Album autoprodotto (2011)
Formazione (2011): Olly – voce;
Piff – chitarre;
Yuri – basso;
Leo – batteria.
Provenienza: Trieste, Veneto.
Pezzo migliore del disco:
“Redemption Song”.
Punto di forza dell’opera:
l’inventiva generale.
Nota:
faccio osservare che ultimamente i posti di basso e di batteria sono stati presi rispettivamente da Matt e Cap.
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Certo che ultimamente sto facendo dei grossi passi in avanti. Infatti, quando 4 anni fa ho fondato Timpani allo Spiedo, mai avrei immaginato di dare spazio a generi e sottogeneri che esulano dall’oggetto principale della ‘zine quale è il metal estremo. Solo che, a poco a poco, mi sono arrivate richieste interessanti anche inerenti il cosiddetto dark ambient, e così ho cominciato a concedermi delle vere e proprie libertà critiche, come in quest’ultimo caso, dato che di fatto non sono stato contattato dai Left in Ruins stessi. Ma il loro talento è così indiscutibile che per me è quasi un obbligo parlare della loro seconda opera.
Stavolta parliamo di un (sotto) – genere che non è mai stato trattato da queste parti, e che fra l’altro è pure poco diffuso: il powerviolence. Il quale lo si può definire come una variazione/evoluzione, abbastanza difficile da digerire, del punk – hardcore. “Abbastanza difficile” perché è bello tecnico e tremendamente dinamico e isterico, alcune volte fino al parossismo più sfrenato.
Ed effettivamente, i Left in Ruins “sfrenati” lo sono alla grande. La prima caratteristica che infatti balza all’orecchio è la loro grande dinamicità, quindi la capacità di offrire innumerevoli cambi di tempo naturalissimi e che dicono tutto anche nell’arco di un solo ricchissimo minuto. Tale approccio ritmico, che fa uso di frequenti tempi lenti fangosissimi, influenza decisamente la stessa struttura dei pezzi, che si presentano in modo parecchio istintivo e imprevedibile.
Di conseguenza, il discorso è molto inventivo, anche dal punto di vista atmosferico. Per fare qualche esempio, ci sono svisate rock’n’roll come cupissime parti totalmente allucinate, seppur in quest’ultimo caso i deja – vù non manchino anche perché tali momenti sono spesso circoscritti, in maniera limitativa, soltanto alle introduzioni.
Ma non fa niente perché a coprire questa lacuna ci pensa il devastante lavoro delle due chitarre. E’ un lavoro molto collaborativo e profondo, con un’ascia che non poche volte riesce a dare efficacemente manforte, attraverso fulminei interventi, alla compagna. Inoltre, i nostri amano sfondare i timpani dell’ascoltatore per il tramite di feedback malsani che aggiungono più follia al tutto.
Per il resto, spaventoso il comparto vocale irto di urla torrenziali, e altrettanto spaventosa è la produzione, che presenta un bilanciamento dei suoni praticamente perfetto con tanto di basso ignorante in bella vista che fra l’altro apre il disco con fare volpino (che strani termini che uso...).
Oddio, a dir la verità, un brano non così riuscito esiste, più che altro perché abbandona le direttive caratterizzanti i Left in Ruins per un approccio più statico e di stampo crust, cioè “Superior”. E qualcuno a questo punto mi risponderebbe: “e grazie al cazzo, è una cover dei Dropdead!”. In compenso, i nostri sono riusciti a interpretare sufficientemente il brano, soprattutto nel finale, che è stato allungato rispetto all’originale.
Ma in fin dei conti ‘sti gran cazzi, e quindi supportate il gruppo o se no ‘sti brutti ceffi vi fustigheranno a base di visite non previste in casa vostra con annesso concertino spacca timpani!
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – L.I.R./ 2 – Wait in Vain/ 3 – What the Fuck (Bite Your Tongue)/ 4 – B.Z. Fuck You/ 5 – Redemption Song/ 6 – No Love/ 7 – Superior (Dropdead cover)/ 8 – Sinking Shits
Sito ufficiale:
http://leftinruins.wordpress.com/ (da cui si può scaricare l’album)
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Tuesday, July 31, 2012
Sunday, July 29, 2012
Nox Illunis - "Metempsychosis" (2012)
Album (War Productions, Giugno 2012)
Formazione (2006): Noxfero – voce, chitarra;
Tomhet – chitarra/basso;
Master – batteria.
Provenienza: Treviso/Trieste, Veneto.
Canzone migliore del disco:
per gli intarsi di chitarra solista, l’emotiva “Del Distruttore”.
Punto di forza dell’opera:
l’isterismo e la volubilità che permeano sia la musica in sé stessa che la struttura, complicata da digerire, dei vari brani.
Cazzo quanto sono cambiati i Nox Illunis! Questo non può che essere un piacere per me, anche perché loro se ne sono usciti con un disco ambizioso soddisfando fra l’altro la mia richiesta di nazionalizzare le liriche, ormai tutte più o meno in madrelingua. Ma il piacere è doppio vista la grandiosa qualità dell’opera, che fa ancor più paura se si pensa al minutaggio, a volte esorbitante, delle canzoni (infatti, si raggiungono volentieri i 9 minuti di durata!).
Più nello specifico, perché “Metempsychosis” è così diverso da “In Sideris Penumbra”? I seguenti motivi dovrebbero rispondere abbondantemente a questa domanda più che legittima:
1) le urla sofferenti di Noxfero vengono non poche volte accompagnate da cori eleganti e quasi da chiesa, i quali riescono efficacemente a drammatizzare ancor di più tutta l’atmosfera;
2) la melodia è stata ridimensionata in modo da creare una sorta di equilibrio con le parti più violente, e tale approccio permette di raggiungere con più facilità dei climax di sicura presa;
3) di conseguenza, stilisticamente i nostri sono diventati più completi. Infatti, il lavoro nel complesso è più tecnico e fantasioso tanto da infilare nel discorso, in maniera quasi isterica, passaggi death e persino di matrice speed metal… per non parlare di parti rumoriste che possono rimandare al mathcore. Inoltre (ancora?) qui e là sono presenti per la prima volta degli occasionali assoli ben riusciti, ora melodici adesso più schizofrenici;
4) sono di fondamentale importanza i momenti di natura ambientale, che trovano totalmente sfogo nella strumentale “Epilogo”. E’ comunque in questi passaggi che i nostri danno spazio non solo a una (minuscola) dose di elettronica ma anche alla propria passione per il cinema, tanto da presentare sequenza anche inaspettate come quella di “Del Risveglio dal Sogno”, che è stata presa, come dettomi da Tomhet, da "Il Posto delle Fragole", film svedese del 1957 diretto da Ingmar Bergman.
Insomma, la carne al fuoco è tanta ed è giostrata ottimamente, solo che trovo di gran lunga migliore la prima parte dell’opera fino a “Della Tentazione”. Ciò perché nella seconda i nostri si regolano offrendo qualcosa di un po’ più di convenzionale. A tal proposito, “Della Rinascita” è la canzone (esclusivamente) melodica del lotto, mentre la successiva “Del Creatore” è quella che ha alcuni dei momenti più tempestosi.
Ma in fin dei conti ‘sti gran ciufoli, perché il miglioramento è notevole, le mancanze di “In Sideris Penumbra” sono state perlopiù eliminate, mentre le sue potenzialità si esprimono ora liberamente senza fare da mere comparse. In parole povere, un disco di black metal progressivo come ce ne sono pochi in terra italica!
Voto: 84
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sfera Prima. Del Risveglio dal Sogno/ 2 – Sfera Seconda. Del Distruttore/ Sfera Terza. Della Caduta/ 4 – Sfera Quarta. Della Tentazione/ 5 – Sfera Quinta. Della Rinascita/ 6 – Sfera Sesta. Del Creatore/ 7 – Sfera Settima. Epilogo
MySpace:
http://www.myspace.com/noxillunisband
Formazione (2006): Noxfero – voce, chitarra;
Tomhet – chitarra/basso;
Master – batteria.
Provenienza: Treviso/Trieste, Veneto.
Canzone migliore del disco:
per gli intarsi di chitarra solista, l’emotiva “Del Distruttore”.
Punto di forza dell’opera:
l’isterismo e la volubilità che permeano sia la musica in sé stessa che la struttura, complicata da digerire, dei vari brani.
Cazzo quanto sono cambiati i Nox Illunis! Questo non può che essere un piacere per me, anche perché loro se ne sono usciti con un disco ambizioso soddisfando fra l’altro la mia richiesta di nazionalizzare le liriche, ormai tutte più o meno in madrelingua. Ma il piacere è doppio vista la grandiosa qualità dell’opera, che fa ancor più paura se si pensa al minutaggio, a volte esorbitante, delle canzoni (infatti, si raggiungono volentieri i 9 minuti di durata!).
Più nello specifico, perché “Metempsychosis” è così diverso da “In Sideris Penumbra”? I seguenti motivi dovrebbero rispondere abbondantemente a questa domanda più che legittima:
1) le urla sofferenti di Noxfero vengono non poche volte accompagnate da cori eleganti e quasi da chiesa, i quali riescono efficacemente a drammatizzare ancor di più tutta l’atmosfera;
2) la melodia è stata ridimensionata in modo da creare una sorta di equilibrio con le parti più violente, e tale approccio permette di raggiungere con più facilità dei climax di sicura presa;
3) di conseguenza, stilisticamente i nostri sono diventati più completi. Infatti, il lavoro nel complesso è più tecnico e fantasioso tanto da infilare nel discorso, in maniera quasi isterica, passaggi death e persino di matrice speed metal… per non parlare di parti rumoriste che possono rimandare al mathcore. Inoltre (ancora?) qui e là sono presenti per la prima volta degli occasionali assoli ben riusciti, ora melodici adesso più schizofrenici;
4) sono di fondamentale importanza i momenti di natura ambientale, che trovano totalmente sfogo nella strumentale “Epilogo”. E’ comunque in questi passaggi che i nostri danno spazio non solo a una (minuscola) dose di elettronica ma anche alla propria passione per il cinema, tanto da presentare sequenza anche inaspettate come quella di “Del Risveglio dal Sogno”, che è stata presa, come dettomi da Tomhet, da "Il Posto delle Fragole", film svedese del 1957 diretto da Ingmar Bergman.
Insomma, la carne al fuoco è tanta ed è giostrata ottimamente, solo che trovo di gran lunga migliore la prima parte dell’opera fino a “Della Tentazione”. Ciò perché nella seconda i nostri si regolano offrendo qualcosa di un po’ più di convenzionale. A tal proposito, “Della Rinascita” è la canzone (esclusivamente) melodica del lotto, mentre la successiva “Del Creatore” è quella che ha alcuni dei momenti più tempestosi.
Ma in fin dei conti ‘sti gran ciufoli, perché il miglioramento è notevole, le mancanze di “In Sideris Penumbra” sono state perlopiù eliminate, mentre le sue potenzialità si esprimono ora liberamente senza fare da mere comparse. In parole povere, un disco di black metal progressivo come ce ne sono pochi in terra italica!
Voto: 84
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sfera Prima. Del Risveglio dal Sogno/ 2 – Sfera Seconda. Del Distruttore/ Sfera Terza. Della Caduta/ 4 – Sfera Quarta. Della Tentazione/ 5 – Sfera Quinta. Della Rinascita/ 6 – Sfera Sesta. Del Creatore/ 7 – Sfera Settima. Epilogo
MySpace:
http://www.myspace.com/noxillunisband
Tuesday, July 24, 2012
Maelstrom - "The Passage" (2012)
Ep autoprodotto (2012)
Formazione (2011): Ferdinando Valsecchi – voce/chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Firenze, Toscana.
Canzone migliore del disco:
“…untile the Rest of My Life”.
Punto di forza dell’opera:
la sua delicatezza.
Qual è il senso della vita? Perché è bello vivere (e brutto il semplice esistere)? Vorreste essere sempre giovani e forti, distruggendo così “la volontà del tempo”? Cos’è l’Arte? Queste e altre domande vengono poste in questo disco coraggioso sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, anche perché, rispetto a tutti i gruppi ospitati su Timpani allo Spiedo (e non solo) qui si celebra (finalmente) la Vita, dopo gente ossessionata dalla morte, dalla politica, e robe affini. Però, è anche vero che tale opera non è che abbia tanto a che fare con il metal propriamente detto, men che meno con quello estremo, seppur ci possa essere qualche paradossale parentela con il black depressivo.
Ma allora perché non è metal “propriamente detto”? Prima di tutto, bisogna parlare della voce. La quale parla, esprime pensieri, più che cantare veramente, solo che, espressiva e supportata da un delicato effetto d’eco, è sì importante ma interviene comunque poco, quel tanto che basta per far pensare l’ascoltatore.
Le chitarre sono spesso pulite ma ciò non impedisce loro di partorire talvolta passaggi rumoristi. Però, le melodie hanno il sopravvento, ma sono melodie dolci, fragili, crepuscolari che comunque esplodono puntualmente in assoli movimentati e belli frequenti. Effettivamente, il lavoro delle due chitarre è sopraffino e avvolgente, quindi molto collaborativo, e avviene un po’ la stessa cosa per il basso, pur partecipando di meno nella costruzione delle varie linee melodiche.
La batteria elettronica ha un incedere rigorosamente medio – lento, e spesso il suo approccio è molto crerativo e da punk sperimentale (altrimenti detto post – punk) anche se, a differenza di gruppi come i Gang of Four, essa (oltre a non avere neanche per sogno derivazioni funk) sa essere, durante lo sviluppo di una stessa canzone, sia dinamica, così da enfatizzare attraverso delle brevi variazioni il lavoro degli altri strumenti, sia ossessiva a forza di ripetere, pur in modo irregolare, uno stesso ritmo.
La cosa più interessante del progetto proviene dalla curiosa struttura dei pezzi, che ha lati sia positivi sia, purtroppo, negativi. Infatti, la metodologia strutturale consiste:
1) spesso e volentieri, in un saliscendi composto da pause e “rumore”, in una maniera poi non così dissimile dai Rotorvator (che, per inciso, qualche mese fa hanno pubblicato l’ep “Heaven”);
2) di conseguenza, lo sviluppo procede sempre in modo lento e ponderato tanto che solitamente non vi è un vero e proprio climax che faccia saltare i timpani dall’esaltazione (quest’osservazione non è da ritenersi necessariamente un difetto, beninteso). Ciò viene amplificato dal fatto che pezzi come "In a Painted Black World" e "...and I Wanted to Live" “finiscano” praticamente all’improvviso ma in compenso "...until the Rest of My Life" abbandona tale tendenza grazie a un gran finale ben giostrato;
3) ogni brano si “conclude” puntualmente (aaah, ecco perché prima hai usato questa parola!) in un assolo. Solo che tale procedimento, dopo un po’, diventa prevedibile nonché limitativo, e fra l’altro a volte ci si affoga nell’auto - compiacenza a causa di troppi soli che si rivelano ripetitivi in rapporto al loro numero.
In conclusione, “The Passage” (ah, dimenticavo: le liriche – scritte interamente da un certo M. Simonelli - sono completamente in italiano!) è un disco molto interessante, ma il nostro ha dei margini di miglioramento molto ampi, direi anche logici vista la bizzarria della proposta. La quale si può riassumere, seppur con una definizione molto di comodo, come metal intimista.
Voto: 70
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In a Painted Black World/ 2 – I Dreamt for a Brighter Sky/ 3 - ...and I Wanted to Live…/ 4 - …until the Rest of My Life
Soundcloud:
http://www.soundcloud.com/maelstrompost
Formazione (2011): Ferdinando Valsecchi – voce/chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Firenze, Toscana.
Canzone migliore del disco:
“…untile the Rest of My Life”.
Punto di forza dell’opera:
la sua delicatezza.
Qual è il senso della vita? Perché è bello vivere (e brutto il semplice esistere)? Vorreste essere sempre giovani e forti, distruggendo così “la volontà del tempo”? Cos’è l’Arte? Queste e altre domande vengono poste in questo disco coraggioso sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, anche perché, rispetto a tutti i gruppi ospitati su Timpani allo Spiedo (e non solo) qui si celebra (finalmente) la Vita, dopo gente ossessionata dalla morte, dalla politica, e robe affini. Però, è anche vero che tale opera non è che abbia tanto a che fare con il metal propriamente detto, men che meno con quello estremo, seppur ci possa essere qualche paradossale parentela con il black depressivo.
Ma allora perché non è metal “propriamente detto”? Prima di tutto, bisogna parlare della voce. La quale parla, esprime pensieri, più che cantare veramente, solo che, espressiva e supportata da un delicato effetto d’eco, è sì importante ma interviene comunque poco, quel tanto che basta per far pensare l’ascoltatore.
Le chitarre sono spesso pulite ma ciò non impedisce loro di partorire talvolta passaggi rumoristi. Però, le melodie hanno il sopravvento, ma sono melodie dolci, fragili, crepuscolari che comunque esplodono puntualmente in assoli movimentati e belli frequenti. Effettivamente, il lavoro delle due chitarre è sopraffino e avvolgente, quindi molto collaborativo, e avviene un po’ la stessa cosa per il basso, pur partecipando di meno nella costruzione delle varie linee melodiche.
La batteria elettronica ha un incedere rigorosamente medio – lento, e spesso il suo approccio è molto crerativo e da punk sperimentale (altrimenti detto post – punk) anche se, a differenza di gruppi come i Gang of Four, essa (oltre a non avere neanche per sogno derivazioni funk) sa essere, durante lo sviluppo di una stessa canzone, sia dinamica, così da enfatizzare attraverso delle brevi variazioni il lavoro degli altri strumenti, sia ossessiva a forza di ripetere, pur in modo irregolare, uno stesso ritmo.
La cosa più interessante del progetto proviene dalla curiosa struttura dei pezzi, che ha lati sia positivi sia, purtroppo, negativi. Infatti, la metodologia strutturale consiste:
1) spesso e volentieri, in un saliscendi composto da pause e “rumore”, in una maniera poi non così dissimile dai Rotorvator (che, per inciso, qualche mese fa hanno pubblicato l’ep “Heaven”);
2) di conseguenza, lo sviluppo procede sempre in modo lento e ponderato tanto che solitamente non vi è un vero e proprio climax che faccia saltare i timpani dall’esaltazione (quest’osservazione non è da ritenersi necessariamente un difetto, beninteso). Ciò viene amplificato dal fatto che pezzi come "In a Painted Black World" e "...and I Wanted to Live" “finiscano” praticamente all’improvviso ma in compenso "...until the Rest of My Life" abbandona tale tendenza grazie a un gran finale ben giostrato;
3) ogni brano si “conclude” puntualmente (aaah, ecco perché prima hai usato questa parola!) in un assolo. Solo che tale procedimento, dopo un po’, diventa prevedibile nonché limitativo, e fra l’altro a volte ci si affoga nell’auto - compiacenza a causa di troppi soli che si rivelano ripetitivi in rapporto al loro numero.
In conclusione, “The Passage” (ah, dimenticavo: le liriche – scritte interamente da un certo M. Simonelli - sono completamente in italiano!) è un disco molto interessante, ma il nostro ha dei margini di miglioramento molto ampi, direi anche logici vista la bizzarria della proposta. La quale si può riassumere, seppur con una definizione molto di comodo, come metal intimista.
Voto: 70
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In a Painted Black World/ 2 – I Dreamt for a Brighter Sky/ 3 - ...and I Wanted to Live…/ 4 - …until the Rest of My Life
Soundcloud:
http://www.soundcloud.com/maelstrompost
Monday, July 23, 2012
Sepulcral - "Antropophagy of Doom" (2012)
Album (Razorback Records, Aprile 2012)
Formazione (2009): E – voce/basso;
L – chitarre;
T – batteria.
Provenienza: Milano, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Nightmares Mirror".
Punto di forza dell’opera:
la batteria.
Certo che talvolta si fanno strani incontri durante le vacanze: l’anno scorso mi sono infatti imbattuto, in un albergo di Marina di Pietrasanta (la stessa località in cui ho comprato il già recensito “Vision Distortion Perversion” degli Undertakers, vi ricordate?) nientepopodimeno che in L, ovviamente con mia somma sorpresa.
E quindi eccoci parlare di uno dei dischi italiani usciti finora che tengono alta la bandiera del vecchio ma sempre fresco death metal, che ultimamente sta vivendo una vera e propria seconda giovinezza, ormai non più identificabile come un revival ma più che altro come un’incredibile evoluzione del genere da parte di brutti ceffi con tutta una diversa sensibilità artistica rispetto a quella dei cosiddetti padri. Ma è anche vero che i Sepulcral non suonano esattamente un death metal purissimo, come si vedrà. Inoltre, adottano soluzioni un po’ coraggiose, che rendono stranamente difficoltoso l’ascolto e la metabolizzazione dell’opera.
“Stranamente" perché i nostri seguono un approccio musicale in sé abbastanza semplice, bello grezzo e per di più praticamente catacombale visto che stiamo parlando di un gruppo innamorato del death/doom metal, seppur con qualche puntatina nel thrash più bastardo e grooveggiante. Ma il controsenso proviene prima di tutto dalla struttura stessa dei pezzi, e di conseguenza dal loro minutaggio. Infatti:
1) gli episodi sono belli lunghi, e si esprimono sempre in un arco che va dai 4 ai 6 minuti abbondanti;
2) si segue uno schema che ha, ancora una volta, del paradossale, nel senso che gli elementari botta e risposta 1 – 2 hanno la meglio, ma allo stesso tempo le sequenze vengono talvolta così rigorosamente rispettate che i pezzi rischiano di essere inutilmente prolissi, e quindi di essere inconcludenti, come “Drastic Visions”.
Il secondo controsenso deriva dalla buona fantasia in fase compositiva, vuoi perché i pezzi lenti vengono alternati con quelli più veloci (con annessi blast – beats); vuoi perché la batteria (supportata da un riffing alle volte allucinato e che in “Night of Doom” sconfina addirittura nei Beherit, ergo nel black metal) rappresenta il vero motore del gruppo grazie alle sue continue variazioni e invenzioni; e infine vuoi perché ‘sti milanesi, nonostante una metodologia strutturale difficile da gestire, sanno spesso come far esplodere i pezzi, sparando pure degli ottimi e frenetici assoli. Oddio, in quest’ultimo caso un po’ di rammarico c’è, dato che i soli non trovano posto assolutamente nei brani lenti. Ciò è un po’ limitativo benché siano proprio questi ultimi a funzionare meglio avendo contraddittoriamente (ancora?) una struttura generalmente più agile (ma anche perché sono più caratterizzanti, dai!).
Un altro aspetto che rende relativamente complicato l’ascolto di “Antropophagy of Doom” è il comparto vocale. Infatti, la voce principale è un grugnito ultra – basso che in una canzone come “Sepulcral” riesce a essere dannatamente spaventosa a causa di simil – sussurrii. Ma il tutto viene occasionalmente accompagnato da una sorta di urlo molto autopsiano, atto a vivacizzare ulteriormente il discorso.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Nightmares Mirror/ 2 – My Revenge/ 3 – Drastic Visions/ 4 – Slaughter for a Requiem/ 5 – Nuclear Birth/ 6 – Cemeteries Reaper/ 7 – Sepulcral/ 8 – Infanticide/ 9 – Night of Doom
MySpace:
http://www.myspace.com/sepulcral666
Formazione (2009): E – voce/basso;
L – chitarre;
T – batteria.
Provenienza: Milano, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Nightmares Mirror".
Punto di forza dell’opera:
la batteria.
Certo che talvolta si fanno strani incontri durante le vacanze: l’anno scorso mi sono infatti imbattuto, in un albergo di Marina di Pietrasanta (la stessa località in cui ho comprato il già recensito “Vision Distortion Perversion” degli Undertakers, vi ricordate?) nientepopodimeno che in L, ovviamente con mia somma sorpresa.
E quindi eccoci parlare di uno dei dischi italiani usciti finora che tengono alta la bandiera del vecchio ma sempre fresco death metal, che ultimamente sta vivendo una vera e propria seconda giovinezza, ormai non più identificabile come un revival ma più che altro come un’incredibile evoluzione del genere da parte di brutti ceffi con tutta una diversa sensibilità artistica rispetto a quella dei cosiddetti padri. Ma è anche vero che i Sepulcral non suonano esattamente un death metal purissimo, come si vedrà. Inoltre, adottano soluzioni un po’ coraggiose, che rendono stranamente difficoltoso l’ascolto e la metabolizzazione dell’opera.
“Stranamente" perché i nostri seguono un approccio musicale in sé abbastanza semplice, bello grezzo e per di più praticamente catacombale visto che stiamo parlando di un gruppo innamorato del death/doom metal, seppur con qualche puntatina nel thrash più bastardo e grooveggiante. Ma il controsenso proviene prima di tutto dalla struttura stessa dei pezzi, e di conseguenza dal loro minutaggio. Infatti:
1) gli episodi sono belli lunghi, e si esprimono sempre in un arco che va dai 4 ai 6 minuti abbondanti;
2) si segue uno schema che ha, ancora una volta, del paradossale, nel senso che gli elementari botta e risposta 1 – 2 hanno la meglio, ma allo stesso tempo le sequenze vengono talvolta così rigorosamente rispettate che i pezzi rischiano di essere inutilmente prolissi, e quindi di essere inconcludenti, come “Drastic Visions”.
Il secondo controsenso deriva dalla buona fantasia in fase compositiva, vuoi perché i pezzi lenti vengono alternati con quelli più veloci (con annessi blast – beats); vuoi perché la batteria (supportata da un riffing alle volte allucinato e che in “Night of Doom” sconfina addirittura nei Beherit, ergo nel black metal) rappresenta il vero motore del gruppo grazie alle sue continue variazioni e invenzioni; e infine vuoi perché ‘sti milanesi, nonostante una metodologia strutturale difficile da gestire, sanno spesso come far esplodere i pezzi, sparando pure degli ottimi e frenetici assoli. Oddio, in quest’ultimo caso un po’ di rammarico c’è, dato che i soli non trovano posto assolutamente nei brani lenti. Ciò è un po’ limitativo benché siano proprio questi ultimi a funzionare meglio avendo contraddittoriamente (ancora?) una struttura generalmente più agile (ma anche perché sono più caratterizzanti, dai!).
Un altro aspetto che rende relativamente complicato l’ascolto di “Antropophagy of Doom” è il comparto vocale. Infatti, la voce principale è un grugnito ultra – basso che in una canzone come “Sepulcral” riesce a essere dannatamente spaventosa a causa di simil – sussurrii. Ma il tutto viene occasionalmente accompagnato da una sorta di urlo molto autopsiano, atto a vivacizzare ulteriormente il discorso.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Nightmares Mirror/ 2 – My Revenge/ 3 – Drastic Visions/ 4 – Slaughter for a Requiem/ 5 – Nuclear Birth/ 6 – Cemeteries Reaper/ 7 – Sepulcral/ 8 – Infanticide/ 9 – Night of Doom
MySpace:
http://www.myspace.com/sepulcral666
Saturday, July 21, 2012
Bestial Warlust - "Vengeance War 'Till Death" (1994)
Seconda recensione per Empire of Death. Eccovi il link:
http://www.empireofdeath.com/public/template4/dettaglio_recensione.asp
http://www.empireofdeath.com/public/template4/dettaglio_recensione.asp
A Total Wall - "Incide" (2011)
EP autoprodotto (2011)
Formazione (2009): Davide Bertolini – voce/batteria;
Umberto Chiroli – chitarre.
Provenienza: Milano/Varese, Lombardia.
Canzone migliore del disco:“Unexpected”.
Punto di forza dell’opera:
la bizzarra struttura dei pezzi, comunque da affinare meglio.
Nota 1:
il gruppo ha pubblicato da poco il singolo “Sentence”, liberamente scaricabile dal sito di questi pazzi, che nel frattempo hanno trovato un nuovo cantante nella persona di Daniele Belotti. Alla fine credo che recensirò pure ‘sto disco…
Nota 2:
i nostri sono alla ricerca di un bassista con i controcazzi, quindi chi è interessato li contatti immediatamente. E' UN ORDINE!
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Di cose strane ne sono sempre passate da queste parti, ma di certo un gruppo che sembra letteralmente innamorato dei Meshuggah mancava. Però attenzione, “innamorati” sì ma con un po’ di caratteristiche atte a personalizzare una proposta difficilissima da digerire, anche perché, a mano a mano, i pezzi tendono ad allungarsi sempre di più fino a superare di circa 20 secondi i 7 minuti nella finale “To do”.
Prima di tutto, bisogna parlare del comparto vocale, il quale mette subito in chiaro le cose torturando l’ascoltatore con un grugnito a dir poco oppressivo e monotono che però si dimostra sufficientemente (e incredibilmente) dinamico visto che, per esempio, ora è più energico, adesso è addirittura più cupo. Occasionalmente si fa vivo fra l’altro una specie di urlo che vivacizza ulteriormente il discorso. Ho scritto “ulteriormente” perché in tutti i brani (eccetto curiosamente in “Resuscitator”, la più “semplice” di tutti) irrompe nientepopodimeno che una voce pulita parecchio melodica i cui interventi non sono neanche così brevi come forse si potrebbe immaginare.
Il comparto ritmico non è da meno in quanto a soluzioni coraggiose. Infatti, le influenze jazz sono costantemente presenti, ma non si pensi che, come in molti di questi casi, la batteria sia in ogni caso un orologio sempre concentrato a suonare in maniera precisa le varie partiture perché qui il lavoro risulta essere un po’ più dinamico del solito, e quindi sicuramente più umano e impreziosito da variazioni puntuali. Però, i tempi medi predominano su tutto, tanto che quelli veloci sono completamente assenti se non in “Resuscitator”, dove fanno una comparsata (per inciso, poco cervellotica). E questo è un peccato, perché li si poteva sfruttare per rendere il discorso ancor più pesante viste anche le grandiosi doti tecniche dei nostri.
Altro aspetto importante della musicalità degli A Total Wall è l’utilizzo, comunque misurato, di rumori minimalisti in sottofondo, che riescono a trasmettere un po’ più di inquietudine all’ascoltatore.
Per il resto, le chitarre sono (quasi) sempre fortemente melodiche come macigni imponenti, anche se qualche volta entra nel discorso l’acustica, capace di amalgamarsi molto bene con la parte metal, come in “Unexpected”. Ma il pezzo forte proviene più che altro dalla solista, che costruisce trame folli e alienanti, seppur tale tendenza non le impedisca assolutamente di cimentarsi in partiture stranamente rockeggianti (“No Error”).
La struttura dei pezzi è invece la caratteristica più interessante del duo, se non fosse per qualche passo falso presente qui e là. Infatti, i nostri preferiscono un approccio soffocante e praticamente anti – climax, dato che spesso, invece di esplodere, i brani si rinchiudono in una sorta di doom asfissiante (“Resuscitator”), oppure, in modo un pochino più ragionato, si modifica la parte ritmica di un certo passaggio (“To do”). Si ha comunque sempre più o meno uno sviluppo, anche se una canzone come “No Error” (il cui finale è collegato con il successivo episodio) poteva uscire meglio visto che a tratti sembra troppo strutturalmente rigida nonché fissata a sparare quei soli rock che non arrivano poi così lontano. E qui bisogna far osservare che i differenti brani seguono effettivamente, almeno per un po’, uno schema di tipo sequenziale ma è anche vero che in “Unexpected” finalmente ci si scatena in maniera più imprevedibile, pur non dimenticando quell’ossessività che indurisce talvolta tutto l’insieme.
Voto: 75
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Resuscitator/ 2 – Incide/ 3 – Unexpected/ 4 – No Error/ 5 – To do
Sito ufficiale:
http://www.atotalwall.com/
FaceBook:
http://www.facebook.com/atotalwall
Formazione (2009): Davide Bertolini – voce/batteria;
Umberto Chiroli – chitarre.
Provenienza: Milano/Varese, Lombardia.
Canzone migliore del disco:“Unexpected”.
Punto di forza dell’opera:
la bizzarra struttura dei pezzi, comunque da affinare meglio.
Nota 1:
il gruppo ha pubblicato da poco il singolo “Sentence”, liberamente scaricabile dal sito di questi pazzi, che nel frattempo hanno trovato un nuovo cantante nella persona di Daniele Belotti. Alla fine credo che recensirò pure ‘sto disco…
Nota 2:
i nostri sono alla ricerca di un bassista con i controcazzi, quindi chi è interessato li contatti immediatamente. E' UN ORDINE!
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Di cose strane ne sono sempre passate da queste parti, ma di certo un gruppo che sembra letteralmente innamorato dei Meshuggah mancava. Però attenzione, “innamorati” sì ma con un po’ di caratteristiche atte a personalizzare una proposta difficilissima da digerire, anche perché, a mano a mano, i pezzi tendono ad allungarsi sempre di più fino a superare di circa 20 secondi i 7 minuti nella finale “To do”.
Prima di tutto, bisogna parlare del comparto vocale, il quale mette subito in chiaro le cose torturando l’ascoltatore con un grugnito a dir poco oppressivo e monotono che però si dimostra sufficientemente (e incredibilmente) dinamico visto che, per esempio, ora è più energico, adesso è addirittura più cupo. Occasionalmente si fa vivo fra l’altro una specie di urlo che vivacizza ulteriormente il discorso. Ho scritto “ulteriormente” perché in tutti i brani (eccetto curiosamente in “Resuscitator”, la più “semplice” di tutti) irrompe nientepopodimeno che una voce pulita parecchio melodica i cui interventi non sono neanche così brevi come forse si potrebbe immaginare.
Il comparto ritmico non è da meno in quanto a soluzioni coraggiose. Infatti, le influenze jazz sono costantemente presenti, ma non si pensi che, come in molti di questi casi, la batteria sia in ogni caso un orologio sempre concentrato a suonare in maniera precisa le varie partiture perché qui il lavoro risulta essere un po’ più dinamico del solito, e quindi sicuramente più umano e impreziosito da variazioni puntuali. Però, i tempi medi predominano su tutto, tanto che quelli veloci sono completamente assenti se non in “Resuscitator”, dove fanno una comparsata (per inciso, poco cervellotica). E questo è un peccato, perché li si poteva sfruttare per rendere il discorso ancor più pesante viste anche le grandiosi doti tecniche dei nostri.
Altro aspetto importante della musicalità degli A Total Wall è l’utilizzo, comunque misurato, di rumori minimalisti in sottofondo, che riescono a trasmettere un po’ più di inquietudine all’ascoltatore.
Per il resto, le chitarre sono (quasi) sempre fortemente melodiche come macigni imponenti, anche se qualche volta entra nel discorso l’acustica, capace di amalgamarsi molto bene con la parte metal, come in “Unexpected”. Ma il pezzo forte proviene più che altro dalla solista, che costruisce trame folli e alienanti, seppur tale tendenza non le impedisca assolutamente di cimentarsi in partiture stranamente rockeggianti (“No Error”).
La struttura dei pezzi è invece la caratteristica più interessante del duo, se non fosse per qualche passo falso presente qui e là. Infatti, i nostri preferiscono un approccio soffocante e praticamente anti – climax, dato che spesso, invece di esplodere, i brani si rinchiudono in una sorta di doom asfissiante (“Resuscitator”), oppure, in modo un pochino più ragionato, si modifica la parte ritmica di un certo passaggio (“To do”). Si ha comunque sempre più o meno uno sviluppo, anche se una canzone come “No Error” (il cui finale è collegato con il successivo episodio) poteva uscire meglio visto che a tratti sembra troppo strutturalmente rigida nonché fissata a sparare quei soli rock che non arrivano poi così lontano. E qui bisogna far osservare che i differenti brani seguono effettivamente, almeno per un po’, uno schema di tipo sequenziale ma è anche vero che in “Unexpected” finalmente ci si scatena in maniera più imprevedibile, pur non dimenticando quell’ossessività che indurisce talvolta tutto l’insieme.
Voto: 75
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Resuscitator/ 2 – Incide/ 3 – Unexpected/ 4 – No Error/ 5 – To do
Sito ufficiale:
http://www.atotalwall.com/
FaceBook:
http://www.facebook.com/atotalwall
Saturday, July 14, 2012
Trodden Shame - "Chaos Let Be My World" (2011)
Album autoprodotto (2011)
Formazione (2009): Vito “Vicus” Maiorano, voce;
Davide “Doom” Carano, chitarra;
Andrea “Cyma” Cima, chitarra;
Mario “Trodden” De Socio, basso;
Pasquale “El Negro” Damiano, batteria.
Provenienza: Campobasso/Roma/Bari, Molise/Lazio/Puglia.
Canzone migliore del disco:
“Chaos Let Be My World”.
Punto di forza dell’opera:
Il comparto vocale.
Nota:
il lavoro lo si può scaricare gratuitamente (e legalmente, visto che l'ha messo disponibile in Rete il gruppo stesso) attraverso il seguente link:
http://www.mediafire.com/?rvey6qg1zc8ady7
------------------------------------------
Forse con questa mi farò un po’ di cattiva pubblicità, ma siccome l’onestà è un bene prezioso, voglio svelarvi una piccola curiosità: “Jarhead” dei Trodden Shame, è stato praticamente l’unico disco in ormai 4 anni di esistenza di Timpani allo Spiedo che mi sono dimenticato bellamente di recensire (e di ascoltare…). “Oh no, che stronzo che sei!” e io: “A cazzone pseudo – perfetto, capita qualche volta, eh cazzo!”. Quindi, mi scuso, stavolta in pubblico, con i diretti interessati, e cerco di rimediare a questo peccatuccio parlando di un album fatto fin troppo bene e che, fra l’altro, riporta su queste stesse pagine un modo di concepire il metal odiato praticamente a morte dagli amanti della vecchia scuola, frequentatori abituali di Timpani, dopo che, qualche mese addietro, i ben più grezzi Mud ci hanno deliziato con la loro potente militanza.
Infatti, signore e signori, si ha qui a che fare con un gruppo che combina il thrash metal moderno con il metalcore e con quello che io amo definire macho metal (e quindi qualche eco proveniente dai Pantera si fa prepotentemente sentire). Ma se ciò non bastasse, non manca nemmeno il trionfo epico di marca speed (in tal senso, sentitevi “Jarhead” e il suo grandioso stacco di basso, autore fra l’altro di ottime linee melodiche nella precedente “Anger”), e quindi il lavoro si presenta abbastanza ricco di influenze e intuizioni. Ma non fatevi ingannare dalla definizione di Metal – Archives, che identifica i Trodden Shame come “tecnici”, visto che l’assalto, in fin dei conti, è solitamente lineare e d’impatto, seppur qui e là ci siano soluzioni più intricate e psicotiche.
La prima cosa che però salta all’orecchio è l’importanza che rivestono i tempi medi, preponderanti e spesso massicci come pretende il macho (o più comunemente parlando groove) metal o certo metalcore. Eppure, questo non impedisce ai nostri di sfogarsi con dei tupa – tupa tipicamente thrash metal, che a volte vengono impreziositi da variazioni favolose e quasi singhiozzanti (e qui ritorna “Jarhead”).
Ma l’aspetto indubbiamente più interessante proviene dal comparto vocale, che risulta essere molto curato. Ciò perché:
1) l’intensità è quantomai palpabile, e in questo aiutano di certo le tematiche impegnate che non guastano mai;
2) le linee vocali sono spesso di un’ignoranza e di una strafottenza a dir poco magnifiche, essendo fra l’altro caratterizzate, negli episodi migliori, da un ritmo contagioso e inarrestabile;
3) l’inventiva nell’utilizzare vari tipi di voce, come grugniti o urla che farebbero invidia perfino ai gruppi di black/death bestiale come Proclamation (mah, meglio non esagerare…) e compagnia bella. In altri casi, si tentano addirittura vie più o meno melodiche, anche se sempre in maniera rozza, e parti parlate. E non si disdegnano neanche cori dagli interventi puntuali ed energici.
Il bello è che ‘sti ragazzi riescono a mantenere lo stesso tipo di energia anche quando cercano di proporre canzoni un pochino più complesse e dalla durata più sostanziosa (infatti, i vari episodi durano in media 2 – 3 minuti). E’ questo il caso di “Chaos Let Be My World”, che potrebbe essere preso come punto di riferimento per le future produzioni in quanto esso rappresenta praticamente le differenti anime della loro musicalità, ed è curioso come questo brano si poggi quasi esclusivamente sui tempi medi e che, allo stesso tempo, nel grandioso finale ultra – isterico, siano presenti per la prima e unica volta dei blast – beats fulminei.
Anche la finale “A.I.M.” sa essere sufficientemente bizzarra, specialmente perché si conclude in maniera intricatissima e soprattutto all’improvviso. Oddio, forse se si fosse meglio come ultimo pezzo uno più intenso e quadrato sarebbe stato meglio, essendo abbastanza difficile digerire consecutivamente due episodi più strutturati del solito dopo la relativa semplicità di quelli precedenti.
Altro difetto, più che altro formale, dell’opera viene dalla chitarra solista, la quale, oltre a prodigarsi in begli assoli (uno per brano), in “You Can’t See My Face” aiuta la propria compagna con un sovra- riff (o come diavolo lo si possa chiamare), dando così più profondità al tutto. Peccato però che lo faccia in una sola occasione.
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Walking on the Last Mile/ 2 – You Can’t See My Face/ 3 – Never Look Back/ 4 – iGod/ 5 – Anger/ 6 – Jarhead/ 7 – The Mad/ 8 – Chaos Let Be My World/ 9 – A.I.M.
MySpace:
http://www.myspace.com/troddenshameband
Formazione (2009): Vito “Vicus” Maiorano, voce;
Davide “Doom” Carano, chitarra;
Andrea “Cyma” Cima, chitarra;
Mario “Trodden” De Socio, basso;
Pasquale “El Negro” Damiano, batteria.
Provenienza: Campobasso/Roma/Bari, Molise/Lazio/Puglia.
Canzone migliore del disco:
“Chaos Let Be My World”.
Punto di forza dell’opera:
Il comparto vocale.
Nota:
il lavoro lo si può scaricare gratuitamente (e legalmente, visto che l'ha messo disponibile in Rete il gruppo stesso) attraverso il seguente link:
http://www.mediafire.com/?rvey6qg1zc8ady7
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Forse con questa mi farò un po’ di cattiva pubblicità, ma siccome l’onestà è un bene prezioso, voglio svelarvi una piccola curiosità: “Jarhead” dei Trodden Shame, è stato praticamente l’unico disco in ormai 4 anni di esistenza di Timpani allo Spiedo che mi sono dimenticato bellamente di recensire (e di ascoltare…). “Oh no, che stronzo che sei!” e io: “A cazzone pseudo – perfetto, capita qualche volta, eh cazzo!”. Quindi, mi scuso, stavolta in pubblico, con i diretti interessati, e cerco di rimediare a questo peccatuccio parlando di un album fatto fin troppo bene e che, fra l’altro, riporta su queste stesse pagine un modo di concepire il metal odiato praticamente a morte dagli amanti della vecchia scuola, frequentatori abituali di Timpani, dopo che, qualche mese addietro, i ben più grezzi Mud ci hanno deliziato con la loro potente militanza.
Infatti, signore e signori, si ha qui a che fare con un gruppo che combina il thrash metal moderno con il metalcore e con quello che io amo definire macho metal (e quindi qualche eco proveniente dai Pantera si fa prepotentemente sentire). Ma se ciò non bastasse, non manca nemmeno il trionfo epico di marca speed (in tal senso, sentitevi “Jarhead” e il suo grandioso stacco di basso, autore fra l’altro di ottime linee melodiche nella precedente “Anger”), e quindi il lavoro si presenta abbastanza ricco di influenze e intuizioni. Ma non fatevi ingannare dalla definizione di Metal – Archives, che identifica i Trodden Shame come “tecnici”, visto che l’assalto, in fin dei conti, è solitamente lineare e d’impatto, seppur qui e là ci siano soluzioni più intricate e psicotiche.
La prima cosa che però salta all’orecchio è l’importanza che rivestono i tempi medi, preponderanti e spesso massicci come pretende il macho (o più comunemente parlando groove) metal o certo metalcore. Eppure, questo non impedisce ai nostri di sfogarsi con dei tupa – tupa tipicamente thrash metal, che a volte vengono impreziositi da variazioni favolose e quasi singhiozzanti (e qui ritorna “Jarhead”).
Ma l’aspetto indubbiamente più interessante proviene dal comparto vocale, che risulta essere molto curato. Ciò perché:
1) l’intensità è quantomai palpabile, e in questo aiutano di certo le tematiche impegnate che non guastano mai;
2) le linee vocali sono spesso di un’ignoranza e di una strafottenza a dir poco magnifiche, essendo fra l’altro caratterizzate, negli episodi migliori, da un ritmo contagioso e inarrestabile;
3) l’inventiva nell’utilizzare vari tipi di voce, come grugniti o urla che farebbero invidia perfino ai gruppi di black/death bestiale come Proclamation (mah, meglio non esagerare…) e compagnia bella. In altri casi, si tentano addirittura vie più o meno melodiche, anche se sempre in maniera rozza, e parti parlate. E non si disdegnano neanche cori dagli interventi puntuali ed energici.
Il bello è che ‘sti ragazzi riescono a mantenere lo stesso tipo di energia anche quando cercano di proporre canzoni un pochino più complesse e dalla durata più sostanziosa (infatti, i vari episodi durano in media 2 – 3 minuti). E’ questo il caso di “Chaos Let Be My World”, che potrebbe essere preso come punto di riferimento per le future produzioni in quanto esso rappresenta praticamente le differenti anime della loro musicalità, ed è curioso come questo brano si poggi quasi esclusivamente sui tempi medi e che, allo stesso tempo, nel grandioso finale ultra – isterico, siano presenti per la prima e unica volta dei blast – beats fulminei.
Anche la finale “A.I.M.” sa essere sufficientemente bizzarra, specialmente perché si conclude in maniera intricatissima e soprattutto all’improvviso. Oddio, forse se si fosse meglio come ultimo pezzo uno più intenso e quadrato sarebbe stato meglio, essendo abbastanza difficile digerire consecutivamente due episodi più strutturati del solito dopo la relativa semplicità di quelli precedenti.
Altro difetto, più che altro formale, dell’opera viene dalla chitarra solista, la quale, oltre a prodigarsi in begli assoli (uno per brano), in “You Can’t See My Face” aiuta la propria compagna con un sovra- riff (o come diavolo lo si possa chiamare), dando così più profondità al tutto. Peccato però che lo faccia in una sola occasione.
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Walking on the Last Mile/ 2 – You Can’t See My Face/ 3 – Never Look Back/ 4 – iGod/ 5 – Anger/ 6 – Jarhead/ 7 – The Mad/ 8 – Chaos Let Be My World/ 9 – A.I.M.
MySpace:
http://www.myspace.com/troddenshameband
Saturday, July 7, 2012
Nox Illunis - "In Sideris Penumbra" (2010)
Album (War Productions, Settembre 2010)
Formazione (2006): Noxfero, voce/chitarra;
Kaos, chitarra;
Tomhet, basso;
Master, batteria.
Provenienza: Treviso/Trieste, Veneto.
Canzone migliore dell’opera:
“Asylum of Dead Memories”.
Punto di forza del disco:
l’inventività.
Dopo un po’ di tempo, si ritorna finalmente a recensire un disco tutto italiano, e quindi si ritorna con il black metal puro, genere che fra l’altro sta tornando in voga su queste stesse pagine. Ma con i Nox Illunis non si ha soltanto un bell’album, ma anche un tipo di black metal che non va per niente per la maggiore, e questo non può che essere un pregio.
Infatti, la musica di questi veneti la si può definire come melodica/malinconica. Di conseguenza, i tempi più veloci e incazzati danno spesso spazio a partiture medio – lente, quasi rilassanti, che però non annoiano mai anche perché il lavoro di rifinitura che c’è dietro è di indubbia qualità visto che il dinamismo – fattore secondo me fondamentale per il black melodico – della batteria è sempre presente. E tale strumento è anche capace di enfatizzare tramite interventi puntuali il lavoro dei propri compagni.
A dir la verità, più o meno tutti i Nox Illunis (in latino “notte senza luna”) sono dinamici. Questo anche nel senso della metodologia strutturale adottata per i vari pezzi, i quali si muovono e si sviluppano secondo un forte andamento passionale e quindi imprevedibile che rifiuta profondamente qualunque tipo di sequenza più o meno fissa. Praticamente, solo in “Ira Sommersa” si rispetta uno schema preciso, anche se dopo, nella stessa canzone, si riprende il solito modus operandi. Ma la cosa incredibile è che questo “solito modus operandi” (che fa uso talvolta di stacchi e/o pause con annesse potenti ripartenze) funziona splendidamente, seppur sia “costretto” ad affrontare brani dalla durata enorme, dato che essi durano in media 7 – 8 minuti (il già citato “Ira Sommersa” dura invece stranamente sui poco meno di 5 minuti).
Un esempio classico (ma non troppo come spiegherò fra pochissimo) è “Asylum of Dead Memories”, che poi sarebbe il pezzo oserei dire più totalizzante e che rappresenta nel migliore dei modi la passionalità e l’istintività del gruppo. Infatti, si ha qui un perfetto equilibrio fra le parti melodiche e tristi, e quelle invece più lugubri e minacciose, cosa che invece non viene seguita negli altri episodi, se non nella seguente “The Last Rising Sun”, che però soffre curiosamente di una staticità e di una ripetitività marcate più che altro nei passaggi blasteggiati (per non parlare di un finale veramente poco efficace, anche a causa di una voce che in modo poco strategico si assenta proprio qui).
Ciò, nonostante il grande lavoro delle due chitarre, che spesso si abbandonano a veri e propri intrecci raffinati. Così facendo, l’ascoltatore viene avvolto in un vortice di melodie che però non sfociano mai negli assoli, totalmente rifiutati, concedendo comunque al basso di partecipare, occasionalmente e attivamente, nella costruzione delle linee melodiche.
In tutto questo discorso, la voce sembrerebbe l’unico punto disgiunto dal dinamismo tipico dei Nox Illunis essendo praticamente un perenne urlo, eppure, pur non facendo chissà che, risulta coerente con il tutto. Specialmente perché l’urlo assume spesso toni abbastanza sofferenti e gracchianti, però è anche vero che in “Darkness of the Soul” si fa viva una voce pulita ottimamente impostata che duetta con il cantato principale. Peccato comunque che faccia una piccola comparsata perché aggiunge quel pizzico di disperazione in più che non guasta mai. Inoltre, bisogna menzionare anche quella voce femminile narrante nel finale della strumentale “Evoking the Stars”, la quale, oltre a mettere i brividi, parla in italiano.
Giusto, l’italiano, la nostra bella lingua. Ragazzi, cominciamo a usarla per tutto un album, non soltanto per un pezzo intero (“Ira Sommersa”) o per qualche strofa (“The Last Rising Sun”)! La cosa curiosa è che hanno fatto una cosa simile anche gli spietatissimi Acheronte, recensiti qualche giorno fa. Ma sta diventando un contagio?
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Echoes in the Abyss/ 2 – Ira Sommersa/ 3 – Asylum of Dead Memories/ 4 – The Last Rising Sun/ 5 – Darkness of the Soul/ 6 – The Death – Fires Danced at Night/ 7 – Evoking the Stars
MySpace:
http://www.myspace.com/noxillunisband
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Nox-Illunis/62910252051
Formazione (2006): Noxfero, voce/chitarra;
Kaos, chitarra;
Tomhet, basso;
Master, batteria.
Provenienza: Treviso/Trieste, Veneto.
Canzone migliore dell’opera:
“Asylum of Dead Memories”.
Punto di forza del disco:
l’inventività.
Dopo un po’ di tempo, si ritorna finalmente a recensire un disco tutto italiano, e quindi si ritorna con il black metal puro, genere che fra l’altro sta tornando in voga su queste stesse pagine. Ma con i Nox Illunis non si ha soltanto un bell’album, ma anche un tipo di black metal che non va per niente per la maggiore, e questo non può che essere un pregio.
Infatti, la musica di questi veneti la si può definire come melodica/malinconica. Di conseguenza, i tempi più veloci e incazzati danno spesso spazio a partiture medio – lente, quasi rilassanti, che però non annoiano mai anche perché il lavoro di rifinitura che c’è dietro è di indubbia qualità visto che il dinamismo – fattore secondo me fondamentale per il black melodico – della batteria è sempre presente. E tale strumento è anche capace di enfatizzare tramite interventi puntuali il lavoro dei propri compagni.
A dir la verità, più o meno tutti i Nox Illunis (in latino “notte senza luna”) sono dinamici. Questo anche nel senso della metodologia strutturale adottata per i vari pezzi, i quali si muovono e si sviluppano secondo un forte andamento passionale e quindi imprevedibile che rifiuta profondamente qualunque tipo di sequenza più o meno fissa. Praticamente, solo in “Ira Sommersa” si rispetta uno schema preciso, anche se dopo, nella stessa canzone, si riprende il solito modus operandi. Ma la cosa incredibile è che questo “solito modus operandi” (che fa uso talvolta di stacchi e/o pause con annesse potenti ripartenze) funziona splendidamente, seppur sia “costretto” ad affrontare brani dalla durata enorme, dato che essi durano in media 7 – 8 minuti (il già citato “Ira Sommersa” dura invece stranamente sui poco meno di 5 minuti).
Un esempio classico (ma non troppo come spiegherò fra pochissimo) è “Asylum of Dead Memories”, che poi sarebbe il pezzo oserei dire più totalizzante e che rappresenta nel migliore dei modi la passionalità e l’istintività del gruppo. Infatti, si ha qui un perfetto equilibrio fra le parti melodiche e tristi, e quelle invece più lugubri e minacciose, cosa che invece non viene seguita negli altri episodi, se non nella seguente “The Last Rising Sun”, che però soffre curiosamente di una staticità e di una ripetitività marcate più che altro nei passaggi blasteggiati (per non parlare di un finale veramente poco efficace, anche a causa di una voce che in modo poco strategico si assenta proprio qui).
Ciò, nonostante il grande lavoro delle due chitarre, che spesso si abbandonano a veri e propri intrecci raffinati. Così facendo, l’ascoltatore viene avvolto in un vortice di melodie che però non sfociano mai negli assoli, totalmente rifiutati, concedendo comunque al basso di partecipare, occasionalmente e attivamente, nella costruzione delle linee melodiche.
In tutto questo discorso, la voce sembrerebbe l’unico punto disgiunto dal dinamismo tipico dei Nox Illunis essendo praticamente un perenne urlo, eppure, pur non facendo chissà che, risulta coerente con il tutto. Specialmente perché l’urlo assume spesso toni abbastanza sofferenti e gracchianti, però è anche vero che in “Darkness of the Soul” si fa viva una voce pulita ottimamente impostata che duetta con il cantato principale. Peccato comunque che faccia una piccola comparsata perché aggiunge quel pizzico di disperazione in più che non guasta mai. Inoltre, bisogna menzionare anche quella voce femminile narrante nel finale della strumentale “Evoking the Stars”, la quale, oltre a mettere i brividi, parla in italiano.
Giusto, l’italiano, la nostra bella lingua. Ragazzi, cominciamo a usarla per tutto un album, non soltanto per un pezzo intero (“Ira Sommersa”) o per qualche strofa (“The Last Rising Sun”)! La cosa curiosa è che hanno fatto una cosa simile anche gli spietatissimi Acheronte, recensiti qualche giorno fa. Ma sta diventando un contagio?
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Echoes in the Abyss/ 2 – Ira Sommersa/ 3 – Asylum of Dead Memories/ 4 – The Last Rising Sun/ 5 – Darkness of the Soul/ 6 – The Death – Fires Danced at Night/ 7 – Evoking the Stars
MySpace:
http://www.myspace.com/noxillunisband
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Nox-Illunis/62910252051
Wednesday, July 4, 2012
Diocletian - "Doom Cult" (2009)
Carissime e carissimi,
ecco di seguito la prima recensione scritta per Empire of Death, sito tutto dedicato al death metal e dintorni:
Doom CultDiocletian 2009 Invictus Productions
In Oceania hanno una mentalità metallica molto strana, un po’ come in Canada. Se non estremizzano al massimo la propria musica, lì non sono affatto contenti. E chissà cosa li spinge a fare queste scelte musicali. Ma preferisco evitare di fare la figura dello psicologo fallito, e fatto sta che, più precisamente in quello sputo della Nuova Zelanda, ogni uscita proveniente da quelle parti è praticamente un capolavoro, un modello per tutti gli adoratori del black/death metal più bestiale.
Ecco, “Doom Cult” dei Diocletian fa per loro/noi, visto che nell’arco di 40 minuti violentano i timpani dell’”ignaro” ascoltatore con un assalto che, nonostante tutto, è di un’inventiva pazzesca.
Lo è prima di tutto perché i differenti pezzi (tutti curiosamente collegati fra di loro in vario modo, anche attraverso passaggi ambientali) possiedono spesso una struttura imprevedibile e il più possibile libera da qualsiasi vincolo di sorta. E’ un approccio, se vogliamo, caotico e istintivo che si nutre di ripartenze intensissime anche nel loro andamento spezzettato e destinato a una sicura esplosione (“Oath to Ruin”).
Ma lo è anche per via di un massacro sì indiscriminato a base di blast – beats assatanati (per inciso, ricchi sempre di nuove trovate) che però non disdegna persino tempi doom talvolta abbastanza bizzarri e sghembi. I quali possono essere momenti belli lunghi, come nel finale paranoico di “Bullet Vomited”, canzone che fra l’altro conta dei tupa – tupa stradaioli pregni di un groove contagioso anche a causa di un riffing semplicissimo.
Guardacaso, pure le chitarre non sono da meno. E qui c’è una particolarità benvoluta, in quanto i Diocletian, rispetto a molti altri gruppi del genere, vomitano sul serio qualche riff di stampo black metal, riuscendo così a rendere più solenne e apocalittica un’atmosfera che già è terrificante di suo (“Heretics” è esemplare in tal senso). E ovviamente, non mancano, come da tradizione, dei folli assoli rumoristi, sempre puntuali nei loro interventi.
A dire il vero, neanche il comparto vocale scherza in fatto di inventiva, dato che, tra urla allucinate e grugniti bestiali, in “The Iron Fist” c’è addirittura un acuto da manicomio che poi verrà ripreso dai conterranei Heresiarch. Peccato quindi che si faccia vivo in una sola circostanza.
Praticamente, le uniche cose rivedibili di tutta l’opera sono delle vere e proprie inezie, visto che riguardano la produzione. Infatti, il riffing è a volte fin troppo seppellito, mentre il cantato è stato impostato su toni stranamente bassi, ragion per cui, per godere appieno un disco quasi inumano per freschezza e capacità di colpire, consiglio di utilizzare direttamente delle belle cuffie.
E pensare che mi devo ancora ascoltare “War of All Against All” (eh sì, i nostri amano fin troppo citare il filosofo inglese Thomas Hobbes!), secondo album del gruppo uscito l’anno dopo!
Voto : 92/100
Line up :VK: voce/chitarra/basso;
K. Stanley: voce aggiuntiva;
Atrociter: chitarra/voce;
CS: batteria.
Tracklist : 1.Doom Cult
2.The Iron Fist
3.Oath to Ruin
4.Deathstrike Overkill
5.Werewolf Directive
6.Antichrist Hammerfist
7.Bullet Vomited
8.Baphocletian
9.Heretics
Recensione di : Claustrofobia
Link: http://www.empireofdeath.com/public/template4/dettaglio_recensione.asp
ecco di seguito la prima recensione scritta per Empire of Death, sito tutto dedicato al death metal e dintorni:
Doom CultDiocletian 2009 Invictus Productions
In Oceania hanno una mentalità metallica molto strana, un po’ come in Canada. Se non estremizzano al massimo la propria musica, lì non sono affatto contenti. E chissà cosa li spinge a fare queste scelte musicali. Ma preferisco evitare di fare la figura dello psicologo fallito, e fatto sta che, più precisamente in quello sputo della Nuova Zelanda, ogni uscita proveniente da quelle parti è praticamente un capolavoro, un modello per tutti gli adoratori del black/death metal più bestiale.
Ecco, “Doom Cult” dei Diocletian fa per loro/noi, visto che nell’arco di 40 minuti violentano i timpani dell’”ignaro” ascoltatore con un assalto che, nonostante tutto, è di un’inventiva pazzesca.
Lo è prima di tutto perché i differenti pezzi (tutti curiosamente collegati fra di loro in vario modo, anche attraverso passaggi ambientali) possiedono spesso una struttura imprevedibile e il più possibile libera da qualsiasi vincolo di sorta. E’ un approccio, se vogliamo, caotico e istintivo che si nutre di ripartenze intensissime anche nel loro andamento spezzettato e destinato a una sicura esplosione (“Oath to Ruin”).
Ma lo è anche per via di un massacro sì indiscriminato a base di blast – beats assatanati (per inciso, ricchi sempre di nuove trovate) che però non disdegna persino tempi doom talvolta abbastanza bizzarri e sghembi. I quali possono essere momenti belli lunghi, come nel finale paranoico di “Bullet Vomited”, canzone che fra l’altro conta dei tupa – tupa stradaioli pregni di un groove contagioso anche a causa di un riffing semplicissimo.
Guardacaso, pure le chitarre non sono da meno. E qui c’è una particolarità benvoluta, in quanto i Diocletian, rispetto a molti altri gruppi del genere, vomitano sul serio qualche riff di stampo black metal, riuscendo così a rendere più solenne e apocalittica un’atmosfera che già è terrificante di suo (“Heretics” è esemplare in tal senso). E ovviamente, non mancano, come da tradizione, dei folli assoli rumoristi, sempre puntuali nei loro interventi.
A dire il vero, neanche il comparto vocale scherza in fatto di inventiva, dato che, tra urla allucinate e grugniti bestiali, in “The Iron Fist” c’è addirittura un acuto da manicomio che poi verrà ripreso dai conterranei Heresiarch. Peccato quindi che si faccia vivo in una sola circostanza.
Praticamente, le uniche cose rivedibili di tutta l’opera sono delle vere e proprie inezie, visto che riguardano la produzione. Infatti, il riffing è a volte fin troppo seppellito, mentre il cantato è stato impostato su toni stranamente bassi, ragion per cui, per godere appieno un disco quasi inumano per freschezza e capacità di colpire, consiglio di utilizzare direttamente delle belle cuffie.
E pensare che mi devo ancora ascoltare “War of All Against All” (eh sì, i nostri amano fin troppo citare il filosofo inglese Thomas Hobbes!), secondo album del gruppo uscito l’anno dopo!
Voto : 92/100
Line up :VK: voce/chitarra/basso;
K. Stanley: voce aggiuntiva;
Atrociter: chitarra/voce;
CS: batteria.
Tracklist : 1.Doom Cult
2.The Iron Fist
3.Oath to Ruin
4.Deathstrike Overkill
5.Werewolf Directive
6.Antichrist Hammerfist
7.Bullet Vomited
8.Baphocletian
9.Heretics
Recensione di : Claustrofobia
Link: http://www.empireofdeath.com/public/template4/dettaglio_recensione.asp