EP (Magma Productions, 20 Giugno 2012)
Formazione (2002): Xes – voce;
Kosmos Reversum – chitarre;
Lord J.H. Psycho – basso;
Frozen – batteria.
Provenienza: Torino/Potenza/Palermo, Piemonte/Basilicata/Sicilia.
Canzone migliore dell’opera:
la title – track.
Punto di forza del disco:
di sicuro l’aver capito e risolto il problema intercorrente, nell’ultimo album, fra lo stile gutturale e ultra – effettato di Xes e la musica anch’essa soffocante.
Ariecco uno dei gruppi più fedeli di Timpani allo Spiedo, cioè i Lilyum, che si presentano con un nuovo capitolo, e devo dire che, dopo il deludente “Nothing is Mine”, i nostri sono ritornati in carreggiata sfoggiando un’ottima prova. Ma ciò è dovuto più che altro a una caratteristica ormai tipica di questo gruppo, ossia la tendenza al dietrofront, che però non sempre si rivela illuminante, come già visto. Infatti, Frozen è tornato dopo la prestazione eccellente offerta in “Crawling in the Past”, e stessa sorte è avvenuta per Lord J.H. Psycho, il cantante originario, ora “semplicemente” bassista. E quindi spero vivamente che la formazione si stabilizzi così, ma ho paura che non succederà, almeno per ora, anche perché “Human Void” è ufficialmente il disco con cui si intende celebrare il decennale di vita dei Lilyum. AH, ecco perché tutti questi ritorni in grande stile!
Ma in sostanza è cambiato qualcosa dal punto di vista musicale? In un certo senso sì, e per due semplici motivi:
1) l’uso più creativo del solito della seconda chitarra, che adesso completa con buona partecipazione il riff della compagna, che invece rimane minimalista come da tradizione. Il nuovo procedimento viene sfruttato per creare atmosfere curiose dalle melodie (sì, ho scritto proprio “melodie”!) bizzarre (“The Flame of Hate”) ma anche per addentrarsi in territori persino più sperimentali (“Human Void”), da sviluppare meglio in futuro. Sono però più o meno completamente banditi gli assoli, quindi non stiamo parlando di una riproposizione dello stile esplicato in “Crawling in the Past”, seppur non manchi qualche leggera svisata punkeggiante;
2) le canzoni ora hanno spesso una struttura più agile, ergo siamo abbastanza lontani dalla pura e soffocante sequenzialità delle passate produzioni. Non a caso, si fanno valere di più i pezzi, per così dire, anarchici, soprattutto la sorprendente e inedita (perlomeno dal punto di vista strutturale) “Towards the Pitch Black Sea”, nella quale il lavoro di batteria a un certo punto risolve praticamente tutto. Ma i brani sono mediamente riusciti anche per via del minutaggio più accessibile del solito, dato che si va dai 3 ai 5 minuti scarsi.
Tutto ciò significa che è stato risolto il problema di Xes. Infatti, ripensandoci bene, il difetto principale di “Nothing is Mine” era proprio lui o, il che fa lo stesso, la musica stessa, troppo asettica e rigida (e in tal caso, diciamolo pure, veramente poco inventiva se non nella seconda parte dell’album), e di conseguenza troppo poco adatta per il comparto vocale. Ma adesso che il black metal freddo e minimalista dei Lilyum è (ri)diventato più umano e imprevedibile, Xes (in secondo piano nella produzione) funziona meglio, e quindi si può soprassedere sul fatto che manchi alla voce Lord Psycho, che nel recente passato, col suo piglio folle e assurdista ha dato una strana linfa vitale a una creatura altrimenti difficile da digerire pienamente.
Insomma, esperimento riuscito. Ma il prossimo disco è veramente la prova del 9. Spero allora che le potenzialità qui espresse verranno mantenute per sfruttarle al massimo. Dai che con una formazione stabile si può fare alla grandissima!
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Prelude – Visualize the Void (intro)/ 2 – The Flame of Hate/ 3 – Towards the Pitch Black Sea/ 4 – Disgust/ 5 – Human Void.
MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum
FaceBook:
http://www.facebook.com/lilyumofficial1?sk=app_2405167945
Friday, August 31, 2012
Sunday, August 19, 2012
Handful of Hate - "Hierarchy 1999" (1999)
Album (Northern Darkness Records, 1999)
Formazione (1993): Nicola B. – voce/chitarra;
Paola Bonini - gemiti in "Master's Pleasure";
Marco M. – chitarra;
Enrico S. – basso;
Gionata P. – batteria.
Provenienza: Lucca, Toscana.
Canzone migliore del disco:
“The Slaughter of the Slave Gods”.
Punto di forza dell’opera:l'abilità dei singoli di enfatizzare, anche attraverso stacchi con annesse ripartenze paurose, i momenti salienti dei vari brani.
Nota:
Nicola dedica quest'album alla memoria di Ugo Pandolfini (1977 - 1994) e a Max Usseglio "le mode passano ma noi siamo sempre qui".
------------------------------------------
Disco dalla cattiveria pressoché impossibile, “Hierarchy 1999” rappresenta il secondo album degli Handful of Hate, gruppo storico della Penisola che nel 2008, anche a causa di numerosi avvicendamenti in formazione succedutisi negli anni, si è sciolto, riformandosi per fortuna l’anno dopo. Ragion per cui mi sembra un obbligo parlare di quest’opera che, partendo dal black metal svedese più spietato, dimostra come si possa essere in un certo senso raffinati e “ignoranti” allo stesso tempo. E fra l’altro, bisogna assolutamente osservare come tale disco, elogio del sesso più perverso e luciferino e della guerra, sia uno dei tanti comprati (in offerta a 9 e 90) nel mio negozietto di fiducia, Star Music. Ancora mi chiedo come ‘sto negozio, per niente metal ma sufficientemente fornito di uscite underground, possieda delle chicche del genere…
L’album comincia nel “peggiore” dei modi, lasciando già pregustare un terrore senza fine: c’è una chitarra ultra – rumorista in sottofondo e una specie di assurda voce (o che dir si voglia) sgorgante forse direttamente dal fiume infernale Lete. Una decina di secondi e via, il massacro ha inizio!
E così, ecco le chitarre. Solenni e fiere, non disdegnano melodie maledette, beffarde e anche particolarmente curate, come in “The Slaughter of the Slave - Gods”. Ma gli assoli sono completamente banditi, seppur le due asce sappiano darsi (occasionalmente) manforte a vicenda magari completando il riff della compagna.
La batteria, a primo acchito, sembra letteralmente ossessionata da terremotanti blast – beats molto lineari, forse troppo limitati nelle variazioni, utili a enfatizzare la prestazione degli altri strumentisti, ma comunque sono efficaci. Ma a poco a poco, il lavoro si rivela inventivo, visto che il nostro ha per esempio avuto l’accortezza di rendere più intenso tutto l’insieme spesso per il tramite di tempi medi abbastanza dinamici.
La voce è invece un urlo soffocato accompagnato talvolta da grugniti bestiali e puntuali negli interventi, pur essendo questi stati ridotti al lumicino rispetto al disco precedente. C’è una buona creatività nella costruzione delle linee vocali, ma il bello è che Nicola canta con così tanta foga da perdere il fiato (“The XI Wings of Death”)!
Ma un’altra caratteristica interessante del disco è la sua divisione più o meno in 2 parti. La seconda è più coraggiosa della prima, e inizia idealmente con “The Slaughter of the Slave - Gods”, la quale ha una parte centrale lenta e folle con tanto di voce che vomita (anche) in italiano. Poi c’è la sferzante “Master’s Pleasure”, l’unica a essere totalmente priva di tempi veloci e con tanto di scena sadomasochistica ricca di frustate e gemiti femminili, mentre nella lunghetta introduzione vi è una chitarra praticamente “echizzata” che ricalca molto quella di “The XI Wings of Death”. Infine, le ultime due canzoni sono curiosamente quelle che durano di più, visto che le altre spesso durano 2 minuti, con il climax di “Submission”, che parte praticamente doom per poi esplodere cambiando pure improvvisamente e gradualmente tipologia di riffing, prima melodica e poi bella cattiva.
Notevole è anche il senso strategico con il quale sono stati posizionati i vari pezzi. Tanto per fare un esempio, “Scars of Damnation”, pura distruzione che dura poco meno di 2 minuti, segue saggiamente la precedente “The Slaughter of the Slave – Gods”, che è invece abbastanza elaborata dal punto di vista ritmico e melodico.
Insomma, “Hierarchy 1999” è semplicemente un capolavoro ai limiti della perfezione. Certo, i nostri riescono forse a dare il meglio nei pezzi più brevi, ma comunque gli Handful of Hate avevano già al tempo un sacco di personalità. E fra l’altro il disco si allontana molto dall’album precedente datato 1997, cioè “Qliphotic Supremacy”, decisamente più melodico e dalla produzione sporchissima, e quindi, per un assertore dell’evoluzionismo musicale quale sono io, questo non può altro che farmi piacere.
Voto: 95
Claustrofobia
Scaletta:
1 – The XI Wings of Death/ 2 – Disparity/ 3 – Fleshcrawling Blasphemy/ 4 – Stifled into Extremism/ 5 – The Slaughter of the Slave – Gods/ 6 – Scars of Damnation/ 7 – Master’s Pleasure/ 8 – The Bleeding Lips of Grace/ 9 Submission (The Fine Art of Sodomy)/ 10 – The Rise of Abomination.
Sito ufficiale:
http://www.handfulofhate.com/
MySpace:
http://www.myspace.com/handfulofhate
Formazione (1993): Nicola B. – voce/chitarra;
Paola Bonini - gemiti in "Master's Pleasure";
Marco M. – chitarra;
Enrico S. – basso;
Gionata P. – batteria.
Provenienza: Lucca, Toscana.
Canzone migliore del disco:
“The Slaughter of the Slave Gods”.
Punto di forza dell’opera:l'abilità dei singoli di enfatizzare, anche attraverso stacchi con annesse ripartenze paurose, i momenti salienti dei vari brani.
Nota:
Nicola dedica quest'album alla memoria di Ugo Pandolfini (1977 - 1994) e a Max Usseglio "le mode passano ma noi siamo sempre qui".
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Disco dalla cattiveria pressoché impossibile, “Hierarchy 1999” rappresenta il secondo album degli Handful of Hate, gruppo storico della Penisola che nel 2008, anche a causa di numerosi avvicendamenti in formazione succedutisi negli anni, si è sciolto, riformandosi per fortuna l’anno dopo. Ragion per cui mi sembra un obbligo parlare di quest’opera che, partendo dal black metal svedese più spietato, dimostra come si possa essere in un certo senso raffinati e “ignoranti” allo stesso tempo. E fra l’altro, bisogna assolutamente osservare come tale disco, elogio del sesso più perverso e luciferino e della guerra, sia uno dei tanti comprati (in offerta a 9 e 90) nel mio negozietto di fiducia, Star Music. Ancora mi chiedo come ‘sto negozio, per niente metal ma sufficientemente fornito di uscite underground, possieda delle chicche del genere…
L’album comincia nel “peggiore” dei modi, lasciando già pregustare un terrore senza fine: c’è una chitarra ultra – rumorista in sottofondo e una specie di assurda voce (o che dir si voglia) sgorgante forse direttamente dal fiume infernale Lete. Una decina di secondi e via, il massacro ha inizio!
E così, ecco le chitarre. Solenni e fiere, non disdegnano melodie maledette, beffarde e anche particolarmente curate, come in “The Slaughter of the Slave - Gods”. Ma gli assoli sono completamente banditi, seppur le due asce sappiano darsi (occasionalmente) manforte a vicenda magari completando il riff della compagna.
La batteria, a primo acchito, sembra letteralmente ossessionata da terremotanti blast – beats molto lineari, forse troppo limitati nelle variazioni, utili a enfatizzare la prestazione degli altri strumentisti, ma comunque sono efficaci. Ma a poco a poco, il lavoro si rivela inventivo, visto che il nostro ha per esempio avuto l’accortezza di rendere più intenso tutto l’insieme spesso per il tramite di tempi medi abbastanza dinamici.
La voce è invece un urlo soffocato accompagnato talvolta da grugniti bestiali e puntuali negli interventi, pur essendo questi stati ridotti al lumicino rispetto al disco precedente. C’è una buona creatività nella costruzione delle linee vocali, ma il bello è che Nicola canta con così tanta foga da perdere il fiato (“The XI Wings of Death”)!
Ma un’altra caratteristica interessante del disco è la sua divisione più o meno in 2 parti. La seconda è più coraggiosa della prima, e inizia idealmente con “The Slaughter of the Slave - Gods”, la quale ha una parte centrale lenta e folle con tanto di voce che vomita (anche) in italiano. Poi c’è la sferzante “Master’s Pleasure”, l’unica a essere totalmente priva di tempi veloci e con tanto di scena sadomasochistica ricca di frustate e gemiti femminili, mentre nella lunghetta introduzione vi è una chitarra praticamente “echizzata” che ricalca molto quella di “The XI Wings of Death”. Infine, le ultime due canzoni sono curiosamente quelle che durano di più, visto che le altre spesso durano 2 minuti, con il climax di “Submission”, che parte praticamente doom per poi esplodere cambiando pure improvvisamente e gradualmente tipologia di riffing, prima melodica e poi bella cattiva.
Notevole è anche il senso strategico con il quale sono stati posizionati i vari pezzi. Tanto per fare un esempio, “Scars of Damnation”, pura distruzione che dura poco meno di 2 minuti, segue saggiamente la precedente “The Slaughter of the Slave – Gods”, che è invece abbastanza elaborata dal punto di vista ritmico e melodico.
Insomma, “Hierarchy 1999” è semplicemente un capolavoro ai limiti della perfezione. Certo, i nostri riescono forse a dare il meglio nei pezzi più brevi, ma comunque gli Handful of Hate avevano già al tempo un sacco di personalità. E fra l’altro il disco si allontana molto dall’album precedente datato 1997, cioè “Qliphotic Supremacy”, decisamente più melodico e dalla produzione sporchissima, e quindi, per un assertore dell’evoluzionismo musicale quale sono io, questo non può altro che farmi piacere.
Voto: 95
Claustrofobia
Scaletta:
1 – The XI Wings of Death/ 2 – Disparity/ 3 – Fleshcrawling Blasphemy/ 4 – Stifled into Extremism/ 5 – The Slaughter of the Slave – Gods/ 6 – Scars of Damnation/ 7 – Master’s Pleasure/ 8 – The Bleeding Lips of Grace/ 9 Submission (The Fine Art of Sodomy)/ 10 – The Rise of Abomination.
Sito ufficiale:
http://www.handfulofhate.com/
MySpace:
http://www.myspace.com/handfulofhate
Wednesday, August 8, 2012
Solitvdo - "Demo MMXII" (2012)
Demo autoprodotto (2012)
Formazione (2011): WLKN – voce;
Herr CDXIII – voci pulite, chitarre, basso, batteria.
Provenienza: Cagliari, Sardegna.
Canzone migliore dell’opera:
“…et Ego Somnum in Fluctus”.
Punto di forza del disco:
l’essenzialità.
Nota 1:
“Beata Solitudo, Sola Beatitudo” prende il titolo da un detto latino con il quale “si sottolinea che solo separandoci dagli altri è possibile trovare il piacere della tranquillità dell’animo” (Wikipedia).
Nota 2:
“O Solitude” è la trasposizione in musica del poema, intitolato “O Solitude! If I with Thee Dwell”, del poeta romantico inglese John Keats.
-------------------------------------------
Con tale interessante progetto i nostri (e qua ricordo che Herr CDXIII è lo stesso dietro al solo – progetto Division VIII, mentre WLKN è il cantante degli ottimi Crowned in Thorns) intendono celebrare la solitudine, intesa come mezzo per rivendicare la propria individualità in modo da conoscere veramente sé stessi. Quindi, l’antagonista di questa visione non è nient’altro che la caotica società moderna, che tende a omologare i vari individui.
Effettivamente si deve dire che i Solitvdo rispettano in pieno un pensiero del genere trasponendolo in musica. La quale è in sintesi un black metal melodico dal piglio a volte addirittura sereno, con l’esempio massimo proveniente da “O Solitude”, il pezzo filosoficamente più rappresentativo benché sia fondato solo sui tempi medi, mentre negli altri non si disdegnano i blast – beats. Ma tutto l’insieme viene espresso sempre attraverso un equilibrio, “rilassante” ed essenziale, fra le varie parti.
Infatti, l’essenzialità è a dir poco fondamentale per i nostri. Tanto per fare qualche esempio, la batteria è semplice ma abbastanza collaborativa, quindi capace di enfatizzare il lavoro degli altri strumenti per il tramite di puntuali variazioni, seppur in “O Solitude” una diversificazione più accentuata dei vari ritmi non avrebbe guastato; la struttura dei pezzi è invece improntata su elementari ma efficaci botta e risposta che dicono tutto senza fare apparentemente niente di che.
Ma la metodologia strutturale adottata sa essere a ogni modo un po’ particolare. Ciò perché più o meno qualsiasi pezzo sembra essere costituito da 2 parti che si completano a vicenda. In mezzo a esse vi è spesso uno stacco, solitamente acustico, che alle volte è forse fuori luogo non avendo un vero e proprio legame con il resto della musica, come quello brevissimo di “Beata Solitudo, Sola Solitudo”.
Il comparto vocale risulta essere molto vario, e soprattutto abile a sottolineare i momenti salienti dei differenti brani. Da un urlo grosso si passa a uno più gutturale ma anche a uno più folle e acuto, e si finisce con delle voci pulite, talvolta dalle buone combinazioni, non poi così dissimili dagli esperimenti offerti dagli ultimi Nox Illunis. Queste ultime fra l’altro trovano lo sfogo più totale nel già menzionato “O Solitude”, pezzo nel quale sono banditi i vocalizzi più black metal, mentre nei restanti le voci pulite si fanno vive, in maniera sì prevedibile ma comunque efficace, negli ultimi momenti.
Infine, buona la produzione, sporca ma con tutti gli strumenti al loro posto, e soprattutto onesta, visto che non sono stati per nulla nascosti quei piccoli errori, ritmici o semplicemente di esecuzione, presenti in giro.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Beata Solitudo, Sola Beatitudo/ 2 – Dead at Born/ 3 – O Solitude/ 4 – Ecce Homo/ 5 - …et Ego Somnum in Fluctus
MySpace:
http://www.myspace.com/solitvdo
Formazione (2011): WLKN – voce;
Herr CDXIII – voci pulite, chitarre, basso, batteria.
Provenienza: Cagliari, Sardegna.
Canzone migliore dell’opera:
“…et Ego Somnum in Fluctus”.
Punto di forza del disco:
l’essenzialità.
Nota 1:
“Beata Solitudo, Sola Beatitudo” prende il titolo da un detto latino con il quale “si sottolinea che solo separandoci dagli altri è possibile trovare il piacere della tranquillità dell’animo” (Wikipedia).
Nota 2:
“O Solitude” è la trasposizione in musica del poema, intitolato “O Solitude! If I with Thee Dwell”, del poeta romantico inglese John Keats.
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Con tale interessante progetto i nostri (e qua ricordo che Herr CDXIII è lo stesso dietro al solo – progetto Division VIII, mentre WLKN è il cantante degli ottimi Crowned in Thorns) intendono celebrare la solitudine, intesa come mezzo per rivendicare la propria individualità in modo da conoscere veramente sé stessi. Quindi, l’antagonista di questa visione non è nient’altro che la caotica società moderna, che tende a omologare i vari individui.
Effettivamente si deve dire che i Solitvdo rispettano in pieno un pensiero del genere trasponendolo in musica. La quale è in sintesi un black metal melodico dal piglio a volte addirittura sereno, con l’esempio massimo proveniente da “O Solitude”, il pezzo filosoficamente più rappresentativo benché sia fondato solo sui tempi medi, mentre negli altri non si disdegnano i blast – beats. Ma tutto l’insieme viene espresso sempre attraverso un equilibrio, “rilassante” ed essenziale, fra le varie parti.
Infatti, l’essenzialità è a dir poco fondamentale per i nostri. Tanto per fare qualche esempio, la batteria è semplice ma abbastanza collaborativa, quindi capace di enfatizzare il lavoro degli altri strumenti per il tramite di puntuali variazioni, seppur in “O Solitude” una diversificazione più accentuata dei vari ritmi non avrebbe guastato; la struttura dei pezzi è invece improntata su elementari ma efficaci botta e risposta che dicono tutto senza fare apparentemente niente di che.
Ma la metodologia strutturale adottata sa essere a ogni modo un po’ particolare. Ciò perché più o meno qualsiasi pezzo sembra essere costituito da 2 parti che si completano a vicenda. In mezzo a esse vi è spesso uno stacco, solitamente acustico, che alle volte è forse fuori luogo non avendo un vero e proprio legame con il resto della musica, come quello brevissimo di “Beata Solitudo, Sola Solitudo”.
Il comparto vocale risulta essere molto vario, e soprattutto abile a sottolineare i momenti salienti dei differenti brani. Da un urlo grosso si passa a uno più gutturale ma anche a uno più folle e acuto, e si finisce con delle voci pulite, talvolta dalle buone combinazioni, non poi così dissimili dagli esperimenti offerti dagli ultimi Nox Illunis. Queste ultime fra l’altro trovano lo sfogo più totale nel già menzionato “O Solitude”, pezzo nel quale sono banditi i vocalizzi più black metal, mentre nei restanti le voci pulite si fanno vive, in maniera sì prevedibile ma comunque efficace, negli ultimi momenti.
Infine, buona la produzione, sporca ma con tutti gli strumenti al loro posto, e soprattutto onesta, visto che non sono stati per nulla nascosti quei piccoli errori, ritmici o semplicemente di esecuzione, presenti in giro.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Beata Solitudo, Sola Beatitudo/ 2 – Dead at Born/ 3 – O Solitude/ 4 – Ecce Homo/ 5 - …et Ego Somnum in Fluctus
MySpace:
http://www.myspace.com/solitvdo
Putrefied Beauty - "Promo 2010" (2010)
Demo (Unholy Domain Records, 2010)
Formazione (2007): Rosy – voce;
Nadia – chitarra;
Giulia – basso;
Eleonora – batteria.
Provenienza: Roma/Livorno, Lazio/Toscana.
Canzone migliore del disco:
“Purulent Stigmata”.
Punto di forza dell’opera:
l’abilità di compensare sufficientemente una metodologia strutturale poco digeribile.
Questo curioso gruppo mio conterraneo è in un certo senso storico. Ciò perché era composto, fra le altre, da Rosy dei Profanal, e Giulia degli Human Dirge, ovvero due interessanti formazioni ospitate su Timpani allo Spiedo nei primi tempi, quando in pratica la ‘zine si diffondeva ancora attraverso l’email. Però la nostalgia è doppia perché le Putrefied Beauty, dopo questo promo che lasciava intendere forse l’uscita del primissimo album, si sono bellamente sciolte, nonostante il talento profuso con indemoniata intensità.
‘Ste folli ragazze proponevano un brutal abbastanza dinamico e incredibilmente soffocante. “Soffocante” perché, dal punto di vista strutturale, i pezzi non si fermano praticamente mai, nel senso che non esistono pause e/o stacchi se non un millimetrico respiro in "Ianua Diaboli", e questa è una rarità. Ma anche perché non esiste neanche un briciolo di chitarra solista, ragion per cui il lavoro è così collettivo da spaventare l’ascoltatore. Una tale caratteristica però è in fin dei conti un bene dato che, così facendo, è più difficile e gratificante rendere più potente il singolo pezzo, ma di conseguenza è anche un rischio grosso.
Eppure, il tutto funziona. Questo grazie sia alla capacità di non fossilizzarsi sui blast – beats, permettendosi così frequenti digressioni nei tempi medi, talvolta belli groovy, sia al comparto vocale, il quale è composto da grugniti (intelligibili a dispetto del genere) e urla assortite. Ma non mancano neanche puntuali sovraincisioni, in modo da sottolineare i momenti salienti dei brani.
Il merito va anche attribuito a una struttura che sa essere agile (per esempio, alcune soluzioni vengono variate pure in maniera quasi impercettibile), e alla durata dei vari episodi, tutti rigorosamente incollati sui 3 minuti. Il “problema” è che, a causa degli aspetti soffocanti di cui sopra, sembra che i brani durino qualcosa di più.
Inoltre, il disco ha un finale – bomba, con quel riffing un po’ folle e quella batteria sì complessa ma con misura.
Insomma, dispiace veramente che le nostre si siano sciolte, anche perché, pur rifiutando alla grande il concetto stesso della melodia, avevano sufficiente fantasia – morbosamente elegante in talune occasioni -, per non stancare l’ascoltatore. E fra l’altro, la produzione di “Promo 2010”, è perfetta e pulita. Vabbè certo, è difficile digerire canzoni così costruite perché a volte qualche respiro non sarebbe guastato, mentre "Mutilated Icon's Parade" risulta essere un filo ossessiva a forza di riprendere in poco tempo uno dei passaggi iniziali.
Ma in fin dei conti, va bene così, però, vi prego, RITORNATE!
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:1 – Mutilated Icon’s Parade/ 2 – Ianua Diaboli/ 3 – Gorewar/ 4 – Purulent Stigmata
MySpace:
http://www.myspace.com/putrefiedbeauty
Formazione (2007): Rosy – voce;
Nadia – chitarra;
Giulia – basso;
Eleonora – batteria.
Provenienza: Roma/Livorno, Lazio/Toscana.
Canzone migliore del disco:
“Purulent Stigmata”.
Punto di forza dell’opera:
l’abilità di compensare sufficientemente una metodologia strutturale poco digeribile.
Questo curioso gruppo mio conterraneo è in un certo senso storico. Ciò perché era composto, fra le altre, da Rosy dei Profanal, e Giulia degli Human Dirge, ovvero due interessanti formazioni ospitate su Timpani allo Spiedo nei primi tempi, quando in pratica la ‘zine si diffondeva ancora attraverso l’email. Però la nostalgia è doppia perché le Putrefied Beauty, dopo questo promo che lasciava intendere forse l’uscita del primissimo album, si sono bellamente sciolte, nonostante il talento profuso con indemoniata intensità.
‘Ste folli ragazze proponevano un brutal abbastanza dinamico e incredibilmente soffocante. “Soffocante” perché, dal punto di vista strutturale, i pezzi non si fermano praticamente mai, nel senso che non esistono pause e/o stacchi se non un millimetrico respiro in "Ianua Diaboli", e questa è una rarità. Ma anche perché non esiste neanche un briciolo di chitarra solista, ragion per cui il lavoro è così collettivo da spaventare l’ascoltatore. Una tale caratteristica però è in fin dei conti un bene dato che, così facendo, è più difficile e gratificante rendere più potente il singolo pezzo, ma di conseguenza è anche un rischio grosso.
Eppure, il tutto funziona. Questo grazie sia alla capacità di non fossilizzarsi sui blast – beats, permettendosi così frequenti digressioni nei tempi medi, talvolta belli groovy, sia al comparto vocale, il quale è composto da grugniti (intelligibili a dispetto del genere) e urla assortite. Ma non mancano neanche puntuali sovraincisioni, in modo da sottolineare i momenti salienti dei brani.
Il merito va anche attribuito a una struttura che sa essere agile (per esempio, alcune soluzioni vengono variate pure in maniera quasi impercettibile), e alla durata dei vari episodi, tutti rigorosamente incollati sui 3 minuti. Il “problema” è che, a causa degli aspetti soffocanti di cui sopra, sembra che i brani durino qualcosa di più.
Inoltre, il disco ha un finale – bomba, con quel riffing un po’ folle e quella batteria sì complessa ma con misura.
Insomma, dispiace veramente che le nostre si siano sciolte, anche perché, pur rifiutando alla grande il concetto stesso della melodia, avevano sufficiente fantasia – morbosamente elegante in talune occasioni -, per non stancare l’ascoltatore. E fra l’altro, la produzione di “Promo 2010”, è perfetta e pulita. Vabbè certo, è difficile digerire canzoni così costruite perché a volte qualche respiro non sarebbe guastato, mentre "Mutilated Icon's Parade" risulta essere un filo ossessiva a forza di riprendere in poco tempo uno dei passaggi iniziali.
Ma in fin dei conti, va bene così, però, vi prego, RITORNATE!
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:1 – Mutilated Icon’s Parade/ 2 – Ianua Diaboli/ 3 – Gorewar/ 4 – Purulent Stigmata
MySpace:
http://www.myspace.com/putrefiedbeauty
Tuesday, August 7, 2012
Revenge - "Scum. Collapse. Eradication" (2012)
Sunday, August 5, 2012
Embrace of Thorns - "Atonement Ritual" (2009)
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