ipnotici del trip-hop (“Perverted Church”) e non solo, ed una cosa che mi interessa molto è che uno stesso determinato pezzo può vivere di vari momenti musicali diversissimi fra loro ma che nonostante tutto mi paiono legare più che bene. Da queste parti si cerca insomma lo sperimentalismo, e fra l’altro per niente fine a sé stesso, dato che sento spesso e volentieri negli A Buried Existence un’atmosfera di natura apocalittica, come se la fine del mondo fosse di là da venire, un po’ come nei Lilyum seppur senza trasmettermi il trionfo delle macchine, e qua mi vengono in mente principalmente proprio i due gruppi-madre appena citati. Molto azzeccata secondo me è la scelta poco comune di concentrarsi maggiormente sui tempi medi, lasciando così da parte la ferocia di cui invece sembrava fare il verso il titolo dell’ep che altresì non avrebbe a mio parere trasmesso quell’aria stanca, quasi svogliata, di un’umanità che si regge solo grazie al denaro ed ad un lavoro “matto e disperatissimo” fatto così, soltanto perché ci si è costretti. Vi ricordo che la canzone più veloce è in pratica “Reborn in Sick”, ma di velocità angoscianti neanche a parlarne. La tecnica presentata mi pare notevole e strutturalmente parlando i vari pezzi sono piuttosto semplici e seguono spesso una sequenza di soluzioni fissa, e ciò avviene soprattutto, nel modo più classico possibile, nei momenti iniziali, offrendo comunque delle variazioni (a dir la verità, poche), che tengono desta l’attenzione dell’ascoltatore, almeno personalmente certo, puntando quindi su una diretta semplicità, un po’ come succede nei Land of Hate, seppur mi sembra che qui si segua uno schema molto vicino a quello strofa-ritornello. Se non erro, vengono proposte fra le 3 (“Reborn in Sick”) alle 5 soluzioni (“Revenge” e “New World Disaster”, e di queste gli A Buried Existence” ne riprendono solitamente 2, con un massimo di 3 per “Reborn in Sick”. Personalmente, una struttura del genere rimanda in mente la prigione dove l’umanità è costretta suo malgrado a vivere per vedersi fare delle determinate cose che non le interessano solo perché un ipocrita e freddo sistema ha scelto così per tutto questo tempo, come un dio scientificamente metodico quanto spesso poco razionale. Insomma, eliminando giuridicamente il termine “suddito” l’hanno sostituito con “cittadino”, che potrebbe essere inteso come prigioniero delle città del mondo cosiddetto “civilizzato”. Ora tocca alla produzione, che a dispetto di “Gener(H)ate” dei Land of Hate, mi sembra piuttosto pulita e moderna, con il basso in buona evidenza ma non troppo, e le chitarre non sotterrate dalla batteria come nel demo sopraccitato. Le frequenze sono state impostate sui toni medi regolarizzando così per bene il suono come faccio di solito io con il mio stereo.
Il demo parte, senza troppi orpelli e nemmeno un’introduzione strumentale, con “Revenge”, che sinceramente non saprei come definire, e che a mio parere spicca rispetto agli altri brani per un riffing molto semplice e granitico, mostrando fra l’altro secondo me influenze punk-hardcore e pure di tipo mathcore. Queste ultime, ben controllate e per niente rumoriste eppur sempre belle pesanti, mi sembrano un po’ isteriche nel loro spaventoso incedere, quasi rappresentando la follia della realtà che viviamo ogni giorno, e che precedono l’ultimo passaggio di chiara derivazione doom, con il batterista piuttosto lento, e delle voci che si sentono in lontananza, come se quel determinato momento simboleggiasse l’abisso che prima intrappola e poi inghiotte lentamente l’umanità, rendendola passiva ed apatica, e non a caso il volume viene abbassato in modo graduale. Il batterista qui propone una via di mezzo tra tempi medi possenti e più lenti, raggiungendo proprio il picco di angoscia doom nel finale, come già osservato. Ed intravvedo nel suo lavoro qualche similitudine con lo stile percussivo di Attila (ancora i Land of Hate? BASTA CHE PALLE!), il quale è basato fondamentalmente quasi ad emulare una macchina, anche se nel caso degli A Buried Existence mi ricorda altresì il carattere abitudinario, il circolo vizioso di cui ogni uomo è praticamente iniziato dalla società, il seguire pedissequamente e passivamente specifici orari, ma il sottoscritto si è reso conto che forse nel nostro batterista vige un po’ più di dinamismo che nel suo collega grazie a delle piccole e talvolta impercettibili variazioni al discorso musicale. Per quanto riguarda la voce, il timbro inconfondibile di Marko distrugge tutto ciò che gli capita a tiro con profondo piacere, annichilendo i timpani dell’ascoltatore con quella che considero una particolare commistione tra grugniti ed urla, materializzando alle volte quest’ultime in maniera maggiormente concreta e gracchiante, quasi black metal. La struttura del brano è fondata comunque, se non sbaglio, sul seguente schema: 1 – 2 (il momento punk-hardcore sopraccitato, e dove fra l’altro il basso s’inventa un semplice intervento indipendente dalle chitarre e per me molto efficace) – 1 – 3 – 1 – 3 – 4 (quello invece di matrice mathcore) – 5, e l’unico appunto che mi viene in mente di fare riguarda il pur suggestivo finale, che penso non sia stato completamente sfruttato a dovere, dato che non sento il giusto colpo di grazia e credo che un bell’assolo minaccioso poteva migliorare un po’ la situazione, e forse si poteva chiudere meglio il brano sì abbassando il volume della musica, ma per poi mettere in solitario quelle voci di cui sopra. Ma tant’è. La prossima canzone è “Reborn in Sick”, la quale parte a manetta come la precedente, senza troppe presentazioni, ma stavolta l’assalto è veloce seppur non troppo, avendo a mio avviso sia il groove che il riffing del thrash metal moderno, e quindi il tutto mi si dimostra terribilmente intensissimo. Dopo aver ripetuto per 4 volte il 1° passaggio si fa vivo il 2°, i tempi non rallentano ed il lavoro sulle chitarre prende ispirazione per la parte finale da quello fatto precedentemente, e per il resto viene usato un tapping (o almeno così a me sembra) a due note malate e schizofreniche e di una velocità pazzesca. Finalmente è in questi momenti che Marko impazza, usando ora toni un pochino più urlati e selvaggi, con linee vocali a mio parere molto violente e lontane dall’ipnosi (se così si può descrivere) di quelle di “Revenge”. Tale manfrina viene ripetuta per una seconda volta, dopodiché viene proposto un tempo medio dai contorni secondo me tremendamente apocalittici, visto e considerato che vengono utilizzati degli effetti simili che personalmente hanno molto ricordato gli Scarve del grandioso “Undercurrent”, un gruppo che spesso e volentieri mi mette una bella inquietudine addosso. Comunque proprio in quest’occasione ecco farsi presente una chitarra solista molto minimalista rispetto a quella ritmica, la quale è sottoposta, dopo 2 battute, ad una modificazione, ossia viene resa più, come dire, dinamica nella sua parte iniziale, insieme alla solista che però risulta sempre concentrata su 2 note benché suonate in maniera un pochino diversa, ed infatti nei primi momenti del riff questo non è continuo come in precedenza. Passata la sbornia ultra-apocalittica, i toni si fanno maggiormente disperati e lamentosi, con le chitarre melodiche ed a mio parere blackeggianti, mentre la batteria esegue rullate a due mani oltre che anche giochi sui tom-tom. Nella stessa occasione, la melodia delle asce viene modificata ma non troppo, e Marko aumenta secondo me la disperazione con dei sussurrii che mi sembrano rappresentare l’umanità strozzata ed in cerca di pietà. Quello che succede subito dopo potrebbe parere come la sua ribellione, dato che tutto il gruppo (tranne la voce) sembrano esplodere, proponendo un riff grezzo e minimale ed un gioco a due mani più continuo e distruttivo di prima. E’ l’ora! Si ritorna al 1° passaggio, dando in pasto un assolo che mi piace molto, sì melodico ma intenso e di notevole gusto. Tale momento viene però inghiottito dalla cinica sequenza della soluzione che ha preceduto tale solismo, un affresco di desolazione dilagante e senza speranza, che comunque viene sottoposto ad un’ultima modificazione, in cui il riffing riprende soltanto la parte finale della schitarrata precedente, per poi bloccare tutto così, in maniera altamente imprevedibile, la seconda battuta spezzata e tra l’altro con degli effetti apocalittici tremendamente suggestivi. Conclusione che a dir la verità non considero molto adatta per il pezzo, e probabilmente se tutte e 4 le battute venivano eseguite completamente il quadro di tormento e disperazione si materializzava in modo più concreto. La seguente “Perverted Church” è per quanto mi riguarda un capolavoro di assurde proporzioni, dato che ha un’atmosfera dai ritmi veramente angoscianti. Tale brano, prima di tutto, è quello più lungo di tutti, oltre che l’unico a raggiungere e pure superare di molto i 3 minuti, ed inoltre è il solo del lotto che si può dire parta con un’introduzione che non viene ripresa integralmente durante il prosieguo del discorso. L’inizio è a mio avviso sostanzialmente doom, dove si esprime una melodia di fondo tormentosa, che dopo 2 battute viene potenziata da un’altra chitarra, ovviamente su note alte. Successivamente, suonato il tutto ancora per altrettante volte, si affaccia la modificazione di quest’ultimo passaggio. Il tempo aumenta un pochino e la batteria rasenta secondo me la natura svogliata e rassegnata del trip-hop, e ciò personalmente aumenta la disperazione del brano, e fra l’altro si fa viva finalmente la voce, che rispetto agli altri episodi è piuttosto lontana e pervasa da un leggero effetto d’eco a mio parere molto evocativo, in quanto tende a contribuire maggiormente nella creazione di un’atmosfera dolorante ed asfittica, ma Marko qui fa forse un lavoro simile a quello fatto in “Revenge”, ossia non selvaggio e dai toni quasi ipnotici, “posati” insomma. Dopo 4 battute, lui si assenta per qualche secondo, il ritmo è in pratica lo stesso di prima però le chitarre suonano un riff d’impronta maledettamente death metal, che dire minaccioso mi sembra alquanto un eufemismo. Tutto poi si ferma, tranne un’ascia solitaria dannata e minimalista, che successivamente ridà subito il posto al passaggio che ha preceduto quello death, per poi riprendere anche quest’ultimo, con l’unica novità che esso nella seconda volta, in luogo delle 2 battute, viene ripetuto per 4, e per me questa è una scelta azzeccatissima, in grado di far preparare l’ascoltatore allo stacco di chitarra, che adesso suona secondo me black e fra l’altro è accompagnato da dei malati effetti apocalittici. Ed ecco affacciarsi un assalto, seppur non propriamente tale, che ha del marziale, data soprattutto la batteria, la quale erutta un uno-due statico ed inquietante dove viene utilizzato pure il ride. Le chitarre continuano la loro marcia black, mentre la voce qua diventa doppia, nel senso che sono stati sovraincisi degli scarnificanti grugniti che riescono secondo me a donare alla canzone un sentore catacombale come se il Male stesse uscendo dalle viscere della Terra, oltre che la classica voce di Marko. Il tormento si fa più acceso e pressante, e quindi si ritorna al tema del brano, con quei due passaggi principali (anche stavolta il momento death è sottoposto a 4 battute), ma il finale è concesso a quello che mi pare un metalcore bello cazzuto, con il batterista intento a distruggere i timpani con un tempo medio su doppia cassa, le chitarre sono invece intrise di deathcore, e la voce, dolorante, è pure qui doppia, dato che ai classici vocalizzi di Marko sono state sovraincise delle urla talvolta gracchianti e tormentate. Ma questo è il momento della ribellione o della fine del mondo, o più “semplicemente” la rappresentazione totale, resa in poco meno di 4 minuti, dell’ammasso delle brutture che la chiesa ha “elargito” verso tutto il globo terrestre? Sta di fatto comunque che la musica finisce di colpo, come una lama sottilissima che ha tagliato in mille pezzi un corpo inerme. I riflettori adesso finiscono su “New World Disaster”, anch’esso ricco di influenze e fantasia allo stato puro, nonostante la sua brevità e la sua struttura non proprio difficile, anzi. In tal caso, gli A Buried Existence riprendono un pochetto la linea dei primi 2 pezzi, dato che l’inizio è affidato subito ad uno dei due temi, il quale è rappresentato da un passaggio molto groovy, con il batterista che dipinge ritmi contagiosi attraverso i tom-tom, e ciò è interessato da 4 battute, e finita questa la soluzione viene un po’ modificata con le chitarre che divengono più sporche, solo che tale variazione al discorso musicale viene ripetuta soltanto per una volta, nonostante a primo acchito può sembrare costituita anch’essa da 4 botte (che minkia di linguaggio che uso comunque! Tutto questo per non ripetere “battute”!) ma ad un attento ascolto si può sentire che l’ultima parte di tale modificazione è quella finale del 2° passaggio. Ora la musica si fa a mio parere come un misto fra il groove del thrash e la cattiveria del death, e ritmicamente parlando il batterista stavolta si “regola”, eseguendo un tempo piuttosto semplice e non molto concentrato sulla cassa. Questa soluzione, se non erro, è l’unica di tutto l’ep che è sottoposta ad un numero di 8 battute, ma vista la sua non-complessità e lunghezza non mi annoia per niente. Successivamente, il brano si ripete così com’è partito, abbandonandosi poi in un death metal a doppia cassa (ma sempre di tempi medi si tratta, e fra l’altro nell’ultima battuta del riff il batterista varia il discorso ritmico con delle rullate molto groovy ed un poco a-lineari) che accompagnerà un assolo per me molto buono, tecnico e con una melodia di fondo. Ed ecco il ritorno dei due temi principali, solo che nei secondi finali dell’ultimo mi par di sentire degli effetti non ben identificati, uno fra i quali sembra al sottoscritto il battito di un orologio che va a velocità elevate che prima o poi esplode (una bomba ad orologeria insomma?). Ma tra poco capiterà l’impossibile: il 4° passaggio (in 2 battute, a meno che io non dica cazzate) con il metal (estremo e non) non penso c’entri qualcosa, e credo che ci si avvicini in territori persino pop, con Marko che usa una voce pulita ultra-melodica e perfettamente intonata. In tale momento ho come la sensazione che il nostro sia fiducioso in un mondo migliore, anche grazie alle chitarre decisamente melodiche, e se ci sento bene loro due non suonano contemporaneamente uno stesso riff arricchendo così a mio avviso il discorso musicale di una pienezza, di una gioia di vivere che in tutto l’ep non riesco a percepire. Ed infatti, poco dopo si fa vivo ciò che considero cupo fatalismo, ossia una soluzione (a 4 battute) di impronta death metal, con il batterista isterico che attenta ai timpani dell’ascoltatore con ritmi non proprio comuni da sentire. Passato qualche tempo, le chitarre si fanno meno continue e pressanti, e forse l’umanità si sta spegnendo, mentre la batteria impazza con un ritmo simile al precedente, variando il proprio dialogo negli ultimissimi secondi attraverso intense rullate, un po’ come fatto in precedenza. Dopo altre 4 battute, il brano finisce improvvisamente, in maniera simile a “Perverted Church”, come se l’umanità tutta fosse stata messa nell’inferno chiudendo per sempre i suoi cancelli rimanendo al buio…così Berluska avrebbe vinto di sicuro!
Un bel viaggio inquietante è “Ferocity”, un ep immerso negli abissi della paura nera che avvolge l’essere umano più sensibile preoccupato per il futuro del mondo intero ormai calpestato dal tossicume di ogni specie. E la cosa curiosa è che qui, sempre secondo il mio punto di vista ovviamente, gli A Buried Existence hanno cercato, mescolando vari tipi di musica, di rappresentare le più diverse emozioni, e che concretamente parlando possono essere associate a differenti personalità, come il depresso e rassegnato, il ribelle, l’ottimista ed ingenuo, il minaccioso (il quale, usando qualcosa di informale, può essere chiamato semplicemente…stronzo), il folle isterico, e così via. E proprio grazie a tali considerazioni, ma anche al fatto che il gruppo riesce così a rendere il discorso musicale sempre imprevedibile ed a mio avviso interessante, scelgo quale principale punto di forza del gruppo in quest’opera la varietà e fantasia , unitamente però ad un lavoro di batteria secondo me originale e veramente poco convenzionale per ciò che spesso essa crea, e fra l’altro mi piace molto il suo suono, molto potente e tonante, quasi a simboleggiare idealmente la caduta fragorosa di pezzi irrecuperabili della nostra cara Terra. Peccato però per la fase conclusiva dei primi due pezzi, ma le prerogative per un capolavoro credo ci siano tantissime, ergo l’aspetterò con ansia.
Voto: 75
Claustrofobia
Tracklist:
1 – Revenge/ 2 – Reborn in Sick/ 3 – Perverted Church/ 4 – New World Disaster
MySpace:
http://www.myspace.com/aburiedexistence
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sinceramente credo che tu recensore hai scritto un mucchio di cazzate semplicemnte perche' miravi solo a qualcuno del gruppo!!!!sei sicuro che non c'e' niente di personale? mha!!mha!!! chissa!!!
ReplyDeleteSe ti riferisci al fatto dei miei dubbi non vedo che c'è di male ad esprimerli, o se alludi alle mie considerazioni (praticamente iniziali) sulla militanza di Marko nel gruppo è solo perchè conosco musicalmente meglio i Land of Hate e quindi ho associato la musica degli A Buried Existence specialmente ai primi, oltre agli Zora.
ReplyDeleteno per i land che sono fantastici!!! ma se conosci soloevidentmente non sei in grado a scrivere recensioni perche la tua cultura nusicale e' limitata!!
ReplyDeleteMa perchè devi offendere eh? Neanche mi conosci e tiri accuse a raffica! Prima tiri in ballo il fatto che io ce l'ho con qualcuno del gruppo, e poi che sono limitato musicalmente, nonostante io abbia citato varie influenze e praticamente tutte in maniera soggettiva senza nessuna arroganza, come la tua. Commenti inutili!
ReplyDeletePiuttosto potevi fare il commento secondo cui io mi sono confuso fra "Perverted Church" e "New World Disaster" (cosa che farò notare in una nota dell'ultim'ora). Questo era un commento costruttivo!
Flavio
Ma soprattutto, meglio sentire il gruppo nell'intervista che tra qualche giorno pubblicherò se proprio sei così interessato a sbranarmi (da Internet).
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