1. INTRODUZIONE.
Il primissimo album dei Land of Hate l’ho aspettato sinceramente con tanta impazienza, dopo aver recensito il loro demo “Gener(H)ate” tipo poco più di un anno fa (ovviamente, sto parlando della preistoria della rivista, ossia quando “Timpani Allo Spiedo” veniva pubblicata in versione mail a cadenza “a cazzi”) beccandosi un sonoro 76, lasciandomi così ben sperare per il futuro. E questo futuro mi è finalmente arrivato grazie a Marko, voce del gruppo, che mi ha inviato volontariamente la nuova opera. E minkia se ha fatto bene!
2. PRESENTAZIONE ALBUM.
“Neutralized Existence”, pubblicato ormai esattamente il primo Agosto dell’anno scorso presso l’apocalittica etichetta coreana Infernal Kaos, è un qualcosa che non si scorda facilmente, l’ennesimo ottimo disco proveniente dalla competitiva e sempre attiva scena calabrese, ed un altro assalto dalla macchina da guerra Land of Hate, che in tale sede hanno dato vita ad 8 pezzi per un totale di quasi 29 minuti di massacro sonoro. Quest’ultimo è più o meno lo stesso espresso nel demo summenzionato, e quindi anche stavolta si troverà un death/thrash metal selvaggio e granitico, dalle tinte pazzescamente apocalittiche, decisamente equilibrato fra parti veloci ed un po’ più lente, e tecnicamente piuttosto semplice (il che non significa che i nostri tecnicamente facciano schifo, anzi). Però, personalmente, avverto, ed in maniera veramente frequente, una pesantezza che ha a che fare più che altro con il metalcore, soprattutto nei tempi medi, prendendo di esso il lato più feroce e militante, ed aspettatevi pure delle svisate nei territori angoscianti del doom. Insomma, riflettendo meglio, per me la musica che ‘sti calabresi suonano è appunto più metalcore che mai. Anche sotto il profilo strutturale loro hanno mantenuto piuttosto imprevedibili le proprie canzoni, contando inoltre un’altra ragione, una specie di novità di cui qua si fa spesso uso, ma è ancora presto per farlo osservare, ergo soffrite in silenzio. Prima di tutto, si segnali che per “imprevedibile” mi riferisco al fatto che da queste parti è bandita, seppur non del tutto, la classica sequenza strofa-ritornello, in cui insomma due passaggi si danno il posto consequenzialmente almeno per 2 volte. Ho scritto “non del tutto” perché in certe canzoni il ritornello è vivo e vegeto, oltre a contare in alcune occasioni massimo 2 soluzioni, che effettivamente si trovano nella condizione sopraindicata, benché solo raramente (un po’ la parte centrale di “The Torment” con il 4 – 5 – 4 – 5; ma soprattutto esemplificativa è la paranoica “Extreme Violence”, brano particolarissimo e perciò lo tratterò più diffusamente più avanti). Rare e piuttosto fragili sono le stesse sequenze di soluzioni che si ripetono identiche nel prosieguo di una canzone, le quali sono di solito fondate su 2 soli passaggi o simili (tranne per “Claustrophobic”, uno in più; “Murderous State”, 4 + stacco; ed “Extreme Violence”) che appaiono sempre e comunque per altrettante volte, e la distanza dalla seconda apparizione rispetto alla prima sembra calcolata quasi esattamente in base a dopo quanto tempo quest’ultima si fa viva appena iniziato il pezzo (“Claustrophobic”, “The Torment”, “Murderous State”, “From the Street”). Ergo, c’è sempre un buon numero di soluzioni (stacchi e pause compresi) che separano i due momenti, a parte “Murderous State” dove c’è solo un passaggio a staccare la ripetizione della sequenza. Quest’ultima è spesso fragile, anche perché può non ripetersi completamente come in precedenza, vuoi per una battuta in più (“Minds Devourer”, dove l’1 viene interessato anziché dalle iniziali 3 da 4 volte) od in meno (“The Torment”, solo che stavolta entrambe le soluzioni vengono sottoposte a tali cambiamenti di programma, e così l’1 dalle 2 in luogo delle 4, mentre la 3 dalle 4 alle 3), vuoi per delle modifiche più propriamente musicali, magari eliminando uno stacco originario (come succede infatti in “The Torment”), vuoi per un assolo (cosa che avviene durante tutte e 4 le battute del secondo passaggio di “In the Hands of Destruction”). In un certo senso in “From the Street” la sequenza intera dovrebbe essere la 2 – 3 – 3 mod., solo che nella sua prima apparizione il 3 viene ripreso dopo aver tirato fuori uno stacco collettivo, mentre nell’ultima apparizione il passaggio di cui sopra viene effettivamente variato presentando tra l’altro un numero diverso di battute (le iniziali 2 e le finali 4) – insomma, ho beccato 3 situazioni diverse in un colpo solo! Parlando adesso più specificatamente del numero di soluzioni usato dai Land of Hate, loro ne presentano se non erro dalle 4 (“In the Hands of Destruction”) alle 7 (“The Torment”), ma a quanto pare il gruppo ama il numero 5, perché 5 sono i passaggi prediletti per altrettanti pezzi (“Claustrophobic”, “Murderous State”, “Neutralized Existence”, “From the Street”, “Extreme Violence”. Se ci fate caso, queste canzoni, non so per coincidenza o meno, coincidono con i numeri 1, 3, 5, 6 ed 8, ovviamente nella cosiddetta tracklist dell’album…sono idiota o anche questa disposizione ha i suoi buoni messaggi subliminali?). Ma quella novità nel discorso prettamente strutturale della musica dei 5 calabresi è rintracciabile a mio parere proprio nell’utilizzo delle battute che interessano le varie soluzioni, che qualche riga addietro ho già fatto implicitamente osservare. Infatti, se si fa attenzione, nei primi 4 pezzi non sono affatto rari i passaggi che vengono ripetuti per un numero pari di 3 battute (e ciò soprattutto in “The Torment” e “Minds Devourer”), mentre meno frequentemente in una. Mi sembra quasi che i Land of Hate in tal modo vogliano trasmettere ancora di più un’angoscia determinata dall’imprevedibilità malefica della società, e di conseguenza dei potenti di turno, i quali rappresentano il vero e proprio parto della prima, così indifferente e cieca. Curiosamente però, le battute, oltre a quelle rappresentate dal numero 3, che si sentono qui in giro sono le seguenti: 1 (“Claustrophobic”, “Murderous State” e “Minds Devourer”), 2 e 4 (queste ultime due sono le più usate, come tradizione comanda) ed 8 (“The Torment” e “Minds Devourer”), e quindi si predilige un lavoro dinamico, a tratti isterico, che mi rimanda ad un forte desiderio di libertà seppur “macchiato” dai monotoni ingranaggi del sistema, che alle volte vengono piegati, se non spezzati, mentre in altre occasioni gustano un trionfo che in pratica non si può più debellare (a tal proposito è esemplificativa “Extreme Violence”). Tale forte desiderio di libertà viene però ulteriormente aumentato se si pensa che i Land of Hate non mi paiono amare particolarmente le modificazioni ad una stessa soluzione, ed infatti, se non sbaglio, nella maggior parte dei pezzi i passaggi che si trovano in questa data situazione sono in misura minore rispetto a quelli, come dire, “vergini”. Comunque, alle volte può capitare, come per la soluzione n°3 di “The Torment”, che una venga modificata in modo piuttosto anomalo, nel senso che, come nel caso appena considerato, dapprima il basso, durante la seconda parte del riff di chitarra, crea una propria personale linea, ma successivamente, nel 3 mod., sono le stesse asce che riprendono, sempre in quel momento, la linea di basso! A mio avviso, è veramente encomiabile il fatto di non “nascondersi” dietro le variazioni ad una stessa soluzione, come a voler rappresentare una rabbia che agisce in modo sempre diverso di fronte alle più differenti assurde situazioni (negativamente fantasiose) della disonestà e dell’ingiustizia. Faccio notare infine, che per quanto il discorso strutturale sia abbastanza imprevedibile (a parte certe riprese di sequenze di passaggi più o meno fisse), i momenti iniziali di un pezzo di solito non lo sono affatto. Infatti, si consideri che in ogni episodio dell’album, quando la voce inizia ad eruttare la prima strofa la struttura è sempre rappresentata da un generico schema del tipo 1 – 2 – 1 (“generico” perché la maggior parte delle volte si tratta delle soluzioni 3 e 4, ma curiosamente senza presentare dei “salti” tra l’una e l’altra), eccezion fatta per “The Torment”, dove invece il paesaggio strutturale è un più complesso ma alla fine quasi circolare 1 - 1 mod. – 2 – 1.
Parlando adesso più propriamente della produzione di “Neutralized Existence”, essa mi è veramente molto piaciuta, dato che tutti gli strumenti sono stati ben bilanciati fra di loro, soprattutto lode al basso che finalmente è sbucato fuori dalla sua “tana” che a mio parere lo teneva abbastanza rinchiuso nei meandri di “Gener(H)ate”. Inoltre, apocalittici e spesso freddi come sono i Land of Hate, la produzione è stata orientata secondo me giustamente entro frequenze decisamente altine e quasi assordanti. C’è però una considerazione da fare: se nel demo sopraccitato le chitarre erano di solito non poco soffocate, seppellite dal resto degli strumenti, trasmettendo così, almeno per me com’è ovvio, maggiormente quell’aura di assurdo di cui i testi del gruppo si fanno principali portavoce, nell’album credo abbiano perso un pochetto una tale piacevolissima caratteristica, anche se per fortuna il suono è sempre abbastanza sporco, marcio e genuino. Tra l’altro non si scordi che questa cosiddetta “aura di assurdo” l’hanno ricompensata attraverso delle scelte stilistiche dolorose e sferraglianti (come appunto l’uso delle 3 battute trattate in precedenza).
3. ANALISI STRUMENTI.
Adesso andiamo ad analizzare più da vicino i differenti strumenti che popolano l’universo dei Land of Hate, partendo come solito dalla voce.
Quest’ultima, opera di Marko, si attesta secondo me, come ormai tradizione di questo cantante, su ottimi livelli, caratterizzati dalle sue inconfondibili urla grosse e straziate, che ogni volta mi sembrano delle declamazioni a lottare, la voglia perenne di non inchinarsi di fronte a nessuno (se non all’amore ricevuto dai propri cari), avendo fra l’altro un’intensità che mi ricorda molto volentieri quella del metalcore, e da dei grugniti piuttosto bassi e marci, i quali se non sbaglio vengono usati più adesso che in passato, anche grazie ad un aspetto utilizzato già prima e di cui parlerò fra poco. Tali grugniti li assocerei comunque agli anfratti più disgustosi e vili dell’essere umano, anfratti popolati da oscure ed invisibili presenze che incitano un uomo a macchiarsi dei crimini più nefasti possibili, ed a desiderare (e qualche volta ad ottenere) il potere, così da sottomettere, per falsi bisogni materiali, ed attraverso astratte elucubrazioni di superiorità, il volere della gente. C’è però una specie di novità (o almeno credo che lo sia), rappresentata da delle urla più alte del solito, che mi hanno ricordato quelle di moltissimi gruppi brutal, specialmente moderni come i Lividity ed i Waco Jesus, e che aggiunge a parer mio un’onta di follia al tutto, seppur modesta dato che tale tipo di vocalizzi da queste parti è molto raro da sentire (sentitevi a questo proposito l’introduzione di “Claustrophobic”). Per quanto mi riguarda, sono ottime anche le linee vocali, abbastanza fantasiose e se non erro cambiano pure a seconda del tipo di voce utilizzato, così, per esempio, da essere squartati vivi dalle bestiali ed isteriche linee dei grugniti in “Minds Devourers”. Fra l’altro, esse sono aiutate moltissimo dalle numerose sovraincisioni, mai così presenti nel discorso musicale dei nostri. Sovraincisioni urla/grugniti quasi continue, e che possono sembrare qualcosa come la lotta eterna fra la giustizia disperata e la follia cieca, oppure credo che possano rappresentare la complessità del mondo cosiddetto civile, il quale risulta intrappolato dalle praticamente infinite “magagne” burocratiche che lo popolano, impedendo così spesso l’affermazione di una giustizia vera e propria. In tal modo, il tutto diventa a mio avviso molto pesante ed asfittico, grazie a quelle diverse sovraincisioni che quasi non donano tregua, anche se mi chiedo soltanto come sia riuscito dopo tutto questo tempo il gruppo a rispettarle, almeno in minima parte, direttamente dal vivo. Rispetto invece a “Gener(H)ate” l’effetto d’eco, che aggiungeva secondo me all’insieme un’umanità sempre distrutta e stanca nei secoli, se non erro lo riesco a beccare soltanto proprio durante le urla dell’introduzione di “Claustrophobic”, tra l’altro in maniera non esattamente secca e lontana, dato che alla fine l’eco cerca di sovrapporre il secondo urlo con il primo.
Le chitarre mi paiono invece decisamente più fantasiose che in passato, nonostante siano ancora piuttosto semplici sia tecnicamente che strutturalmente, ma stavolta avverto pure una ricchezza d’influenze maggiore e da apprezzare veramente tanto, anch’esse in grado di dare una dinamicità che probabilmente mancava nel demo più volte citato, pur mantenendo la stessa riconoscibilissima impronta. A dispetto però della digeribilità dei vari riffs che compongono l’universo straziante e straziato dei 5 calabresi, la melodia, come solito, è quasi assente, benché, come si vedrà, qualche esempio per fortuna non manca. Comunque, quando si va veloci, le varie soluzioni chitarristiche ad esempio vanno da crudi assalti thrash (come in “Claustrophobic”), che talvolta sanno essere perfino grooveggianti e gracchianti, quasi come fosse una conseguenza di quintali di birra bevuti a forza (“Neutralized Existence”), ad isterici colpi di arma da fuoco che mi sanno più di death (come nella parte centrale di “From the Street”), magari disegnando, con follia omicida, ricami che utilizzano vertiginosamente sia le corde più basse che per un tempo decisamente minore quelle più alte (sentitevi a tal proposito “The Torment” e “Neutralized Existence”), oppure distruzioni di massa più dinamiche, che personalmente hanno ricordato altresì molto gli spagnoli brutallari Apocalyptic (sempre in “Neutralized Existence”). In altre occasioni invece, seppur si tratti sempre di riffs tremendamente duri, il paesaggio sonico può divenire melodico ma dai tratti amari, disperati, senza nessuna speranza (“Minds Devourers”), oppure dal sapore più epico e monumentale, dai toni quasi blackeggianti (“Extreme Violence”). Quando i tempi rallentano le chitarre si fanno a mio parere maggiormente metalcore, estrapolandone da questo una certa fiera durezza guerrafondaia che sa di militante, ma niente paura che anche in tal caso sono co-padroni della situazione anche la varietà e la fantasia. Ascoltatevi a questo proposito l’incubo brutal “grattugiato” di “Minds Devourers”, le inquietanti dissonanze death, quasi l’annuncio di una morte stridente perché apparentemente splendente è la società in cui si vive (“The Torment”), oppure le impazzite fughe sulle note più alte sempre di “Minds Devourers”, il quasi beffardo thrash di “From the Street”, od ancora lo sludge di “Claustrophobic”, dilatatissimo e persino un po’ melodico, come melodico ma non troppo è anche il doom di “Murderous State”, come invece lo è interamente quello triste e rassegnato di “In the Hands of Destruction”. Le nostre due asce hanno però aggiunto al proprio carniere pure le cosiddette sovrapposizioni di riffs, che comunque non sono poi così frequenti, ma è da notare il fatto che quando c’è la chitarra solista questa intesse ad ogni modo dei motivi piuttosto differenti da quelli della propria compagna, pur dimostrandosi decisamente semplice e senza pretese anch’essa. Curiosamente, i suoi interventi sono ogni volta rintracciabili durante i tempi medio-lenti dal riffing abbastanza melodico, come per sopperire alla mancanza data dalla furia disperata e forse un po’ cinica della voce, magari esprimendosi attraverso arpeggi pieni di desolazione e morte (“The Torment”). Eppure qui a mio parere i nostri hanno in un certo senso “toppato”, dato che nella stessa “The Torment” ed in “In the Hands of Destruction” c’è una soluzione solista che se non sbaglio è praticamente identica, minimalista ed acuta, sì efficace ma in fin dei conti già sentita. Gli arrangiamenti di questo tipo, come osservato in precedenza, sono pochissimi (ce n’è qualcheduno pure in “From the Street”) e brevissimi, preferendo quindi un impatto collettivo, come a voler rappresentare idealmente l’importanza dell’unità che fa la forza. Nonostante tale ultima considerazione, neanche gli assoli non mancano, ed anche in questa sede c’è qualcosa di cambiato, ma stavolta non nella quantità maggiore di solismi rispetto a “Gener(H)ate” che più o meno è la stessa. Sto parlando infatti delle diverse melodie usate, in quanto prima le chitarre da questo punto di vista erano molto più cattive ed isteriche e di marca thrasheggiante, seppur qualcosa di simile ci sia benché in maniera abbastanza diversa (“In the Hands of Destruction”). In quest’album, gli assoli sono melodici, dinamici (e qua i Land of Hate non si sono spostati di una virgola da quello che in passato hanno offerto), soffrono ma non lo fanno pesare, e talvolta sono come ammantati di una fragile speranza, “fragile” anche perché, come in “Minds Devourers”, essa va in contrasto con le danze asfissianti e lentissime, guidate maggiormente dalla batteria. Un altro aspetto interessante è che gli assoli stavolta non sono da considerare poi così brevi, almeno solitamente, passando così dalle 2 battute di quello di “Minds Devourers”, alle 8 di “The Torment”, ergo si può dire che abbiano acquisito un’importanza maggiore (quello ancora non citato è presente in “Claustrophobic”). Da segnalare inoltre che curiosamente i solismi si presentano quasi sempre nei momenti finali di un pezzo, tranne però in “The Torment” dove si fa vivo più o meno nella parte centrale, e forse proprio perché rappresentano il massimo momento di sofferenza (o di azione come secondo me può esserlo quello di “In the Hands of Destruction”, gestito tra l’altro a mio avviso benissimo dato che si presenta subito durante una brusca e pesantissima accelerazione così da colpire con brutalità pazzesca l’ascoltatore), cosa che aumenta ulteriormente se si pensa che solitamente essi ci sono nei tempi medi, come frammenti vivi di un’umanità stanca.
Considero splendido pure il lavoro del basso, che riesce meravigliosamente ad indurire tutto l’insieme anche grazie a delle linee che aggiungono qualcosa in più alla musica, un qualcosa di terrificante ma terribilmente semplice, un po’ come è la violenza, quindi non aspettatevi dei ricami virtuosi. Ascoltatevi in tal senso “Claustrophobic”, “The Torment” e “Minds Devourers”. Ho una particolare predilezione specialmente per la seconda, dove il basso, nonostante tutto, in certi punti, attraverso il suo incedere terremotante ma “calmo”, guida persino le chitarre, come già osservato durante l’analisi della struttura dei pezzi, dimostrando così un’importanza del basso piuttosto vitale per il prosieguo delle canzoni.
Tremendi (ovviamente in senso positivo) sono i tonfi di una batteria mai così furiosa per i Land of Hate. Infatti, Attila, pur mantenendo il suo stile tonante e quasi meccanico, e quindi paurosamente privo di qualsivoglia variazione durante i vari ritmi, si è reso a mio avviso decisamente più completo così da proporre per esempio dei devastanti blast-beats (beh, più o meno) come in “Extreme Violence”, oppure una rifinitura dei tempi veloci, sempre pesantissimi, in modo da presentarli in maniera meno meccanizzata, benché le variazioni se non sbaglio colpiscano quasi sempre il rullante (come in “Claustrophobic”). Tale piccolo cambiamento lo considero fra l’altro di un’efficacia enorme, dato che così viene trasmessa maggiormente una violenza che viene scoperta in tutta la sua vera brutalità, un tipo di violenza la quale talvolta si esprime in un certo senso in modo elegante, per esempio tramite la televisione con quella masnada di pubblicità. E’ una violenza che sa anche di caos, come ci viene sputato spesso dal traffico urbano oppure dalla vita di tutti i giorni che inghiotte molte persone in una spaventosa ansia dai ritmi vertiginosi, vita resa impossibile non poche volte. Ma paradossalmente nei tempi più lenti, i ritmi divengono più assurdi in quanto non sono affatto dinamici, nel senso che si ripetono così come sono per tutto il tempo, un po’ come a rispecchiare una vita da servi che ogni giorno è sempre la stessa, senza nessuna variazione di sorta, mentalmente uccisa anche con l’abitudine. Ed è tutto ciò che mi fa paura del lavoro di Attila, eppure i ritmi solitamente sono lineari e con una buona frequenza pure piacevolmente grooveggianti, forse per rappresentare un qualcosa di vivo e speranzoso nascosto negli anfratti più oscuri di una mente apparentemente irrecuperabile seppur bombardata continuamente e resa cieca. Per far capire ulteriormente l’importanza acquisita dalla batteria nella musica del gruppo basti pensare al numero quasi esorbitante degli stacchi ad essa attribuiti, e praticamente non ce n’è uno in soli 2 pezzi, ossia “The Torment” e “Minds Devourers” (brano introdotto da uno spezzone che presumo sia stato preso direttamente dal G8 genovese, anche perché si sente quell’ormai tristemente famoso “assassini!” urlato contro le forze di polizia che osarono caricare un gruppo di manifestanti pacifici, dopodiché l’introduzione strettamente musicale, brevissima ma violentissima, viene affidata proprio ad Attila). Devo però dire che da questo punto di vista non credo che venga presentata poi così tanta varietà di soluzioni, visto e considerato che il charleston, seppur in modo efficace ed intensissimo, è stato usato forse fin troppo, e sempre e comunque allo stesso modo (“Murderous State”, “From the Street” e “In the Hands of Destruction”). Inoltre, c’è un altro aspetto a doppio taglio di cui qui secondo me si abusa non poco, ma per ora mi limito ad una tale semplice considerazione per meglio trattarlo prossimamente.
4. NEI MEANDRI DI “NEUTRALIZED EXISTENCE”.
Adesso è il momento di parlare di un brano a mio parere decisamente inusuale per i Land of Hate, ossia curiosamente lo stesso che dà il titolo all’album. Esso dura soltanto all’incirca 2 minuti e 20 ed è l’unico episodio che si concentra maggiormente sui tempi veloci, i quali stavolta sono basati molto su un groove assassino sui cui si posano i riffs più “allegri” dell’opera, anche se penso non lo siano affatto. Infatti, penso che tale apparente allegria coincida con il titolo del brano, facendomi quindi immaginare una persona che è contenta e felice della vita bombardata che fa e dell’operato di tutti gli uomini di stato, soprattutto di quelli collusi con la mafia. Se ciò si mischia con alcuni ritmi della batteria che mi sanno tanto di speed metal, pure perché talvolta c’è quella classica doppia cassa “ad elicottero” tipica di tale genere, la frittata è bella ch’è fatta! Infatti, è come se questi momenti più fluidi e lineari volessero dire che la persona di cui sopra creda che tutto vada bene, che non ci sia nessun ostacolo alla vita sua e del proprio paese, e che i governatori che tanto rispetta fossero gli uomini più puliti del mondo. Eccola, l’esistenza neutralizzata, peccato che è tutta realtà. Ritornando agli aspetti più formali del pezzo, la sua struttura se non sbaglio è la seguente: introduzione chitarra – 1 – 2 – 1 – brevissimo stacco collettivo – 3 – pausa – 3 – stacco di batteria – 4 – 1 – 2 – 4 – 5 – chiusura di chitarra. Devo far notare che la chiusura è affidata allo stesso violentissimo riff dell’introduzione. Inoltre, mi è piaciuto molto anche il senso strategico di questa canzone, dato che in scaletta è stata messa come quinta, in grado quindi a mio avviso di dare un certo “riposo ballabile” e più digeribile all’ascoltatore, suddividendo (beh, oddio…) così l’opera.
5. L’OLOCAUSTO DI “EXTREME VIOLENCE”.
Ma il pezzo che mi ha più entusiasmato è stata una vera e propria sorpresa per me, anche perché dimostra che i Land of Hate sanno meravigliosamente differenziare ogni loro brano, senza stravolgere poi così tanto il proprio suono. Se non lo avete capito, sto prendendo di mira “Extreme Violence”, l’epitaffio dell’album, l’estasi della morte su questo mondo, la paranoia maxima ed infernale che ha sottomesso ogni coscienza, l’Apocalisse di tutto, probabilmente anche l’ira di dio sull’umanità. Perché sto dicendo tutto questo? Perché “Extreme Violence” promette letteralmente, potenziandolo mille e mille volte, nessuna pietà fin dal proprio titolo. E’ un qualcosa che ingabbia l’ascoltatore, almeno personalmente com’è ovvio, è un qualcosa che lo soffoca proponendo delle soluzioni che vengono riprese quasi continuamente ma entro brevi assalti nervosi però mai veramente veloci, come a voler rappresentare l’ira inquietante ma elegante di dio, un mare in tempesta che non si ferma praticamente mai, nessuna pausa, solo una grandiosa intensità che si conclude nell’olocausto globale del finale, rappresentato da un assolo piuttosto melodico ma terribile, e da un riff spaventosamente monumentale e da una batteria che erutta velocità sostenute ma non troppo. Ed il tutto finisce, la musica si ferma bruscamente come se dio avesse rinnegato il proprio amore per l’uomo, stufo di amare l’odio personificato. Eccovi pronta la struttura della canzone, facendo attenzione che lo stacco di batteria riprende in pratica la parte finale ritmica del 2, senza quindi fermarsi: 1 – 2 – 3 – 2 – 3 – 2 – 3 – 4 – 4 mod. – 4 – 4 mod. – 4 – 2 – stacco di batteria – 2 – 3 – 2 – 3 – 5 – stacco collettivo – 1 – 2 – 3 – 2 – 3 – assolo (4 – 4 mod. – 4). Ottimo episodio, viste le considerazioni di cui sopra, facendo così finire “Neutralized Existence” in maniera cinica ed apocalittica, diversamente da “Gener(H)ate” che nel finale mi faceva avvertire un senso di epicismo, ergo di lotta.
6. ALTRI DIFETTUCCI.
C’è però a mio parere qualcos’altro che non mi è poi così piaciuto, ed il primo aspetto da trattare riguarda il modo con cui spesso viene concluso un brano. Infatti, addirittura in “Claustrophobic”, 3° e “Minds Devourers” tutto finisce attraverso un tempo lento ripetuto ossessivamente fino a che la batteria presenti una doppia cassa la quale, seppur la considero piuttosto efficace facendomi immaginare una lenta tortura che pian piano diventa sempre più intensa e brutale, viene usata probabilmente fin troppo per concludere un episodio, anche perché una simile tecnica usata in questo modo mi pare quasi elementare, troppo semplice da seguire. Insomma, dopo gli stacci di charleston, ecco un altro pregio diventato un difetto!
Inoltre, bisogna spendere qualche parola anche riguardo la cosiddetta fuga di “From the Street”, fuga introdotta prima da una pausa e poi da qualche menta rapida sul rullante, utile secondo me a prevedere una coltellata death distruttiva e su tempi velocissimi, che dopo 4 battute dà il posto ad un metalcore un pochino particolare, soprattutto perché c’è un ritmo di batteria seghettato ma non continuo e fluido, contando in aggiunta pure un riffing quasi schizzato. Tale fuga finisce, e così si ripresenta un’altra pausa con annessi leggeri piatti, in modo da ritornare al 2, ossia uno dei temi principali del brano. Ora, sarò antico e senza senso, ma il fatto di aver proposto questa fuga tra due stacchi, tra cui l’ultimo non mi sembra poi così efficace ed intenso, credo spezzetti un po’ troppo il pezzo facendo sviluppare quindi una mini-canzone, la quale viene spezzata a mio avviso in maniera non esattamente fluida. Penso infatti che si poteva unire il 5 mod. direttamente con il 2, magari con qualcosa nel mezzo che non faccia perdere l’attenzione dell’ascoltatore, almeno personalmente certo.
7. CONCLUSIONI.
E siamo alla fine pure di questa rece. Che dire? I Land of Hate a parer mio sono cresciuti veramente in poco tempo rispetto all’opera da me continuamente presa come punto di riferimento principale, perfezionando il proprio crudo stile sonoro e tra l’altro anche con molte caratteristiche strutturali da prendere in seria considerazione, non ultima la capacità di partorire canzoni quasi senza stacchi e pause (come “The Torment” e “Minds Devourers”), così da massacrare ulteriormente i timpani dell’ascoltatore, e pure offrendole di non precisamente lineari, benché non mi pare di essere dentro territori da questo punto di vista tecnici e/o progressivi, visto per esempio l’abuso della doppia cassa per il finale dei pezzi. Ma qual è il punto di forza del gruppo in “Neutralized Existence”? La scelta mi è stata difficile dato che qui la qualità abbonda, ma alla fine penso che esso sia rappresentato da tutte quelle piccole novità e perfezionamenti che i Land of Hate hanno compiuto sul proprio suono, abili anche in grado non solo di aggiungere quel tocco di classe in più, ma capaci pure di aumentare notevolmente la dose di dolore che “Gener(H)ate” già mi trasmetteva. Qualsiasi altra parola si spreca.
Voto: 84
Claustrofobia
P.S.: faccio presente come ultima cosa che lo spezzone che funge da introduzione per “In the Hands of Destruction”, in cui si sentono fra gli altri i rumori di un marchingegno di tortura che strazia le corde vocali di un uomo all’epoca dell’Inquisizione cristiana, si può beccare addirittura nell’inizio di “The Sound of Insanity”, contenuta nel secondo demo, da me recensito nel 3° numero della rivista, degli Hieros Gamos dal titolo “The Sounds of Doom (The Ancestral Myths)”.
Scaletta:
1 – Claustrophobic/ 2 – The Torment/ 3 – Murderous State/ 4 – Minds Devourers/ 5 – Neutralized Existence/ 6 – From the Street/ 7 – In the Hands of Destruction/ 8 – Extreme Violence
MySpace:
http://www.myspace.com/landofhateband
Il primissimo album dei Land of Hate l’ho aspettato sinceramente con tanta impazienza, dopo aver recensito il loro demo “Gener(H)ate” tipo poco più di un anno fa (ovviamente, sto parlando della preistoria della rivista, ossia quando “Timpani Allo Spiedo” veniva pubblicata in versione mail a cadenza “a cazzi”) beccandosi un sonoro 76, lasciandomi così ben sperare per il futuro. E questo futuro mi è finalmente arrivato grazie a Marko, voce del gruppo, che mi ha inviato volontariamente la nuova opera. E minkia se ha fatto bene!
2. PRESENTAZIONE ALBUM.
“Neutralized Existence”, pubblicato ormai esattamente il primo Agosto dell’anno scorso presso l’apocalittica etichetta coreana Infernal Kaos, è un qualcosa che non si scorda facilmente, l’ennesimo ottimo disco proveniente dalla competitiva e sempre attiva scena calabrese, ed un altro assalto dalla macchina da guerra Land of Hate, che in tale sede hanno dato vita ad 8 pezzi per un totale di quasi 29 minuti di massacro sonoro. Quest’ultimo è più o meno lo stesso espresso nel demo summenzionato, e quindi anche stavolta si troverà un death/thrash metal selvaggio e granitico, dalle tinte pazzescamente apocalittiche, decisamente equilibrato fra parti veloci ed un po’ più lente, e tecnicamente piuttosto semplice (il che non significa che i nostri tecnicamente facciano schifo, anzi). Però, personalmente, avverto, ed in maniera veramente frequente, una pesantezza che ha a che fare più che altro con il metalcore, soprattutto nei tempi medi, prendendo di esso il lato più feroce e militante, ed aspettatevi pure delle svisate nei territori angoscianti del doom. Insomma, riflettendo meglio, per me la musica che ‘sti calabresi suonano è appunto più metalcore che mai. Anche sotto il profilo strutturale loro hanno mantenuto piuttosto imprevedibili le proprie canzoni, contando inoltre un’altra ragione, una specie di novità di cui qua si fa spesso uso, ma è ancora presto per farlo osservare, ergo soffrite in silenzio. Prima di tutto, si segnali che per “imprevedibile” mi riferisco al fatto che da queste parti è bandita, seppur non del tutto, la classica sequenza strofa-ritornello, in cui insomma due passaggi si danno il posto consequenzialmente almeno per 2 volte. Ho scritto “non del tutto” perché in certe canzoni il ritornello è vivo e vegeto, oltre a contare in alcune occasioni massimo 2 soluzioni, che effettivamente si trovano nella condizione sopraindicata, benché solo raramente (un po’ la parte centrale di “The Torment” con il 4 – 5 – 4 – 5; ma soprattutto esemplificativa è la paranoica “Extreme Violence”, brano particolarissimo e perciò lo tratterò più diffusamente più avanti). Rare e piuttosto fragili sono le stesse sequenze di soluzioni che si ripetono identiche nel prosieguo di una canzone, le quali sono di solito fondate su 2 soli passaggi o simili (tranne per “Claustrophobic”, uno in più; “Murderous State”, 4 + stacco; ed “Extreme Violence”) che appaiono sempre e comunque per altrettante volte, e la distanza dalla seconda apparizione rispetto alla prima sembra calcolata quasi esattamente in base a dopo quanto tempo quest’ultima si fa viva appena iniziato il pezzo (“Claustrophobic”, “The Torment”, “Murderous State”, “From the Street”). Ergo, c’è sempre un buon numero di soluzioni (stacchi e pause compresi) che separano i due momenti, a parte “Murderous State” dove c’è solo un passaggio a staccare la ripetizione della sequenza. Quest’ultima è spesso fragile, anche perché può non ripetersi completamente come in precedenza, vuoi per una battuta in più (“Minds Devourer”, dove l’1 viene interessato anziché dalle iniziali 3 da 4 volte) od in meno (“The Torment”, solo che stavolta entrambe le soluzioni vengono sottoposte a tali cambiamenti di programma, e così l’1 dalle 2 in luogo delle 4, mentre la 3 dalle 4 alle 3), vuoi per delle modifiche più propriamente musicali, magari eliminando uno stacco originario (come succede infatti in “The Torment”), vuoi per un assolo (cosa che avviene durante tutte e 4 le battute del secondo passaggio di “In the Hands of Destruction”). In un certo senso in “From the Street” la sequenza intera dovrebbe essere la 2 – 3 – 3 mod., solo che nella sua prima apparizione il 3 viene ripreso dopo aver tirato fuori uno stacco collettivo, mentre nell’ultima apparizione il passaggio di cui sopra viene effettivamente variato presentando tra l’altro un numero diverso di battute (le iniziali 2 e le finali 4) – insomma, ho beccato 3 situazioni diverse in un colpo solo! Parlando adesso più specificatamente del numero di soluzioni usato dai Land of Hate, loro ne presentano se non erro dalle 4 (“In the Hands of Destruction”) alle 7 (“The Torment”), ma a quanto pare il gruppo ama il numero 5, perché 5 sono i passaggi prediletti per altrettanti pezzi (“Claustrophobic”, “Murderous State”, “Neutralized Existence”, “From the Street”, “Extreme Violence”. Se ci fate caso, queste canzoni, non so per coincidenza o meno, coincidono con i numeri 1, 3, 5, 6 ed 8, ovviamente nella cosiddetta tracklist dell’album…sono idiota o anche questa disposizione ha i suoi buoni messaggi subliminali?). Ma quella novità nel discorso prettamente strutturale della musica dei 5 calabresi è rintracciabile a mio parere proprio nell’utilizzo delle battute che interessano le varie soluzioni, che qualche riga addietro ho già fatto implicitamente osservare. Infatti, se si fa attenzione, nei primi 4 pezzi non sono affatto rari i passaggi che vengono ripetuti per un numero pari di 3 battute (e ciò soprattutto in “The Torment” e “Minds Devourer”), mentre meno frequentemente in una. Mi sembra quasi che i Land of Hate in tal modo vogliano trasmettere ancora di più un’angoscia determinata dall’imprevedibilità malefica della società, e di conseguenza dei potenti di turno, i quali rappresentano il vero e proprio parto della prima, così indifferente e cieca. Curiosamente però, le battute, oltre a quelle rappresentate dal numero 3, che si sentono qui in giro sono le seguenti: 1 (“Claustrophobic”, “Murderous State” e “Minds Devourer”), 2 e 4 (queste ultime due sono le più usate, come tradizione comanda) ed 8 (“The Torment” e “Minds Devourer”), e quindi si predilige un lavoro dinamico, a tratti isterico, che mi rimanda ad un forte desiderio di libertà seppur “macchiato” dai monotoni ingranaggi del sistema, che alle volte vengono piegati, se non spezzati, mentre in altre occasioni gustano un trionfo che in pratica non si può più debellare (a tal proposito è esemplificativa “Extreme Violence”). Tale forte desiderio di libertà viene però ulteriormente aumentato se si pensa che i Land of Hate non mi paiono amare particolarmente le modificazioni ad una stessa soluzione, ed infatti, se non sbaglio, nella maggior parte dei pezzi i passaggi che si trovano in questa data situazione sono in misura minore rispetto a quelli, come dire, “vergini”. Comunque, alle volte può capitare, come per la soluzione n°3 di “The Torment”, che una venga modificata in modo piuttosto anomalo, nel senso che, come nel caso appena considerato, dapprima il basso, durante la seconda parte del riff di chitarra, crea una propria personale linea, ma successivamente, nel 3 mod., sono le stesse asce che riprendono, sempre in quel momento, la linea di basso! A mio avviso, è veramente encomiabile il fatto di non “nascondersi” dietro le variazioni ad una stessa soluzione, come a voler rappresentare una rabbia che agisce in modo sempre diverso di fronte alle più differenti assurde situazioni (negativamente fantasiose) della disonestà e dell’ingiustizia. Faccio notare infine, che per quanto il discorso strutturale sia abbastanza imprevedibile (a parte certe riprese di sequenze di passaggi più o meno fisse), i momenti iniziali di un pezzo di solito non lo sono affatto. Infatti, si consideri che in ogni episodio dell’album, quando la voce inizia ad eruttare la prima strofa la struttura è sempre rappresentata da un generico schema del tipo 1 – 2 – 1 (“generico” perché la maggior parte delle volte si tratta delle soluzioni 3 e 4, ma curiosamente senza presentare dei “salti” tra l’una e l’altra), eccezion fatta per “The Torment”, dove invece il paesaggio strutturale è un più complesso ma alla fine quasi circolare 1 - 1 mod. – 2 – 1.
Parlando adesso più propriamente della produzione di “Neutralized Existence”, essa mi è veramente molto piaciuta, dato che tutti gli strumenti sono stati ben bilanciati fra di loro, soprattutto lode al basso che finalmente è sbucato fuori dalla sua “tana” che a mio parere lo teneva abbastanza rinchiuso nei meandri di “Gener(H)ate”. Inoltre, apocalittici e spesso freddi come sono i Land of Hate, la produzione è stata orientata secondo me giustamente entro frequenze decisamente altine e quasi assordanti. C’è però una considerazione da fare: se nel demo sopraccitato le chitarre erano di solito non poco soffocate, seppellite dal resto degli strumenti, trasmettendo così, almeno per me com’è ovvio, maggiormente quell’aura di assurdo di cui i testi del gruppo si fanno principali portavoce, nell’album credo abbiano perso un pochetto una tale piacevolissima caratteristica, anche se per fortuna il suono è sempre abbastanza sporco, marcio e genuino. Tra l’altro non si scordi che questa cosiddetta “aura di assurdo” l’hanno ricompensata attraverso delle scelte stilistiche dolorose e sferraglianti (come appunto l’uso delle 3 battute trattate in precedenza).
3. ANALISI STRUMENTI.
Adesso andiamo ad analizzare più da vicino i differenti strumenti che popolano l’universo dei Land of Hate, partendo come solito dalla voce.
Quest’ultima, opera di Marko, si attesta secondo me, come ormai tradizione di questo cantante, su ottimi livelli, caratterizzati dalle sue inconfondibili urla grosse e straziate, che ogni volta mi sembrano delle declamazioni a lottare, la voglia perenne di non inchinarsi di fronte a nessuno (se non all’amore ricevuto dai propri cari), avendo fra l’altro un’intensità che mi ricorda molto volentieri quella del metalcore, e da dei grugniti piuttosto bassi e marci, i quali se non sbaglio vengono usati più adesso che in passato, anche grazie ad un aspetto utilizzato già prima e di cui parlerò fra poco. Tali grugniti li assocerei comunque agli anfratti più disgustosi e vili dell’essere umano, anfratti popolati da oscure ed invisibili presenze che incitano un uomo a macchiarsi dei crimini più nefasti possibili, ed a desiderare (e qualche volta ad ottenere) il potere, così da sottomettere, per falsi bisogni materiali, ed attraverso astratte elucubrazioni di superiorità, il volere della gente. C’è però una specie di novità (o almeno credo che lo sia), rappresentata da delle urla più alte del solito, che mi hanno ricordato quelle di moltissimi gruppi brutal, specialmente moderni come i Lividity ed i Waco Jesus, e che aggiunge a parer mio un’onta di follia al tutto, seppur modesta dato che tale tipo di vocalizzi da queste parti è molto raro da sentire (sentitevi a questo proposito l’introduzione di “Claustrophobic”). Per quanto mi riguarda, sono ottime anche le linee vocali, abbastanza fantasiose e se non erro cambiano pure a seconda del tipo di voce utilizzato, così, per esempio, da essere squartati vivi dalle bestiali ed isteriche linee dei grugniti in “Minds Devourers”. Fra l’altro, esse sono aiutate moltissimo dalle numerose sovraincisioni, mai così presenti nel discorso musicale dei nostri. Sovraincisioni urla/grugniti quasi continue, e che possono sembrare qualcosa come la lotta eterna fra la giustizia disperata e la follia cieca, oppure credo che possano rappresentare la complessità del mondo cosiddetto civile, il quale risulta intrappolato dalle praticamente infinite “magagne” burocratiche che lo popolano, impedendo così spesso l’affermazione di una giustizia vera e propria. In tal modo, il tutto diventa a mio avviso molto pesante ed asfittico, grazie a quelle diverse sovraincisioni che quasi non donano tregua, anche se mi chiedo soltanto come sia riuscito dopo tutto questo tempo il gruppo a rispettarle, almeno in minima parte, direttamente dal vivo. Rispetto invece a “Gener(H)ate” l’effetto d’eco, che aggiungeva secondo me all’insieme un’umanità sempre distrutta e stanca nei secoli, se non erro lo riesco a beccare soltanto proprio durante le urla dell’introduzione di “Claustrophobic”, tra l’altro in maniera non esattamente secca e lontana, dato che alla fine l’eco cerca di sovrapporre il secondo urlo con il primo.
Le chitarre mi paiono invece decisamente più fantasiose che in passato, nonostante siano ancora piuttosto semplici sia tecnicamente che strutturalmente, ma stavolta avverto pure una ricchezza d’influenze maggiore e da apprezzare veramente tanto, anch’esse in grado di dare una dinamicità che probabilmente mancava nel demo più volte citato, pur mantenendo la stessa riconoscibilissima impronta. A dispetto però della digeribilità dei vari riffs che compongono l’universo straziante e straziato dei 5 calabresi, la melodia, come solito, è quasi assente, benché, come si vedrà, qualche esempio per fortuna non manca. Comunque, quando si va veloci, le varie soluzioni chitarristiche ad esempio vanno da crudi assalti thrash (come in “Claustrophobic”), che talvolta sanno essere perfino grooveggianti e gracchianti, quasi come fosse una conseguenza di quintali di birra bevuti a forza (“Neutralized Existence”), ad isterici colpi di arma da fuoco che mi sanno più di death (come nella parte centrale di “From the Street”), magari disegnando, con follia omicida, ricami che utilizzano vertiginosamente sia le corde più basse che per un tempo decisamente minore quelle più alte (sentitevi a tal proposito “The Torment” e “Neutralized Existence”), oppure distruzioni di massa più dinamiche, che personalmente hanno ricordato altresì molto gli spagnoli brutallari Apocalyptic (sempre in “Neutralized Existence”). In altre occasioni invece, seppur si tratti sempre di riffs tremendamente duri, il paesaggio sonico può divenire melodico ma dai tratti amari, disperati, senza nessuna speranza (“Minds Devourers”), oppure dal sapore più epico e monumentale, dai toni quasi blackeggianti (“Extreme Violence”). Quando i tempi rallentano le chitarre si fanno a mio parere maggiormente metalcore, estrapolandone da questo una certa fiera durezza guerrafondaia che sa di militante, ma niente paura che anche in tal caso sono co-padroni della situazione anche la varietà e la fantasia. Ascoltatevi a questo proposito l’incubo brutal “grattugiato” di “Minds Devourers”, le inquietanti dissonanze death, quasi l’annuncio di una morte stridente perché apparentemente splendente è la società in cui si vive (“The Torment”), oppure le impazzite fughe sulle note più alte sempre di “Minds Devourers”, il quasi beffardo thrash di “From the Street”, od ancora lo sludge di “Claustrophobic”, dilatatissimo e persino un po’ melodico, come melodico ma non troppo è anche il doom di “Murderous State”, come invece lo è interamente quello triste e rassegnato di “In the Hands of Destruction”. Le nostre due asce hanno però aggiunto al proprio carniere pure le cosiddette sovrapposizioni di riffs, che comunque non sono poi così frequenti, ma è da notare il fatto che quando c’è la chitarra solista questa intesse ad ogni modo dei motivi piuttosto differenti da quelli della propria compagna, pur dimostrandosi decisamente semplice e senza pretese anch’essa. Curiosamente, i suoi interventi sono ogni volta rintracciabili durante i tempi medio-lenti dal riffing abbastanza melodico, come per sopperire alla mancanza data dalla furia disperata e forse un po’ cinica della voce, magari esprimendosi attraverso arpeggi pieni di desolazione e morte (“The Torment”). Eppure qui a mio parere i nostri hanno in un certo senso “toppato”, dato che nella stessa “The Torment” ed in “In the Hands of Destruction” c’è una soluzione solista che se non sbaglio è praticamente identica, minimalista ed acuta, sì efficace ma in fin dei conti già sentita. Gli arrangiamenti di questo tipo, come osservato in precedenza, sono pochissimi (ce n’è qualcheduno pure in “From the Street”) e brevissimi, preferendo quindi un impatto collettivo, come a voler rappresentare idealmente l’importanza dell’unità che fa la forza. Nonostante tale ultima considerazione, neanche gli assoli non mancano, ed anche in questa sede c’è qualcosa di cambiato, ma stavolta non nella quantità maggiore di solismi rispetto a “Gener(H)ate” che più o meno è la stessa. Sto parlando infatti delle diverse melodie usate, in quanto prima le chitarre da questo punto di vista erano molto più cattive ed isteriche e di marca thrasheggiante, seppur qualcosa di simile ci sia benché in maniera abbastanza diversa (“In the Hands of Destruction”). In quest’album, gli assoli sono melodici, dinamici (e qua i Land of Hate non si sono spostati di una virgola da quello che in passato hanno offerto), soffrono ma non lo fanno pesare, e talvolta sono come ammantati di una fragile speranza, “fragile” anche perché, come in “Minds Devourers”, essa va in contrasto con le danze asfissianti e lentissime, guidate maggiormente dalla batteria. Un altro aspetto interessante è che gli assoli stavolta non sono da considerare poi così brevi, almeno solitamente, passando così dalle 2 battute di quello di “Minds Devourers”, alle 8 di “The Torment”, ergo si può dire che abbiano acquisito un’importanza maggiore (quello ancora non citato è presente in “Claustrophobic”). Da segnalare inoltre che curiosamente i solismi si presentano quasi sempre nei momenti finali di un pezzo, tranne però in “The Torment” dove si fa vivo più o meno nella parte centrale, e forse proprio perché rappresentano il massimo momento di sofferenza (o di azione come secondo me può esserlo quello di “In the Hands of Destruction”, gestito tra l’altro a mio avviso benissimo dato che si presenta subito durante una brusca e pesantissima accelerazione così da colpire con brutalità pazzesca l’ascoltatore), cosa che aumenta ulteriormente se si pensa che solitamente essi ci sono nei tempi medi, come frammenti vivi di un’umanità stanca.
Considero splendido pure il lavoro del basso, che riesce meravigliosamente ad indurire tutto l’insieme anche grazie a delle linee che aggiungono qualcosa in più alla musica, un qualcosa di terrificante ma terribilmente semplice, un po’ come è la violenza, quindi non aspettatevi dei ricami virtuosi. Ascoltatevi in tal senso “Claustrophobic”, “The Torment” e “Minds Devourers”. Ho una particolare predilezione specialmente per la seconda, dove il basso, nonostante tutto, in certi punti, attraverso il suo incedere terremotante ma “calmo”, guida persino le chitarre, come già osservato durante l’analisi della struttura dei pezzi, dimostrando così un’importanza del basso piuttosto vitale per il prosieguo delle canzoni.
Tremendi (ovviamente in senso positivo) sono i tonfi di una batteria mai così furiosa per i Land of Hate. Infatti, Attila, pur mantenendo il suo stile tonante e quasi meccanico, e quindi paurosamente privo di qualsivoglia variazione durante i vari ritmi, si è reso a mio avviso decisamente più completo così da proporre per esempio dei devastanti blast-beats (beh, più o meno) come in “Extreme Violence”, oppure una rifinitura dei tempi veloci, sempre pesantissimi, in modo da presentarli in maniera meno meccanizzata, benché le variazioni se non sbaglio colpiscano quasi sempre il rullante (come in “Claustrophobic”). Tale piccolo cambiamento lo considero fra l’altro di un’efficacia enorme, dato che così viene trasmessa maggiormente una violenza che viene scoperta in tutta la sua vera brutalità, un tipo di violenza la quale talvolta si esprime in un certo senso in modo elegante, per esempio tramite la televisione con quella masnada di pubblicità. E’ una violenza che sa anche di caos, come ci viene sputato spesso dal traffico urbano oppure dalla vita di tutti i giorni che inghiotte molte persone in una spaventosa ansia dai ritmi vertiginosi, vita resa impossibile non poche volte. Ma paradossalmente nei tempi più lenti, i ritmi divengono più assurdi in quanto non sono affatto dinamici, nel senso che si ripetono così come sono per tutto il tempo, un po’ come a rispecchiare una vita da servi che ogni giorno è sempre la stessa, senza nessuna variazione di sorta, mentalmente uccisa anche con l’abitudine. Ed è tutto ciò che mi fa paura del lavoro di Attila, eppure i ritmi solitamente sono lineari e con una buona frequenza pure piacevolmente grooveggianti, forse per rappresentare un qualcosa di vivo e speranzoso nascosto negli anfratti più oscuri di una mente apparentemente irrecuperabile seppur bombardata continuamente e resa cieca. Per far capire ulteriormente l’importanza acquisita dalla batteria nella musica del gruppo basti pensare al numero quasi esorbitante degli stacchi ad essa attribuiti, e praticamente non ce n’è uno in soli 2 pezzi, ossia “The Torment” e “Minds Devourers” (brano introdotto da uno spezzone che presumo sia stato preso direttamente dal G8 genovese, anche perché si sente quell’ormai tristemente famoso “assassini!” urlato contro le forze di polizia che osarono caricare un gruppo di manifestanti pacifici, dopodiché l’introduzione strettamente musicale, brevissima ma violentissima, viene affidata proprio ad Attila). Devo però dire che da questo punto di vista non credo che venga presentata poi così tanta varietà di soluzioni, visto e considerato che il charleston, seppur in modo efficace ed intensissimo, è stato usato forse fin troppo, e sempre e comunque allo stesso modo (“Murderous State”, “From the Street” e “In the Hands of Destruction”). Inoltre, c’è un altro aspetto a doppio taglio di cui qui secondo me si abusa non poco, ma per ora mi limito ad una tale semplice considerazione per meglio trattarlo prossimamente.
4. NEI MEANDRI DI “NEUTRALIZED EXISTENCE”.
Adesso è il momento di parlare di un brano a mio parere decisamente inusuale per i Land of Hate, ossia curiosamente lo stesso che dà il titolo all’album. Esso dura soltanto all’incirca 2 minuti e 20 ed è l’unico episodio che si concentra maggiormente sui tempi veloci, i quali stavolta sono basati molto su un groove assassino sui cui si posano i riffs più “allegri” dell’opera, anche se penso non lo siano affatto. Infatti, penso che tale apparente allegria coincida con il titolo del brano, facendomi quindi immaginare una persona che è contenta e felice della vita bombardata che fa e dell’operato di tutti gli uomini di stato, soprattutto di quelli collusi con la mafia. Se ciò si mischia con alcuni ritmi della batteria che mi sanno tanto di speed metal, pure perché talvolta c’è quella classica doppia cassa “ad elicottero” tipica di tale genere, la frittata è bella ch’è fatta! Infatti, è come se questi momenti più fluidi e lineari volessero dire che la persona di cui sopra creda che tutto vada bene, che non ci sia nessun ostacolo alla vita sua e del proprio paese, e che i governatori che tanto rispetta fossero gli uomini più puliti del mondo. Eccola, l’esistenza neutralizzata, peccato che è tutta realtà. Ritornando agli aspetti più formali del pezzo, la sua struttura se non sbaglio è la seguente: introduzione chitarra – 1 – 2 – 1 – brevissimo stacco collettivo – 3 – pausa – 3 – stacco di batteria – 4 – 1 – 2 – 4 – 5 – chiusura di chitarra. Devo far notare che la chiusura è affidata allo stesso violentissimo riff dell’introduzione. Inoltre, mi è piaciuto molto anche il senso strategico di questa canzone, dato che in scaletta è stata messa come quinta, in grado quindi a mio avviso di dare un certo “riposo ballabile” e più digeribile all’ascoltatore, suddividendo (beh, oddio…) così l’opera.
5. L’OLOCAUSTO DI “EXTREME VIOLENCE”.
Ma il pezzo che mi ha più entusiasmato è stata una vera e propria sorpresa per me, anche perché dimostra che i Land of Hate sanno meravigliosamente differenziare ogni loro brano, senza stravolgere poi così tanto il proprio suono. Se non lo avete capito, sto prendendo di mira “Extreme Violence”, l’epitaffio dell’album, l’estasi della morte su questo mondo, la paranoia maxima ed infernale che ha sottomesso ogni coscienza, l’Apocalisse di tutto, probabilmente anche l’ira di dio sull’umanità. Perché sto dicendo tutto questo? Perché “Extreme Violence” promette letteralmente, potenziandolo mille e mille volte, nessuna pietà fin dal proprio titolo. E’ un qualcosa che ingabbia l’ascoltatore, almeno personalmente com’è ovvio, è un qualcosa che lo soffoca proponendo delle soluzioni che vengono riprese quasi continuamente ma entro brevi assalti nervosi però mai veramente veloci, come a voler rappresentare l’ira inquietante ma elegante di dio, un mare in tempesta che non si ferma praticamente mai, nessuna pausa, solo una grandiosa intensità che si conclude nell’olocausto globale del finale, rappresentato da un assolo piuttosto melodico ma terribile, e da un riff spaventosamente monumentale e da una batteria che erutta velocità sostenute ma non troppo. Ed il tutto finisce, la musica si ferma bruscamente come se dio avesse rinnegato il proprio amore per l’uomo, stufo di amare l’odio personificato. Eccovi pronta la struttura della canzone, facendo attenzione che lo stacco di batteria riprende in pratica la parte finale ritmica del 2, senza quindi fermarsi: 1 – 2 – 3 – 2 – 3 – 2 – 3 – 4 – 4 mod. – 4 – 4 mod. – 4 – 2 – stacco di batteria – 2 – 3 – 2 – 3 – 5 – stacco collettivo – 1 – 2 – 3 – 2 – 3 – assolo (4 – 4 mod. – 4). Ottimo episodio, viste le considerazioni di cui sopra, facendo così finire “Neutralized Existence” in maniera cinica ed apocalittica, diversamente da “Gener(H)ate” che nel finale mi faceva avvertire un senso di epicismo, ergo di lotta.
6. ALTRI DIFETTUCCI.
C’è però a mio parere qualcos’altro che non mi è poi così piaciuto, ed il primo aspetto da trattare riguarda il modo con cui spesso viene concluso un brano. Infatti, addirittura in “Claustrophobic”, 3° e “Minds Devourers” tutto finisce attraverso un tempo lento ripetuto ossessivamente fino a che la batteria presenti una doppia cassa la quale, seppur la considero piuttosto efficace facendomi immaginare una lenta tortura che pian piano diventa sempre più intensa e brutale, viene usata probabilmente fin troppo per concludere un episodio, anche perché una simile tecnica usata in questo modo mi pare quasi elementare, troppo semplice da seguire. Insomma, dopo gli stacci di charleston, ecco un altro pregio diventato un difetto!
Inoltre, bisogna spendere qualche parola anche riguardo la cosiddetta fuga di “From the Street”, fuga introdotta prima da una pausa e poi da qualche menta rapida sul rullante, utile secondo me a prevedere una coltellata death distruttiva e su tempi velocissimi, che dopo 4 battute dà il posto ad un metalcore un pochino particolare, soprattutto perché c’è un ritmo di batteria seghettato ma non continuo e fluido, contando in aggiunta pure un riffing quasi schizzato. Tale fuga finisce, e così si ripresenta un’altra pausa con annessi leggeri piatti, in modo da ritornare al 2, ossia uno dei temi principali del brano. Ora, sarò antico e senza senso, ma il fatto di aver proposto questa fuga tra due stacchi, tra cui l’ultimo non mi sembra poi così efficace ed intenso, credo spezzetti un po’ troppo il pezzo facendo sviluppare quindi una mini-canzone, la quale viene spezzata a mio avviso in maniera non esattamente fluida. Penso infatti che si poteva unire il 5 mod. direttamente con il 2, magari con qualcosa nel mezzo che non faccia perdere l’attenzione dell’ascoltatore, almeno personalmente certo.
7. CONCLUSIONI.
E siamo alla fine pure di questa rece. Che dire? I Land of Hate a parer mio sono cresciuti veramente in poco tempo rispetto all’opera da me continuamente presa come punto di riferimento principale, perfezionando il proprio crudo stile sonoro e tra l’altro anche con molte caratteristiche strutturali da prendere in seria considerazione, non ultima la capacità di partorire canzoni quasi senza stacchi e pause (come “The Torment” e “Minds Devourers”), così da massacrare ulteriormente i timpani dell’ascoltatore, e pure offrendole di non precisamente lineari, benché non mi pare di essere dentro territori da questo punto di vista tecnici e/o progressivi, visto per esempio l’abuso della doppia cassa per il finale dei pezzi. Ma qual è il punto di forza del gruppo in “Neutralized Existence”? La scelta mi è stata difficile dato che qui la qualità abbonda, ma alla fine penso che esso sia rappresentato da tutte quelle piccole novità e perfezionamenti che i Land of Hate hanno compiuto sul proprio suono, abili anche in grado non solo di aggiungere quel tocco di classe in più, ma capaci pure di aumentare notevolmente la dose di dolore che “Gener(H)ate” già mi trasmetteva. Qualsiasi altra parola si spreca.
Voto: 84
Claustrofobia
P.S.: faccio presente come ultima cosa che lo spezzone che funge da introduzione per “In the Hands of Destruction”, in cui si sentono fra gli altri i rumori di un marchingegno di tortura che strazia le corde vocali di un uomo all’epoca dell’Inquisizione cristiana, si può beccare addirittura nell’inizio di “The Sound of Insanity”, contenuta nel secondo demo, da me recensito nel 3° numero della rivista, degli Hieros Gamos dal titolo “The Sounds of Doom (The Ancestral Myths)”.
Scaletta:
1 – Claustrophobic/ 2 – The Torment/ 3 – Murderous State/ 4 – Minds Devourers/ 5 – Neutralized Existence/ 6 – From the Street/ 7 – In the Hands of Destruction/ 8 – Extreme Violence
MySpace:
http://www.myspace.com/landofhateband
L'intro di "In the Hands of Destruction" non lo puoi trovare da nessun'altra parte perchè è stato montato e missato personalmente da me. Saso.
ReplyDeletePorco cane! Mi sembrava invece che fosse stata proprio presa dal G8. Ma vabbè, i chiarimenti sono sempre belli utili. Per il resto t'è piaciuta la rece?
ReplyDeleteComplimetoni ancora per il disco intero comunque!
Flavio/Claustrofobia