Album (Sepulchral Voice Records/Van Records, 11 Marzo 2011)
Formazione (2001): Mors Dalos Ra – voce/chitarra;
The Evil Reverend N. – chitarra;
Black Shepherd Ov Doom – basso;
Raelin Iakhu – batteria.
Formazione etnica (The Saje Ensemble): Mors Dalos Hessam O Din Ra – chitarra;
M.R. – tar, setar;
Mrs. Th. N – flauto;
Ben Ya Min Al Dee – percussioni.
Ospiti: Il coro della Chiesa di Cristo di Berlino (“Necromantique Nun”, “Visceras of the Embalmed Deceased”, “Descenting Into Kingly Tomba”);
Hanan El – Shemouthy – qanun (“Gate III”);
Robert Rabenalt – organo (da “Temple II” a “Temple IX.99”).
Provenienza: Berlino (Germania).
Canzone migliore del disco:
“Descending into the Kingly Tomba”, che, oltre a contare dei rari e devastanti tupa – tupa, possiede delle strane melodie, anche quasi tristi, e un finale ultra - doom con tanto di campane a morto azzeccatissime.
Punto di forza dell’opera:
l’atmosfera maledetta.
Curiosità:
la copertina è tratta da un dipinto dal pittore inglese John Martin chiamato "La Distruzione di Sodoma e Gomorra" del 1832. Faccio notare inoltre che a quest'artista "fu commissionata l'illustrazione del Paradiso Perduto di Milton" (Wikipedia).
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Album ambizioso come pochi, e non soltanto perché presenta ben 23 pezzi (!), ma anche e soprattutto per via di un suono pressoché unico, nonostante sia di derivazione sostanzialmente vecchia scuola, e pregno di una cattiveria paurosa. E il tutto viene suonato sfoggiando una tecnica di tutto rispetto… ma l’entusiasmo è così tanto che sto in pratica recensendo già adesso il secondo album, dopo 4 anni dal precedente, del gruppo. Quindi, non corriamo, e partiamo dal principio.
Prima di tutto, bisogna parlare della curiosa disposizione dei pezzi. Infatti, solo 9 di essi sono effettivamente metallici, mentre tutti gli altri, intitolati “Temple”, li introducono con tenebrose (e brevissime) partiture per organo. Però ci sono anche quelli chiamati “Gate”, che si fanno vivi solitamente ogni due episodi, e che costituiscono, per così dire, la parte più antica del disco. Ciò più che altro perché qui i nostri sfogano tutta la propria passione per la musica etnica sfoderando così brani spesso ipnotici, forse un po’ troppo lunghi e ripetitivi (“Gate II” e “IV”), se non addirittura bellissime improvvisazioni di Mors Dalos Ra (“Gate V”) ed M.R. con il tar (“Gate I”) - "strumento a sei corde simile al liuto" (Wikipedia). Di conseguenza, già qui si avverte l’estrema bizzarrìa dei Necros Christos.
Ma non facciate l’errore di considerare i pezzi metal scollegati da quelli etnici! A tal proposito, risulta molto utile parlare delle chitarre, che tra incubi death metal ultra – malvagi sfoderano spesso e volentieri (ce ne sono in media 2 per pezzo) degli assoli belli lunghi e incredibili sia per come si sviluppano in maniera anche imprevedbile; sia perché risentono profondamente di influenze orientali che donano al tutto un che di solenne e maledetto allo stesso tempo. Fra l’altro, ogni pezzo ha i suoi soli ben definiti, e così, tanto per fare qualche esempio, ecco quelli adesso rarefatti ora persino epici di “Visceras of the Embalmed Deceased”, oppure quelli catacombali e minacciosi di “Invoked from Carrion Slumber”, e bla bla bla.
Altro tratto caratterizzante del gruppo e che aiuta moltissimo a costruire un’atmosfera il più possibile oscura viene dalla batteria. Come prima cosa, è assolutamente da segnalare il fatto che i nostri non amano i tempi veloci, solo raramente espressi, ragion per cui i tempi sono più che altro medio – lenti se non pericolosamente (funeral) doom. Ma paradossalmente, i ritmi sono frequentemente pregni di un groove che fa ballare spudoratamente il culo, e quando lo sono dietro c’è specialmente lo zampino di partiture fondate sui tom – tom e quindi su un approccio molto tribale e ritualistico.
La voce non è per niente da meno, aiutata com’è da un po’ di riverbero che echeggia dannato nei secoli. Il comparto vocale è esclusivo appannaggio di un grugnito molto cupo che rimanda non poco ai nostrani Mefitic (il cui “Signing the Servants of God” l’ho recensito qualche mese fa), solo che, al contrario di questi, qui si è tremendamente fantasiosi nella costruzione delle linee vocali anche perché capace di enfatizzare abilmente tutto l’insieme, senza fare apparentemente nulla di che. Fra l’altro, qualche eccentricità la si evince anche negli stessi testi, visto che talvolta si canta in hindu e forse anche in egizio, cosa che fa rabbrividire ancor di più considerata l’incomprensibilità di questo tipo di versi. Inoltre, in qualche episodio sono presenti dei cori monumentali e spesso insistenti, perfettamente coerenti con l’intera musica.
Decisamente degna d’interesse anche la struttura dei vari pezzi, i quali seguono uno schema essenziale e, almeno all’inizio, classico del tipo 1 – 2 – 1 – 2, che però alla fine si rivela un po’ più complicato date alcune variazioni anche abbastanza impercettibili, rendendo così più imprevedibile il discorso.
La canzone che però esemplifica meglio di altre la musica del gruppo è sicuramente la quinta, la quale risulta suddivisa in 3 parti, chiamate rispettivamente “Doom of Kali Ma – Pyramid of Shakti Love – Flame of Master Shiva”, e guardacaso dura ben 9 minuti. Le sue caratteristiche più peculiari sono le seguenti:
1) l’immaginario esotico si sfoga qui completamente con tanto di hindu mai così presente;
2) si fanno vivi per la prima e unica volta dei blast – beats assatanati introdotti da un assolo folle;
3) la musica diventa via via sempre più soffocante e lenta;
4) il finale è da paranoia e si dissolve gradualmente.
Allo stesso tempo però, è proprio in tale episodio che si individua una mancanza, anche se alla fin della fiera è quasi secondaria: i blast – beats suddetti sono solo delle fugaci comparse, e quindi credo che la discesa inesorabile verso gli inferi, allo stato attuale delle cose, sia stata un pochino velocizzata (oddio cosa ho scritto adesso?). Ma pure la bellissima “Succumbed to Sarkum Phagum” conta al suo interno un piccolo difetto, ossia un ritmo + variazione quasi totalmente identico a uno dell’iniziale “Baal of Ekron”.
Eppure, quest’album è sempre un cazzo di capolavoro!
Voto: 94
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Temple I/ 2 – Baal of Ekron/ 3 – Temple II/ 4 – Hathor of Dendera/ 5 – Gate I/ 6 – Temple III/ 7 – Necromantique Nun/ 8 – Temple IV/9 - Invoked from Carrion Slumber/ 10 – Gate II/ 11 – Temple IX.99/ 12 – Doom of Kali Ma/Pyramid of Shakti Love/ Flame of Master Shiva/ 13 – Gate III/ 14 – Temple V/ 15 – Succumed to Sarkum Phagum/ 16 – Temple VI/ 17 – Visceras of the Embalmed Deceased/ 18 – Gate IV/ 19 – Temple VII/ 20 – The Pharaonic Dead/ 21 – Temple VIII/ 22 – Descending into the Kingly Tomba/ 23 – Gate V
Sito ufficiale:
http://www.darknessdamnationdeath.com/
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Friday, June 29, 2012
Sunday, June 24, 2012
Acheronte - "Genesis of Evil" (2012)
EP (SBRT Records, 5 Maggio 2012)
Formazione (2010): Lord Baal, voce;
Phobos, chitarra/seconda voce;
A.T. La Morte, basso;
Lars, batteria.
Provenienza: San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), Marche.
Canzone migliore del disco:
“Genesis of Evil”, che poi è anche quella più completa di tutto il lotto.
Punto di forza dell’opera:
la devastante istintività.
Ragazzi, lo dico fin da subito (come al solito…), ma fra tutti gli ultimi gruppi di black metal più o meno puro, gli Acheronte sono quelli che più mi sono piaciuti, anche perché talvolta abbracciano soluzioni provenienti da un certo sotto – genere per cui impazzisco (e che svelerò fra poco). Fra l’altro, ‘sti ascolani, rispetto a formazioni come Arcanum Inferi, Rhetra e compagnia, cantano anche in madrelingua… però peccato che lo fanno soltanto in una canzone, e quindi consiglio immediatamente di riprendere (su vasta scala) quest’esperimento e di abbandonare del tutto una lingua impersonale e fin troppo invasiva come l’inglese (insomma, sarò pure anarchico ma un po’ di orgoglio nazionale non guasta mai, e in tal senso la nostra scena HC insegna).
Passando a robe più concrete, si ha a che fare stavolta con un black metal spietatissimo e semplice che si nutre prima di tutto di un comparto vocale – bomba per come riesce a trasmettere un’intensità e una follia palpabili. E lo fa esprimendosi non soltanto con una buona inventiva nelle linee vocali, ma sciorinando anche vari tipi di cantato, passando così da un urlo gonfio d’odio (quello principale) a uno più gutturale e “schifoso” (“Extinction of Life”) per finire con dei grugniti cupissimi ed effettati (“Genesis of Evil”) – da utilizzare decisamente di più in futuro anche perchè sono l'unico contributo vocale, in tutto il disco, di Phobos -, i quali mostrano (ed ecco il sotto – genere da me tanto amato) qualche influenza derivante dal black/death più bestiale.
La quale la si sente occasionalmente in un riffing che fa molto Bestial Warlust (“Extinction of Life”), ma per il resto si tratta di black metal puro spesso quasi minimalista (specie nelle parti più lente) e che concede pochissimo alla melodia (“Sacrifice for the King of the Desert”). La semplicità però è dovuta anche a un rifiuto pressoché totale di qualsiasi tipo di intervento solista della chitarra, caratteristica questa che si sposa benissimo con una classica formazione a 4 elementi quale è quella degli Acheronte.
Ma non si pensi comunque che da queste parti si vada sempre e soltanto a blast – beats assatanati. Sì, perché il gruppo fa spesso uso, in modo molto fluido e quindi quasi senza stacchi e/o pause, di decelerazioni praticamente di tipo doom che rendono ancora più disturbante il tutto. Inoltre, durante questi momenti i nostri estremizzano quella tendenza nel ripetere ossessivamente qualche soluzione che nei passaggi più veloci è sì presente ma fino a un certo punto.
E’ un tipo di ossessività che comunque non impedisce di rendere incredibilmente varie le differenti canzoni, che così, attestandosi sempre sui 5 – 6 minuti, possiedono ognuna personalità ben definite. A tal proposito, “Extinction of Life” è gelida e apocalittica; “Sacrifice for the King of the Desert” è disperata, melodica e più dinamica; “Sepolto dai tuoi Peccati” è paranoica, senza un vero e proprio climax e concentrata esclusivamente sui tempi medi; e “Genesis of Evil” rappresenta il pezzo più distruttivo, strutturalmente più complicato, pieno di piatti stoppati e pregno anche di soluzioni spaventosamente ipnotiche.
Certo, non è oro (nero) tutto quel che (non) luccica. In tal senso, gli Acheronte hanno qualche problema nel risolvere in maniera efficace i tempi medio – lenti, e questo perché loro, come già scritto, amano renderli eccessivamente ossessivi. E così il doom di “Extinction of Life” (che nell’introduzione presenta fra l’altro una buona comparsata nei territori di un thrash metal non veloce che dopo poteva essere benissimo ripreso) non riesce a decollare, ma in compenso “Sepolto dai tuoi Peccati” riesce a farlo grazie più che altro all’apporto del sempre imbestialito Lord Baal. Inoltre, “Genesis of Evil” ha un riff quasi identico a quello principale del pezzo più melodico del lotto.
Ma nonostante tutti questi difetti, il disco si regge splendidamente (anche perché i pregi, come si è visto, non sono per niente pochi), e soprattutto è sì furioso e istintivo ma con cognizione di causa. E poi, per essere un’opera (la seconda degli Acheronte e diciassettesima uscita dell’italianissima e anti – nazista e totalmente folle SBRT Records) di tal genere , è fatta fin troppo bene, a partire dalla bellissima copertina di tal Igino “Worst” Di Ludovico.
Voto: 75
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Extinction of Life/ 3 – Sacrifice of the King of the Desert/ 4 – Sepolto dai tuoi Peccati/ 5 – Genesis of Evil
MySpace:
http://www.myspace.com/acheronteblack
FaceBook:http://www.facebook.com/acherontefanpage
ReverbNation:
http://www.reverbnation.com/acheronte
SBRT Records:
http://www.sbrtrecords.blogspot.com/
Formazione (2010): Lord Baal, voce;
Phobos, chitarra/seconda voce;
A.T. La Morte, basso;
Lars, batteria.
Provenienza: San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), Marche.
Canzone migliore del disco:
“Genesis of Evil”, che poi è anche quella più completa di tutto il lotto.
Punto di forza dell’opera:
la devastante istintività.
Ragazzi, lo dico fin da subito (come al solito…), ma fra tutti gli ultimi gruppi di black metal più o meno puro, gli Acheronte sono quelli che più mi sono piaciuti, anche perché talvolta abbracciano soluzioni provenienti da un certo sotto – genere per cui impazzisco (e che svelerò fra poco). Fra l’altro, ‘sti ascolani, rispetto a formazioni come Arcanum Inferi, Rhetra e compagnia, cantano anche in madrelingua… però peccato che lo fanno soltanto in una canzone, e quindi consiglio immediatamente di riprendere (su vasta scala) quest’esperimento e di abbandonare del tutto una lingua impersonale e fin troppo invasiva come l’inglese (insomma, sarò pure anarchico ma un po’ di orgoglio nazionale non guasta mai, e in tal senso la nostra scena HC insegna).
Passando a robe più concrete, si ha a che fare stavolta con un black metal spietatissimo e semplice che si nutre prima di tutto di un comparto vocale – bomba per come riesce a trasmettere un’intensità e una follia palpabili. E lo fa esprimendosi non soltanto con una buona inventiva nelle linee vocali, ma sciorinando anche vari tipi di cantato, passando così da un urlo gonfio d’odio (quello principale) a uno più gutturale e “schifoso” (“Extinction of Life”) per finire con dei grugniti cupissimi ed effettati (“Genesis of Evil”) – da utilizzare decisamente di più in futuro anche perchè sono l'unico contributo vocale, in tutto il disco, di Phobos -, i quali mostrano (ed ecco il sotto – genere da me tanto amato) qualche influenza derivante dal black/death più bestiale.
La quale la si sente occasionalmente in un riffing che fa molto Bestial Warlust (“Extinction of Life”), ma per il resto si tratta di black metal puro spesso quasi minimalista (specie nelle parti più lente) e che concede pochissimo alla melodia (“Sacrifice for the King of the Desert”). La semplicità però è dovuta anche a un rifiuto pressoché totale di qualsiasi tipo di intervento solista della chitarra, caratteristica questa che si sposa benissimo con una classica formazione a 4 elementi quale è quella degli Acheronte.
Ma non si pensi comunque che da queste parti si vada sempre e soltanto a blast – beats assatanati. Sì, perché il gruppo fa spesso uso, in modo molto fluido e quindi quasi senza stacchi e/o pause, di decelerazioni praticamente di tipo doom che rendono ancora più disturbante il tutto. Inoltre, durante questi momenti i nostri estremizzano quella tendenza nel ripetere ossessivamente qualche soluzione che nei passaggi più veloci è sì presente ma fino a un certo punto.
E’ un tipo di ossessività che comunque non impedisce di rendere incredibilmente varie le differenti canzoni, che così, attestandosi sempre sui 5 – 6 minuti, possiedono ognuna personalità ben definite. A tal proposito, “Extinction of Life” è gelida e apocalittica; “Sacrifice for the King of the Desert” è disperata, melodica e più dinamica; “Sepolto dai tuoi Peccati” è paranoica, senza un vero e proprio climax e concentrata esclusivamente sui tempi medi; e “Genesis of Evil” rappresenta il pezzo più distruttivo, strutturalmente più complicato, pieno di piatti stoppati e pregno anche di soluzioni spaventosamente ipnotiche.
Certo, non è oro (nero) tutto quel che (non) luccica. In tal senso, gli Acheronte hanno qualche problema nel risolvere in maniera efficace i tempi medio – lenti, e questo perché loro, come già scritto, amano renderli eccessivamente ossessivi. E così il doom di “Extinction of Life” (che nell’introduzione presenta fra l’altro una buona comparsata nei territori di un thrash metal non veloce che dopo poteva essere benissimo ripreso) non riesce a decollare, ma in compenso “Sepolto dai tuoi Peccati” riesce a farlo grazie più che altro all’apporto del sempre imbestialito Lord Baal. Inoltre, “Genesis of Evil” ha un riff quasi identico a quello principale del pezzo più melodico del lotto.
Ma nonostante tutti questi difetti, il disco si regge splendidamente (anche perché i pregi, come si è visto, non sono per niente pochi), e soprattutto è sì furioso e istintivo ma con cognizione di causa. E poi, per essere un’opera (la seconda degli Acheronte e diciassettesima uscita dell’italianissima e anti – nazista e totalmente folle SBRT Records) di tal genere , è fatta fin troppo bene, a partire dalla bellissima copertina di tal Igino “Worst” Di Ludovico.
Voto: 75
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Extinction of Life/ 3 – Sacrifice of the King of the Desert/ 4 – Sepolto dai tuoi Peccati/ 5 – Genesis of Evil
MySpace:
http://www.myspace.com/acheronteblack
FaceBook:http://www.facebook.com/acherontefanpage
ReverbNation:
http://www.reverbnation.com/acheronte
SBRT Records:
http://www.sbrtrecords.blogspot.com/
Friday, June 22, 2012
Mantide - "Eyes in the Jar" (2011)
Ep autoprodotto (Marzo 2011)
Formazione (2007): Valente John Alberto, voce;
Federico “Fedestruction” Romano, chitarra ritmica;
Gionata Miletti, chitarra solista;
Giorgio Riti, basso, seconda voce;
Mauro “The Butcher”, batteria.
Provenienza: Pescara, Abruzzo.
Canzone migliore del disco:
quella autointitolata.
Punto di forza dell’opera:
la grandiosa inventiva.
Quando accettai di recensire il disco dei Mantide (da non confondere con i LaMantide, gruppo HC da Cremona), feci lo sbaglio di considerare il quintetto abruzzese come privo di elementi estremi. E tutto questo a causa della sfacciataggine di Metal – Archives che li ha rinchiusi nell’”heavy/southern metal” – qualsiasi cosa significhi. Quindi, quando li ho messi nel mio stereo, c’è stata la sorpresa ma quella vera, quella totale. Non solo perché vi è una dose di estremo bella presente pur non dominando, ma anche perché, qualitativamente parlando, i Mantide meritano moltissimo. Ma la sorpresa è a dir la verità tripla: da queste parti la fantasia e la capacità d’inventiva (dei singoli e del collettivo) è praticamente al massimo, ragion per cui mi sembra decisamente difficile incasellare in maniera precisa e sicura quest’ottima esperienza musicale.
A questo punto mi sembra giusto descrivere ogni canzone per far meglio comprendere la proposta dei nostri, cominciando ovviamente dal primo episodio:
- “Annoying” rappresenta semplicemente un antipasto di ciò che verrà dopo, visto che non possiede quella follia che hanno i pezzi più riusciti. Si fa notare però immediatamente per il comparto vocale, che fa uso sia di doppie voci sia di un’alternanza bizzarra ma efficace fra voci pulite mai veramente melodiche e delle urla che non sfigurerebbero in un disco black metal tanto sanno essere a volte perfino angoscianti (“The Eyes in the Jar”). Musicalmente, si ha a che fare con una specie di rock’n’roll metallizzato ricco di uno – due intensissimi e che mostrano fin da subito le doti di un batterista istrionico e versatile;
- con “Daddy’s Bitch” si dà l’inizio alla caratteristiche più estreme del gruppo, utilizzando in questo caso veri e propri grugniti (anche se non profondi e cupi come quelli di “Master of Losers”) e tupa – tupa però non così veloci che accompagnano un riffing più che altro rockeggiante. Il quale sfocia in un assolo ottimamente introdotto dalle sempre fantasiose linee vocali;
- la seguente “The Eyes in the Jar” è l’autentico capolavoro del disco, dato che qui i nostri si sfogano totalmente divertendosi come pazzi. Prima di tutto, c’è una lunga introduzione dal sapore doom accompagnata da una voce femminile parlata presa chissà da dove, poi quasi si omaggia “Raining Blood” degli Slayer (e di chi se no?) in versione doomeggiante, per non parlare di quell’accelerazione lugubre e dal riffing minimalista simil – black metal. Infine, ecco l’assolo, anzi due assoli che s’intrecciano manco si stesse parlando degli Iron Maiden. Il bello è che ‘sta canzone si regge benissimo anche nonostante i suoi 5 minuti di durata, visto e considerato che i Mantide solitamente preferiscono esprimersi in un arco di 2 – 3 minuti;
- “Master of Losers” è invece l’incontro fra un doom minaccioso e un groove rock’n’roll contagiosissimo con tanto di finalone ossessivo e paranoico, alla fine tutto giocato sulle decisive linee vocali che compensano meravigliosamente l’assenza di un vero e proprio climax;
- “Urban Mantide” fa quasi cadere la proverbiale lacrimuccia essendo l’ultimo episodio del lotto. E non a caso i nostri lo introducono con un siparietto (naturalmente in lingua madre) nel quale uno chiede ai compagni di provare il pezzo ma un altro sembra un filino scettico circa la sua qualità. E non a caso (ancora?) la musica è particolarmente allegra, dato che è un heavy metal rockeggiato con tanto di assoli di batteria e intrecci solistici di chitarra, un po’ come in “Eyes in the Jar”. Curiosamente risultano del tutto assenti le urla, che fino ad ora sono state una costante.
In poche parole, non ho trovato difetti sostanziali nel disco, anche se mi piacerebbe che il suono diventi più compatto anche per non relegare le intuizioni più estreme solo a qualche brano. Ma il divertimento che provo quando mi metto ad ascoltare i Mantide è tale che soprassiedo pure su quei momenti in cui loro immettono nel discorso 3 chitarre 3, cosa un po’ inverosimile durante un concerto vista la classica formazione a 5 (mannaja a me e alle mie teorie sulla “purezza” delle produzioni in funzione degli spettacoli dal vivo!). Però in fin dei conti ‘sti gran cazzi e andate a supportare ‘sto gruppo di folli!
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Annoying/ 2 – Daddy’s Bitch/ 3 – Eyes in the Jar/ 4 – Master of Losers/ 5 – Urban Mantide
MySpace:
http://www.myspace.com/mantideband
FaceBook:
http://www.facebook.com/mantideband#!/mantideband?sk=info
Formazione (2007): Valente John Alberto, voce;
Federico “Fedestruction” Romano, chitarra ritmica;
Gionata Miletti, chitarra solista;
Giorgio Riti, basso, seconda voce;
Mauro “The Butcher”, batteria.
Provenienza: Pescara, Abruzzo.
Canzone migliore del disco:
quella autointitolata.
Punto di forza dell’opera:
la grandiosa inventiva.
Quando accettai di recensire il disco dei Mantide (da non confondere con i LaMantide, gruppo HC da Cremona), feci lo sbaglio di considerare il quintetto abruzzese come privo di elementi estremi. E tutto questo a causa della sfacciataggine di Metal – Archives che li ha rinchiusi nell’”heavy/southern metal” – qualsiasi cosa significhi. Quindi, quando li ho messi nel mio stereo, c’è stata la sorpresa ma quella vera, quella totale. Non solo perché vi è una dose di estremo bella presente pur non dominando, ma anche perché, qualitativamente parlando, i Mantide meritano moltissimo. Ma la sorpresa è a dir la verità tripla: da queste parti la fantasia e la capacità d’inventiva (dei singoli e del collettivo) è praticamente al massimo, ragion per cui mi sembra decisamente difficile incasellare in maniera precisa e sicura quest’ottima esperienza musicale.
A questo punto mi sembra giusto descrivere ogni canzone per far meglio comprendere la proposta dei nostri, cominciando ovviamente dal primo episodio:
- “Annoying” rappresenta semplicemente un antipasto di ciò che verrà dopo, visto che non possiede quella follia che hanno i pezzi più riusciti. Si fa notare però immediatamente per il comparto vocale, che fa uso sia di doppie voci sia di un’alternanza bizzarra ma efficace fra voci pulite mai veramente melodiche e delle urla che non sfigurerebbero in un disco black metal tanto sanno essere a volte perfino angoscianti (“The Eyes in the Jar”). Musicalmente, si ha a che fare con una specie di rock’n’roll metallizzato ricco di uno – due intensissimi e che mostrano fin da subito le doti di un batterista istrionico e versatile;
- con “Daddy’s Bitch” si dà l’inizio alla caratteristiche più estreme del gruppo, utilizzando in questo caso veri e propri grugniti (anche se non profondi e cupi come quelli di “Master of Losers”) e tupa – tupa però non così veloci che accompagnano un riffing più che altro rockeggiante. Il quale sfocia in un assolo ottimamente introdotto dalle sempre fantasiose linee vocali;
- la seguente “The Eyes in the Jar” è l’autentico capolavoro del disco, dato che qui i nostri si sfogano totalmente divertendosi come pazzi. Prima di tutto, c’è una lunga introduzione dal sapore doom accompagnata da una voce femminile parlata presa chissà da dove, poi quasi si omaggia “Raining Blood” degli Slayer (e di chi se no?) in versione doomeggiante, per non parlare di quell’accelerazione lugubre e dal riffing minimalista simil – black metal. Infine, ecco l’assolo, anzi due assoli che s’intrecciano manco si stesse parlando degli Iron Maiden. Il bello è che ‘sta canzone si regge benissimo anche nonostante i suoi 5 minuti di durata, visto e considerato che i Mantide solitamente preferiscono esprimersi in un arco di 2 – 3 minuti;
- “Master of Losers” è invece l’incontro fra un doom minaccioso e un groove rock’n’roll contagiosissimo con tanto di finalone ossessivo e paranoico, alla fine tutto giocato sulle decisive linee vocali che compensano meravigliosamente l’assenza di un vero e proprio climax;
- “Urban Mantide” fa quasi cadere la proverbiale lacrimuccia essendo l’ultimo episodio del lotto. E non a caso i nostri lo introducono con un siparietto (naturalmente in lingua madre) nel quale uno chiede ai compagni di provare il pezzo ma un altro sembra un filino scettico circa la sua qualità. E non a caso (ancora?) la musica è particolarmente allegra, dato che è un heavy metal rockeggiato con tanto di assoli di batteria e intrecci solistici di chitarra, un po’ come in “Eyes in the Jar”. Curiosamente risultano del tutto assenti le urla, che fino ad ora sono state una costante.
In poche parole, non ho trovato difetti sostanziali nel disco, anche se mi piacerebbe che il suono diventi più compatto anche per non relegare le intuizioni più estreme solo a qualche brano. Ma il divertimento che provo quando mi metto ad ascoltare i Mantide è tale che soprassiedo pure su quei momenti in cui loro immettono nel discorso 3 chitarre 3, cosa un po’ inverosimile durante un concerto vista la classica formazione a 5 (mannaja a me e alle mie teorie sulla “purezza” delle produzioni in funzione degli spettacoli dal vivo!). Però in fin dei conti ‘sti gran cazzi e andate a supportare ‘sto gruppo di folli!
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Annoying/ 2 – Daddy’s Bitch/ 3 – Eyes in the Jar/ 4 – Master of Losers/ 5 – Urban Mantide
MySpace:
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FaceBook:
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Monday, June 18, 2012
Settore Cinema - Kids (1995) di Larry Clark
Qualcuno di voi ha mai sentito parlare di Harmony Korine? Non vi dice niente un titolo come Gummo, film indipendente da lui girato due anni dopo Kids di Larry Clark? In ogni caso, dovete sapere che tenersi alla larga da Korine è praticamente d’obbligo fin dall’inizio della sua carriera nel cinema come sceneggiatore (a soli 22 anni!) appunto con Kids, nel quale ha pure recitato (praticamente una comparsata, anche se fondamentale per il prosieguo della storia, con tanto di maglia dei thrashettoni Nuclear Assault). Sì, perché Kids è un film provocatorio ma vero e autentico, non così dissimile dal cinema – verità del compianto Pasolini.
Però, bisogna subito sottolineare una cosa: tale pellicola non ha una storia vera e propria, anzi, è più che altro un viaggio nella vita violenta e perduta di giovani completamente allo sbando. Ragazzi, ma anche ragazzini, che fumano, si drogano, a rotta di collo, rubano, fanno sesso con la prima ragazza che capita, e ovviamente non mancano scene lesbiche né le orge di sesso.
Oddio, il film in teoria ruota intorno a Jennie, bella giovine con il capello castano corto che ha preso l’AIDS dopo aver fatto sesso per la prima e unica volta con Telly, ragazzo futuro pedofilo perché letteralmente ossessionato dalle dodicenni, che inganna continuamente dicendo loro di volerle bene e scadendo in fintissime romanticherie. Così, Jennie lo va a cercare praticamente ovunque, anche in una discoteca, che poi risulterà fatale per lei perché un metallaro, tal Fidget, con gli occhiali giganteschi stile nerd la costringerà a prendere una droga particolarmente forte. Che non la fermerà nella sua ricerca, ma la bloccherà nel momento stesso di incontrare Telly intento a farsi un’altra bambina.
L’amico di Telly e co – protagonista maschile è Casper. Sguardo allucinato, capello ribelle, ladro provetto e appassionato di skateboard, che userà fra l’altro per dare il colpo di grazia a un nero, massacrato da 30 ragazzini assatanati perché reo di non aver accettato le scuse di Casper dopo che questo si è scontrato involontariamente con l’uomo saltando con lo skate. Eppure, Casper risulta essere il personaggio più complesso e quindi più curato, e in un certo senso anche il più umano della vicenda. Ciò, vuoi perché dà qualche soldo a un povero barbone senza gambe, vuoi perché offre una pesca a una bimba (che ovviamente lei butterà subito per terra). Allo stesso tempo, sarà proprio Casper a stuprare Jennie in pieno sonno (e totalmente abulica per via della droga) come botta finale di una festa distruttiva. Il bello è che il giorno dopo Casper, rivolgendosi alla telecamera, si chiederà:
“Che cazzo è successo?”
L’ironia, in questo film così pungente, effettivamente non manca, pur immersa in un oceano di volgarità. Come quando la voce fuori campo di Telly spiega perché ha tutta questa ossessione per il sesso. Cadendo però nell’autodistruzione più nera.
Ottima l’interpretazione dei giovani attori, specialmente quella del debuttante Justin Pierce (Casper) e di Chloe Sevigny (Jennie) – che poi Korine prenderà per il suo Gummo, film disturbante come pochi(ssimi) – anche se mi chiedo come Jennie riesca a essere così tranquilla il giorno dopo parlando (di sesso) con le sue amiche. Mentre molto buona si mostra la colonna sonora, che presenta anche un po’ di punk, ma peccato per la totale assenza del metal vista la presenza di un personaggio come Fidget.
Voto: 4/5
Claustrofobia
Però, bisogna subito sottolineare una cosa: tale pellicola non ha una storia vera e propria, anzi, è più che altro un viaggio nella vita violenta e perduta di giovani completamente allo sbando. Ragazzi, ma anche ragazzini, che fumano, si drogano, a rotta di collo, rubano, fanno sesso con la prima ragazza che capita, e ovviamente non mancano scene lesbiche né le orge di sesso.
Oddio, il film in teoria ruota intorno a Jennie, bella giovine con il capello castano corto che ha preso l’AIDS dopo aver fatto sesso per la prima e unica volta con Telly, ragazzo futuro pedofilo perché letteralmente ossessionato dalle dodicenni, che inganna continuamente dicendo loro di volerle bene e scadendo in fintissime romanticherie. Così, Jennie lo va a cercare praticamente ovunque, anche in una discoteca, che poi risulterà fatale per lei perché un metallaro, tal Fidget, con gli occhiali giganteschi stile nerd la costringerà a prendere una droga particolarmente forte. Che non la fermerà nella sua ricerca, ma la bloccherà nel momento stesso di incontrare Telly intento a farsi un’altra bambina.
L’amico di Telly e co – protagonista maschile è Casper. Sguardo allucinato, capello ribelle, ladro provetto e appassionato di skateboard, che userà fra l’altro per dare il colpo di grazia a un nero, massacrato da 30 ragazzini assatanati perché reo di non aver accettato le scuse di Casper dopo che questo si è scontrato involontariamente con l’uomo saltando con lo skate. Eppure, Casper risulta essere il personaggio più complesso e quindi più curato, e in un certo senso anche il più umano della vicenda. Ciò, vuoi perché dà qualche soldo a un povero barbone senza gambe, vuoi perché offre una pesca a una bimba (che ovviamente lei butterà subito per terra). Allo stesso tempo, sarà proprio Casper a stuprare Jennie in pieno sonno (e totalmente abulica per via della droga) come botta finale di una festa distruttiva. Il bello è che il giorno dopo Casper, rivolgendosi alla telecamera, si chiederà:
“Che cazzo è successo?”
L’ironia, in questo film così pungente, effettivamente non manca, pur immersa in un oceano di volgarità. Come quando la voce fuori campo di Telly spiega perché ha tutta questa ossessione per il sesso. Cadendo però nell’autodistruzione più nera.
Ottima l’interpretazione dei giovani attori, specialmente quella del debuttante Justin Pierce (Casper) e di Chloe Sevigny (Jennie) – che poi Korine prenderà per il suo Gummo, film disturbante come pochi(ssimi) – anche se mi chiedo come Jennie riesca a essere così tranquilla il giorno dopo parlando (di sesso) con le sue amiche. Mentre molto buona si mostra la colonna sonora, che presenta anche un po’ di punk, ma peccato per la totale assenza del metal vista la presenza di un personaggio come Fidget.
Voto: 4/5
Claustrofobia
Exterminate - "Anathemas of Galaxies and Tyme" (2012)
Demo autoprodotto (2012)
Formazione (2008): A.D., voce/basso;
FrDm, chitarra;
Neith, chitarra;
Kroisos, batteria.
Provenienza: Milano/Varese/Como, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Envy (The Roots of Progress)”.
Punto di forza dell’opera:
potenzialmente il coraggio di certe soluzioni stilistiche ancora abbastanza represse.
Non so voi, ma ho l'impressione che il death metal più complesso stia praticamente invadendo le pagine di questa webzine visto che fra Chaos Plague, Illogicist e Faust c'è di che scegliere in tal senso. Gli ultimi nella lista sono gli Exterminate (nome più da gruppo di black/death bestiale... e guardacaso ce n'è uno così chiamato in Cile) che però, rispetto ai gruppi citati, ho trovato molto migliorabili, anche se a ogni modo interessanti.
Lo sono prima di tutto grazie al cantante che si dimostra sufficientemente versatile e dal grugnito abbastanza dinamico, risultando così capace di enfatizzare, con notevole grinta, il lavoro dei compagni. Però, allo stesso tempo, il nostro ha la tendenza a cancellarsi durante una bella fetta della parte centrale dei pezzi, per rifarsi vivo, ma per pochi secondi, solo nel finale finendo così di essere un filino meccanico e prevedibile nonostante il suo solito ottimo apporto.
Anche il settore chitarre è interessante, vuoi perché il riffing, che sa essere tremendamente cattivo, viene contaminato occasionalmente da melodie un po’ orientaleggianti, abili a dare un’aura magniloquente al tutto; vuoi perché gli assoli, uno per pezzo, si mostrano ben fatti e tecnici senza strafare.
Pure la batteria non scherza affatto. Pur non raggiungendo mai una complessità infernale, ma anzi, i ritmi sono a volte particolari, anche perché in un pezzo come “Envy (The Roots of Progress)” ce n’è uno praticamente alieno per la musica metal tutta essendo rilassato e con la bacchetta che si concentra più che altro sui bordi del rullante. Inoltre, nonostante il genere, è presente un po’ di groove che fa sempre bene alla salute.
Quello che però convince poco deriva dall’impianto strutturale delle canzoni. Infatti, a volte viene ripetuta più e più volte una soluzione che però non viene né sviluppata né conclusa bene, visto che quella è, e quella rimane. Così, per esempio, non vi è un “ponte” che finisca degnamente la parte ossessiva di “At One with Earth”, mentre nel finale di “The Passage” poteva esserci benissimo più tensione, magari aggiungendo a un certo punto la chitarra solista. In compenso, i nostri hanno saputo dare sufficiente personalità ai vari episodi, passando quindi dalla sequenzialità ma non troppo di “At One with Earth” alle trame più libere di “Envy (The Roots of Progress)”, che pur parte da uno schema 1 – 2 – 1 – 2 abbastanza classico.
Alla fine, l’unico brano che si salva è proprio l’ultimo menzionato, che è guardacaso il più coraggioso e non soltanto per dei ritmi strambi. Di seguito le caratteristiche di questo pezzo:
1) esso è più che altro improntato sui tempi medi così da esplodere efficacemente nel finale;
2) c’è qualche soluzione chitarristica un po’ sui generis perché praticamente è “a scoppio ritardato” con la batteria che riempie i buchi attraverso puntuali tom – tom;
3) l’atmosfera del pezzo a tratti è quasi rarefatta, come nella rilassata parte centrale, capace in questo modo di introdurre un assolo che, come si suol dire, entra al punto giusto nel momento giusto.
Insomma, consiglio a ‘sti ragazzi di ripartire proprio da “Envy”, e di affinare una struttura che a tratti è fin troppo paranoica, anche se è decisamente apprezzabile l’idea di offrire un discorso il più possibile fluido che poco concede a stacchi e/o pause. E magari di sfruttare meglio la voce.
Voto: 67
Claustrofobia
Scaletta (da verificare):
1 – Opening/ 2 – The Passage/ 3 – At One with the Earth/ 4 – Envy (The Roots of Progress)
Reverbnation:
http://www.reverbnation.com/exterminateitaly
Formazione (2008): A.D., voce/basso;
FrDm, chitarra;
Neith, chitarra;
Kroisos, batteria.
Provenienza: Milano/Varese/Como, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Envy (The Roots of Progress)”.
Punto di forza dell’opera:
potenzialmente il coraggio di certe soluzioni stilistiche ancora abbastanza represse.
Non so voi, ma ho l'impressione che il death metal più complesso stia praticamente invadendo le pagine di questa webzine visto che fra Chaos Plague, Illogicist e Faust c'è di che scegliere in tal senso. Gli ultimi nella lista sono gli Exterminate (nome più da gruppo di black/death bestiale... e guardacaso ce n'è uno così chiamato in Cile) che però, rispetto ai gruppi citati, ho trovato molto migliorabili, anche se a ogni modo interessanti.
Lo sono prima di tutto grazie al cantante che si dimostra sufficientemente versatile e dal grugnito abbastanza dinamico, risultando così capace di enfatizzare, con notevole grinta, il lavoro dei compagni. Però, allo stesso tempo, il nostro ha la tendenza a cancellarsi durante una bella fetta della parte centrale dei pezzi, per rifarsi vivo, ma per pochi secondi, solo nel finale finendo così di essere un filino meccanico e prevedibile nonostante il suo solito ottimo apporto.
Anche il settore chitarre è interessante, vuoi perché il riffing, che sa essere tremendamente cattivo, viene contaminato occasionalmente da melodie un po’ orientaleggianti, abili a dare un’aura magniloquente al tutto; vuoi perché gli assoli, uno per pezzo, si mostrano ben fatti e tecnici senza strafare.
Pure la batteria non scherza affatto. Pur non raggiungendo mai una complessità infernale, ma anzi, i ritmi sono a volte particolari, anche perché in un pezzo come “Envy (The Roots of Progress)” ce n’è uno praticamente alieno per la musica metal tutta essendo rilassato e con la bacchetta che si concentra più che altro sui bordi del rullante. Inoltre, nonostante il genere, è presente un po’ di groove che fa sempre bene alla salute.
Quello che però convince poco deriva dall’impianto strutturale delle canzoni. Infatti, a volte viene ripetuta più e più volte una soluzione che però non viene né sviluppata né conclusa bene, visto che quella è, e quella rimane. Così, per esempio, non vi è un “ponte” che finisca degnamente la parte ossessiva di “At One with Earth”, mentre nel finale di “The Passage” poteva esserci benissimo più tensione, magari aggiungendo a un certo punto la chitarra solista. In compenso, i nostri hanno saputo dare sufficiente personalità ai vari episodi, passando quindi dalla sequenzialità ma non troppo di “At One with Earth” alle trame più libere di “Envy (The Roots of Progress)”, che pur parte da uno schema 1 – 2 – 1 – 2 abbastanza classico.
Alla fine, l’unico brano che si salva è proprio l’ultimo menzionato, che è guardacaso il più coraggioso e non soltanto per dei ritmi strambi. Di seguito le caratteristiche di questo pezzo:
1) esso è più che altro improntato sui tempi medi così da esplodere efficacemente nel finale;
2) c’è qualche soluzione chitarristica un po’ sui generis perché praticamente è “a scoppio ritardato” con la batteria che riempie i buchi attraverso puntuali tom – tom;
3) l’atmosfera del pezzo a tratti è quasi rarefatta, come nella rilassata parte centrale, capace in questo modo di introdurre un assolo che, come si suol dire, entra al punto giusto nel momento giusto.
Insomma, consiglio a ‘sti ragazzi di ripartire proprio da “Envy”, e di affinare una struttura che a tratti è fin troppo paranoica, anche se è decisamente apprezzabile l’idea di offrire un discorso il più possibile fluido che poco concede a stacchi e/o pause. E magari di sfruttare meglio la voce.
Voto: 67
Claustrofobia
Scaletta (da verificare):
1 – Opening/ 2 – The Passage/ 3 – At One with the Earth/ 4 – Envy (The Roots of Progress)
Reverbnation:
http://www.reverbnation.com/exterminateitaly
Thursday, June 14, 2012
W Django! (1971)
Nei primi anni ’70 cominciò la crisi dello spaghetti western, nonostante i successi conseguiti dalla coppia Trinità – Bambino. Il genere stava andando sempre più verso la parodia, a volte in modo così estremo e giocoso da far arrabbiare e ridere allo stesso tempo (la serie di Provvidenza con Tomas Milian è esemplare). Eppure, proprio in questo periodo buio, registi come Miles Deem e Edward Muller (al secolo Demofilo Fidani e Edoardo Mulargia) se ne uscivano fuori girando e magari producendo western praticamente in scala industriale, ragion per cui i loro film erano spesso di una povertà allucinante. Curiosamente però, è anche vero che talvolta riuscivano a fare qualcosa di decente. Come guardacaso W Django! di Mulargia.
Il punto di partenza della trama è sfacciatamente il più classico possibile. Django è infatti alla ricerca degli uomini che hanno stuprato e ucciso sua moglie. Gli uomini sono 3: il contrabbandiere Thompson, il capitano controrivoluzionario Gomez e Jeff, che intanto tiene sotto scacco una sottospecie di cittadina, abitata letteralmente da 4 gatti fra cui Paco, il barista bonaccione, gonfio di rabbia contro Jeff essendo questo l’amante di sua moglie Lola. Django viene aiutato nella sua ricerca da Carranza, salvato da morte certa per impiccagione, il quale fra l’altro era un membro della cosiddetta Banda del Quadrifoglio di cui facevano parte per l’appunto i 3 assassini suddetti. Solo che, com’è ovvio, dopo aver decimato non si capisce quanti presunti pistoleri, nel finale si scoprirà che effettivamente pure Carranza prese parte all’omicidio della moglie.
Ma come “non si sa”? Beh, W Django! è praticamente un film di morti, un vero e proprio cimitero di pistoleri (e non) ammazzati (o semplicemente messi fuori gioco) nelle maniere più assurde. Uomini appesi a testa in giù alle campane della chiesa e quindi costretti a sentire un delirio assordante che manco in un film visionario, scazzottate (pochissime) con strapiombo d’ordinanza, trucchi diabolici con un braccio sì alzato in segno di resa ma finto, e così via. Il film fra l’altro sembra che detenga il record per numero di morti, che sono più o meno una novantina (!).
Il bello è che la pellicola non annoia, anche perché, pur avendo un tono abbastanza serio, presenta notevoli scene comiche (come la “dotta” discussione su quella puzza che sembra una miccia che sta bruciando ma anche no; oppure la scena con Jeff e Lola portati a spasso in piena notte sul letto su cui stavano amorevolmente dormendo) e belle battute d’effetto (“Carranza, di’ le tue preghiere”. E lui: “E chi le sa?”). Di conseguenza, il film ha veramente un buon ritmo. E poi Django è stranamente simpatico nonostante i suoi soliti propositi di vendetta.
Però, dopo tutte queste belle parole, bisogna far presente qualche anomalia non così gradita. Per esempio, la colonna sonora di Piero Umiliani, molto classica e pur bella, alle volte risulta un po’ staccata dal contesto oltre a bloccarsi a tratti in maniera brutale e fin troppo improvvisa. Inoltre, risulta inspiegabile la comparsa dell’automobile, anche perché è nelle mani dei rivoluzionari, come il fatto che Jeff, pur chiedendo che cosa sia questa “bagnarola”, sappia come si apre una portiera. Per non parlare di un montaggio talvolta zoppicante e scattoso (forse dovuto più che altro alla copia in mio possesso, edita da Abraxas Srl/Dagored Films), in stile videocassetta.
Ma alla fine questi sono solo dettagli di un western che per essere di serie Z è stato fatto fin troppo bene! E ciò anche per la presenza di attori abbastanza famosi, come l’italo – brasiliano Anthony Steffen, che impersona per la milionesima volta e sempre di nerovestito Django; Glauco Onorato (la voce ufficiale di Bud Spencer) nella parte ambigua di Carranza; e Riccardo Pizzuti (nemico di mille battaglie dei personaggi di Terence Hill e compare) in quella del cattivo Thompson.
Voto: 2,5/5
Claustrofobia
Il punto di partenza della trama è sfacciatamente il più classico possibile. Django è infatti alla ricerca degli uomini che hanno stuprato e ucciso sua moglie. Gli uomini sono 3: il contrabbandiere Thompson, il capitano controrivoluzionario Gomez e Jeff, che intanto tiene sotto scacco una sottospecie di cittadina, abitata letteralmente da 4 gatti fra cui Paco, il barista bonaccione, gonfio di rabbia contro Jeff essendo questo l’amante di sua moglie Lola. Django viene aiutato nella sua ricerca da Carranza, salvato da morte certa per impiccagione, il quale fra l’altro era un membro della cosiddetta Banda del Quadrifoglio di cui facevano parte per l’appunto i 3 assassini suddetti. Solo che, com’è ovvio, dopo aver decimato non si capisce quanti presunti pistoleri, nel finale si scoprirà che effettivamente pure Carranza prese parte all’omicidio della moglie.
Ma come “non si sa”? Beh, W Django! è praticamente un film di morti, un vero e proprio cimitero di pistoleri (e non) ammazzati (o semplicemente messi fuori gioco) nelle maniere più assurde. Uomini appesi a testa in giù alle campane della chiesa e quindi costretti a sentire un delirio assordante che manco in un film visionario, scazzottate (pochissime) con strapiombo d’ordinanza, trucchi diabolici con un braccio sì alzato in segno di resa ma finto, e così via. Il film fra l’altro sembra che detenga il record per numero di morti, che sono più o meno una novantina (!).
Il bello è che la pellicola non annoia, anche perché, pur avendo un tono abbastanza serio, presenta notevoli scene comiche (come la “dotta” discussione su quella puzza che sembra una miccia che sta bruciando ma anche no; oppure la scena con Jeff e Lola portati a spasso in piena notte sul letto su cui stavano amorevolmente dormendo) e belle battute d’effetto (“Carranza, di’ le tue preghiere”. E lui: “E chi le sa?”). Di conseguenza, il film ha veramente un buon ritmo. E poi Django è stranamente simpatico nonostante i suoi soliti propositi di vendetta.
Però, dopo tutte queste belle parole, bisogna far presente qualche anomalia non così gradita. Per esempio, la colonna sonora di Piero Umiliani, molto classica e pur bella, alle volte risulta un po’ staccata dal contesto oltre a bloccarsi a tratti in maniera brutale e fin troppo improvvisa. Inoltre, risulta inspiegabile la comparsa dell’automobile, anche perché è nelle mani dei rivoluzionari, come il fatto che Jeff, pur chiedendo che cosa sia questa “bagnarola”, sappia come si apre una portiera. Per non parlare di un montaggio talvolta zoppicante e scattoso (forse dovuto più che altro alla copia in mio possesso, edita da Abraxas Srl/Dagored Films), in stile videocassetta.
Ma alla fine questi sono solo dettagli di un western che per essere di serie Z è stato fatto fin troppo bene! E ciò anche per la presenza di attori abbastanza famosi, come l’italo – brasiliano Anthony Steffen, che impersona per la milionesima volta e sempre di nerovestito Django; Glauco Onorato (la voce ufficiale di Bud Spencer) nella parte ambigua di Carranza; e Riccardo Pizzuti (nemico di mille battaglie dei personaggi di Terence Hill e compare) in quella del cattivo Thompson.
Voto: 2,5/5
Claustrofobia
Monday, June 11, 2012
Rejekts - "Promo 2012" (2012)
Promo autoprodotto (2012)
Formazione (2006): Black, voce;
Joe, chitarra;
Dave, chitarra;
Paco, basso;
Nico, batteria.
Provenenza: Milano, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Asettico”.
Punto di forza dell'opera:
la follia.
Ennesimo disco per un gruppo che migliora di uscita in uscita e che, in preparazione del grande passo costituito dal primissimo album, ci regala una prestazione – bomba condita da 2 pezzi ormai storici del quintetto lombardo, cioè “Fango” e “L’Odio che Hai Dentro” + la già pubblicata "Nihilius" e 2 brani inediti che ripercorrono un po’ le stesse orme tracciate nello split condiviso insieme ai greci Slaughtergrave e ai pazzi sardi Tuco. E la presente produzione mostra fra l’altro, in maniera più chiara e compatta (nello split suddetto suona solo in 2 pezzi su 4), le doti di Nico, batterista che nonostante i suoi 15 anni spacca culi che è un piacere (mah, affermazione un filino gay ma vabbè…).
Ogni canzone del promo è praticamente migliore dell’altra, e lo stile è meno dispersivo di qualche tempo fa essendo adesso classificabile costantemente come un black/grind a dir poco folle. “Folle” vuoi perché i brani procedono nel proprio massacro in maniera sì ossessiva e soffocante ma dinamica, presentando cioè minime variazioni e cambi di tempo nonostante il riffing proponga più o meno sempre le stesse note (“Nihilius” e “Abbandono”); vuoi perché, ascoltando questi Rejekts, si respira un’aria malata e infetta, che trova il suo perfetto esempio in “Asettico”, il quale mostra fra l’altro il lato più black metal della proposta.
Un’altra novità viene dall’avvolgente capacità dei nostri di sfruttare in modo creativo tutti gli strumenti. Infatti, ora anche il basso prende iniziativa, seppur occasionalmente, nella costruzione delle linee melodiche (l’introduzione di “Fango” è esemplificativa), mentre la chitarra solista, mai sfociante in assoli veri e propri, dà un’ottima prova di sé ad esempio nella finale “Abbandono”, nella quale tira fuori una linea bella tecnica e tremendamente vorticosa e spaventosa. Inoltre, sarà pure un’impressione, ma sembra che vengano utilizzati di più quei grugniti marci e puzzolenti in stile Nis che in “Nessuno” facevano più che altro delle comparsate, così da ridimensionare, anche se leggermente, le urla parossistiche di Black.
Come già scritto però, nel disco brilla specialmente un pezzo quasi sui generis per ‘sti ragazzi. Ciò per i seguenti motivi:
1) “Asettico” (l’episodio più lungo dato che dura 2 minuti e mezzo circa) praticamente rifiuta i tempi veloci, preferendo invece tempi medi impreziositi anche da uno – due che fanno molto Vlad Tepes oppure addirittura litanie doom allucinate come nella chiusa (e l’introduzione, in fatto di “esperienze allucinatorie”, non è da meno, causa soprattutto una semplice e psicotica chitarra solista);
2) Il sapore fatalista di certo riffing, che a tratti sembra annunciare chissà quali abomini.
Ma il bello non finisce qui, visto che si è stati capaci persino di attualizzare i 2 vecchi brani ("Fango" e "L'Odio che Hai Dentro"), aggiungendo magari una linea di basso oppure suonando in maniera un filino diversa un riff. Oddio, a dir la verità la sostanza non è che sia cambiata poi così molto, e quindi avrei desiderato un’attualizzazione più coerente con le altre canzoni. Infatti, sia dal punto di vista stilistico che da quello emotivo la differenza si sente fin troppo, anche se comunque fa sempre piacere ascoltare due cavalli di battaglia del gruppo.
Infine, la produzione del disco è fantastica. Il suono è molto cupo e sporco ma con tutti gli strumenti in primo piano, e inoltre la voce non è più soffocata come accadeva in “Nessuno”.
In parole povere, un antipasto succoso.
Voto: 81
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Nihilius/ 2 – Asettico/ 3 – Fango/ 4 – L’Odio che Hai Dentro/ 5 – Abbandono
MySpace:
http://www.myspace.com/rejektshc
Formazione (2006): Black, voce;
Joe, chitarra;
Dave, chitarra;
Paco, basso;
Nico, batteria.
Provenenza: Milano, Lombardia.
Canzone migliore del disco:
“Asettico”.
Punto di forza dell'opera:
la follia.
Ennesimo disco per un gruppo che migliora di uscita in uscita e che, in preparazione del grande passo costituito dal primissimo album, ci regala una prestazione – bomba condita da 2 pezzi ormai storici del quintetto lombardo, cioè “Fango” e “L’Odio che Hai Dentro” + la già pubblicata "Nihilius" e 2 brani inediti che ripercorrono un po’ le stesse orme tracciate nello split condiviso insieme ai greci Slaughtergrave e ai pazzi sardi Tuco. E la presente produzione mostra fra l’altro, in maniera più chiara e compatta (nello split suddetto suona solo in 2 pezzi su 4), le doti di Nico, batterista che nonostante i suoi 15 anni spacca culi che è un piacere (mah, affermazione un filino gay ma vabbè…).
Ogni canzone del promo è praticamente migliore dell’altra, e lo stile è meno dispersivo di qualche tempo fa essendo adesso classificabile costantemente come un black/grind a dir poco folle. “Folle” vuoi perché i brani procedono nel proprio massacro in maniera sì ossessiva e soffocante ma dinamica, presentando cioè minime variazioni e cambi di tempo nonostante il riffing proponga più o meno sempre le stesse note (“Nihilius” e “Abbandono”); vuoi perché, ascoltando questi Rejekts, si respira un’aria malata e infetta, che trova il suo perfetto esempio in “Asettico”, il quale mostra fra l’altro il lato più black metal della proposta.
Un’altra novità viene dall’avvolgente capacità dei nostri di sfruttare in modo creativo tutti gli strumenti. Infatti, ora anche il basso prende iniziativa, seppur occasionalmente, nella costruzione delle linee melodiche (l’introduzione di “Fango” è esemplificativa), mentre la chitarra solista, mai sfociante in assoli veri e propri, dà un’ottima prova di sé ad esempio nella finale “Abbandono”, nella quale tira fuori una linea bella tecnica e tremendamente vorticosa e spaventosa. Inoltre, sarà pure un’impressione, ma sembra che vengano utilizzati di più quei grugniti marci e puzzolenti in stile Nis che in “Nessuno” facevano più che altro delle comparsate, così da ridimensionare, anche se leggermente, le urla parossistiche di Black.
Come già scritto però, nel disco brilla specialmente un pezzo quasi sui generis per ‘sti ragazzi. Ciò per i seguenti motivi:
1) “Asettico” (l’episodio più lungo dato che dura 2 minuti e mezzo circa) praticamente rifiuta i tempi veloci, preferendo invece tempi medi impreziositi anche da uno – due che fanno molto Vlad Tepes oppure addirittura litanie doom allucinate come nella chiusa (e l’introduzione, in fatto di “esperienze allucinatorie”, non è da meno, causa soprattutto una semplice e psicotica chitarra solista);
2) Il sapore fatalista di certo riffing, che a tratti sembra annunciare chissà quali abomini.
Ma il bello non finisce qui, visto che si è stati capaci persino di attualizzare i 2 vecchi brani ("Fango" e "L'Odio che Hai Dentro"), aggiungendo magari una linea di basso oppure suonando in maniera un filino diversa un riff. Oddio, a dir la verità la sostanza non è che sia cambiata poi così molto, e quindi avrei desiderato un’attualizzazione più coerente con le altre canzoni. Infatti, sia dal punto di vista stilistico che da quello emotivo la differenza si sente fin troppo, anche se comunque fa sempre piacere ascoltare due cavalli di battaglia del gruppo.
Infine, la produzione del disco è fantastica. Il suono è molto cupo e sporco ma con tutti gli strumenti in primo piano, e inoltre la voce non è più soffocata come accadeva in “Nessuno”.
In parole povere, un antipasto succoso.
Voto: 81
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Nihilius/ 2 – Asettico/ 3 – Fango/ 4 – L’Odio che Hai Dentro/ 5 – Abbandono
MySpace:
http://www.myspace.com/rejektshc
Saturday, June 9, 2012
Antiquus Infestus - "The Cult of Ra" (2012)
Promo (7 Records, 2012)
Formazione (2011): Sverkel, voce;
Malphas, chitarre/batteria elettronica/voce aggiuntiva;
Asmodeus, basso.
Provenienza: Forlì, Emilia – Romagna.
Canzone migliore del promo:
Let Thy Salts Dry Out and Preserve More Flesh Than Bones
Punto di forza dell’opera:
le urla, distruttive come non mai.
Curiosità:
come si legge su Wikipedia:
Ra è il Dio-Sole di Eliopoli nell'antico Egitto. Emerse dalle acque primordiali del Nun ("la parte maschile dell'oceano primordiale prima" della creazione) portato tra le corna della vacca celeste, la dea Mehetueret (la dea della rinascita e della grande inondazione). È spesso rappresentato simbolicamente con un occhio (l'occhio di Ra).
----------------------------------------------------
Questo disco è, come dire?, un sacco strano. E non lo dico soltanto per le bizzarrie stilistiche degli Antiquus Infestus ma anche perché ci sono notevoli differenze fra la prima e la seconda parte, anche dal punto di vista qualitativo. Infatti, e lo scrivo fin da subito, le prime due canzoni sono sì buone ma comunque rivedibili, mentre le restanti sono praticamente un capolavoro… e pensare che il gruppo è lo stesso!
Ma perché gli Antiquus Infestus sono bizzarri? Lo si avverte immediatamente nei titoli lunghissimi, e diventa una conferma durante l’introduzione, esotica e orientale, del pezzo d’apertura. A sua volta, la brevissima intro viene confermata dalla musica stessa, che guardacaso si ciba spesso e volentieri di melodie oscure e orientaleggianti, anche se non si arriva alla contaminazione totale degli Hieros Gamos di “The Sounds of Doom”. Sì, perché il riffing ha forti influenze provenienti dal death metal, e possiede raramente un retrogusto thrasheggiante che gli dà una bella spinta (e ciò avviene più che altro nei primi due brani).
Però, visto l’esotismo di certi riffs, ‘sti ragazzi romagnoli danno particolare importanza al lato più atmosferico della proposta, sparando così prima di tutto dei tempi massicci di stampo sostanzialmente doom, che però concedono non poche volte spazio ad accelerazioni spesso improvvise ma efficaci a base di blast – beats assatanati; e poi degli assoli solitamente molto evocativi, anche se nella seconda parte questa funzione quasi incantatrice viene un po’ abbandonata.
Un altro aspetto decisamente rilevante è il comparto vocale. Il cantato principale infatti è una bomba per come riesce a far rabbrividire essendo un urlo imponente e orgoglioso. Il quale viene accompagnato da un grugnito bello cupo, che però è comunque lontano anni luce dall’impressionare selvaggiamente come quelle urla monumentali.
Come non impressiona veramente la prima parte del demo, vuoi perché la struttura – soffocante nel brano d’apertura, un poco più agile in quello successivo – si ripete, vuoi perché la batteria elettronica non aiuta molto con quelle variazioni sempre uguali in blast. Ma il problema principale deriva a dir la verità dai 2 pezzi finali, nei quali i nostri si sfogano totalmente cambiando in pratica faccia.
Infatti, in questi ultimi avvengono tali cambiamenti:
- la struttura diventa decisamente più imprevedibile e quindi meno vincolata ad uno schema preciso, anche se gli stacchi e/o pause sono sempre rarissimi;
- la chitarra solista assume un’importanza decisamente fondamentale, e fra l’altro viene usata in maniera più fantasiosa e quindi riesce a interpretare meglio le varie situazioni;
- l’utilizzo costante di soluzioni più coraggiose o semplicemente più inusuali per gli Antiquus Infestus.
Da quest’ultimo punto di vista, la terza canzone è esemplare per i seguenti motivi:
1) l’uso predominante dei tempi doom;
2) la presenza di un passaggio rumorista e minaccioso apparentemente non in linea ma alla fine perfettamente coerente con tutto l’insieme;
3) l’assolo sghembo di basso (strano a dirsi per un gruppo del genere);
4) parti soliste di chitarra totalmente impazzite.
Insomma, è un peccato che ‘sti ragazzi non siano riusciti a trasmettere questa stessa capacità di grande inventiva e creazione per tutto il promo. Da un’altra parte invece, è stato saggio infilare proprio alla fine delle canzoni così elaborate e intense. Ma a questo punto è anche vero che così facendo si crea un po’ di confusione. Infatti, sorge la domanda:
CHI SONO I VERI ANTIQUUS INFESTUS?
Ai posteri l’ardua sentenza…
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – The Chapter Of Not Letting The Heart Of A Man Be Snatched Away From Him In Khert-Neter/ 2 – A Hymn to Praise to Ra When He Risese in the Eastern Part of Heaven/ 3 – Let Thy Salts Dry Out and Preserve More Flesh Than Bones/ 4 – I Am the Flame that Illuminates the Millions of Years to Come
MySpace:
http://www.myspace.com/antiquusinfestus
SoundCloud:
http://www.soundcloud.com/antiquusinfestus
Formazione (2011): Sverkel, voce;
Malphas, chitarre/batteria elettronica/voce aggiuntiva;
Asmodeus, basso.
Provenienza: Forlì, Emilia – Romagna.
Canzone migliore del promo:
Let Thy Salts Dry Out and Preserve More Flesh Than Bones
Punto di forza dell’opera:
le urla, distruttive come non mai.
Curiosità:
come si legge su Wikipedia:
Ra è il Dio-Sole di Eliopoli nell'antico Egitto. Emerse dalle acque primordiali del Nun ("la parte maschile dell'oceano primordiale prima" della creazione) portato tra le corna della vacca celeste, la dea Mehetueret (la dea della rinascita e della grande inondazione). È spesso rappresentato simbolicamente con un occhio (l'occhio di Ra).
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Questo disco è, come dire?, un sacco strano. E non lo dico soltanto per le bizzarrie stilistiche degli Antiquus Infestus ma anche perché ci sono notevoli differenze fra la prima e la seconda parte, anche dal punto di vista qualitativo. Infatti, e lo scrivo fin da subito, le prime due canzoni sono sì buone ma comunque rivedibili, mentre le restanti sono praticamente un capolavoro… e pensare che il gruppo è lo stesso!
Ma perché gli Antiquus Infestus sono bizzarri? Lo si avverte immediatamente nei titoli lunghissimi, e diventa una conferma durante l’introduzione, esotica e orientale, del pezzo d’apertura. A sua volta, la brevissima intro viene confermata dalla musica stessa, che guardacaso si ciba spesso e volentieri di melodie oscure e orientaleggianti, anche se non si arriva alla contaminazione totale degli Hieros Gamos di “The Sounds of Doom”. Sì, perché il riffing ha forti influenze provenienti dal death metal, e possiede raramente un retrogusto thrasheggiante che gli dà una bella spinta (e ciò avviene più che altro nei primi due brani).
Però, visto l’esotismo di certi riffs, ‘sti ragazzi romagnoli danno particolare importanza al lato più atmosferico della proposta, sparando così prima di tutto dei tempi massicci di stampo sostanzialmente doom, che però concedono non poche volte spazio ad accelerazioni spesso improvvise ma efficaci a base di blast – beats assatanati; e poi degli assoli solitamente molto evocativi, anche se nella seconda parte questa funzione quasi incantatrice viene un po’ abbandonata.
Un altro aspetto decisamente rilevante è il comparto vocale. Il cantato principale infatti è una bomba per come riesce a far rabbrividire essendo un urlo imponente e orgoglioso. Il quale viene accompagnato da un grugnito bello cupo, che però è comunque lontano anni luce dall’impressionare selvaggiamente come quelle urla monumentali.
Come non impressiona veramente la prima parte del demo, vuoi perché la struttura – soffocante nel brano d’apertura, un poco più agile in quello successivo – si ripete, vuoi perché la batteria elettronica non aiuta molto con quelle variazioni sempre uguali in blast. Ma il problema principale deriva a dir la verità dai 2 pezzi finali, nei quali i nostri si sfogano totalmente cambiando in pratica faccia.
Infatti, in questi ultimi avvengono tali cambiamenti:
- la struttura diventa decisamente più imprevedibile e quindi meno vincolata ad uno schema preciso, anche se gli stacchi e/o pause sono sempre rarissimi;
- la chitarra solista assume un’importanza decisamente fondamentale, e fra l’altro viene usata in maniera più fantasiosa e quindi riesce a interpretare meglio le varie situazioni;
- l’utilizzo costante di soluzioni più coraggiose o semplicemente più inusuali per gli Antiquus Infestus.
Da quest’ultimo punto di vista, la terza canzone è esemplare per i seguenti motivi:
1) l’uso predominante dei tempi doom;
2) la presenza di un passaggio rumorista e minaccioso apparentemente non in linea ma alla fine perfettamente coerente con tutto l’insieme;
3) l’assolo sghembo di basso (strano a dirsi per un gruppo del genere);
4) parti soliste di chitarra totalmente impazzite.
Insomma, è un peccato che ‘sti ragazzi non siano riusciti a trasmettere questa stessa capacità di grande inventiva e creazione per tutto il promo. Da un’altra parte invece, è stato saggio infilare proprio alla fine delle canzoni così elaborate e intense. Ma a questo punto è anche vero che così facendo si crea un po’ di confusione. Infatti, sorge la domanda:
CHI SONO I VERI ANTIQUUS INFESTUS?
Ai posteri l’ardua sentenza…
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – The Chapter Of Not Letting The Heart Of A Man Be Snatched Away From Him In Khert-Neter/ 2 – A Hymn to Praise to Ra When He Risese in the Eastern Part of Heaven/ 3 – Let Thy Salts Dry Out and Preserve More Flesh Than Bones/ 4 – I Am the Flame that Illuminates the Millions of Years to Come
MySpace:
http://www.myspace.com/antiquusinfestus
SoundCloud:
http://www.soundcloud.com/antiquusinfestus
Tuesday, June 5, 2012
Burning Nitrum - "Pyromania" (2012)
EP autoprodotto (30 Aprile 2012)
Formazione (2010): Davide Cillo, voce;
Alessandro De Rocco, chitarra;
Francesco Vivarelli, chitarra;
Nico Di Molfetta, basso;
Dario D’Ambrosio, batteria.
Provenienza: Bari, Puglia.
Canzone migliore del disco:
“Old School Anthem”.
Punto di forza dell’opera:
gli assoli.
Formazione (2010): Davide Cillo, voce;
Alessandro De Rocco, chitarra;
Francesco Vivarelli, chitarra;
Nico Di Molfetta, basso;
Dario D’Ambrosio, batteria.
Provenienza: Bari, Puglia.
Canzone migliore del disco:
“Old School Anthem”.
Punto di forza dell’opera:
gli assoli.
Mah, certo che sono un pazzo suicida. Invece di studiare quella palla di Storia Moderna (in 3 mesi di corso abbiamo attraversato 300 anni di storia, tra intrighi di palazzo, massacri indiscriminati e sovrani perennemente idioti) mi metto a recensire il primissimo disco di questo giovine quintetto. Ma, ragazzi, questa è roba che scotta, visto che da queste parti non compariva un gruppo thrash metal da non so quanto tempo (allora, escludendo i romani Satanika e le loro urla black metal, l’ultima banda veramente di questo genere sono stati i palermitani Lamiera… e parliamo di un anno e mezzo fa circa!). Mi sono sempre chiesto il perché di tale situazione ma dal momento che il buco è stato temporaneamente colmato, lascio a voi il compito di filosofeggiare su questa inutile questione.
I Burning Nitrum, lo dico fin da subito, meritano molto, dato che propongono un thrash metal abbastanza dinamico e ben equilibrato fra le varie parti (oddio, tranne in un particolare parecchio importante e di cui parlerò fra poco), anche perché i tipici tempi veloci del genere, mai eccessivamente estremi, non hanno mai la meglio su quelli medio – lenti. Ciò significa che l’intensità viene dosata in maniera saggia e strategica, dando spazio talvolta a qualche – chiamiamola così – eccentricità ritmica, seppur non ci sia nulla di veramente cervellotico.
La cosiddetta eccentricità riguarda più che altro la dimensione solista del gruppo, ben curata e soprattutto potente senza risultare fine a sé stessa. Infatti, la parte strumentale ha un ruolo di primo piano, dato che gli assoli sono spesso belli lunghi e vari, ed equamente alternati fra i due chitarristi. La cosa incredibile è che il riffing è piuttosto standard.
A dir la verità, i nostri non scherzano neanche dal punto di vista strutturale, visto che alcuni pezzi offrono una complessità tale da definire quasi la musica propinata come thrash tecnico. A tal proposito, “Old School Anthem” raggiunge vette notevoli, presentando inoltre un’introduzione da capogiro piena di cambi di tempo e una chiusa praticamente istintiva e selvaggia per come irrompono nel discorso delle accelerazioni brucianti. Lo schema - base delle canzoni è fra l’altro sufficientemente dinamico, pur reggendosi sostanzialmente su delle sequenze più o meno complesse che però talvolta accettano qualche variazione, utile per non meccanizzare il tutto.
Altra caratteristica in sé equilibrante deriva dalla voce, parecchio versatile, incazzata e isterica, la quale passa da parti per dire pulite (attenzione, per “pulito” non intendo melodico) a vari ruggiti, urla e risate assortite. L’intensità trasmessa è spesso mostruosa, e inoltre le linee vocali si rivelano fantasiose e anche un po’ bizzarre (in tal senso, le linee spezzettate di “Thrash Time” sono esemplari). Solo che, paradossalmente, i problemi maggiori vengono proprio dalla voce, vuoi in maniera diretta, vuoi indirettamente. I motivi, che disequilibrano tutto l’insieme, sono i seguenti:
1) i cori risultano troppo impostati e quindi debolucci. Bisognerebbe renderli più selvaggi;
2) le lunghe parti strumentali sottomettono un po’ troppo il cantato, imponendogli un silenzio oltre tombale nonostante la sua grandiosa carica ed espressività;
3) la voce quasi non esiste dopo la parte centrale colma di assoli, e così il tutto diventa abbastanza prevedibile nonché meccanico. Insomma, non sarebbe affatto male per Davide cantare di più.
Ritornando a bomba ai pregi del demo, si aggiunga il merito di aver messo in apertura un brano strumentale (cioè “Enter the Fire”) che mette subito chiaro e tondo le doti tecniche del gruppo senza inventarsi un’intro ambientale perfettamente inutile; una canzone finale ("Pyromania") molto ben congegnata che ha una parte centrale metà ballata con tanto di chitarre acustiche belle atmosferiche e assolo tra il romantico e il minaccioso; e una produzione molto buona e pulita nonostante il demo sia la primissima opera di questa banda.
In conclusione, i nostri sono già pronti per un album, anche perché l'ep è sostanzioso dato che dura circa 20 minuti. E poi hanno sufficiente personalità per farsi rispettare, specie nel proprio lato più tecnico, quindi consiglio di prendere come punto di riferimento per il futuro “Old School Anthem”… sempre, beninteso, nella speranza che il cantato assuma più importanza.
Voto: 76
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Enter the Fire/ 2 – Thrash Time/ 3 – Death is Upon You/ 4 – Old School Anthem/ 5 – Pyromania
FaceBook:
http://www.facebook.com/BurningNitrum
ReverbNation:
http://www.reverbnation.com/burningnitrum
I Burning Nitrum, lo dico fin da subito, meritano molto, dato che propongono un thrash metal abbastanza dinamico e ben equilibrato fra le varie parti (oddio, tranne in un particolare parecchio importante e di cui parlerò fra poco), anche perché i tipici tempi veloci del genere, mai eccessivamente estremi, non hanno mai la meglio su quelli medio – lenti. Ciò significa che l’intensità viene dosata in maniera saggia e strategica, dando spazio talvolta a qualche – chiamiamola così – eccentricità ritmica, seppur non ci sia nulla di veramente cervellotico.
La cosiddetta eccentricità riguarda più che altro la dimensione solista del gruppo, ben curata e soprattutto potente senza risultare fine a sé stessa. Infatti, la parte strumentale ha un ruolo di primo piano, dato che gli assoli sono spesso belli lunghi e vari, ed equamente alternati fra i due chitarristi. La cosa incredibile è che il riffing è piuttosto standard.
A dir la verità, i nostri non scherzano neanche dal punto di vista strutturale, visto che alcuni pezzi offrono una complessità tale da definire quasi la musica propinata come thrash tecnico. A tal proposito, “Old School Anthem” raggiunge vette notevoli, presentando inoltre un’introduzione da capogiro piena di cambi di tempo e una chiusa praticamente istintiva e selvaggia per come irrompono nel discorso delle accelerazioni brucianti. Lo schema - base delle canzoni è fra l’altro sufficientemente dinamico, pur reggendosi sostanzialmente su delle sequenze più o meno complesse che però talvolta accettano qualche variazione, utile per non meccanizzare il tutto.
Altra caratteristica in sé equilibrante deriva dalla voce, parecchio versatile, incazzata e isterica, la quale passa da parti per dire pulite (attenzione, per “pulito” non intendo melodico) a vari ruggiti, urla e risate assortite. L’intensità trasmessa è spesso mostruosa, e inoltre le linee vocali si rivelano fantasiose e anche un po’ bizzarre (in tal senso, le linee spezzettate di “Thrash Time” sono esemplari). Solo che, paradossalmente, i problemi maggiori vengono proprio dalla voce, vuoi in maniera diretta, vuoi indirettamente. I motivi, che disequilibrano tutto l’insieme, sono i seguenti:
1) i cori risultano troppo impostati e quindi debolucci. Bisognerebbe renderli più selvaggi;
2) le lunghe parti strumentali sottomettono un po’ troppo il cantato, imponendogli un silenzio oltre tombale nonostante la sua grandiosa carica ed espressività;
3) la voce quasi non esiste dopo la parte centrale colma di assoli, e così il tutto diventa abbastanza prevedibile nonché meccanico. Insomma, non sarebbe affatto male per Davide cantare di più.
Ritornando a bomba ai pregi del demo, si aggiunga il merito di aver messo in apertura un brano strumentale (cioè “Enter the Fire”) che mette subito chiaro e tondo le doti tecniche del gruppo senza inventarsi un’intro ambientale perfettamente inutile; una canzone finale ("Pyromania") molto ben congegnata che ha una parte centrale metà ballata con tanto di chitarre acustiche belle atmosferiche e assolo tra il romantico e il minaccioso; e una produzione molto buona e pulita nonostante il demo sia la primissima opera di questa banda.
In conclusione, i nostri sono già pronti per un album, anche perché l'ep è sostanzioso dato che dura circa 20 minuti. E poi hanno sufficiente personalità per farsi rispettare, specie nel proprio lato più tecnico, quindi consiglio di prendere come punto di riferimento per il futuro “Old School Anthem”… sempre, beninteso, nella speranza che il cantato assuma più importanza.
Voto: 76
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Enter the Fire/ 2 – Thrash Time/ 3 – Death is Upon You/ 4 – Old School Anthem/ 5 – Pyromania
FaceBook:
http://www.facebook.com/BurningNitrum
ReverbNation:
http://www.reverbnation.com/burningnitrum
Friday, June 1, 2012
Deadly Kiss - "Alone in the Void" (2012)
Ep autoprodotto (2012)
Formazione (2009): Brain Babol, voce/chitarra;
Cricket, chitarra;
Mark, basso;
Chando, batteria.
Provenienza: Comacchio (Ferrara).
Canzone migliore del disco:
“Sister’s Screaming”.
Punto di forza dell’opera:
la voce.
Il Macho metal… scusate ma quando becco un gruppo innamorato, anche se in parte, dei Pantera non posso assolutamente evitare una definizione così sommaria e – ma sì – un filino (ma un filino guarda) “coattona”. Però è anche vero che lo spettro dei Pantera non è che sia poi così invasivo visto che i 4 pezzi di questo demo + intro rispondono a varie influenze, utili per tenere desta l’attenzione dell’ascoltatore. Oddio, desta sì ma, lo dico fin da subito, fino a un certo punto.
Prima di tutto, bisogna dire che i Deadly Kiss (che ad ogni modo prendono il nome da una canzone dei Kyuss) passano da quel thrash metal tutto particolare reso famoso da Anselmo e compagnia (e quindi prim’ancora dagli Exhorder) a svisate più hard rock sconfinando però anche in un rock’n’roll che fa ballare letteralmente il culo (“Brainwash” e “Sister’s Screaming”) grazie a un groove che comunque a volte non viene sfruttato proprio benissimo. Ma in (quasi) ogni caso i tempi non sono mai veramente sostenuti, anche nei momenti più thrasheggianti.
La prova dei singoli elementi in sé è buona, con il batterista sufficientemente dinamico e a dir poco ossessionato dagli uno – due; con i chitarristi abbastanza vari che curiosamente, nonostante i generi di riferimento, sembrano odiare gli assoli, sputando al massimo una seconda linea di chitarra in “My Satan” ; con il bassista che risulta parecchio fondamentale, come nello stacco sempre di “My Satan”, o in “The Grandfather is Dead”.
Il cantante, rispetto ai compagni, si dà un po’ più di licenze, si mostra decisamente versatile così da passare per esempio dai vocalizzi tosti di anselmiana memoria ai toni lamentosi se non perfino sexy di “The Grandfather is Dead” (cazzo… è la prima volta che uso ‘sta parola su queste pagine… aiuto aiuto) e a certa solennità più da heavy metal di “Sister’s Screaming”. A dir la verità non manca neanche qualche bel ruggito, e nemmeno qualche sovraincisione per rendere il tutto più profondo.
Eppure, nonostante tutte queste belle cose, dal punto di vista strutturale le varie canzoni non si reggono così bene dato che i nostri si controllano forse un po’ troppo. Sì, perché vengono riprese e quindi ripetute più o meno le stesse soluzioni, così che alla fine la musica non decolla mai, non esplode. Esemplari a tal proposito “My Satan” (lo stacco di basso poteva essere benissimo seguito da un’incazzatura generale, magari con tanto di assolo) e “The Grandfather is Dead”, la ballata del disco (ferma totalmente alle stesse cose, a dispetto di alcune ottime intuizioni, come la chitarra a tratti goffa ma sensuale…e fra l’altro il fantasma di Glenn Danzig di “Mother” ci sta tutto).
La cosa pazzesca è che, proprio alla fine dell’opera, i Deadly Kiss salvano il salvabile e non solo sparando non un bel pezzo ma un capolavoro nel senso più proprio del termine. “Sister’s Screaming” è infatti un brano finalmente selvaggio, dove i nostri sfogano tutto il proprio finora represso potenziale. La struttura si fa imprevedibile, le sonorità rockeggianti danno spazio talvolta a passaggi praticamente pesanti e minacciosi, e – meglio tardi che mai – non c’è soltanto un assolo ma ben due, anche se attaccati (il secondo è per così dire spaziale visto che è bello effettato). Per non parlare poi dello stacco fenomenale di batteria (che va avanti al ritmo di una cavalcata contagiosa) lungo i momenti finali dell’episodio…
Ecco, quello che mi chiedo ora è:
PERCHE’ I DEADLY KISS SI SONO DECISI A FARE GLI ANARCHICI SOLTANTO ADESSO?
Voto: 64
Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Want Your Brains/ 2 – My Satan/ 3 – Brainwash/ 4 – The Grandfather is Dead/ 5 – Sister’s Screaming
MySpace:
http://www.myspace.com/deadlykisscrew
Formazione (2009): Brain Babol, voce/chitarra;
Cricket, chitarra;
Mark, basso;
Chando, batteria.
Provenienza: Comacchio (Ferrara).
Canzone migliore del disco:
“Sister’s Screaming”.
Punto di forza dell’opera:
la voce.
Il Macho metal… scusate ma quando becco un gruppo innamorato, anche se in parte, dei Pantera non posso assolutamente evitare una definizione così sommaria e – ma sì – un filino (ma un filino guarda) “coattona”. Però è anche vero che lo spettro dei Pantera non è che sia poi così invasivo visto che i 4 pezzi di questo demo + intro rispondono a varie influenze, utili per tenere desta l’attenzione dell’ascoltatore. Oddio, desta sì ma, lo dico fin da subito, fino a un certo punto.
Prima di tutto, bisogna dire che i Deadly Kiss (che ad ogni modo prendono il nome da una canzone dei Kyuss) passano da quel thrash metal tutto particolare reso famoso da Anselmo e compagnia (e quindi prim’ancora dagli Exhorder) a svisate più hard rock sconfinando però anche in un rock’n’roll che fa ballare letteralmente il culo (“Brainwash” e “Sister’s Screaming”) grazie a un groove che comunque a volte non viene sfruttato proprio benissimo. Ma in (quasi) ogni caso i tempi non sono mai veramente sostenuti, anche nei momenti più thrasheggianti.
La prova dei singoli elementi in sé è buona, con il batterista sufficientemente dinamico e a dir poco ossessionato dagli uno – due; con i chitarristi abbastanza vari che curiosamente, nonostante i generi di riferimento, sembrano odiare gli assoli, sputando al massimo una seconda linea di chitarra in “My Satan” ; con il bassista che risulta parecchio fondamentale, come nello stacco sempre di “My Satan”, o in “The Grandfather is Dead”.
Il cantante, rispetto ai compagni, si dà un po’ più di licenze, si mostra decisamente versatile così da passare per esempio dai vocalizzi tosti di anselmiana memoria ai toni lamentosi se non perfino sexy di “The Grandfather is Dead” (cazzo… è la prima volta che uso ‘sta parola su queste pagine… aiuto aiuto) e a certa solennità più da heavy metal di “Sister’s Screaming”. A dir la verità non manca neanche qualche bel ruggito, e nemmeno qualche sovraincisione per rendere il tutto più profondo.
Eppure, nonostante tutte queste belle cose, dal punto di vista strutturale le varie canzoni non si reggono così bene dato che i nostri si controllano forse un po’ troppo. Sì, perché vengono riprese e quindi ripetute più o meno le stesse soluzioni, così che alla fine la musica non decolla mai, non esplode. Esemplari a tal proposito “My Satan” (lo stacco di basso poteva essere benissimo seguito da un’incazzatura generale, magari con tanto di assolo) e “The Grandfather is Dead”, la ballata del disco (ferma totalmente alle stesse cose, a dispetto di alcune ottime intuizioni, come la chitarra a tratti goffa ma sensuale…e fra l’altro il fantasma di Glenn Danzig di “Mother” ci sta tutto).
La cosa pazzesca è che, proprio alla fine dell’opera, i Deadly Kiss salvano il salvabile e non solo sparando non un bel pezzo ma un capolavoro nel senso più proprio del termine. “Sister’s Screaming” è infatti un brano finalmente selvaggio, dove i nostri sfogano tutto il proprio finora represso potenziale. La struttura si fa imprevedibile, le sonorità rockeggianti danno spazio talvolta a passaggi praticamente pesanti e minacciosi, e – meglio tardi che mai – non c’è soltanto un assolo ma ben due, anche se attaccati (il secondo è per così dire spaziale visto che è bello effettato). Per non parlare poi dello stacco fenomenale di batteria (che va avanti al ritmo di una cavalcata contagiosa) lungo i momenti finali dell’episodio…
Ecco, quello che mi chiedo ora è:
PERCHE’ I DEADLY KISS SI SONO DECISI A FARE GLI ANARCHICI SOLTANTO ADESSO?
Voto: 64
Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Want Your Brains/ 2 – My Satan/ 3 – Brainwash/ 4 – The Grandfather is Dead/ 5 – Sister’s Screaming
MySpace:
http://www.myspace.com/deadlykisscrew