Demo (Witchhammer Productions, 6 Giugno 2011)
Formazione (2009): Sattaya, voce/chitarra;
Thaweepat, chitarra;
Sutthinan, basso;
Tanasan, batteria.
Provenienza: Bangkok (Thailandia)
Canzone migliore del disco:
“Goatchrist666”, con tanto di chitarre striscianti.
Punto di forza dell’opera:
ce ne sarebbe più di uno ma se proprio devo decidere, scelgo assolutamente le linee vocali, che sono qualcosa di mostruosamente intenso…e se vogliamo anche “coattone”.
La Thailandia, che paese strano… Sì, perché da questo sputo di terra provengono ben 4 gruppi dediti al culto dei Blasphemy, e questa è una statistica che fa paura se messa a confronto con quanto propina l’Italia, dove formazioni suddette si contano sulle dita di una mano (Mefitic, Blasphemous Noise Torment, Demonomancy, L’Alba Che Mai Verrà…). Invece in Thailandia che trovi? Praticamente solo rozzezza, visto quello che fanno gli Zygoatsis (sicuramente i più famosi e raffinati di questa giovane legione), gli Angelholocaust, i Defamation… e i Goatchrist666, che con il loro secondo demo spazzano tutto e tutti in soli 10 minuti e 4 pezzi, uno migliore dell’altro!
Sì, i pezzi sono brevi, e quindi siamo ben lontani dalle cervellotiche trame dei gruppi canadesi come i Revenge e i Conqueror. E, ovviamente, la struttura delle canzoni è semplice senza risultare mai banale, anche se la seconda parte dell’opera risulta più curata della prima in quanto più fluida e capace di enfatizzare tutto il discorso, magari immettendo dei ponti puntuali e perfetti per collegare due diverse soluzioni. A questo punto, bisogna far osservare che "Destroy. Blasphemy", il brano d’apertura, proviene dalle registrazioni del primo demo datato 2010 (cioè "Blood Ritual")… e si sente, vista la tendenza più marcata nel proporre stacchi e/o pause; tendenza che almeno 2 anni fa rappresentava la debolezza principe di questo quartetto di folli.
Altra differenza con il recente passato è data dall’utilizzo degli assoli, naturalmente mega – rumorista come vuole la tradizione (“Goatomic Holocaust Hell Command” e “Christ Disgusting”), i quali riescono a donare un po’ più di potenza a tutto l’insieme. Che però si fa già rispettare di suo…
Infatti, prima di tutto, i pezzi si sviluppano agilmente dando parecchia importanza al groove, ma a un groove così contagioso che fa ballare il culo manco si stesse parlando di musica dance! In tal caso, la massima espressione viene da “Goatchrist666”, pezzo – bomba ben alternato fra blast – beats assatanati ma vari (è incredibile come il batterista riesca a enfatizzare il lavoro dei propri compagni senza fare apparentemente niente di che!) e tempi medi sui quali vi si trova un riffing praticamente (ed efficacemente) minimalista.
Ma se parliamo della voce succede il finimondo, quello vero. Avete presente le urla indiavolate di Impurath dei Black Witchery? Ecco, ritmatele ancor di più, raffinatele (vabbè certo, sempre nei limiti della pura bestialità, beninteso) e rendetele più fantasiose anche nella costruzione delle linee vocali. Otterrete così un caos controllato e ultra – rabbioso che viene accompagnato qui e là da grugniti cupissimi, tanto per non farsi mancare niente.
Infine, la produzione è a dir poco ottima, seppur i pezzi dispari siano più catacombali e meno, per così dire, limpidi di quelli pari, che invece si mostrano belli sporchi ma senza esagerare. Più nello specifico, la batteria è primitiva ma naturalissima, mentre le chitarre sono grosse e fangose come è tipico del genere, e di conseguenza il basso, che dà prova di un devastante stacco nel pezzo autocelebrativo, è praticamente seppellito dal resto degli strumenti.
Insomma, i Goatchrist666 mi hanno così entusiasmato che un voto altissimo non glielo levo per nessuna ragione al mondo. E a questo punto c’è una buona probabilità che in futuro la nuova patria del black/death metal più bestiale e ignorante sarà proprio la Thailandia. Altro che Canada cazzo!
Voto: 86
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Destroy. Blasphemy/ 2 – Goatomic Holocaust Hell Command/ 3 – Christ Disgusting/ 4 – Goatchrist666
MySpace:
http://www.myspace.com/goatchrist666696
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Thursday, May 31, 2012
Tuesday, May 22, 2012
Faust - "From Glory to Infinity" (2009)
Album (Paragon Records, 9 Settembre 2009)
Formazione (1992): Aleister – voce, chitarra;
Ghiulz Borroni – chitarra;
Steve di Giorgio, basso;
Daray, batteria.
Provenienza: Milano, Lombardia, Stati Uniti – Polonia.
Canzone migliore del disco:
“Servants of Morality”.
Punto di forza dell’opera:
la tensione drammatica che si respira in ogni secondo.
Nota:
faccio presente che recentemente sia il bassista sia il batterista sono stati sostituiti, rispettivamente da Emilio Dattolo degli Illogicist, e Riccardo Merlini.
------------------------------------------------------
Ecco uno di quei gruppi che possono essere definiti di culto, non solo perché sono dei veterani della scena ma anche perché ci hanno messo praticamente un secolo per pubblicare quello che è atutti gli effetti il primo album dei Faust. Un sogno che finalmente si è avverato, e dopo soltanto un demo nel 1993 e un ep nel 2001. Però, va bene tutto, ma se un gruppo è di culto spesso si rischia di essere acritici, e lo scrivo perché “From Glory to Infinity”, pur essendo un disco notevole, presenta qualche mancanza anche parecchio grave per una formazione piena di esperienza come questa.
Parliamo della voce, per esempio. Essa è molto vicina agli stilemi del death metal vecchia scuola essendo un grugnito bello “ignorante” ma sufficientemente dinamico, che rimanda sicuramente a cantanti come Luc Lemay dei Gorguts. Rifltettendo però sui risultati, a volte questo tipo di cantato stride non poco con l’intera musica, la quale è fondamentalmente melodica (tra poco vedremo più nello specifico come), e specialmente in quei momenti in cui la voce si fa più come gorgogliante, quindi più “schifosa”.
Parliamo anche della struttura – tipo dei pezzi. Questi si reggono su un’impalcatura raffinata e imbottita di cambi di tempo. Scrivo “raffinata” anche perché il discorso è soprattutto di tipo collettivo, cioè viene dato pochissimo spazio agli stacchi in solitario e/o pause, ragion per cui la musica si fa in un certo senso soffocante. Ma, se questo da un lato può essere considerato un pregio (infatti, così il gruppo cerca la via più difficile per rendere efficace e potente il proprio operato), dall’altro alcuni cambi di atmosfera sono forse troppo macchinosi e forzati, quindi si rivela indispensabile almeno qualche stacco e/o pausa in più (però attenzione, senza esagerare).
Infine, anche se questo è un difetto di natura più secondaria pur avendo la sua importanza, il suono della batteria è un po’ plasticoso e di conseguenza martellante, anche se comunque non ai livelli dei friulani Sedition.
Ecco, adesso finiamola con questo bel massacro indiscriminato per cominciare a descrivere finalmente i pregi dei Faust.
Prima di tutto, il loro gusto notevole per la melodia, sempre presente e che rarissimamente concede spazio al riffing più cattivo (unico esempio nel vero senso della parola è “Servants of Morality”). Le melodie risentono spesso e volentieri di un’influenza forse proveniente dalla musica classica, ma quello che più sorprende è l’atmosfera da esse trasmessa, di tipo romantico/decadente ma comunque profondamente passionale (non a caso, il nome Faust non mi sembra sia stato scelto così, anzi).
Tale estrema passionalità viene enfatizzata essenzialmente da 2 interessanti caratteristiche, se non addirittura 3:
1) la continua tensione solista, che permette specialmente alle chitarre, da ritenersi quali le assolute protagoniste, di partorire numerosi assoli (almeno 2 per canzone) e di usare inoltre le due asce in maniera creativa, avvolgendo così l’ascoltatore;
2) per quest’ultima funzione, ci pensa anche il basso (e non poteva essere altrimenti visto il personaggio coinvolto!) che però, rispetto ad altri gruppi come gli Illogicist, ha un campo d’azione più limitato;
3) i vari momenti (talvolta acustici) di impronta più atmosferica presenti qui e là, i quali possono raggiungere livelli altissimi di melodia da riuscire perfino struggenti, per buona grazia dei metallazzi che vogliono soltanto sangue e distruzione.
Eppure, questi dovrebbero essere lo stesso contenti dato che i Faust, nonostante tutte ‘ste raffinatezze descritte (fra cui addirittura due brevi e avvolgenti strumentali di 2 minuti, cioè "Pig God Dog" e "A Religion - Free World's Dream"), danno parecchia importanza ai tempi più veloci, compresi i blast – beats, che sono decisamente più presenti che in altri gruppi di death progressivo.
Infine, c’è da parlare della produzione, la quale è tremendamente pulita e capace di valorizzare tutti gli strumenti, grazie a un bilanciamento dei suoni ben dosato e mai discriminatorio.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Purple Children/ 2 – Wet Veils/ 3 – Sentimental Worship/ 4 – Golden Wine Countess/ 5 – Servants of Morality/ 6 – Carnal Beatitude/ 7 - Pig God Dog/ 8 – Holy Hole/ 9 – A Religion – Free World’s Dream
MySpace:
http://www.myspace.com/faustband2
Sito ufficiale:
http://www.deathmetal.it
Formazione (1992): Aleister – voce, chitarra;
Ghiulz Borroni – chitarra;
Steve di Giorgio, basso;
Daray, batteria.
Provenienza: Milano, Lombardia, Stati Uniti – Polonia.
Canzone migliore del disco:
“Servants of Morality”.
Punto di forza dell’opera:
la tensione drammatica che si respira in ogni secondo.
Nota:
faccio presente che recentemente sia il bassista sia il batterista sono stati sostituiti, rispettivamente da Emilio Dattolo degli Illogicist, e Riccardo Merlini.
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Ecco uno di quei gruppi che possono essere definiti di culto, non solo perché sono dei veterani della scena ma anche perché ci hanno messo praticamente un secolo per pubblicare quello che è atutti gli effetti il primo album dei Faust. Un sogno che finalmente si è avverato, e dopo soltanto un demo nel 1993 e un ep nel 2001. Però, va bene tutto, ma se un gruppo è di culto spesso si rischia di essere acritici, e lo scrivo perché “From Glory to Infinity”, pur essendo un disco notevole, presenta qualche mancanza anche parecchio grave per una formazione piena di esperienza come questa.
Parliamo della voce, per esempio. Essa è molto vicina agli stilemi del death metal vecchia scuola essendo un grugnito bello “ignorante” ma sufficientemente dinamico, che rimanda sicuramente a cantanti come Luc Lemay dei Gorguts. Rifltettendo però sui risultati, a volte questo tipo di cantato stride non poco con l’intera musica, la quale è fondamentalmente melodica (tra poco vedremo più nello specifico come), e specialmente in quei momenti in cui la voce si fa più come gorgogliante, quindi più “schifosa”.
Parliamo anche della struttura – tipo dei pezzi. Questi si reggono su un’impalcatura raffinata e imbottita di cambi di tempo. Scrivo “raffinata” anche perché il discorso è soprattutto di tipo collettivo, cioè viene dato pochissimo spazio agli stacchi in solitario e/o pause, ragion per cui la musica si fa in un certo senso soffocante. Ma, se questo da un lato può essere considerato un pregio (infatti, così il gruppo cerca la via più difficile per rendere efficace e potente il proprio operato), dall’altro alcuni cambi di atmosfera sono forse troppo macchinosi e forzati, quindi si rivela indispensabile almeno qualche stacco e/o pausa in più (però attenzione, senza esagerare).
Infine, anche se questo è un difetto di natura più secondaria pur avendo la sua importanza, il suono della batteria è un po’ plasticoso e di conseguenza martellante, anche se comunque non ai livelli dei friulani Sedition.
Ecco, adesso finiamola con questo bel massacro indiscriminato per cominciare a descrivere finalmente i pregi dei Faust.
Prima di tutto, il loro gusto notevole per la melodia, sempre presente e che rarissimamente concede spazio al riffing più cattivo (unico esempio nel vero senso della parola è “Servants of Morality”). Le melodie risentono spesso e volentieri di un’influenza forse proveniente dalla musica classica, ma quello che più sorprende è l’atmosfera da esse trasmessa, di tipo romantico/decadente ma comunque profondamente passionale (non a caso, il nome Faust non mi sembra sia stato scelto così, anzi).
Tale estrema passionalità viene enfatizzata essenzialmente da 2 interessanti caratteristiche, se non addirittura 3:
1) la continua tensione solista, che permette specialmente alle chitarre, da ritenersi quali le assolute protagoniste, di partorire numerosi assoli (almeno 2 per canzone) e di usare inoltre le due asce in maniera creativa, avvolgendo così l’ascoltatore;
2) per quest’ultima funzione, ci pensa anche il basso (e non poteva essere altrimenti visto il personaggio coinvolto!) che però, rispetto ad altri gruppi come gli Illogicist, ha un campo d’azione più limitato;
3) i vari momenti (talvolta acustici) di impronta più atmosferica presenti qui e là, i quali possono raggiungere livelli altissimi di melodia da riuscire perfino struggenti, per buona grazia dei metallazzi che vogliono soltanto sangue e distruzione.
Eppure, questi dovrebbero essere lo stesso contenti dato che i Faust, nonostante tutte ‘ste raffinatezze descritte (fra cui addirittura due brevi e avvolgenti strumentali di 2 minuti, cioè "Pig God Dog" e "A Religion - Free World's Dream"), danno parecchia importanza ai tempi più veloci, compresi i blast – beats, che sono decisamente più presenti che in altri gruppi di death progressivo.
Infine, c’è da parlare della produzione, la quale è tremendamente pulita e capace di valorizzare tutti gli strumenti, grazie a un bilanciamento dei suoni ben dosato e mai discriminatorio.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Purple Children/ 2 – Wet Veils/ 3 – Sentimental Worship/ 4 – Golden Wine Countess/ 5 – Servants of Morality/ 6 – Carnal Beatitude/ 7 - Pig God Dog/ 8 – Holy Hole/ 9 – A Religion – Free World’s Dream
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Friday, May 18, 2012
Last Cold Crash - "Origini della Forma: Elefanti e Girondini" (2009)
Ep autoprodotto (2009)
Formazione (2008): Timmy, voce;
Gianma, chitarra/voce;
Thomas, basso;
Luca, batteria.
Provenienza: Parma, Emila – Romagna.
Canzone migliore dell’opera:
“Sole di Mezzanotte”.
Punto di forza del disco:
sicuramente la pazzia e il coraggio che permea tutta l’esperienza.
Nota:
avviso che il gruppo si è purtroppo sciolto, e fra l'altro da pochissimo.
------------------------------------------
Roba veramente strana quella che mi tocca recensire oggi. Roba fuori da ogni regola possibile e immaginabile tanto da far felice molto probabilmente gente come gli Husker Du più sperimentali o gli ultimi Black Flag, se non addirittura i Saccharine Trust, cioè i pionieri (beh, più o meno) del cosiddetto jazzcore. Definizione questa che potrebbe essere adatta per descrivere lo sterminio sonoro dei Last Cold Crash, che per la verità si cibano delle più diverse influenze per mettere quasi a disagio l’ascoltatore di turno. Il quale si ritrova disarmato, alla mercè di 3 pezzi belli intensi (anche se comunque abbastanza imperfetti), e praticamente senza nessun punto di riferimento preciso, nonostante la partenza quasi classica del disco.
Sì, perché esso comincia sotto le sembianze di un punk – HC melodico. Ma è solo un’illusione visto che a poco a poco si intravvede l’anima jazz disturbante del gruppo fino a proporre i virtuosismi di una batteria impazzita che non conosce assolutamente tregua. E il delirio continua sparando nel finale addirittura delle tastiere inquietanti che si intrecciano in un tempo medio compatto. Il tutto si risolve in poco meno di 2 minuti. E’ il trionfo del caos ma è anche il trionfo di una sintesi che arriva dritto al punto senza perdere niente per strada. Neanche quella voce, un urlo lacerante e totalmente schizzato ai limiti del collasso (che alle volte dà spazio a un urlo un po’ più tipico e familiare), che nel finale del seguente pezzo diventa addirittura terribilmente disperato.
Ma è partire da “Autocensura di un Candelabro” che i nostri esagerano in tutto, anche per quanto riguarda il minutaggio, ora salito addirittura a quasi 5 minuti! In tutto questo arco di tempo i nostri sfogano il proprio lato più strumentale (non dimenticando perfino di sperimentare con qualche effetto da studio), vomitando per esempio:
un’introduzione molto ballabile e dall’intreccio di melodie a dir poco stupendo che sfocia poi in un tempo medio dal riffing melodico e quasi implorante;
dei momenti molto atmosferici dalle chitarre accennate con tanto di grondanti tom – tom a dettar legge;
e assalti di puro noise in cui sembra che tutto vada in pezzi, magari introducendoli da una lunga pausa apparentemente pacifica (e vi assicuro che questa ogni volta fa molto male!).
Dentro tale piacevole e delirante “casino” vi è però qualcosa che non quadra, ed è da individuare negli ultimi attimi del pezzo. Infatti, all’improvviso si riprende uno dei passaggi iniziali, ma forse questo ritorno è troppo forzato perché dal punto di vista emotivo risulta staccato dal resto della canzone, la quale viene allungata pur avendo detto tutto quello che c’era da dire attraverso quelle fughe senza controllo sopradescritte.
Il bello è che con “Der Planet Der Kleinen Affen” si toccano altri lidi di pazzia e stavolta in poco meno di 4 minuti, introdotti da un boogie contagiosissimo che fa ballare decisamente il culo. Eppure, si riesce a trovare per l’ennesima volta il modo per cambiare totalmente l’atmosfera anche se gli uno – due della batteria rimangono una costante, dato che il riffing si fa a poco a poco tetro e quasi black metal. E così si rimane ingabbiati in un abisso che conosce piccole variazioni derivanti più che altro dall’istrionismo del batterista. E dico peccato perché il riffing che ha un potenziale decisamente atmosferico che però non è stato sfruttato bene, magari sovrapponendo una seconda linea di chitarra atta a completare la prima. E invece si arriva alla lentissima dissolvenza quasi senza colpo ferire.
Insomma, l’opera prima dei Last Cold Crash è un esperimento riuscito per metà che però ha mostrato un gruppo dalle potenzialità quasi aliene e che curiosamente riesce a fare le cose migliori quando comincia a strafare. E fra l’altro seguendo una struttura – tipo (quasi) totalmente esente dai vincoli spesso soffocanti della forma – canzone e suoi derivati. Ecco spiegato il voto apparentemente alto, a dispetto di una capacità di concludere i pezzi ancora da correggere parecchio.
Voto: 71
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sole di Mezzanotte/ 2 – Autocensura di un Candelabro/ 3 – Der Planet Der Kleinen Affen
MySpace:
http://www.myspace.com/lastcoldcrash
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/LAST-COLD-CRASH/55088951772
Formazione (2008): Timmy, voce;
Gianma, chitarra/voce;
Thomas, basso;
Luca, batteria.
Provenienza: Parma, Emila – Romagna.
Canzone migliore dell’opera:
“Sole di Mezzanotte”.
Punto di forza del disco:
sicuramente la pazzia e il coraggio che permea tutta l’esperienza.
Nota:
avviso che il gruppo si è purtroppo sciolto, e fra l'altro da pochissimo.
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Roba veramente strana quella che mi tocca recensire oggi. Roba fuori da ogni regola possibile e immaginabile tanto da far felice molto probabilmente gente come gli Husker Du più sperimentali o gli ultimi Black Flag, se non addirittura i Saccharine Trust, cioè i pionieri (beh, più o meno) del cosiddetto jazzcore. Definizione questa che potrebbe essere adatta per descrivere lo sterminio sonoro dei Last Cold Crash, che per la verità si cibano delle più diverse influenze per mettere quasi a disagio l’ascoltatore di turno. Il quale si ritrova disarmato, alla mercè di 3 pezzi belli intensi (anche se comunque abbastanza imperfetti), e praticamente senza nessun punto di riferimento preciso, nonostante la partenza quasi classica del disco.
Sì, perché esso comincia sotto le sembianze di un punk – HC melodico. Ma è solo un’illusione visto che a poco a poco si intravvede l’anima jazz disturbante del gruppo fino a proporre i virtuosismi di una batteria impazzita che non conosce assolutamente tregua. E il delirio continua sparando nel finale addirittura delle tastiere inquietanti che si intrecciano in un tempo medio compatto. Il tutto si risolve in poco meno di 2 minuti. E’ il trionfo del caos ma è anche il trionfo di una sintesi che arriva dritto al punto senza perdere niente per strada. Neanche quella voce, un urlo lacerante e totalmente schizzato ai limiti del collasso (che alle volte dà spazio a un urlo un po’ più tipico e familiare), che nel finale del seguente pezzo diventa addirittura terribilmente disperato.
Ma è partire da “Autocensura di un Candelabro” che i nostri esagerano in tutto, anche per quanto riguarda il minutaggio, ora salito addirittura a quasi 5 minuti! In tutto questo arco di tempo i nostri sfogano il proprio lato più strumentale (non dimenticando perfino di sperimentare con qualche effetto da studio), vomitando per esempio:
un’introduzione molto ballabile e dall’intreccio di melodie a dir poco stupendo che sfocia poi in un tempo medio dal riffing melodico e quasi implorante;
dei momenti molto atmosferici dalle chitarre accennate con tanto di grondanti tom – tom a dettar legge;
e assalti di puro noise in cui sembra che tutto vada in pezzi, magari introducendoli da una lunga pausa apparentemente pacifica (e vi assicuro che questa ogni volta fa molto male!).
Dentro tale piacevole e delirante “casino” vi è però qualcosa che non quadra, ed è da individuare negli ultimi attimi del pezzo. Infatti, all’improvviso si riprende uno dei passaggi iniziali, ma forse questo ritorno è troppo forzato perché dal punto di vista emotivo risulta staccato dal resto della canzone, la quale viene allungata pur avendo detto tutto quello che c’era da dire attraverso quelle fughe senza controllo sopradescritte.
Il bello è che con “Der Planet Der Kleinen Affen” si toccano altri lidi di pazzia e stavolta in poco meno di 4 minuti, introdotti da un boogie contagiosissimo che fa ballare decisamente il culo. Eppure, si riesce a trovare per l’ennesima volta il modo per cambiare totalmente l’atmosfera anche se gli uno – due della batteria rimangono una costante, dato che il riffing si fa a poco a poco tetro e quasi black metal. E così si rimane ingabbiati in un abisso che conosce piccole variazioni derivanti più che altro dall’istrionismo del batterista. E dico peccato perché il riffing che ha un potenziale decisamente atmosferico che però non è stato sfruttato bene, magari sovrapponendo una seconda linea di chitarra atta a completare la prima. E invece si arriva alla lentissima dissolvenza quasi senza colpo ferire.
Insomma, l’opera prima dei Last Cold Crash è un esperimento riuscito per metà che però ha mostrato un gruppo dalle potenzialità quasi aliene e che curiosamente riesce a fare le cose migliori quando comincia a strafare. E fra l’altro seguendo una struttura – tipo (quasi) totalmente esente dai vincoli spesso soffocanti della forma – canzone e suoi derivati. Ecco spiegato il voto apparentemente alto, a dispetto di una capacità di concludere i pezzi ancora da correggere parecchio.
Voto: 71
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sole di Mezzanotte/ 2 – Autocensura di un Candelabro/ 3 – Der Planet Der Kleinen Affen
MySpace:
http://www.myspace.com/lastcoldcrash
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/LAST-COLD-CRASH/55088951772
Monday, May 14, 2012
Illogicist - "The Unconsciousness of Living" (2011)
Album (Willowtip Records, 1 Novembre 2011)
Formazione (1997): Luca Minieri, voce/chitarra;
Diego Ambrosi, chitarra;
Emilio Dattolo, basso;
Alessandro Tinti, batteria.
Provenienza: Aosta, Val d’Aosta.
Canzone migliore dell’opera:
“The Same Old Collision”.
Punto di forza del disco:
la capacità di differenziare ottimamente i pezzi dal punto di vista atmosferico.
Nota:
il gruppo sta cercando un batterista che sostituisca il defezionario Alessandro Tinti.
Oggi ci tocca parlare di un altro gruppo classificabile come death metal tecnico, anche se stavolta con derive più progressive, per buona grazia dei tanti lettori grezzi e “ignoranti” di questa puzzolente webzine. Ma il colpo è addirittura doppio per quei lettori che vogliono informarsi solo sull’(ultra) – Underground, dato che gli Illogicist sono uno dei gruppi più conosciuti della nostra scena estrema. Però ciò non significa che con il passare del tempo questi 4 aostani si siano rincojoniti, anzi, la qualità dell’album è indiscutibile. Come è altrettanto indiscutibile il loro amore per i Death più complicati e meno melodici.
Infatti, per dirne una, la voce, un urlo quasi soffocato, è molto simile a quello di Evil Chuck, anche perché pure qui si è totalmente incapaci di proporre altri tipi di cantato, quindi non aspettatevi niente di minimamente paragonabile all’eclettismo spinto dei Chaos Plague. Inoltre, il cantante, pur non toccando i livelli esagerati degli abruzzesi Resumed, spesso va in letargo per far sfogare i numerosi passaggi strumentali, ragion per cui non è proprio difficile prevedere in quali punti il nostro interviene.
Ma tale caratteristica non dà comunque per niente fastidio vista la grandiosa dinamicità dei pezzi, ricchi sia di cambi di tempo, che nonostante il genere danno parecchia importanza ai ritmi più veloci se non ai blast – beats; sia di un riffing bello dinamico e quasi enigmatico, similmente ai Death, dando inoltre spazio a parti soliste dosate per bene (si possono trovare infatti massimo 2 assoli per pezzo) e cattive e creative al punto giusto.
Ad aggiungere ulteriore dinamicità ci pensa anche il basso, a dir poco fondamentale per i nostri essendo capace per esempio di disegnare linee melodiche fantasiose e avvolgenti, soprattutto in canzoni come "Perceptions from a Deceiving Memory" nella quale talvolta lo strumento a tratti sostituisce le chitarre. Inoltre, ho apprezzato molto il fatto che il basso sia stato messo in primo piano, piuttosto che sotterrarlo come è invece uso in campo estremo.
Un aspetto molto interessante dell’album è che sembra sia stato diviso idealmente in 3 parti, l’una più riuscita dell’altra:
- la prima è costituita dalla sola canzone d’apertura, cioè "Ghosts of Unconsciousness", la quale dal punto di vista strutturale è sì meno sequenziale e più libera rispetto agli altri episodi ma ritmicamente è anche quella più… “tranquilla” (che strano termine…);
- con la seconda, a partire da "Hypnotized" in poi, comincia l’odissea in una formula più decisa e convinta di death metal tecnico. Quindi, il discorso si fa più isterico (a volte fin troppo) e pesante oltreché più sequenziale, seppur non abbracciando mai quell’approccio spesso rigido, disciplinato e in fondo abbastanza prevedibile caro ai Death. Bisogna dire fra l’altro che questa è con molta probabilità la parte più convincente, specialmente atmosfericamente parlando. A tal proposito, non si dimenticano facilmente i fatalismi quasi black metal di "Perceptions from a Deceiving Memory" e neanche l’andamento a tratti spaventosamente robotico di "The Mind Reaper";
- la terza parte si ha più o meno da "The Same Old Collision" alla fine, essendo costituita da soluzioni meno usuali per un gruppo del genere. Più nello specifico e per dare qualche esempio, "The Same Old Collision" ha un lungo passaggio in tapping quasi disorientante, mentre "Misery of a Profaned Soul" presenta un lavoro da parte delle due chitarre un pochino più accentuato che negli altri episodi. Ergo, dal punto di vista stilistico gli Illogicist si sono presi più rischi e libertà a fine album, quasi per dare il tocco finale a un disco già in sé distruttivo.
Eppure, nonostante tutta questa varietà, è sempre piuttosto forte la tendenza a offrire stacchi se non pause alle volte un po’ troppo invasivi e per questo meccanici. Oddio, non si arriva ai livelli estremi di gruppi come i Vortex of End, però per una formazione bella tecnica come gli Illogicist tale caratteristica stona un tantino.
Epperò questa è una lacuna che non rovina poi così tanto l’esperienza dati i grandiosi picchi di intensità trasmessi in canzoni lunghe mediamente 5 minuti, durata quindi non molto facile da gestire (almeno per un novellino). Di conseguenza, i complimenti più sentiti ci stanno tutti.
Voto: 84
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Ghosts of Unconsciousness/ 2 – Hypnotized/ 3 – Perceptions from a Deceiving Memory/ 4 – The Mind Reaper/ 5 – A Past Defeated Suffering/ 6 – The Same Old Collision/ 7 – Misery of a Profaned Soul/ 8 – A Never Ending Fall
MySpace:
http://www.myspace.com/illogicist
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/ILLOGICIST/40008043726
Sito ufficiale:
http://www.illogicist.com/
Formazione (1997): Luca Minieri, voce/chitarra;
Diego Ambrosi, chitarra;
Emilio Dattolo, basso;
Alessandro Tinti, batteria.
Provenienza: Aosta, Val d’Aosta.
Canzone migliore dell’opera:
“The Same Old Collision”.
Punto di forza del disco:
la capacità di differenziare ottimamente i pezzi dal punto di vista atmosferico.
Nota:
il gruppo sta cercando un batterista che sostituisca il defezionario Alessandro Tinti.
Oggi ci tocca parlare di un altro gruppo classificabile come death metal tecnico, anche se stavolta con derive più progressive, per buona grazia dei tanti lettori grezzi e “ignoranti” di questa puzzolente webzine. Ma il colpo è addirittura doppio per quei lettori che vogliono informarsi solo sull’(ultra) – Underground, dato che gli Illogicist sono uno dei gruppi più conosciuti della nostra scena estrema. Però ciò non significa che con il passare del tempo questi 4 aostani si siano rincojoniti, anzi, la qualità dell’album è indiscutibile. Come è altrettanto indiscutibile il loro amore per i Death più complicati e meno melodici.
Infatti, per dirne una, la voce, un urlo quasi soffocato, è molto simile a quello di Evil Chuck, anche perché pure qui si è totalmente incapaci di proporre altri tipi di cantato, quindi non aspettatevi niente di minimamente paragonabile all’eclettismo spinto dei Chaos Plague. Inoltre, il cantante, pur non toccando i livelli esagerati degli abruzzesi Resumed, spesso va in letargo per far sfogare i numerosi passaggi strumentali, ragion per cui non è proprio difficile prevedere in quali punti il nostro interviene.
Ma tale caratteristica non dà comunque per niente fastidio vista la grandiosa dinamicità dei pezzi, ricchi sia di cambi di tempo, che nonostante il genere danno parecchia importanza ai ritmi più veloci se non ai blast – beats; sia di un riffing bello dinamico e quasi enigmatico, similmente ai Death, dando inoltre spazio a parti soliste dosate per bene (si possono trovare infatti massimo 2 assoli per pezzo) e cattive e creative al punto giusto.
Ad aggiungere ulteriore dinamicità ci pensa anche il basso, a dir poco fondamentale per i nostri essendo capace per esempio di disegnare linee melodiche fantasiose e avvolgenti, soprattutto in canzoni come "Perceptions from a Deceiving Memory" nella quale talvolta lo strumento a tratti sostituisce le chitarre. Inoltre, ho apprezzato molto il fatto che il basso sia stato messo in primo piano, piuttosto che sotterrarlo come è invece uso in campo estremo.
Un aspetto molto interessante dell’album è che sembra sia stato diviso idealmente in 3 parti, l’una più riuscita dell’altra:
- la prima è costituita dalla sola canzone d’apertura, cioè "Ghosts of Unconsciousness", la quale dal punto di vista strutturale è sì meno sequenziale e più libera rispetto agli altri episodi ma ritmicamente è anche quella più… “tranquilla” (che strano termine…);
- con la seconda, a partire da "Hypnotized" in poi, comincia l’odissea in una formula più decisa e convinta di death metal tecnico. Quindi, il discorso si fa più isterico (a volte fin troppo) e pesante oltreché più sequenziale, seppur non abbracciando mai quell’approccio spesso rigido, disciplinato e in fondo abbastanza prevedibile caro ai Death. Bisogna dire fra l’altro che questa è con molta probabilità la parte più convincente, specialmente atmosfericamente parlando. A tal proposito, non si dimenticano facilmente i fatalismi quasi black metal di "Perceptions from a Deceiving Memory" e neanche l’andamento a tratti spaventosamente robotico di "The Mind Reaper";
- la terza parte si ha più o meno da "The Same Old Collision" alla fine, essendo costituita da soluzioni meno usuali per un gruppo del genere. Più nello specifico e per dare qualche esempio, "The Same Old Collision" ha un lungo passaggio in tapping quasi disorientante, mentre "Misery of a Profaned Soul" presenta un lavoro da parte delle due chitarre un pochino più accentuato che negli altri episodi. Ergo, dal punto di vista stilistico gli Illogicist si sono presi più rischi e libertà a fine album, quasi per dare il tocco finale a un disco già in sé distruttivo.
Eppure, nonostante tutta questa varietà, è sempre piuttosto forte la tendenza a offrire stacchi se non pause alle volte un po’ troppo invasivi e per questo meccanici. Oddio, non si arriva ai livelli estremi di gruppi come i Vortex of End, però per una formazione bella tecnica come gli Illogicist tale caratteristica stona un tantino.
Epperò questa è una lacuna che non rovina poi così tanto l’esperienza dati i grandiosi picchi di intensità trasmessi in canzoni lunghe mediamente 5 minuti, durata quindi non molto facile da gestire (almeno per un novellino). Di conseguenza, i complimenti più sentiti ci stanno tutti.
Voto: 84
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Ghosts of Unconsciousness/ 2 – Hypnotized/ 3 – Perceptions from a Deceiving Memory/ 4 – The Mind Reaper/ 5 – A Past Defeated Suffering/ 6 – The Same Old Collision/ 7 – Misery of a Profaned Soul/ 8 – A Never Ending Fall
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http://www.illogicist.com/
Wednesday, May 9, 2012
Chaos Plague - "Chaos Plague" (2012)
Ep autoprodotto (3 Gennaio 2012)
Formazione (2005): Francesco Patea, voce;
Davide Luraghi, chitarra ritmica;
Simone Fontana, chitarra solista;
Matteo Silvestrini, basso fretless;
Stefano Tarsitano, batteria.
Provenienza: Mozzate (Como), Lombardia.
Canzone migliore dell’opera:
“Sinner’s Regret”.
Punto di forza del disco:
i vari contrasti presenti.
I Chaos Plague sono uno di quei gruppi da mal di testa che tanto piacciono a me, visto che propongono quello che io amo definire come death metal tecnico, seppur offerto, a differenza dei Queiron (altro gruppo del genere il cui “Impious Domination” l’ho recensito circa un mese fa), in senso moderno. Eppure i Chaos Plague, nonostante non siano vecchia scuola, sanno sparare quintali di cattiveria che farebbero paura perfino ai Ritual Necromancy. Eh già, perché da queste parti si è capito totalmente come la si dovrebbe esprimere con la tecnica più strafottente.
Prima di tutto, bisogna dire che la ritmicità dei Chaos Plague è veramente di un nervosismo ai limiti del collasso, visto che non solo i cambi di tempo sono molti così da raggiungere occasionalmente velocità blasteggianti, ma anche che il groove è quasi totalmente assente, a dispetto di un retrogusto thrasheggiante che si fa vivo in certe occasioni.
Il settore chitarre non è assolutamente da meno. Esse infatti, a un andamento spesso arzigogolato aggiungono una cattiveria frastornante e inesorabile. Ma la cosa incredibile è che si riesce a creare un contrasto praticamente perfetto con le parti soliste, dato che queste sono generalmente melodiche, se non addirittura dolci (e talvolta acustiche)(“Sinner’s Regret”). Non a caso, gli assoli, sempre dosati per bene (se ne trova uno a canzone, quindi niente di esagerato), fanno bella figura di sé solitamente nei passaggi più atmosferici (da menzionare soprattutto quello semi – psichedelico di “Chirality”, tour de force di 7 minuti); passaggi che poi enfatizzano ottimamente i soli per il tramite di piccoli ma importanti accorgimenti strutturali, così da rendere anche più imprevedibile il discorso.
I Chaos Plague effettivamente vivono di contrasti. Ne è un altro esempio lampante il comparto vocale, autore di un’alternanza fra un grugnito cupo ma dinamico e un urlo scartavetrato, il quale però funge più che altro da supporto essendo utilizzato con il contagocce. Ma ovviamente non ci si ferma qui, visto che talvolta si canta anche in pulito, passando così da voci minacciose e più o meno narrative a eroismi più da heavy metal se non voci quasi estatiche.
Tale splendida varietà la si evince anche nell’impianto strutturale avendo ogni pezzo una precisa identità pure da questo punto di vista. A tal proposito, “Chirality” è sicuramente la più schematica e sequenziale; “In Death I Trust” ha alcune delle evoluzioni più rapide e complicate di tutto il lotto (i primi momenti sono da montagne russe); “Sinner’s Regret” è quello più soffocante e ossessivo, ma anche quello più convincente.
Infatti, “Sinner’s Regret”, atmosfericamente parlando, è la canzone che trasmette di più, soprattutto per quanto concerne il finale, veramente da incubo e tutto fondato su una calma apparente che viene aperta (e conclusa) da un basso (dal suono meravigliosamente fragile – non a caso è un basso fretless) goffo e ubriaco. Nei momenti successivi, le chitarre si sfogano prima con un (secondo) assolo quasi romantico e poi con una chiusa dalle melodie allucinanti, riuscendo così a concludere nel modo più efficace un ep fantastico di 17 minuti.
In tutto questo affresco musicale di rara intensità non ho trovato lacune importanti, se non un suono di batteria un po’ troppo plastico; e degli stacchi non sempre perfetti perché legati forzatamente e destinati, senza volerlo, a far scemare un poco l’assalto (ciò almeno avviene in “In Death I Trust”). Per il resto, assolutamente niente da eccepire.
Infine, bisogna sottolineare che “In Death I Trust” e “Sinner’s Regret” sono ri – registrazioni provenienti dal primo demo, “Virus”. E io qui non posso far altro che complimentarmi ancora una volta con il gruppo visto che non ci ha pensato 2 volte a modificare i due brani, anche in maniera consistente (ciò vale soprattutto per “Sinner’s Regret”, accorciata addirittura di 2 minuti), secondo il diverso momento storico.
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In Death I Trust/ 2 – Chirality/ 3 – Sinner’s Regret
MySpace:
http://www.myspace.com/chaosplague
Sito ufficiale:
http://www.chaosplague.it/
Formazione (2005): Francesco Patea, voce;
Davide Luraghi, chitarra ritmica;
Simone Fontana, chitarra solista;
Matteo Silvestrini, basso fretless;
Stefano Tarsitano, batteria.
Provenienza: Mozzate (Como), Lombardia.
Canzone migliore dell’opera:
“Sinner’s Regret”.
Punto di forza del disco:
i vari contrasti presenti.
I Chaos Plague sono uno di quei gruppi da mal di testa che tanto piacciono a me, visto che propongono quello che io amo definire come death metal tecnico, seppur offerto, a differenza dei Queiron (altro gruppo del genere il cui “Impious Domination” l’ho recensito circa un mese fa), in senso moderno. Eppure i Chaos Plague, nonostante non siano vecchia scuola, sanno sparare quintali di cattiveria che farebbero paura perfino ai Ritual Necromancy. Eh già, perché da queste parti si è capito totalmente come la si dovrebbe esprimere con la tecnica più strafottente.
Prima di tutto, bisogna dire che la ritmicità dei Chaos Plague è veramente di un nervosismo ai limiti del collasso, visto che non solo i cambi di tempo sono molti così da raggiungere occasionalmente velocità blasteggianti, ma anche che il groove è quasi totalmente assente, a dispetto di un retrogusto thrasheggiante che si fa vivo in certe occasioni.
Il settore chitarre non è assolutamente da meno. Esse infatti, a un andamento spesso arzigogolato aggiungono una cattiveria frastornante e inesorabile. Ma la cosa incredibile è che si riesce a creare un contrasto praticamente perfetto con le parti soliste, dato che queste sono generalmente melodiche, se non addirittura dolci (e talvolta acustiche)(“Sinner’s Regret”). Non a caso, gli assoli, sempre dosati per bene (se ne trova uno a canzone, quindi niente di esagerato), fanno bella figura di sé solitamente nei passaggi più atmosferici (da menzionare soprattutto quello semi – psichedelico di “Chirality”, tour de force di 7 minuti); passaggi che poi enfatizzano ottimamente i soli per il tramite di piccoli ma importanti accorgimenti strutturali, così da rendere anche più imprevedibile il discorso.
I Chaos Plague effettivamente vivono di contrasti. Ne è un altro esempio lampante il comparto vocale, autore di un’alternanza fra un grugnito cupo ma dinamico e un urlo scartavetrato, il quale però funge più che altro da supporto essendo utilizzato con il contagocce. Ma ovviamente non ci si ferma qui, visto che talvolta si canta anche in pulito, passando così da voci minacciose e più o meno narrative a eroismi più da heavy metal se non voci quasi estatiche.
Tale splendida varietà la si evince anche nell’impianto strutturale avendo ogni pezzo una precisa identità pure da questo punto di vista. A tal proposito, “Chirality” è sicuramente la più schematica e sequenziale; “In Death I Trust” ha alcune delle evoluzioni più rapide e complicate di tutto il lotto (i primi momenti sono da montagne russe); “Sinner’s Regret” è quello più soffocante e ossessivo, ma anche quello più convincente.
Infatti, “Sinner’s Regret”, atmosfericamente parlando, è la canzone che trasmette di più, soprattutto per quanto concerne il finale, veramente da incubo e tutto fondato su una calma apparente che viene aperta (e conclusa) da un basso (dal suono meravigliosamente fragile – non a caso è un basso fretless) goffo e ubriaco. Nei momenti successivi, le chitarre si sfogano prima con un (secondo) assolo quasi romantico e poi con una chiusa dalle melodie allucinanti, riuscendo così a concludere nel modo più efficace un ep fantastico di 17 minuti.
In tutto questo affresco musicale di rara intensità non ho trovato lacune importanti, se non un suono di batteria un po’ troppo plastico; e degli stacchi non sempre perfetti perché legati forzatamente e destinati, senza volerlo, a far scemare un poco l’assalto (ciò almeno avviene in “In Death I Trust”). Per il resto, assolutamente niente da eccepire.
Infine, bisogna sottolineare che “In Death I Trust” e “Sinner’s Regret” sono ri – registrazioni provenienti dal primo demo, “Virus”. E io qui non posso far altro che complimentarmi ancora una volta con il gruppo visto che non ci ha pensato 2 volte a modificare i due brani, anche in maniera consistente (ciò vale soprattutto per “Sinner’s Regret”, accorciata addirittura di 2 minuti), secondo il diverso momento storico.
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In Death I Trust/ 2 – Chirality/ 3 – Sinner’s Regret
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http://www.myspace.com/chaosplague
Sito ufficiale:
http://www.chaosplague.it/
Thursday, May 3, 2012
RohesFleisch - "First Journey to Flesh of Human Nature" (2011)
Demo (Infernal Kommando Records, 18 Maggio 2011)
Formazione (2008): Zeyros, voce/chitarra/basso;
Azhrarn, batteria elettronica/sintetizzatori/samples.
Provenienza: Aquino (Frosinone), Lazio.
Canzone migliore del disco:
“Lost Earthly Attitude” che, nonostante il minimalismo a volte estremo del riffing, riesce a essere bella dinamica anche in senso groovy, esplodendo in un finale a dir poco inquietante.
Punto di forza dell’opera:
la buona caratterizzazione dei pezzi, anche se da sfruttare meglio come spiegherò nel corpo della recensione.
Curiosità:
la canzone “Jesus Brandes” è ispirata a un fatto vero, cioè alla cannibalizzazione, da parte di Armin Meiwes (passato alla storia come il cannibale di Rotenburg), di Bernd Jurgen Brandes, un omosessuale coprofago che nel 2001 scrisse un annuncio su Internet con il quale cercava qualcuno che letteralmente lo mangiasse (!). Armin Meiwes è stato condannato all’ergastolo in quanto accusato di omicidio volontario.
I RohesFleisch (“carne cruda” in tedesco) sono così disponibili da avermi mandato per pacco postale non soltanto il cd ma addirittura la cassetta (che recensirò) con tutti i brani (remixati) del demo + 2 intro inedite, per non parlare dell’adesivo presente nello stesso cd. Insomma, roba da collezionisti come me! Fra l’altro, il gruppo si è da poco fatto una bella toppa formato scudetto.
Questa cura estrema riguarda anche il lato concettuale, visto che i nostri hanno scelto di trattare cammin facendo il cannibalismo e le sue varie forme. “Cammin facendo” perché loro hanno come progetto quello di indagare, attraverso le prossime 4 uscite, altrettanti tipo di cannibalismo, e quindi “First Journey to Flesh of Human Nature” non rappresenta altro che un assaggio generale degli incubi che ci aspetteranno.
Incubi che in questo primo demo si palesano in un interessante black metal industriale dal riffing minimalista e dall’andamento ossessivo, e corredato da quella sana dose di follia che ha indotto i nostri a scegliere prima di tutto per una produzione dalle frequenze basse e sostanzialmente cavernose (cosa che rende relativamente difficile l’ascolto se non si utilizzano le cuffie), e fortuna che io sono fin troppo abituato a questo tipo di sonorità oscure!
La voce, poi, un urlo vomitato e bello isterico, è stato stuprato di ogni parvenza di umanità, similmente ai toscani noise/blackettoni Progetto:ChaosGoat.666, che se vogliamo hanno un cantato ancor più bestiale anche grazie a linee vocali certamente più veloci.
A trasmettere ancora più inquietudine e malattia sono i vari rumori e samples (pure in italiano) che riescono a rendere ancora più caotico e distruttivo il tutto. Da questo punto di vista, è esemplare soprattutto “The Endearing Meal” che, oltre a presentare lamenti e voci celestiali femminili e sintetizzatori tristi e fatalisti da un lato, e visionari e inafferrabili dall’altro, rappresenta la canzone più completa del duo laziale.
Infatti, in un arco di 7 minuti, i nostri si sfogano totalmente disegnando un dipinto pregno di drammaticità e sensazioni contrastanti, nel quale addirittura il basso trova un po’ di libertà nel finale, seppur accentando semplicemente (ma in maniera saggia così da concludere degnamente il brano) il lavoro di chitarra. Il riffing fra l’altro è molto variegato: si passa da melodie arpeggiate e disperate a deliri crepuscolari e molto atmosferici se non sassate severe e spietate in direzione del black svedese (a tal proposito, si senta soprattutto “Jesus Brandes”). Inoltre, la struttura di “The Endearing Meal”, rispetto a quella di altri episodi, risulta decisamente particolare avendo un andamento spezzettato e che non disdegna stacchi di chitarra accentati dalla batteria, seppur non si evitino certe prolissità lungo la parte centrale del discorso, la quale conosce fra l’altro un lungo silenzio vocale non supportato adeguatamente dagli altri strumenti, ma anche forzature per quanto concerne i cambi di tempo, talvolta non giustificati da un “ponte” che colleghi efficacemente due passaggi fra di loro.
A questo punto, si rivela importante descrivere l’episodio precedente, cioè “Kill Still Stands”, che però si mostra abbastanza deboluccio. Non convince infatti quasi tutta la parte che precede l’assolo essendo fondamentalmente fin troppo statica e dal lavoro di drum machine stranamente ripetitivo tra una soluzione e l’altra. La seconda parte risulta fra l’altro un po’ troppo controllata, nonostante il tentativo di immedesimarsi nella mente di un assassino seriale nell’atto bestiale dell’omicidio.
“Stranamente” perché in generale la batteria elettronica è stata programmata in maniera convincente e sufficientemente dinamica (“Lost Earthly Attitude” è esemplificativa a tal proposito). Si noti inoltre il suo suono abbastanza realistico, soprattutto nelle parti più lente.
La prima parte di “Kill Still Stands” appare invece più contestualizzata, visto che, in 2 minuti e mezzo circa, si procede sempre più verso un vortice di pazzia che scopre suggestioni isteriche di stampo brutal per finire con un assolo impazzito ma chirurgico. Quindi, era forse meglio che la canzone finisse con lo stacco campionato che si fa vivo subito dopo, oppure completando il discorso attraverso qualche rumore.
Ma nonostante queste mancanze, che mi fanno preferire i primi due pezzi dai restanti, sicuramente più complicati e dinamici, bisogna dire che c’è una forte caratterizzazione di essi così da consentire all’ascoltatore di essere preda della curiosità ogni volta che inizia un brano, compreso “Jesus Brandes”, il più ossessivo e ferale di tutto il lotto; e “Lost Earthly Attitude”, ipnotico e dai momenti di terrore abissale nonché dal riffing a tratti paragonabile a quello dei già citati Progetto:ChaosGoat.666. Di conseguenza, mi aspetto buone cose da questi ragazzacci, che intanto hanno da poco annunciato il loro prossimo perverso parto, cioè “Defecate Human Kind”, un viaggio allucinante e affascinante al tempo stesso sull’eso – cannibalismo tribale, cioè l’atto di mangiare i propri nemici appartenenti ad altre tribù.
Voto: 68
Claustrofobia
Scaletta:
1 - Intro/ 2 – Lost Earthly Attitude/ 3 – Jesus Brandes/ 4 – Kill Still Stands/ 5 – The Endearing Meal
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http://www.myspace.com/rohesfleisch
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http://www.facebook.com/pages/RohesFleisch/148642338534915?sk=wall
Formazione (2008): Zeyros, voce/chitarra/basso;
Azhrarn, batteria elettronica/sintetizzatori/samples.
Provenienza: Aquino (Frosinone), Lazio.
Canzone migliore del disco:
“Lost Earthly Attitude” che, nonostante il minimalismo a volte estremo del riffing, riesce a essere bella dinamica anche in senso groovy, esplodendo in un finale a dir poco inquietante.
Punto di forza dell’opera:
la buona caratterizzazione dei pezzi, anche se da sfruttare meglio come spiegherò nel corpo della recensione.
Curiosità:
la canzone “Jesus Brandes” è ispirata a un fatto vero, cioè alla cannibalizzazione, da parte di Armin Meiwes (passato alla storia come il cannibale di Rotenburg), di Bernd Jurgen Brandes, un omosessuale coprofago che nel 2001 scrisse un annuncio su Internet con il quale cercava qualcuno che letteralmente lo mangiasse (!). Armin Meiwes è stato condannato all’ergastolo in quanto accusato di omicidio volontario.
I RohesFleisch (“carne cruda” in tedesco) sono così disponibili da avermi mandato per pacco postale non soltanto il cd ma addirittura la cassetta (che recensirò) con tutti i brani (remixati) del demo + 2 intro inedite, per non parlare dell’adesivo presente nello stesso cd. Insomma, roba da collezionisti come me! Fra l’altro, il gruppo si è da poco fatto una bella toppa formato scudetto.
Questa cura estrema riguarda anche il lato concettuale, visto che i nostri hanno scelto di trattare cammin facendo il cannibalismo e le sue varie forme. “Cammin facendo” perché loro hanno come progetto quello di indagare, attraverso le prossime 4 uscite, altrettanti tipo di cannibalismo, e quindi “First Journey to Flesh of Human Nature” non rappresenta altro che un assaggio generale degli incubi che ci aspetteranno.
Incubi che in questo primo demo si palesano in un interessante black metal industriale dal riffing minimalista e dall’andamento ossessivo, e corredato da quella sana dose di follia che ha indotto i nostri a scegliere prima di tutto per una produzione dalle frequenze basse e sostanzialmente cavernose (cosa che rende relativamente difficile l’ascolto se non si utilizzano le cuffie), e fortuna che io sono fin troppo abituato a questo tipo di sonorità oscure!
La voce, poi, un urlo vomitato e bello isterico, è stato stuprato di ogni parvenza di umanità, similmente ai toscani noise/blackettoni Progetto:ChaosGoat.666, che se vogliamo hanno un cantato ancor più bestiale anche grazie a linee vocali certamente più veloci.
A trasmettere ancora più inquietudine e malattia sono i vari rumori e samples (pure in italiano) che riescono a rendere ancora più caotico e distruttivo il tutto. Da questo punto di vista, è esemplare soprattutto “The Endearing Meal” che, oltre a presentare lamenti e voci celestiali femminili e sintetizzatori tristi e fatalisti da un lato, e visionari e inafferrabili dall’altro, rappresenta la canzone più completa del duo laziale.
Infatti, in un arco di 7 minuti, i nostri si sfogano totalmente disegnando un dipinto pregno di drammaticità e sensazioni contrastanti, nel quale addirittura il basso trova un po’ di libertà nel finale, seppur accentando semplicemente (ma in maniera saggia così da concludere degnamente il brano) il lavoro di chitarra. Il riffing fra l’altro è molto variegato: si passa da melodie arpeggiate e disperate a deliri crepuscolari e molto atmosferici se non sassate severe e spietate in direzione del black svedese (a tal proposito, si senta soprattutto “Jesus Brandes”). Inoltre, la struttura di “The Endearing Meal”, rispetto a quella di altri episodi, risulta decisamente particolare avendo un andamento spezzettato e che non disdegna stacchi di chitarra accentati dalla batteria, seppur non si evitino certe prolissità lungo la parte centrale del discorso, la quale conosce fra l’altro un lungo silenzio vocale non supportato adeguatamente dagli altri strumenti, ma anche forzature per quanto concerne i cambi di tempo, talvolta non giustificati da un “ponte” che colleghi efficacemente due passaggi fra di loro.
A questo punto, si rivela importante descrivere l’episodio precedente, cioè “Kill Still Stands”, che però si mostra abbastanza deboluccio. Non convince infatti quasi tutta la parte che precede l’assolo essendo fondamentalmente fin troppo statica e dal lavoro di drum machine stranamente ripetitivo tra una soluzione e l’altra. La seconda parte risulta fra l’altro un po’ troppo controllata, nonostante il tentativo di immedesimarsi nella mente di un assassino seriale nell’atto bestiale dell’omicidio.
“Stranamente” perché in generale la batteria elettronica è stata programmata in maniera convincente e sufficientemente dinamica (“Lost Earthly Attitude” è esemplificativa a tal proposito). Si noti inoltre il suo suono abbastanza realistico, soprattutto nelle parti più lente.
La prima parte di “Kill Still Stands” appare invece più contestualizzata, visto che, in 2 minuti e mezzo circa, si procede sempre più verso un vortice di pazzia che scopre suggestioni isteriche di stampo brutal per finire con un assolo impazzito ma chirurgico. Quindi, era forse meglio che la canzone finisse con lo stacco campionato che si fa vivo subito dopo, oppure completando il discorso attraverso qualche rumore.
Ma nonostante queste mancanze, che mi fanno preferire i primi due pezzi dai restanti, sicuramente più complicati e dinamici, bisogna dire che c’è una forte caratterizzazione di essi così da consentire all’ascoltatore di essere preda della curiosità ogni volta che inizia un brano, compreso “Jesus Brandes”, il più ossessivo e ferale di tutto il lotto; e “Lost Earthly Attitude”, ipnotico e dai momenti di terrore abissale nonché dal riffing a tratti paragonabile a quello dei già citati Progetto:ChaosGoat.666. Di conseguenza, mi aspetto buone cose da questi ragazzacci, che intanto hanno da poco annunciato il loro prossimo perverso parto, cioè “Defecate Human Kind”, un viaggio allucinante e affascinante al tempo stesso sull’eso – cannibalismo tribale, cioè l’atto di mangiare i propri nemici appartenenti ad altre tribù.
Voto: 68
Claustrofobia
Scaletta:
1 - Intro/ 2 – Lost Earthly Attitude/ 3 – Jesus Brandes/ 4 – Kill Still Stands/ 5 – The Endearing Meal
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Tuesday, May 1, 2012
Rhetra - "Ego Sum Mors Vestra" (2012)
Album (Heder Music, 1 Marzo 2012)
Formazione (2010): Sophia, voce/chitarre;
Davide, basso/batteria.
Provenienza: Legnano (Milano), Lombardia.
Canzone migliore dell’opera:
“Beyond Every Lie”, da cui si può ripartire.
Punto di forza del disco:
le chitarre, più che altro per mancanza di meglio.
“Transilvanian Hunger” dei Darkthrone è uno di quei dischi assolutamente irreplicabili, nonostante il suo barbarico primitivismo. Eppure, è un album decisamente fantasioso non solo dal punto di vista musicale ma anche da quello atmosferico. E soprattutto, in esso si assapora un odio così terrificante e palpabile da mettere i brividi in special modo in quello che io amo definire il climax di tutto il lotto, cioè “As Flittermice As Satan Spys”, pezzo ipnotico e caotico allo stesso tempo. Il caos, giusto. Avete presente a tal proposito quelle piccole variazioni al discorso che lo rendono più indomabile e selvaggio (anche sfruttando il basso)? Oppure le linee vocali, che seguono una logica tutta propria pur essendo abbastanza vicine a quelle di gruppi crust/d – beat come Discharge, Disclose e gruppacci simili? L’album non stanca mai anche grazie all’alone caotico che lo avvolge, cosa che impedisce di comprendere totalmente il disco già ai primi ascolti (o almeno così è successo a me).
Ecco, parlando di replicazione, i Rhetra hanno cercato di emulare i Darkthrone di “Transilvanian Hunger”, pur presentando qualche differenza formale che rende spesso decisamente più semplice l’assalto. Infatti:
1) se l’urlo di Nocturno Culto è rauco e gutturale, quello di Sophia è alto e gracchiante. Se nel primo è essenziale, cioè senza abbellimenti vari e non così presente lungo il discorso, quello di Sophia fa uso talvolta di sovraincisioni e di linee vocali particolarmente attive se non addirittura ossessive, seppur vengano ridimensionate in maniera meno invasiva in pezzi come “Vengeance of the Moon”;
2) il riffing dei Rhetra è minimalista e melodico allo stesso tempo, contrariamente a quello, più severo e cupo, dei maestri norvegesi. Inoltre, Sophia rifiuta totalmente la dimensione dell’assolo, preferendo occasionalmente una seconda linea di chitarra che rafforzi il lavoro della prima;
3) la struttura dei pezzi è quasi sempre uguale a sé stessa, visto che è profondamente statica e sequenziale tanto da ripetere le stesse soluzioni. Solo in canzoni come “Perpetual Reflorescence of Pith” lo schema cambia un pochino così da avvicinarsi a quello, più flessibile, dei Darkthrone (in questo caso è più o meno un 1 – 2 – 1 – 2 – 3 – 1 – 2). Similmente a loro, il discorso scorre fluido conoscendo solo raramente stacchi (come quello arpeggiato di “Slating”) e/o pause;
4) il duo lombardo talvolta introduce i propri pezzi con la chitarra mentre le conclusioni sono tipiche, cioè non fanno minimamente il verso a quelle folli e aliene di Fenriz e compagno, i quali invece partono subito a manetta, senza quindi nessuna introduzione che prepari al massacro.
L’emulazione c’è stata invece nel tipo di produzione, molto sporca e “caciarona”; e nell’uso smodato dei blast – beats, che anzi sono qui ancor più diretti e monotematici.
Purtroppo l’ultima parola non l’ho scritta a caso. Il fatto è che i nostri sono molto ripetitivi, e lo sono a livello quasi generale. Infatti, il discorso è molto povero di soluzioni, anche perché la voce tende a ripetere spesso e volentieri le stesse cose (esemplari a tal proposito “Perpetual Reflorescence of Pith” e “No Mercy for the Vile”), mentre la batteria non aiuta veramente gli altri strumenti in modo da valorizzare tutto l’insieme. Se a questo si aggiunge la durata spesso consistente delle canzoni tanto da arrivare perfino ai 7 minuti, la situazione diventa ancor più difficile da gestire.
In compenso, il riffing riesce a dare sufficiente varietà ai brani, almeno atmosfericamente parlando. Per esempio, “Arising Essence” è epica e dal riffing più dinamico del solito; “Slating” è fortemente evocativa e dalle soluzioni particolarmente lunghe; e “Beyond Every Lie” ha un taglio disperato che manca agli altri episodi.
Quest’ultima si rivela essere curiosamente la canzone più riuscita del lotto, e questo fatto è da rimarcare perché i nostri sono riusciti a concludere degnamente un disco di certo molto migliorabile. Ciò perché “Beyond Every Lie” ha uno sviluppo diverso, leggermente più agile e meno schematico (anche per via dell’unica decelerazione lungo tutto l’album) mentre per quanto riguarda il minutaggio si attesta sui 5 minuti. A questo punto faccio notare che Skogga mi ha scritto che i nuovi pezzi saranno un po' più elaborati del solito. Non vedo l'ora di sentirli allora!
Infine, qualcosa da dire sui testi è pressoché doveroso, non solo perché risultano molto lontani da quelli classici del genere ma soprattutto perché spesso parlano apertamente della società e delle sue contraddizioni, in un’ottica anarchica o similare.
Voto: 53
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Perpetual Reflorescence of Pith/ 2 – Arising Essence/ 3 – Death of the Misurers/ 4 – No Mercy for the Vile/ 5 – Slating/ 6 – Vengeance of the Moon/ 7 – Beyond Every Lie
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