Split autoprodotto (1 Giugno 2011)
Canzone migliore dei Warpeace:
“Lobby”, e per scoprire perché leggete la rece.
Canzone migliore dei Disabled:
“No Future”, idem.
Punto di forza dei Warpeace:
sicuramente la loro dinamicità, che permette loro di potenziare ancor di più il proprio impatto bestiale.
Punto di forza dei Disabled:
sarà una cosa ovvia ma indubbiamente il sentimento che ‘sti indonesiani mettono nella loro musica, cosa che riesce a compensare le innumerevoli note negative menzionate lungo il corpo della recensione.
Nota 1:
colgo questo spazio per pregarvi di firmare la petizione di Avaaz.org riguardante quel cazzo di ACTA, quella specie di trattato mondiale anti - contraffazione dell'UE che spinge pericolosamente verso la censura di Internet, tutto per quel cadavere marcescente del copyright:
http://www.avaaz.org/it/eu_save_the_internet/?slideshow
Nota 2:
faccio notare che nella provincia indonesiana di Banda Aceh sono stati arrestati 64 punk, "rei" di essere per l'appunto punk, i quali sono stati praticamente costretti dagli islamici a "seguire" un programma di rieducazione....
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Ragazzi, dopo aver preso al mio primo esame universitario (riguardante quel pazzo di Antonin Artaud, artista totale oltreché non poco anarchico, seppur in maniera molto sui generis) un bel 26 e durante la nostra lotta per difendere fra le altre cose il nostro Internet dagli attacchi di vari imbecilli paternalisti, sono più che ben disposto a recensire questo split spaccaossa fra due realtà appartenenti a mondi musicali (e non solo musicali) che Timpani allo Spiedo sta prendendo in considerazione solo negli ultimi mesi, anche se lo dovevo fare già da ben prima.
WARPEACE.
Formazione (2010): Andre’, voce;
Nico, chitarre;
Giorgia, basso;
Andrea, batteria
Provenienza: Tivoli/Roma, Lazio
Infatti, i Warpeace sono un ottimo gruppo crust, che si è fatto già conoscere nella scena per il demo “Submission”, pubblicato nel 2010 e da cui hanno preso per il presente disco i pezzi “Terra” e “Progresso”, re – interpretati all’occorrenza grazie soprattutto al nuovo batterista.
Il quale non fa rimpiangere Ste' visto che lo stile del nuovo arrivato risulta bello dinamico ed efficace. Ed ovviamente i tempi veloci imperversano, soprattutto sottoforma di tupa – tupa incarogniti, alternandoli, ma con misura, con dei blast – beats sempre benvoluti. Il nostro sa sfoggiare anche ritmiche leggermente più complesse (“Lobby”), arricchendo così il proprio discorso di soluzioni un pochino più imprevedibili. Oddio, a dir la verità, certe (rarissime) raffinatezze ritmiche del predecessore (per quanto possa essere raffinato un batterista crust…) un po’ mancano, ed è per questo che “Progresso” è ora così diversa da prima.
Altra novità è rappresentata dall’utilizzo della seconda vce, opera di Giorgia, capace di sputare delle urla “scatarrate” totalmente inquietanti e che possono rimandare a quelle di Nichole dei Vivere Merda. Sarebbe stato però meglio dare più importanza a Giorgia dato che purtroppo non si fa viva in tutte le canzoni nelle quali domina il vocione di Andrea che tra l’altro spara talvolta urla praticamente impazzite (che belle descrizioni che do certe volte, nevvero?).
Del comparto vocale però mi sono piaciute molto le linee vocali, spesso tremendamente fulminee e selvagge da non far quasi capire i versi, che fra l’altro evitano in larga parte l’uso dei verbi preferendo così un approccio ai testi molto diretto e categorico.
I nostri hanno inoltre avuto la bella pensata di cambiare anche un po’ il settore chitarre. Ciò perché Nico (ossia colui che mi ha passato per mano questo split ed un altro con gli intramontabili Slaughtergrave in una loro ennesima incarnazione) ha aggiunto la chitarra “solista”, limitandola però soltanto a “Terra” e “Progresso”. “Solista” tra virgolette perché la si utilizza nella più tipica tradizione crust dato che suona più o meno le stesse cose della ritmica, ribadendo quindi il messaggio di quest’ultima (ma perché mi viene in mente quella cippa di “colpo doppio” tanto caro ad Artaud?). A ‘sto punto cosa verrebbe fuori con due asce in formazione?
Quello che è sicuro è che con l’ultimo pezzo, i Warpeace riescono a chiudere più che in bellezza la propria parte. Ciò anche perché “Lobby” mostra parti death e pure black (la parte finale introdotta da uno stacco pressoché scarnificante) che oltre ad essere tremendamente furiose sono anche inedite per il gruppo.
E, tanto per ribadire le già enormi differenze con il recente passato, fa un po’ senso sentire i Warpeace usare una produzione incredibilmente pulita e compatta, e che rende onore ad un basso (strumento importante per i nostri in fase di introduzione che negli stacchi/pause) bene in evidenza.
Voto: 82
DISABLED.
Formazione (2008): Ody, voce (di chi è però la seconda voce?);
Garhead, chitarra;
Bimojhonderat, batteria.
Provenienza: Bandung, Indonesia.
Con i Disabled invece si passa a tutt’altro genere ma anche ad un diverso livello qualitativo che non sempre soddisfa. Oddio, alla fine il risultato complessivo convince, nonostante aver letto in giro giudizi non proprio entusiasti sul lavoro di questi baldi giovanotti.
E’ anche vero che il loro punk – hardcore è decisamente ripetitivo, soprattutto a livello ritmico. La batteria è infatti totalmente incantata su un lavoro piuttosto elementare fondato per il 98% su un tupa – tupa mai e poi mai veramente sostenuto. L’unico cambio di tempo è la decelerazione finale di “Equality” mentre in “No More Life to be Sacrificed”, durante l’introduzione, si tenta qualcosa di complicato per poi subito abbandonarlo. Eppure… eppure la batteria, concepita così, funziona lo stesso visto che per esempio gli accenti sono sempre puntuali così da aiutare degnamente il lavoro dei compagni.
Solo che la struttura dei pezzi è terribilmente statica, considerando che, assenza di cambi di tempo già menzionata, i vari pezzi insistono praticamente sulle stesse soluzioni. Eppure… eppure i nostri talvolta tirano fuori quello stacchetto o quella pausa che rinforzano notevolmente tutto il discorso risvegliando quel qualcosa che sembrava mancare, soprattutto pensando che i Disabled sanno proporre brani addirittura da quasi 3 minuti, a dispetto di una staticità che comunque non giustifica una tale durata (infatti un pezzo da un minuto come “No Future” funziona a meraviglia).
La produzione fra l’altro non li aiuta certo, più che altro perché su 5 pezzi ci sono 3 differenti produzioni, quindi traspare un po’ di indecisione. E a sua volta quest’indecisione mostra altrettanti momenti storici del gruppo, visto che per esempio l’ultimo pezzo “Pray in Hell” è tratto direttamente dal demo “No More Life to Sacrificed” mentre “R.I.P.” e “No Future” sono nuovi di zecca (almeno così pare). Insomma, sarebbe stato meglio ri – registrare i vecchi brani, magari attualizzandoli secondo lo stile più recente dato che, ad ogni modo, le differenze, per quanto minime, si sentono.
Come l’utilizzo della doppia voce, un urlo spaventosamente acuto e inumano, perfettamente adatto ma purtroppo assente negli episodi nuovi. E la struttura dei pezzi è leggermente più sciolta ed esperta in questi ultimi.
Eppure… eppure tutti i difetti sopraelencati non impediscono ai Disabled di caratterizzare sufficientemente i vari episodi, almeno a livello di riffing. Infatti, per fare qualche esempio, “R.I.P.” è melodica e disperata, “No Future” è furiosa e con qualche accenno metal (e non è neanche l’unico) mentre “Pray in Hell” è ipnotica (bisogna fra l’altro dire che tale brano, registrato dal vivo, ha una “produzione” praticamente psichedelica e inquietante, e quindi amarla è un obbligo) e a tratti bella grooveggiante. Il cantante poi si adegua perfettamente alle diverse situazioni, con punte d’espressività veramente notevoli.
Ecco quindi spiegato il voto, apparentemente troppo alto rispetto alle note negative ma è anche vero che, a forza di ascoltare i gruppi “peggiori” dell’universo si impara a pescare in loro cose interessanti che i gruppi cosiddetti “professionali” se le sognano.
Voto: 70
Claustrofobia
Scaletta:
Warpeace:
1 – Nucleare/ 2 – Vivisezione/ 3 – Terra/ 4 – Progresso/ 5 – Lobby
Disabled:
6 – Equality/ 7 – No More Life to be Sacrificed/ 8 – R.I.P./ 9 – No Future/ 10 – Pray in Hell
MySpace:
Warpeace:
http://www.myspace.com/warpeacepunk
Disabled:
http://www.myspace.com/disableddbeat
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Friday, January 27, 2012
Monday, January 23, 2012
Mud - "Violence Against Violence" (2011)
Album (Audiozero Records, 15 Ottobre 2011)
Formazione (2004): AldoHc, voce;
Andrea, voce aggiuntiva in “Full of Hate”;
Garcon, chitarre;
Ilaria, basso;
Valerio, batteria.
Provenienza: Val Vibrata( Teramo), Abruzzo.
Canzone migliore dell’opera:
senz’ombra di dubbio “Full of Hate”, intensa come poche. Curiosamente è il primo pezzo dell’album postato dal gruppo nel proprio Space.
Punto di forza del disco:
la voce. Semplicemente distruttiva.
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Il demo “Slow Degradation” era un monolite roccioso e minaccioso di semplice metalcore amante dei tempi medio – lenti però forse un po’ troppo monolitico. Ma quando ho messo per la prima volta nello stereo il primissimo album dei Mud, sono stato subito sorpreso dalla loro nuova direzione intrapresa, sollecitata abbondantemente dai vari cambi di formazione che alla fine hanno fatto diventare il gruppo un quartetto. E devo quindi dire, fin da subito, che la qualità della proposta è decisamente molto alta.
La prima differenza importante con il passato deriva dall’uso frequente dei tempi veloci, ossia tupa – tupa mai eccessivamente sostenuti, in perfetto equilibrio con quelli più lenti. Di conseguenza, anche il riffing è cambiato visto che è divenuto un po’ più dinamico (ma sempre essenziale e classico) e spesso dal sapote thrash fino a rasentare melodie di impronta perfino speed come in “No Choice” e “Not 4 Sale” (ho notato infatti che gli ultimi pezzi presentano un rifferama più metallico). Anche se, beninteso, i Mud continuano in larga parte a rifiutare il concetto di melodia, riempiendo però questo “buco” con una notevole inventiva dal punto di vista tecnico.
Quasi immutato è l’utilizzo, seppur decisamente misurato ed essenziale, della chitarra solista, nonostante, come già scritto, l’attuale presenza di un solo chitarrista in formazione. Dico “quasi” perché, rispetto a “Slow Degradation”, la sua importanza è stata un pochino ridimensionata, rispettando così ancor di più l’approccio fondamentalmente collettivo che caratterizza i Mud, che infatti continuano a rifiutare il concetto di assolo. E’ un peccato però che tale caratteristica sia stata poco sfruttata anche perché, in ogni caso, era indice di una personalità veramente buona, e quindi consiglio ai nostri di ri - reclutare un’altra ascia.
In compenso, dal punto di vista strutturale i pezzi si sviluppano decisamente meglio, visto che essi scorrono più fluidi e soprattutto più ricchi di soluzioni nelle ripartenze per far da cerniera tra un passaggio e l’altro. E qui vengono in aiuto una batteria che specialmente in “Hostile!” riesce a enfatizzare alla grande tutto il discorso attraverso variazioni al fulmicotone (oddio, difetta un po' di poca fantasia nella risoluzione delle introduzioni ma pazienza), ed un basso la cui ottima prestazione risalta a dir la verità meglio ascoltando l’album con le cuffie.
Dati tutti questi benvoluti cambiamenti, i vari brani si differenziano finalmente molto bene l’uno dall’altro. In tal senso, valgano come esempi “Full of Hate”, episodio nel quale si trova come ospite alla voce Andrea dei Vibratacore (il cui ultimo demo “Good Morning Pain” verrà recensito su queste stesse pagine), cosa che permette un “casino” di rara intensità anche grazie ad accelerazioni feroci e improvvise; e l’emblematica “Respect the Scene”, che mostra invece il lato più rockeggiante dei Mud oltreché delle linee vocali a dir poco stupende (e qui bisogna dire che Aldo ha effettivamente un’ottima fantasia nel costruirle).
Il comparto vocale è per l’appunto l’aspetto forse migliore dell’intera proposta. Ciò anche perché il nostro è un cantante che ha una espressività bestiale sparando fra le altre cose urla grintosissime. Inoltre, rispetto a “Slow Degradation”, hanno un importante ruolo i cori, riuscendo così a supportare ancor meglio l’assalto selvaggio di Aldo. Sarebbe stato comunque interessante usare in maniera più “disordinata” le voci, un po’ sulla falsariga di “Full of Hate”. Ma forse sto andando troppo veloce, visto che in ogni caso i cambiamenti sono stati tanti.
Nell’ultimo pezzo dell’album, i Mud hanno invece voluto tributare il gruppo metalcore dei Terror, coverizzando piuttosto fedelmente “Less Than Zero” del loro disco “One with the Underdogs” del 2004, canzone questa che si allontana abbastanza dallo stile tipico dei Mud essendo non soltanto breve (dura infatti solo un minuto e 50 secondi circa) ma presentando anche un taglio a volte cupo ai limiti del death metal. A dir la verità, c’è pure una traccia – fantasma totalmente delirante, solo che per ascoltarla dovete sorbirvi, appena finita la cover, un po’ di minuti di silenzio. A voi scoprire la (bella) sorpresa!
Infine, qualche parola per le delizie cinematografiche che compongono di qua e di là l’album. Infatti, nel dettaglio:
1) l’opera comincia con una delle scene più divertenti (quella del “Tieni il resto, lurido bastardo!”) del mitico “Mamma ho perso l’aereo!”, film che al tempo divoravo come nessuno;
2) “Respect the Scene” inizia con una scena surreale de “Il grande Lebowski” dei fratelli Coen, quella di Walter che prende troppo seriamente la partita a bowling con gli amici arrivando a minacciare con la pistola Smokey, reo di aver oltrepassato la linea durante il lancio della palla;
3) “Not 4 Sale” si conclude con il leggendario “Qui la legge si ferma e comincio io….. stronzo” tratto da “Cobra” con Sylvester Stallone.
Voto: 83
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Violence Against Violence/ 2 – Relentless/ 3 – Breakdown/ 4 – Full of Hate/ 5 – Respect the Scene/ 6 – Hostile!/ 7 – No Choice/ 8 – Stronger than Ever/ 9 – Not 4 Sale/ 10 – Less than Zero
MySpace:http://www.myspace.com/mud04
Sito ufficiale:
http://www.mudband.it/
Formazione (2004): AldoHc, voce;
Andrea, voce aggiuntiva in “Full of Hate”;
Garcon, chitarre;
Ilaria, basso;
Valerio, batteria.
Provenienza: Val Vibrata( Teramo), Abruzzo.
Canzone migliore dell’opera:
senz’ombra di dubbio “Full of Hate”, intensa come poche. Curiosamente è il primo pezzo dell’album postato dal gruppo nel proprio Space.
Punto di forza del disco:
la voce. Semplicemente distruttiva.
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Il demo “Slow Degradation” era un monolite roccioso e minaccioso di semplice metalcore amante dei tempi medio – lenti però forse un po’ troppo monolitico. Ma quando ho messo per la prima volta nello stereo il primissimo album dei Mud, sono stato subito sorpreso dalla loro nuova direzione intrapresa, sollecitata abbondantemente dai vari cambi di formazione che alla fine hanno fatto diventare il gruppo un quartetto. E devo quindi dire, fin da subito, che la qualità della proposta è decisamente molto alta.
La prima differenza importante con il passato deriva dall’uso frequente dei tempi veloci, ossia tupa – tupa mai eccessivamente sostenuti, in perfetto equilibrio con quelli più lenti. Di conseguenza, anche il riffing è cambiato visto che è divenuto un po’ più dinamico (ma sempre essenziale e classico) e spesso dal sapote thrash fino a rasentare melodie di impronta perfino speed come in “No Choice” e “Not 4 Sale” (ho notato infatti che gli ultimi pezzi presentano un rifferama più metallico). Anche se, beninteso, i Mud continuano in larga parte a rifiutare il concetto di melodia, riempiendo però questo “buco” con una notevole inventiva dal punto di vista tecnico.
Quasi immutato è l’utilizzo, seppur decisamente misurato ed essenziale, della chitarra solista, nonostante, come già scritto, l’attuale presenza di un solo chitarrista in formazione. Dico “quasi” perché, rispetto a “Slow Degradation”, la sua importanza è stata un pochino ridimensionata, rispettando così ancor di più l’approccio fondamentalmente collettivo che caratterizza i Mud, che infatti continuano a rifiutare il concetto di assolo. E’ un peccato però che tale caratteristica sia stata poco sfruttata anche perché, in ogni caso, era indice di una personalità veramente buona, e quindi consiglio ai nostri di ri - reclutare un’altra ascia.
In compenso, dal punto di vista strutturale i pezzi si sviluppano decisamente meglio, visto che essi scorrono più fluidi e soprattutto più ricchi di soluzioni nelle ripartenze per far da cerniera tra un passaggio e l’altro. E qui vengono in aiuto una batteria che specialmente in “Hostile!” riesce a enfatizzare alla grande tutto il discorso attraverso variazioni al fulmicotone (oddio, difetta un po' di poca fantasia nella risoluzione delle introduzioni ma pazienza), ed un basso la cui ottima prestazione risalta a dir la verità meglio ascoltando l’album con le cuffie.
Dati tutti questi benvoluti cambiamenti, i vari brani si differenziano finalmente molto bene l’uno dall’altro. In tal senso, valgano come esempi “Full of Hate”, episodio nel quale si trova come ospite alla voce Andrea dei Vibratacore (il cui ultimo demo “Good Morning Pain” verrà recensito su queste stesse pagine), cosa che permette un “casino” di rara intensità anche grazie ad accelerazioni feroci e improvvise; e l’emblematica “Respect the Scene”, che mostra invece il lato più rockeggiante dei Mud oltreché delle linee vocali a dir poco stupende (e qui bisogna dire che Aldo ha effettivamente un’ottima fantasia nel costruirle).
Il comparto vocale è per l’appunto l’aspetto forse migliore dell’intera proposta. Ciò anche perché il nostro è un cantante che ha una espressività bestiale sparando fra le altre cose urla grintosissime. Inoltre, rispetto a “Slow Degradation”, hanno un importante ruolo i cori, riuscendo così a supportare ancor meglio l’assalto selvaggio di Aldo. Sarebbe stato comunque interessante usare in maniera più “disordinata” le voci, un po’ sulla falsariga di “Full of Hate”. Ma forse sto andando troppo veloce, visto che in ogni caso i cambiamenti sono stati tanti.
Nell’ultimo pezzo dell’album, i Mud hanno invece voluto tributare il gruppo metalcore dei Terror, coverizzando piuttosto fedelmente “Less Than Zero” del loro disco “One with the Underdogs” del 2004, canzone questa che si allontana abbastanza dallo stile tipico dei Mud essendo non soltanto breve (dura infatti solo un minuto e 50 secondi circa) ma presentando anche un taglio a volte cupo ai limiti del death metal. A dir la verità, c’è pure una traccia – fantasma totalmente delirante, solo che per ascoltarla dovete sorbirvi, appena finita la cover, un po’ di minuti di silenzio. A voi scoprire la (bella) sorpresa!
Infine, qualche parola per le delizie cinematografiche che compongono di qua e di là l’album. Infatti, nel dettaglio:
1) l’opera comincia con una delle scene più divertenti (quella del “Tieni il resto, lurido bastardo!”) del mitico “Mamma ho perso l’aereo!”, film che al tempo divoravo come nessuno;
2) “Respect the Scene” inizia con una scena surreale de “Il grande Lebowski” dei fratelli Coen, quella di Walter che prende troppo seriamente la partita a bowling con gli amici arrivando a minacciare con la pistola Smokey, reo di aver oltrepassato la linea durante il lancio della palla;
3) “Not 4 Sale” si conclude con il leggendario “Qui la legge si ferma e comincio io….. stronzo” tratto da “Cobra” con Sylvester Stallone.
Voto: 83
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Violence Against Violence/ 2 – Relentless/ 3 – Breakdown/ 4 – Full of Hate/ 5 – Respect the Scene/ 6 – Hostile!/ 7 – No Choice/ 8 – Stronger than Ever/ 9 – Not 4 Sale/ 10 – Less than Zero
MySpace:http://www.myspace.com/mud04
Sito ufficiale:
http://www.mudband.it/
Saturday, January 21, 2012
Crowned in Thorns - "Plague/Oblivion" (2010)
Demo autoprodotto (3 Agosto 2010)
Formazione: WLKN, voce;
Saahve, chitarre (sostituito poi da Herr 413, ma nel MySpace non figura…);
Alessandro, basso (andatosene dopo anche lui);
Mark, batteria.
Provenienza: Cagliari, Sardegna.
Canzone migliore del demo:
senz’ombra di dubbio la delirante “My Own Redeemer”. Per il perché leggete attentamente la recensione.
Punto di forza del gruppo:
la batteria, che nonostante i blast – beats a go – go non perde mai né il controllo né l’inventiva.
-------------------------------------------------------------------------------------------------Curiosità:
il gruppo ha reso disponibile da scaricare su MegaUpload il primo e finora unico demo. Il link lo trovate proprio sul MySpace dei Crowned in Thorns. Però mi raccomando: visto che loro sono stati corretti dando la possibilità a tutti di scaricarlo, mi sembra ovvio che nel caso vi piaccia siete moralmente obbligati a comprare direttamente il disco.
Ancora Sardegna, ancora black metal, anche se declinato stavolta, rispetto agli Hieros Gamos, in versione decisamente più tradizionalista ma allo stesso tempo pure più qualitativa. Oddio, delle sorprese belle inaspettate i Crowned in Thorns le presentano, e fra l’altro confermano ancora una volta il “trend” attuale di Timpani allo Spiedo rappresentato dai gruppi black/death metal, pur essendo stavolta lontanissimi da gruppi “ignoranti” e a là Blasphemy come i Blasphemous Noise Torment, Nocturnal Blood e Witchrist.
Ciò anche perché, rispetto a questi gruppi, i Crowned in Thorns possiedono sul serio nelle proprie vene il black metal, grazie per esempio ad un riffing non poche volte imponente e glaciale così da trasmettere tutto un altro tipo di atmosfera. Altra notevole differenza è l’assenza pressoché totale dei rumorismi offerti dagli assoli di chitarra, la quale non si concede neanche qualche sovrapposizione di riff, se non leggerissimamente. In pratica, abbiamo a che fare con una specie di black metal svedese tremendamente blasteggiante con frequenti concessioni al death metal se non, seppur vagamente, al thrash metal (come in “My Own Redeemer”).
Il death metal lo si sente però molto anche nel comparto vocale, dato che tra urla assatanate vi si trovano vari tipi di grugniti, fra cui uno cupissimo che ad ogni modo viene utilizzato soltanto come sovraincisione.
Ciò che però mi ha più impressionato è la batteria, dato che Mark presenta uno stile bello dinamico e sempre puntuali negli accenti utili ad enfatizzare tutto l’insieme. E lo fa quasi sempre tramite blast – beats sempre freschi, concedendo però qualcosina anche a magnifici tupa – tupa mai fuori luogo. Fra l’altro, un plauso va al suono molto naturale della batteria, cosa che si percepisce in particolare nei rari tempi lenti dove per esempio “l’ignoranza” del rullante predomina su tutto.
La dinamicità della batteria si riflette però anche nella musica intesa nel suo insieme. Infatti, oltre ad offrire una struttura dei pezzi per niente semplice e/o banale (per esempio, “I Deny” è fondato sulle ripartenze mentre “Generator of Dead Humans” scorre fluido come un treno in corsa), i vari episodi si sviluppano in maniera molto fantasiosa distinguendosi così notevolmente fino al gran finale di “Thornscrowned”, dalle tinte addirittura epiche e da alcuni passaggi perfino arpeggiati.
Ma in tutto il lotto si distingue specialmente il pezzo “My Own Redeemer”, che praticamente raggiunge altezze praticamente folli per un gruppo del genere visto che conta le seguenti caratteristiche:
1) la sua struttura è totalmente libera e rinforzata fra l’altro da ripartenze da capogiro;
2) vi è per la prima ed unica volta un passaggio doom nel vero senso della parola e non relegato ad essere una semplice comparsa;
3) nel lungo momento doom è presente come voce aggiuntiva un “alieno” cantato pulito freddissimo;
4) lo stesso passaggio viene chiuso splendidamente da una linea di basso inaspettata.
In parole povere, “My Own Redeemer” è una specie di esperimento che per le future produzioni del gruppo dovrebbe essere preso in seria considerazione dato che, oltre ad essere ben riuscito, offre anche spunti molto ma molto originali. Sarebbe quindi veramente un peccato non proseguire su questa strada. Il merito poi è nettamente più grande se si pensa che esso è l'unico pezzo a raggiungere e superare di una cinquantina di secondi i 4 minuti.
Per chiudere il cerchio, tocca parlare della produzione, che risulta essere piuttosto pulita e compatta, quindi molto lontana dalle tipiche produzioni che passano da queste parti. Inoltre, il gruppo gioca, anche se con la giusta misura, con l’effettistica, e da questo punto di vista ascoltatevi il finale di “Thornscrowned”.
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Deny/ 2 – Generator of Dead Humans/ 3 – My Own Redeemer/ 4 – Thornscrowned
MySpace:
http://www.myspace.com/crownedinthorns
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/CROWNED-IN-THORNS/193209594089422
Formazione: WLKN, voce;
Saahve, chitarre (sostituito poi da Herr 413, ma nel MySpace non figura…);
Alessandro, basso (andatosene dopo anche lui);
Mark, batteria.
Provenienza: Cagliari, Sardegna.
Canzone migliore del demo:
senz’ombra di dubbio la delirante “My Own Redeemer”. Per il perché leggete attentamente la recensione.
Punto di forza del gruppo:
la batteria, che nonostante i blast – beats a go – go non perde mai né il controllo né l’inventiva.
-------------------------------------------------------------------------------------------------Curiosità:
il gruppo ha reso disponibile da scaricare su MegaUpload il primo e finora unico demo. Il link lo trovate proprio sul MySpace dei Crowned in Thorns. Però mi raccomando: visto che loro sono stati corretti dando la possibilità a tutti di scaricarlo, mi sembra ovvio che nel caso vi piaccia siete moralmente obbligati a comprare direttamente il disco.
Ancora Sardegna, ancora black metal, anche se declinato stavolta, rispetto agli Hieros Gamos, in versione decisamente più tradizionalista ma allo stesso tempo pure più qualitativa. Oddio, delle sorprese belle inaspettate i Crowned in Thorns le presentano, e fra l’altro confermano ancora una volta il “trend” attuale di Timpani allo Spiedo rappresentato dai gruppi black/death metal, pur essendo stavolta lontanissimi da gruppi “ignoranti” e a là Blasphemy come i Blasphemous Noise Torment, Nocturnal Blood e Witchrist.
Ciò anche perché, rispetto a questi gruppi, i Crowned in Thorns possiedono sul serio nelle proprie vene il black metal, grazie per esempio ad un riffing non poche volte imponente e glaciale così da trasmettere tutto un altro tipo di atmosfera. Altra notevole differenza è l’assenza pressoché totale dei rumorismi offerti dagli assoli di chitarra, la quale non si concede neanche qualche sovrapposizione di riff, se non leggerissimamente. In pratica, abbiamo a che fare con una specie di black metal svedese tremendamente blasteggiante con frequenti concessioni al death metal se non, seppur vagamente, al thrash metal (come in “My Own Redeemer”).
Il death metal lo si sente però molto anche nel comparto vocale, dato che tra urla assatanate vi si trovano vari tipi di grugniti, fra cui uno cupissimo che ad ogni modo viene utilizzato soltanto come sovraincisione.
Ciò che però mi ha più impressionato è la batteria, dato che Mark presenta uno stile bello dinamico e sempre puntuali negli accenti utili ad enfatizzare tutto l’insieme. E lo fa quasi sempre tramite blast – beats sempre freschi, concedendo però qualcosina anche a magnifici tupa – tupa mai fuori luogo. Fra l’altro, un plauso va al suono molto naturale della batteria, cosa che si percepisce in particolare nei rari tempi lenti dove per esempio “l’ignoranza” del rullante predomina su tutto.
La dinamicità della batteria si riflette però anche nella musica intesa nel suo insieme. Infatti, oltre ad offrire una struttura dei pezzi per niente semplice e/o banale (per esempio, “I Deny” è fondato sulle ripartenze mentre “Generator of Dead Humans” scorre fluido come un treno in corsa), i vari episodi si sviluppano in maniera molto fantasiosa distinguendosi così notevolmente fino al gran finale di “Thornscrowned”, dalle tinte addirittura epiche e da alcuni passaggi perfino arpeggiati.
Ma in tutto il lotto si distingue specialmente il pezzo “My Own Redeemer”, che praticamente raggiunge altezze praticamente folli per un gruppo del genere visto che conta le seguenti caratteristiche:
1) la sua struttura è totalmente libera e rinforzata fra l’altro da ripartenze da capogiro;
2) vi è per la prima ed unica volta un passaggio doom nel vero senso della parola e non relegato ad essere una semplice comparsa;
3) nel lungo momento doom è presente come voce aggiuntiva un “alieno” cantato pulito freddissimo;
4) lo stesso passaggio viene chiuso splendidamente da una linea di basso inaspettata.
In parole povere, “My Own Redeemer” è una specie di esperimento che per le future produzioni del gruppo dovrebbe essere preso in seria considerazione dato che, oltre ad essere ben riuscito, offre anche spunti molto ma molto originali. Sarebbe quindi veramente un peccato non proseguire su questa strada. Il merito poi è nettamente più grande se si pensa che esso è l'unico pezzo a raggiungere e superare di una cinquantina di secondi i 4 minuti.
Per chiudere il cerchio, tocca parlare della produzione, che risulta essere piuttosto pulita e compatta, quindi molto lontana dalle tipiche produzioni che passano da queste parti. Inoltre, il gruppo gioca, anche se con la giusta misura, con l’effettistica, e da questo punto di vista ascoltatevi il finale di “Thornscrowned”.
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – I Deny/ 2 – Generator of Dead Humans/ 3 – My Own Redeemer/ 4 – Thornscrowned
MySpace:
http://www.myspace.com/crownedinthorns
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/CROWNED-IN-THORNS/193209594089422
Tuesday, January 17, 2012
Hieros Gamos - "Bionic Era of Psychosis" (2011)
Demo autoprodotto (2011)
Formazione (2005): Marco Proietti, voce;
Roberto Moro, chitarra/basso/batteria elettronica/tastiere.
Marco Brivio, chitarra solista.
Provenienza: Ittiri/Lecco/Roma, Sardegna/Piemonte/Lazio.
Canzone migliore del demo:
sicuramente quella omonima, soprattutto perché dal punto di vista solistico è praticamente stupenda oltreché costruita molto bene strutturalmente parlando.
Punto di forza del disco:
la chitarra solista, che aggiunge tutto un altro tipo di atmosfera al progetto, riuscendo lo stesso ad essere tremendamente azzeccato.
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Molto è cambiato negli Hieros Gamos, una delle esperienze estreme più controverse ed originali degli ultimi anni, sia all’estero che in Italia. Prima di tutto, Roberto Moro ha reclutato nel suo progetto ben 3 nuove persone, comprendendo fra queste anche Bloody Hansen, altra conoscenza di Timpani allo Spiedo (visto che è la mente che sta dietro alle litanie horror di The Providence il cui ultimo disco è stato recensito su queste stesse pagine), che ha collaborato alla stesura dei testi, che devono molto a “1984” di George Orwell. Ma è anche vero che, paradossalmente, pure con tale nuova formazione si sono riproposti ancora una volta i limiti, quasi storici, di Hieros Gamos.
Limiti che sono da rintracciare ancora una volta sia nella voce che nella batteria elettronica, e ciò perché:
1) nonostante il comparto vocale sia stato passato ad un altro, esso non incide mai come invece dovrebbe essere, visto che il grugnito grosso del mio conterraneo Marco Proietti non è soltanto monotono ma anche ripetitivo nelle linee vocali, che spesso sembrano andare in disaccordo con l’intera musica (cosa questa che però non succedeva con le urla spettrali di Roberto). Ciò significa in parole povere che il nostro manca di sufficiente espressività per dare manforte ai compagni;
2) la batteria elettronica invece ha un suono purtroppo molto plastico e finto, più che altro per quanto concerne il rullante e i tom – tom, smorzando così un po’ la buona intensità presente nel comparto chitarre e nella costruzione (la quale però difetta un po’ nelle ripartenze, e ciò è una conseguenza talvolta ingigantita rispetto alle passate produzioni, delle mancanze menzionate) stessa dei pezzi. E’ anche vero che Roberto ha programmato stavolta la batteria in modo piuttosto fantasioso e molto convincente, magari sfoggiando inaspettati passaggi groovy.
Com’è inaspettato il fatto che i 4 pezzi del disco, annunciato nell’intervista a Hieros Gamos del 2° numero di Timpani, siano quasi degli inediti veri e propri, nonostante i proclami del passato, con qualche reminiscenza proveniente dal passato, specialmente per quanto riguarda “Bionic Era of Psychosis”. In pratica sono stati giustamente attualizzati secondo il diverso momento storico e secondo ovviamente i nuovi membri in formazione (di cui riconoscibilissimo è Marco Brivio). Ma quello che più incuriosisce di più è la durata spesso incredibilmente dimezzata dei vari brani, che ora vanno addirittura dai 2 (e dico 2!) ai 5 minuti, e devo dire che tale pesante razionalizzazione è stata davvero intelligente, più che altro perché si è così permesso ai nostri di racchiudere tutta l’intensità della musica in maniera, per così dire, più semplice. Se pensiamo infatti alla difficoltà estrema di digerire specialmente l’assurdo “The Sound of Doom” questo traguardo non può che essere benvoluto.
Traguardo che viene ulteriormente facilitato dagli assoli fantasiosi di Marco Brivio che naturalmente, rispetto ai suoi Bahal nei quali scarica tutta la sua verve virtuosistica, si è limitato nella durata (e nel numero) degli stessi. Com’è anche vero che non si è limitato nella costruzione di melodie che riescono a intessere un discorso ultra – emotivo da far accapponare la pelle tanto da essersi permesso di incidere ben due chitarre soliste in “Three Days to Dawn”. L’unico rammarico (molto relativo) è che non ci sono più gli assoli arabeggianti con cui Roberto si è fatto conoscere, ma perlomeno i nuovi riescono a risolvere con più facilità i pezzi.
Per il resto, la musica è rimasta quasi la stessa, ossia viene sfoggiato un discorso nervoso da infarto con un sacco di cambi di tempo, riffing tremendamente complesso che però è divenuto ancora più spaventoso per via di dissonanze spaventose non disdegnando allo stesso tempo un po’ di melodie, influenze arabe nello stesso riffing (che fra l’altro ha aggiunto qualche vago tocco thrasheggiante) e tanta, tanta, tanta pazienza nell’ascolto.
Oddio, tanta pazienza non con l’ultimo pezzo, che poi, quasi per provocazione, sarebbe la cover, semplificata anche perché più breve rispetto all’originale, di “Gut Feeling” dei magnifici Devo, ottimo gruppo che dal geniale punk sperimentale delle origini è passato ad un più convenzionale pop rock. Solo che bella l’intenzione ma la cover è troppo fedele all’originale (blast – beats – un po’ piatti – esclusi per esempio), e quindi troppo poco Hieros Gamos. Chissà insomma come sarebbe uscito se avessero rispettato anche sé stessi. Ecco perché “tanta pazienza non con l’ultimo pezzo”.
Infine, anche la produzione risulta molto diversa da quella degli altri dischi, con un suono cioè più pieno e meno cupo, e con una batteria elettronica finalmente più comprensibile.
Voto: 69
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Your Mind Was Elsewhere/ 2 – Two Minutes of Hate/ 3 – Bionic Era of Psychosis/ 4 – Three Days to Dawn/ 5 – Gut Feeling (Devo cover)
MySpace:
www.myspace.com/hierosgamositalia
Sito ufficiale:
www.hierosgamos.sardegna@gmail.com
Formazione (2005): Marco Proietti, voce;
Roberto Moro, chitarra/basso/batteria elettronica/tastiere.
Marco Brivio, chitarra solista.
Provenienza: Ittiri/Lecco/Roma, Sardegna/Piemonte/Lazio.
Canzone migliore del demo:
sicuramente quella omonima, soprattutto perché dal punto di vista solistico è praticamente stupenda oltreché costruita molto bene strutturalmente parlando.
Punto di forza del disco:
la chitarra solista, che aggiunge tutto un altro tipo di atmosfera al progetto, riuscendo lo stesso ad essere tremendamente azzeccato.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Molto è cambiato negli Hieros Gamos, una delle esperienze estreme più controverse ed originali degli ultimi anni, sia all’estero che in Italia. Prima di tutto, Roberto Moro ha reclutato nel suo progetto ben 3 nuove persone, comprendendo fra queste anche Bloody Hansen, altra conoscenza di Timpani allo Spiedo (visto che è la mente che sta dietro alle litanie horror di The Providence il cui ultimo disco è stato recensito su queste stesse pagine), che ha collaborato alla stesura dei testi, che devono molto a “1984” di George Orwell. Ma è anche vero che, paradossalmente, pure con tale nuova formazione si sono riproposti ancora una volta i limiti, quasi storici, di Hieros Gamos.
Limiti che sono da rintracciare ancora una volta sia nella voce che nella batteria elettronica, e ciò perché:
1) nonostante il comparto vocale sia stato passato ad un altro, esso non incide mai come invece dovrebbe essere, visto che il grugnito grosso del mio conterraneo Marco Proietti non è soltanto monotono ma anche ripetitivo nelle linee vocali, che spesso sembrano andare in disaccordo con l’intera musica (cosa questa che però non succedeva con le urla spettrali di Roberto). Ciò significa in parole povere che il nostro manca di sufficiente espressività per dare manforte ai compagni;
2) la batteria elettronica invece ha un suono purtroppo molto plastico e finto, più che altro per quanto concerne il rullante e i tom – tom, smorzando così un po’ la buona intensità presente nel comparto chitarre e nella costruzione (la quale però difetta un po’ nelle ripartenze, e ciò è una conseguenza talvolta ingigantita rispetto alle passate produzioni, delle mancanze menzionate) stessa dei pezzi. E’ anche vero che Roberto ha programmato stavolta la batteria in modo piuttosto fantasioso e molto convincente, magari sfoggiando inaspettati passaggi groovy.
Com’è inaspettato il fatto che i 4 pezzi del disco, annunciato nell’intervista a Hieros Gamos del 2° numero di Timpani, siano quasi degli inediti veri e propri, nonostante i proclami del passato, con qualche reminiscenza proveniente dal passato, specialmente per quanto riguarda “Bionic Era of Psychosis”. In pratica sono stati giustamente attualizzati secondo il diverso momento storico e secondo ovviamente i nuovi membri in formazione (di cui riconoscibilissimo è Marco Brivio). Ma quello che più incuriosisce di più è la durata spesso incredibilmente dimezzata dei vari brani, che ora vanno addirittura dai 2 (e dico 2!) ai 5 minuti, e devo dire che tale pesante razionalizzazione è stata davvero intelligente, più che altro perché si è così permesso ai nostri di racchiudere tutta l’intensità della musica in maniera, per così dire, più semplice. Se pensiamo infatti alla difficoltà estrema di digerire specialmente l’assurdo “The Sound of Doom” questo traguardo non può che essere benvoluto.
Traguardo che viene ulteriormente facilitato dagli assoli fantasiosi di Marco Brivio che naturalmente, rispetto ai suoi Bahal nei quali scarica tutta la sua verve virtuosistica, si è limitato nella durata (e nel numero) degli stessi. Com’è anche vero che non si è limitato nella costruzione di melodie che riescono a intessere un discorso ultra – emotivo da far accapponare la pelle tanto da essersi permesso di incidere ben due chitarre soliste in “Three Days to Dawn”. L’unico rammarico (molto relativo) è che non ci sono più gli assoli arabeggianti con cui Roberto si è fatto conoscere, ma perlomeno i nuovi riescono a risolvere con più facilità i pezzi.
Per il resto, la musica è rimasta quasi la stessa, ossia viene sfoggiato un discorso nervoso da infarto con un sacco di cambi di tempo, riffing tremendamente complesso che però è divenuto ancora più spaventoso per via di dissonanze spaventose non disdegnando allo stesso tempo un po’ di melodie, influenze arabe nello stesso riffing (che fra l’altro ha aggiunto qualche vago tocco thrasheggiante) e tanta, tanta, tanta pazienza nell’ascolto.
Oddio, tanta pazienza non con l’ultimo pezzo, che poi, quasi per provocazione, sarebbe la cover, semplificata anche perché più breve rispetto all’originale, di “Gut Feeling” dei magnifici Devo, ottimo gruppo che dal geniale punk sperimentale delle origini è passato ad un più convenzionale pop rock. Solo che bella l’intenzione ma la cover è troppo fedele all’originale (blast – beats – un po’ piatti – esclusi per esempio), e quindi troppo poco Hieros Gamos. Chissà insomma come sarebbe uscito se avessero rispettato anche sé stessi. Ecco perché “tanta pazienza non con l’ultimo pezzo”.
Infine, anche la produzione risulta molto diversa da quella degli altri dischi, con un suono cioè più pieno e meno cupo, e con una batteria elettronica finalmente più comprensibile.
Voto: 69
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Your Mind Was Elsewhere/ 2 – Two Minutes of Hate/ 3 – Bionic Era of Psychosis/ 4 – Three Days to Dawn/ 5 – Gut Feeling (Devo cover)
MySpace:
www.myspace.com/hierosgamositalia
Sito ufficiale:
www.hierosgamos.sardegna@gmail.com
Sunday, January 15, 2012
Detestor - "In the Circle of Time" (1995)
Album (1995, Dracma Records)
Formazione (1986): Jaiko, voce/tastiere;
Paola, chitarra;
Niki, chitarra;
Ale, basso/voce aggiuntiva;
Rigel, batteria.
Provenienza: Genova, Liguria.
Canzone migliore dell’opera:
senz’ombra di dubbio “Neurocircuit”, ossia l’episodio più lungo del lotto essendo di circa 5 minuti e mezzo, il quale conta alcune delle più belle melodie dell’album, in tal caso epiche come poche.
Punto di forza del disco:
la drammaticità che i Detestor si ritrovano, aiutata da una costruzione dei pezzi nervosa e quasi istintiva, e da un bagaglio melodico decisamente sofferto.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Questo disco, questa reliquia di metal italico – pensate un po’ – qualche giorno fa ha passato un viaggio da incubo purissimo. In parole povere, appena finito di ascoltarlo, ovviamente prendo il cd per riporlo nell’apposita custodia. Ma invece di farlo… mi sfugge di mano. Naturalmente mi chino per riprendermelo… per scivolarmi ancora di mano così da infilarsi proprio sotto il mobile su cui c’è un casino di cose, in primis il televisore, il lettore dvd e fuffa varia. Il panico mi ha preso, mi ha preso perché ho profanato senza volerlo un cd prezioso, un cd d’oro, un cd comprato in offerta al mio negozio di fiducia, Star Music, sporcandolo della maledetta polvere! Ho così cercato di riprendermelo, prima con le mani (quando ancora sbucava, anche se leggerissimamente, dal mobile), poi con un intero servizio di coltelli e…. dopo è arrivata mia madre che, meglio di Superman, l’ha scovato per rifargli vedere la luce! Che storia toccante, nevvero?
La storia è toccante anche perché i Detestor, dopo una decina d’anni, si sono da poco riformati così da pubblicare qualche mese fa l’album del ritorno, “Fulgor”. In pratica, colgo l’occasione per omaggiare un gruppo geniale che si meritava di più e che si è fatto coraggiosamente vivo in uno dei periodi più bui per il death metal, soppiantato com’era a quel tempo dal cugino malfatto del black metal.
Infatti, i Detestor di “In the Circle of Time” suonano un death metal piuttosto sui generis e difficile da digerire, anche perché i pezzi dell’album sono addirittura 13. Quindi, consiglio fin da subito di ascoltare il disco, per meglio comprenderlo, a mano a mano, non tutto intero in una sola botta. Pezzi anche molto vari per impostazione, dato che vi si trovano in maniera intelligente e perfettamente funzionale alla lunghezza dell’album, perfino delle strumentali, cioè “Death Inside” e “Silence”, vere e proprie finezze.
La prima caratteristica che balza all’occhio del gruppo è l’uso pressoché continuo della melodia, che spesso e volentieri fa assumere all’intera musica un taglio drammatico veramente notevole per intensità e costruzione e a cui prende parte, in non poche occasioni, anche il basso, strumento che solitamente nel death metal non possiede (ingiustamente) tutta questa importanza. E’ di importanza vitale nell’intero discorso anche la chitarra solista, in grado di dare spesso manforte alla ritmica. Fate conto però che, nonostante tutte queste belle parole, il gruppo quando vuole pestare, pesta veramente di brutto, blast – beats compresi.
Di conseguenza, la tecnica si rivela fondamentale per i Detestor, per esempio sia nell’uso di ritmiche che di certo non si sentono tutti i giorni, sia nell’utilizzo, comunque misurato, degli assoli, abbastanza lunghetti e solitamente opera di Paola, pur se di poco. L’unico strumento in cui non vi si presentano tutte queste doti tecniche è la tastiera (la quale si presenta solo in poche momenti, beninteso), minimalista ma non troppo quanto basta per offrire un’atmosfera che a tratti ha quasi del romantico.
Tecnica che però si riflette nella struttura – tipo adottata, che rifugge in ogni modo dal proporre soluzioni semplici e che amplifica ulteriormente la drammaticità propinata dai Detestor. Loro in pratica fanno uso di sequenze spesso lunghe e con un’infinità di cambi di tempo puntuali come un orologio svizzero. Anche se talvolta, in questa babele nella quale il concetto di invenzione pura viene rispettato appieno, i Detestor possono non concedere il giusto spazio di approfondimento a qualche passaggio, ma ciò è fisiologico per un gruppo del genere.
Caratteristica più standard è l’alternanza tra un grugnito grosso (la voce principale) ma ben portato ad efficaci variazioni tonali, ed un urlo scartavetrato. Alternanza che permette dei giochi vocali ben giostrati e che concede perfino qualcosina alla voce pulita, quasi sempre narrante (quindi non aspettatevi voci melodiche) e mai invasiva. Semmai, se questa fosse più espressiva non sarebbe affatto male…. In ogni caso, un plauso va ai testi, che trattano tematiche serie e concrete (tanto per fare un esempio, vengono mandati affanculo i politici), che arrivano a tributare esplicitamente il punk!
Decisamente meno comune è la produzione, più che altro perché i Detestor amano usare gli effetti, così da manipolare, ma con la giust misura, molti strumenti, tra cui la voce. Questa cosa di utilizzarli mi è sembrata sempre una cosa molto artificiosa e poco coerente con gli spettacoli dal vivo (dato che di fatto solo pochi gruppi li riproducono sul serio), ma pazienza. Per il resto, è una produzione sporchetta e con il basso bene in evidenza, ma con qualche problemino sulla batteria, più che altro sul rullante, dato che da un pezzo all’altro può capitare che il suo suono cambi.
Ma soprattutto, CHISSENEFREGA, perché “In the Circle of Time” è e rimarrà sempre un capolavoro con i controzebedei!
Voto: 90
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Clear the World/ 2 – Life Goes/ 3 – Alone/ 4 – E.S.P./ 5 – Death Inside/ 6 – I Have the Power/ 7 – Kill me/ 8 – Lord of Gold/ 9 – Silence/ 10 – Neurocircuit/ 11 – Well of Madness/ 12 – In the Circle of Time/ 13 – Outro
MySpace:
http://www.myspace.com/detestorofficial
Formazione (1986): Jaiko, voce/tastiere;
Paola, chitarra;
Niki, chitarra;
Ale, basso/voce aggiuntiva;
Rigel, batteria.
Provenienza: Genova, Liguria.
Canzone migliore dell’opera:
senz’ombra di dubbio “Neurocircuit”, ossia l’episodio più lungo del lotto essendo di circa 5 minuti e mezzo, il quale conta alcune delle più belle melodie dell’album, in tal caso epiche come poche.
Punto di forza del disco:
la drammaticità che i Detestor si ritrovano, aiutata da una costruzione dei pezzi nervosa e quasi istintiva, e da un bagaglio melodico decisamente sofferto.
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Questo disco, questa reliquia di metal italico – pensate un po’ – qualche giorno fa ha passato un viaggio da incubo purissimo. In parole povere, appena finito di ascoltarlo, ovviamente prendo il cd per riporlo nell’apposita custodia. Ma invece di farlo… mi sfugge di mano. Naturalmente mi chino per riprendermelo… per scivolarmi ancora di mano così da infilarsi proprio sotto il mobile su cui c’è un casino di cose, in primis il televisore, il lettore dvd e fuffa varia. Il panico mi ha preso, mi ha preso perché ho profanato senza volerlo un cd prezioso, un cd d’oro, un cd comprato in offerta al mio negozio di fiducia, Star Music, sporcandolo della maledetta polvere! Ho così cercato di riprendermelo, prima con le mani (quando ancora sbucava, anche se leggerissimamente, dal mobile), poi con un intero servizio di coltelli e…. dopo è arrivata mia madre che, meglio di Superman, l’ha scovato per rifargli vedere la luce! Che storia toccante, nevvero?
La storia è toccante anche perché i Detestor, dopo una decina d’anni, si sono da poco riformati così da pubblicare qualche mese fa l’album del ritorno, “Fulgor”. In pratica, colgo l’occasione per omaggiare un gruppo geniale che si meritava di più e che si è fatto coraggiosamente vivo in uno dei periodi più bui per il death metal, soppiantato com’era a quel tempo dal cugino malfatto del black metal.
Infatti, i Detestor di “In the Circle of Time” suonano un death metal piuttosto sui generis e difficile da digerire, anche perché i pezzi dell’album sono addirittura 13. Quindi, consiglio fin da subito di ascoltare il disco, per meglio comprenderlo, a mano a mano, non tutto intero in una sola botta. Pezzi anche molto vari per impostazione, dato che vi si trovano in maniera intelligente e perfettamente funzionale alla lunghezza dell’album, perfino delle strumentali, cioè “Death Inside” e “Silence”, vere e proprie finezze.
La prima caratteristica che balza all’occhio del gruppo è l’uso pressoché continuo della melodia, che spesso e volentieri fa assumere all’intera musica un taglio drammatico veramente notevole per intensità e costruzione e a cui prende parte, in non poche occasioni, anche il basso, strumento che solitamente nel death metal non possiede (ingiustamente) tutta questa importanza. E’ di importanza vitale nell’intero discorso anche la chitarra solista, in grado di dare spesso manforte alla ritmica. Fate conto però che, nonostante tutte queste belle parole, il gruppo quando vuole pestare, pesta veramente di brutto, blast – beats compresi.
Di conseguenza, la tecnica si rivela fondamentale per i Detestor, per esempio sia nell’uso di ritmiche che di certo non si sentono tutti i giorni, sia nell’utilizzo, comunque misurato, degli assoli, abbastanza lunghetti e solitamente opera di Paola, pur se di poco. L’unico strumento in cui non vi si presentano tutte queste doti tecniche è la tastiera (la quale si presenta solo in poche momenti, beninteso), minimalista ma non troppo quanto basta per offrire un’atmosfera che a tratti ha quasi del romantico.
Tecnica che però si riflette nella struttura – tipo adottata, che rifugge in ogni modo dal proporre soluzioni semplici e che amplifica ulteriormente la drammaticità propinata dai Detestor. Loro in pratica fanno uso di sequenze spesso lunghe e con un’infinità di cambi di tempo puntuali come un orologio svizzero. Anche se talvolta, in questa babele nella quale il concetto di invenzione pura viene rispettato appieno, i Detestor possono non concedere il giusto spazio di approfondimento a qualche passaggio, ma ciò è fisiologico per un gruppo del genere.
Caratteristica più standard è l’alternanza tra un grugnito grosso (la voce principale) ma ben portato ad efficaci variazioni tonali, ed un urlo scartavetrato. Alternanza che permette dei giochi vocali ben giostrati e che concede perfino qualcosina alla voce pulita, quasi sempre narrante (quindi non aspettatevi voci melodiche) e mai invasiva. Semmai, se questa fosse più espressiva non sarebbe affatto male…. In ogni caso, un plauso va ai testi, che trattano tematiche serie e concrete (tanto per fare un esempio, vengono mandati affanculo i politici), che arrivano a tributare esplicitamente il punk!
Decisamente meno comune è la produzione, più che altro perché i Detestor amano usare gli effetti, così da manipolare, ma con la giust misura, molti strumenti, tra cui la voce. Questa cosa di utilizzarli mi è sembrata sempre una cosa molto artificiosa e poco coerente con gli spettacoli dal vivo (dato che di fatto solo pochi gruppi li riproducono sul serio), ma pazienza. Per il resto, è una produzione sporchetta e con il basso bene in evidenza, ma con qualche problemino sulla batteria, più che altro sul rullante, dato che da un pezzo all’altro può capitare che il suo suono cambi.
Ma soprattutto, CHISSENEFREGA, perché “In the Circle of Time” è e rimarrà sempre un capolavoro con i controzebedei!
Voto: 90
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Clear the World/ 2 – Life Goes/ 3 – Alone/ 4 – E.S.P./ 5 – Death Inside/ 6 – I Have the Power/ 7 – Kill me/ 8 – Lord of Gold/ 9 – Silence/ 10 – Neurocircuit/ 11 – Well of Madness/ 12 – In the Circle of Time/ 13 – Outro
MySpace:
http://www.myspace.com/detestorofficial
Thursday, January 12, 2012
Rotorvator - "NeroEP" (2011)
Ep (Cosmesi & CSS Teatro Stabile d’Innovazione del FVG, 1 Novembre 2011)
Formazione (2006): sconosciuta
Provenienza: Belluno, Veneto
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “4:51”, episodio che si conclude in una maniera assurda e completamente aperta, quasi come un incubo lovecraftiano.
Punto di forza dell’opera:
ho una preferenza particolare per la struttura dei pezzi, la quale li riesce a distinguere meravigliosamente ed in maniera tremendamente funzionale all’atmosfera stessa inquietante già dal punto di vista meramente musicale.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Curiosità:
faccio presente che Merlo, il cantante, ha fondato, insieme ad XV, mente di una vecchia conoscenza di Timpani allo Spiedo, ossia il progetto di black sperimentale Rhuith, il gruppo di black puro The Plague Rides at Dawn, con il quale ha pubblicato, sotto War Command Distro, il demo omonimo del 2011.
I Rotorvator, gruppo visionario come pochi, non sbagliano un colpo, e con “NeroEP”, disco dal vivo registrato nel 2010 in quel di Santarcangelo in provincia di Rimini, in occasione del Festival Internazionale del Teatro in Piazza (probabilmente è per questo che il pubblico non lo si sente mai…). Il bello è che dal punto di vista musicale si trovano soltanto pezzi completamente inediti, che poi hanno la curiosa peculiarità di chiamarsi come la loro durata. Inoltre, la durata dei pezzi è stranamente un pochino più breve del solito, con la presenza di ben 2 pezzi che neanche raggiungono, se non di poco, i 4 minuti.
Ma la differenza forse più grande rispetto ai passati dischi è da identificarsi nella produzione più “umana” e decisamente meno assordante di quanto i Rotorvator ci abbiano mai abituato. Anche se, beninteso, è sempre bella sporca ma ho notato una chitarra paradossalmente meno intelligibile del solito… o forse ho scritto una semplice cazzata?
Quella a non cambiare mai è la qualità della proposta, proposta che però è molto differente da quella propinataci da “Nahum”, pur combinando sempre due generi musicali che vanno molto bene insieme, ossia il black metal e l’industrial. Tanto per fare qualche esempio, mancano del tutto quei passaggi, anche a mo’ di introduzione, completamente fuori di testa e mega – campionati, mentre di quelle che in passato ho chiamato come “pause rumoriste” non ve n’è più traccia. Insomma, i Rotorvator odiano fossilizzarsi, e giustamente sulle stesse soluzioni, sempre però nel rispetto di uno stile piuttosto originale e riconoscibile.
Tale “incapacità” di fossilizzazione si esplica specialmente nella struttura dei pezzi, i quali sono l’uno diversi dall’altro anche da questo punto di vista. Infatti, nell’ordine:
- “5:03” è il brano più isterico ed imprevedibile del lotto e che risulta tutto dominato dalle variazioni indicibili di una batteria elettronica che a volte sembra impazzita, con tanto di blast – beats;
- “3:47” è di tipo più sequenziale, e quindi appare più ordinata, pur avendo dalla sua parte una chitarra spesso tremendamente dissonante;
- “3:46” è invece è pura ipnosi, un viaggio inquietante in un abisso che a un certo punto è sempre uguale a sé stesso, contando infine la cassa della batteria che se ne va solitaria, come incantata, per concludere un pezzo infame;
- “4:51” è una degna conseguenza del pezzo precedente essendo una specie di rituale inconcepibile basato prima su una lenta ma non lineare sovrabbondanza di suoni e rumori, poi su un climax perennemente soffocato e schizzato.
L’ultimo episodio del disco effettivamente si allontana molto dalle direttive degli altri pezzi avendo una natura più atmosferica e super – anticonvenzionale (per quanto i Rotorvator lo siano già di suo) tanto da aver utilizzato perfino la voce pulita in modo molto evocativo. E con questa il raggio d’azione di Merlo si è allargato incredibilmente ancor di più!
Da menzionare inoltre l’ottimo uso della chitarra, che nonostante tutta la violenza, anche psicologica, di cui il gruppo è capace, riesce ad essere talvolta spaventosamente melodica, sparando magari delle melodie addirittura dolci (sì, dolci, avete letto bene!), pressoché inaspettate.
In parole povere, un altro colpo da maestro per questi 3 pazzi scatenati. Solo che ormai sarebbe meglio testarli sulla lunga distanza, ossia con un album vero e proprio, così da controllare se siano capaci di sparare tutta questa montagna di intensità attraverso un disco dal minutaggio più consistente. Anche per semplice curiosità, beninteso.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – 5:03/ 2 – 3:46/ 3 – 3:47/ 4 - 4:51
Sito:
http://rotorvatorblack.blogspot.com
Formazione (2006): sconosciuta
Provenienza: Belluno, Veneto
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “4:51”, episodio che si conclude in una maniera assurda e completamente aperta, quasi come un incubo lovecraftiano.
Punto di forza dell’opera:
ho una preferenza particolare per la struttura dei pezzi, la quale li riesce a distinguere meravigliosamente ed in maniera tremendamente funzionale all’atmosfera stessa inquietante già dal punto di vista meramente musicale.
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Curiosità:
faccio presente che Merlo, il cantante, ha fondato, insieme ad XV, mente di una vecchia conoscenza di Timpani allo Spiedo, ossia il progetto di black sperimentale Rhuith, il gruppo di black puro The Plague Rides at Dawn, con il quale ha pubblicato, sotto War Command Distro, il demo omonimo del 2011.
I Rotorvator, gruppo visionario come pochi, non sbagliano un colpo, e con “NeroEP”, disco dal vivo registrato nel 2010 in quel di Santarcangelo in provincia di Rimini, in occasione del Festival Internazionale del Teatro in Piazza (probabilmente è per questo che il pubblico non lo si sente mai…). Il bello è che dal punto di vista musicale si trovano soltanto pezzi completamente inediti, che poi hanno la curiosa peculiarità di chiamarsi come la loro durata. Inoltre, la durata dei pezzi è stranamente un pochino più breve del solito, con la presenza di ben 2 pezzi che neanche raggiungono, se non di poco, i 4 minuti.
Ma la differenza forse più grande rispetto ai passati dischi è da identificarsi nella produzione più “umana” e decisamente meno assordante di quanto i Rotorvator ci abbiano mai abituato. Anche se, beninteso, è sempre bella sporca ma ho notato una chitarra paradossalmente meno intelligibile del solito… o forse ho scritto una semplice cazzata?
Quella a non cambiare mai è la qualità della proposta, proposta che però è molto differente da quella propinataci da “Nahum”, pur combinando sempre due generi musicali che vanno molto bene insieme, ossia il black metal e l’industrial. Tanto per fare qualche esempio, mancano del tutto quei passaggi, anche a mo’ di introduzione, completamente fuori di testa e mega – campionati, mentre di quelle che in passato ho chiamato come “pause rumoriste” non ve n’è più traccia. Insomma, i Rotorvator odiano fossilizzarsi, e giustamente sulle stesse soluzioni, sempre però nel rispetto di uno stile piuttosto originale e riconoscibile.
Tale “incapacità” di fossilizzazione si esplica specialmente nella struttura dei pezzi, i quali sono l’uno diversi dall’altro anche da questo punto di vista. Infatti, nell’ordine:
- “5:03” è il brano più isterico ed imprevedibile del lotto e che risulta tutto dominato dalle variazioni indicibili di una batteria elettronica che a volte sembra impazzita, con tanto di blast – beats;
- “3:47” è di tipo più sequenziale, e quindi appare più ordinata, pur avendo dalla sua parte una chitarra spesso tremendamente dissonante;
- “3:46” è invece è pura ipnosi, un viaggio inquietante in un abisso che a un certo punto è sempre uguale a sé stesso, contando infine la cassa della batteria che se ne va solitaria, come incantata, per concludere un pezzo infame;
- “4:51” è una degna conseguenza del pezzo precedente essendo una specie di rituale inconcepibile basato prima su una lenta ma non lineare sovrabbondanza di suoni e rumori, poi su un climax perennemente soffocato e schizzato.
L’ultimo episodio del disco effettivamente si allontana molto dalle direttive degli altri pezzi avendo una natura più atmosferica e super – anticonvenzionale (per quanto i Rotorvator lo siano già di suo) tanto da aver utilizzato perfino la voce pulita in modo molto evocativo. E con questa il raggio d’azione di Merlo si è allargato incredibilmente ancor di più!
Da menzionare inoltre l’ottimo uso della chitarra, che nonostante tutta la violenza, anche psicologica, di cui il gruppo è capace, riesce ad essere talvolta spaventosamente melodica, sparando magari delle melodie addirittura dolci (sì, dolci, avete letto bene!), pressoché inaspettate.
In parole povere, un altro colpo da maestro per questi 3 pazzi scatenati. Solo che ormai sarebbe meglio testarli sulla lunga distanza, ossia con un album vero e proprio, così da controllare se siano capaci di sparare tutta questa montagna di intensità attraverso un disco dal minutaggio più consistente. Anche per semplice curiosità, beninteso.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – 5:03/ 2 – 3:46/ 3 – 3:47/ 4 - 4:51
Sito:
http://rotorvatorblack.blogspot.com
Sunday, January 8, 2012
Nocturnal Blood - "Devastated Graves - The Morbid Celebration" (2010)
Album (Hells Headbanger Records, 15 Ottobre 2010)
Formazione (2008): Ghastly Apparition, voce/chitarre/basso/batteria
Provenienza: Fontana, California (Stati Uniti)
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “Ghouls Wrath”, autentico gioiello nero nel quale la fa da padrone un groove sfrenato che fa ballare il culo peggio che nella dance.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente l’atmosfera spaventosa ricreata costantemente per tutto l’album, un’atmosfera aiutata paradossalmente anche dalla pochezza di soluzioni che quasi soffocano l’ascoltatore in un abisso infernale.
-------------------------------------------------------------------------------------------------26 minuti! Al nostro sono bastati soltanto 26 minuti per creare un delirio sonoro così semplice ed essenziale eppure intensissimo che fa paura già dalla produzione, che sicuramente qualcuno troverà un po’ discutibile facendo quindi il grave errore di decontestualizzarla in modo da renderla quasi come qualcosa di non voluto dal diretto interessato. Ma chi si intende di black/death a là Blasphemy è abituato a simili scempi, e quindi perchè pretendere per forza qualcos’altro?
Già, la produzione. Chissenefrega se la chitarra a volte è così incomprensibile da non gustarne bene bene ogni nota su stereo (ragion per cui consiglio a tutti di ascoltare l’album con le cuffie). E chissenefrega se la voce (di base un grugnito cupo e bestiale) è così effettato da rendere praticamente quasi confusionarie le varie linee vocali grazie ad un effetto d’eco abbastanza spinto. E va invece più che bene il suono “ignorante” e ultra – naturale della batteria, ma alcuni lo troverebbero troppo poco professionale. Come siano incontentabili, vero?
E’ più che altro vero osservare che Ghastly Apparition ha poca fantasia, magari per quanto riguarda gli accenti, a volte assolutamente perfetti, della batteria, protagonista di una scia quasi ininterrotta di deja – vù. Eppure, per quanto minimalista, il tutto funziona in maniera quasi inaspettata. E’ pur vero che la seconda parte dell’album risulta curiosamente più varia e coraggiosa, aspetto da prendere in buona considerazione nelle future produzioni. Infatti, nell’ordine:
- in "Chaos Mass" il nostro sperimenta a livello vocale, inventandosi fra l’altro delle linee vocali belle ritmate e superlative. Viene quindi sparata anche una voce particolarissima, una specie di “urlo sussurrato” che sembra uscito fuori sul serio da un fantasma;
- "Ritual Lust" si allontana un po’ dal massacro indiscriminato fatto specialmente di blast – beats (e talvolta a dire il vero di consistenti tempi al limite del funeral doom) concedendo incredibilmente più spazio ai tempi medi. Il fatto però che qua si ripeta in maniera identica alla canzone precedente quella bizzarra voce è un altro conto;
- In "Triumph of Impurity" invece, per esempio nell’introduzione, si prova con un tribalismo percussivo a mo’ di tom – tom molto in linea con l’atmosfera maledetta che si respira continuamente nel disco.
Oltre a questa canzone si distinguono un po’ "Impure Devotion", canzone che conosce dei cambi di tempo incredibili proprio perché fanno a cazzotti con l’immediatezza indicibile di Nocturnal Blood (tipo tupa – tupa/blast – beats/tempo medio – lento); e poi “Ghouls Wrath”, che è diventato da mesi uno dei miei pezzi preferiti in fatto di black/death, 4 minuti di delirio in cui si fa vivo il groove spezza ossa, anche su tempi veloci, di cui è capace Ghastly Apparition.
Inoltre, dato l’approccio piuttosto semplice e immediato della proposta, la chitarra solista è limitata soltanto agli assoli, i quali talvolta possono anche non esserci minimamente (e “Ghouls Wrath” è in tal senso un esempio lampante). Assoli che in linea con il genere sono di natura rumorista pur avendo al tempo stesso un’atmosfera che molti gruppi del genere neanche possiedono, visto che non poche volte una stessa nota viene dilatata. La cosa strana è che possono essere anche più lunghi del solito, ma soprattutto non si limitano ad esprimersi solo nei tempi più veloci.
Insomma, alla fine certe volontà di arricchire tutto l’insieme è presente, e soprattutto c’è, da parte del nostro, un’ottima capacità di diversificare abbastanza le proprie esperienze che più o meno gravitano intorno ad una forma bestiale di black/death (ricordo per esempio la sua vecchia militanza negli ormai sciolti Nuclear Desecration, ben più fantasiosi ma molto meno d’effetto). Peccato però che non sia un maestro nella costruzione dei momenti puramente ambientali (infatti l’album parte e finisce con questi), troppo silenziosi e poco inquietanti.
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Devastated Graves/ 2 – Death Calls/ 3 – Impure Devotion/ 4 – Ghouls Wrath/ 5 – Chaos Mass/ 6 - Ritual Lust/ 7 - Triumph of Impurity
Formazione (2008): Ghastly Apparition, voce/chitarre/basso/batteria
Provenienza: Fontana, California (Stati Uniti)
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “Ghouls Wrath”, autentico gioiello nero nel quale la fa da padrone un groove sfrenato che fa ballare il culo peggio che nella dance.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente l’atmosfera spaventosa ricreata costantemente per tutto l’album, un’atmosfera aiutata paradossalmente anche dalla pochezza di soluzioni che quasi soffocano l’ascoltatore in un abisso infernale.
-------------------------------------------------------------------------------------------------26 minuti! Al nostro sono bastati soltanto 26 minuti per creare un delirio sonoro così semplice ed essenziale eppure intensissimo che fa paura già dalla produzione, che sicuramente qualcuno troverà un po’ discutibile facendo quindi il grave errore di decontestualizzarla in modo da renderla quasi come qualcosa di non voluto dal diretto interessato. Ma chi si intende di black/death a là Blasphemy è abituato a simili scempi, e quindi perchè pretendere per forza qualcos’altro?
Già, la produzione. Chissenefrega se la chitarra a volte è così incomprensibile da non gustarne bene bene ogni nota su stereo (ragion per cui consiglio a tutti di ascoltare l’album con le cuffie). E chissenefrega se la voce (di base un grugnito cupo e bestiale) è così effettato da rendere praticamente quasi confusionarie le varie linee vocali grazie ad un effetto d’eco abbastanza spinto. E va invece più che bene il suono “ignorante” e ultra – naturale della batteria, ma alcuni lo troverebbero troppo poco professionale. Come siano incontentabili, vero?
E’ più che altro vero osservare che Ghastly Apparition ha poca fantasia, magari per quanto riguarda gli accenti, a volte assolutamente perfetti, della batteria, protagonista di una scia quasi ininterrotta di deja – vù. Eppure, per quanto minimalista, il tutto funziona in maniera quasi inaspettata. E’ pur vero che la seconda parte dell’album risulta curiosamente più varia e coraggiosa, aspetto da prendere in buona considerazione nelle future produzioni. Infatti, nell’ordine:
- in "Chaos Mass" il nostro sperimenta a livello vocale, inventandosi fra l’altro delle linee vocali belle ritmate e superlative. Viene quindi sparata anche una voce particolarissima, una specie di “urlo sussurrato” che sembra uscito fuori sul serio da un fantasma;
- "Ritual Lust" si allontana un po’ dal massacro indiscriminato fatto specialmente di blast – beats (e talvolta a dire il vero di consistenti tempi al limite del funeral doom) concedendo incredibilmente più spazio ai tempi medi. Il fatto però che qua si ripeta in maniera identica alla canzone precedente quella bizzarra voce è un altro conto;
- In "Triumph of Impurity" invece, per esempio nell’introduzione, si prova con un tribalismo percussivo a mo’ di tom – tom molto in linea con l’atmosfera maledetta che si respira continuamente nel disco.
Oltre a questa canzone si distinguono un po’ "Impure Devotion", canzone che conosce dei cambi di tempo incredibili proprio perché fanno a cazzotti con l’immediatezza indicibile di Nocturnal Blood (tipo tupa – tupa/blast – beats/tempo medio – lento); e poi “Ghouls Wrath”, che è diventato da mesi uno dei miei pezzi preferiti in fatto di black/death, 4 minuti di delirio in cui si fa vivo il groove spezza ossa, anche su tempi veloci, di cui è capace Ghastly Apparition.
Inoltre, dato l’approccio piuttosto semplice e immediato della proposta, la chitarra solista è limitata soltanto agli assoli, i quali talvolta possono anche non esserci minimamente (e “Ghouls Wrath” è in tal senso un esempio lampante). Assoli che in linea con il genere sono di natura rumorista pur avendo al tempo stesso un’atmosfera che molti gruppi del genere neanche possiedono, visto che non poche volte una stessa nota viene dilatata. La cosa strana è che possono essere anche più lunghi del solito, ma soprattutto non si limitano ad esprimersi solo nei tempi più veloci.
Insomma, alla fine certe volontà di arricchire tutto l’insieme è presente, e soprattutto c’è, da parte del nostro, un’ottima capacità di diversificare abbastanza le proprie esperienze che più o meno gravitano intorno ad una forma bestiale di black/death (ricordo per esempio la sua vecchia militanza negli ormai sciolti Nuclear Desecration, ben più fantasiosi ma molto meno d’effetto). Peccato però che non sia un maestro nella costruzione dei momenti puramente ambientali (infatti l’album parte e finisce con questi), troppo silenziosi e poco inquietanti.
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Devastated Graves/ 2 – Death Calls/ 3 – Impure Devotion/ 4 – Ghouls Wrath/ 5 – Chaos Mass/ 6 - Ritual Lust/ 7 - Triumph of Impurity
Friday, January 6, 2012
Witchrist - "Beheaded Ouroboros" (2010)
Album (Invictus Productions, 23 Agosto 2010)
Formazione (2008): Imprecator, voce;
Occultorture, chitarra;
Abomination, chitarra;
Atrociter, basso;
C. Sinclair
Provenienza: Auckland, Nuova Zelanda
Canzone migliore del disco:
“Deathbitch”, soprattutto perché ha un’atmosfera apocalittica da incubo.
Punto di forza dell’opera:
senz’ombra di dubbio l’equilibrio fra i tempi veloci e quelli più lenti in modo da rendere più atmosferica e meno istintiva tutta la proposta.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Curiosità:
come si può leggere da Wikipedia l'uroboro è "un simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia, allo gnosticismo e all'ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell'eterno ritorno, e tutto quello che è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine. In alcune rappresentazioni il serpente è raffigurato mezzo bianco e mezzo nero, richiamando il simbolo dello Yin e Yang, che illustra la natura dualistica di tutte le cose e soprattutto che gli opposti non sono in conflitto tra loro".
Molti mesi orsono ho comprato, senza saperlo, i Witchrist. Cosa? Senza saperlo? Eh sì, e pensare che li cercavo pure, solo che io in quel dato momento ambivo ai Diocletian, di cui per una settimana intera possedevo ignaro soltanto la copertina del loro “Deathcult”. Infatti, ancora adesso mi chiedo come la Invictus sia riuscita a scambiare i due dischi, nonostante la grafica del cd di “Beheaded Ouroboros” non rimandi neanche minimamente a “Deathcult” (e viceversa). Ma il dado ormai è tratto, e in ogni caso tale recensione riguarda un capolavoro uscito fra l’altro dall’odierna scena black/death neozelandese. Ciò significa nientepopodimenno che qualità della proposta.
Il black/death dei Witchrist rifugge però dalla bestialità propria dei colleghi. A tal proposito, ascoltatevi "Sorcerer of Lighting", tour de force di ben 8 minuti, di cui i primi 5 sono un abisso di tempi lenti spesso ai limiti del funeral doom più funesto. Da ciò si può evincere un equilibrio fra i vari tempi mantenuto costantemente lungo tutto l’album, così da sciorinare volentieri un groove contagioso e a tratti spaventosamente battagliero. Ma non fatevi ingannare dalla durata di "Sorcerer of Lightning", visto che gli altri brani si aggirano fra i 3 e i 5 minuti (anche se pochi di essi vengono preceduti da introduzioni anche piuttosto atmosferiche, come quella quasi “indiana” di “Adoration of Black Messiah”).
La seconda caratteristica interessante deriva dall’utilizzo, comunque misurato, della chitarra solista. La quale si dimostra particolarmente ricca di soluzioni, soprattutto quando c’è da dare manforte alla ritmica, mentre negli assoli si rivela più monodimensionale (in parole povere, rumorismo a gonfie vele). Per quanto concerne la prima direzione, valgano gli esempi di "Shrine of Skulls" (dove sfoggia addirittura una bella e lenta melodia, caso rarissimo in questo tipo di gruppi) e di "Deathbitch" (nella quale assume toni paurosamente desolanti, aiutati anche dalle frequenze ora piuttosto basse ed atmosferiche della solista), sperimentando fra l’altro pure a livello d’effetti (come nell’assolo “incontrollato” del finale di "Judgement and Torment"). Inoltre, bisogna dire che i nostri hanno la curiosa tendenza a rendere piuttosto lunghi gli assoli, allungandoli forse un po’ troppo data la loro natura rumorista e ripetitiva.
Altra (piccola) nota negativa concerne il comparto vocale, che risulta essere un’alternanza distruttiva fra un grugnito cupo e bassissimo e un urlo tipico del genere. Queste due voci riescono a trasmettere una bella inquietudine sparando delle linee vocali piuttosto lente (mai però come negli angoscianti Vasaeleth!). Solo che tale lentezza a volte si trasforma in lunghi silenzi, interessando così, per esempio, il gran finale rappresentato da "Judgment and Torment", i cui ultimi momenti lasciano un po’ l’amaro in bocca a dispetto di 2 assoli quasi attaccati fra di loro con conseguente imbastardimento finale. Eppure mi sono sempre chiesto come sarebbe uscito fuori il finale se si fosse usata per l’appunto la voce.
In compenso, la produzione risulta ottima, cioè sporca ma decisamente più comprensibile della media, anche se lontanissima dall’essere “ignorante” come quella di “Ancient Insignias” dei mitici Blasphemous Noise Torment. Bisogna dire comunque che i Witchrist fanno talvolta uso di campionamenti, uno fra i quali le classiche campane a morto.
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sorcerer of Lightning/ 2 – Devour the Flesh/ 3 – Temple of War/ 4 – Adoration of Black Messiah/ 5 – The Cauldron/ 6 – Shrine of Skulls/ 7 – Deathbitch/ 8 – Judgement and Torment
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Witchrist/100601926657647
Formazione (2008): Imprecator, voce;
Occultorture, chitarra;
Abomination, chitarra;
Atrociter, basso;
C. Sinclair
Provenienza: Auckland, Nuova Zelanda
Canzone migliore del disco:
“Deathbitch”, soprattutto perché ha un’atmosfera apocalittica da incubo.
Punto di forza dell’opera:
senz’ombra di dubbio l’equilibrio fra i tempi veloci e quelli più lenti in modo da rendere più atmosferica e meno istintiva tutta la proposta.
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Curiosità:
come si può leggere da Wikipedia l'uroboro è "un simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia, allo gnosticismo e all'ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell'eterno ritorno, e tutto quello che è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine. In alcune rappresentazioni il serpente è raffigurato mezzo bianco e mezzo nero, richiamando il simbolo dello Yin e Yang, che illustra la natura dualistica di tutte le cose e soprattutto che gli opposti non sono in conflitto tra loro".
Molti mesi orsono ho comprato, senza saperlo, i Witchrist. Cosa? Senza saperlo? Eh sì, e pensare che li cercavo pure, solo che io in quel dato momento ambivo ai Diocletian, di cui per una settimana intera possedevo ignaro soltanto la copertina del loro “Deathcult”. Infatti, ancora adesso mi chiedo come la Invictus sia riuscita a scambiare i due dischi, nonostante la grafica del cd di “Beheaded Ouroboros” non rimandi neanche minimamente a “Deathcult” (e viceversa). Ma il dado ormai è tratto, e in ogni caso tale recensione riguarda un capolavoro uscito fra l’altro dall’odierna scena black/death neozelandese. Ciò significa nientepopodimenno che qualità della proposta.
Il black/death dei Witchrist rifugge però dalla bestialità propria dei colleghi. A tal proposito, ascoltatevi "Sorcerer of Lighting", tour de force di ben 8 minuti, di cui i primi 5 sono un abisso di tempi lenti spesso ai limiti del funeral doom più funesto. Da ciò si può evincere un equilibrio fra i vari tempi mantenuto costantemente lungo tutto l’album, così da sciorinare volentieri un groove contagioso e a tratti spaventosamente battagliero. Ma non fatevi ingannare dalla durata di "Sorcerer of Lightning", visto che gli altri brani si aggirano fra i 3 e i 5 minuti (anche se pochi di essi vengono preceduti da introduzioni anche piuttosto atmosferiche, come quella quasi “indiana” di “Adoration of Black Messiah”).
La seconda caratteristica interessante deriva dall’utilizzo, comunque misurato, della chitarra solista. La quale si dimostra particolarmente ricca di soluzioni, soprattutto quando c’è da dare manforte alla ritmica, mentre negli assoli si rivela più monodimensionale (in parole povere, rumorismo a gonfie vele). Per quanto concerne la prima direzione, valgano gli esempi di "Shrine of Skulls" (dove sfoggia addirittura una bella e lenta melodia, caso rarissimo in questo tipo di gruppi) e di "Deathbitch" (nella quale assume toni paurosamente desolanti, aiutati anche dalle frequenze ora piuttosto basse ed atmosferiche della solista), sperimentando fra l’altro pure a livello d’effetti (come nell’assolo “incontrollato” del finale di "Judgement and Torment"). Inoltre, bisogna dire che i nostri hanno la curiosa tendenza a rendere piuttosto lunghi gli assoli, allungandoli forse un po’ troppo data la loro natura rumorista e ripetitiva.
Altra (piccola) nota negativa concerne il comparto vocale, che risulta essere un’alternanza distruttiva fra un grugnito cupo e bassissimo e un urlo tipico del genere. Queste due voci riescono a trasmettere una bella inquietudine sparando delle linee vocali piuttosto lente (mai però come negli angoscianti Vasaeleth!). Solo che tale lentezza a volte si trasforma in lunghi silenzi, interessando così, per esempio, il gran finale rappresentato da "Judgment and Torment", i cui ultimi momenti lasciano un po’ l’amaro in bocca a dispetto di 2 assoli quasi attaccati fra di loro con conseguente imbastardimento finale. Eppure mi sono sempre chiesto come sarebbe uscito fuori il finale se si fosse usata per l’appunto la voce.
In compenso, la produzione risulta ottima, cioè sporca ma decisamente più comprensibile della media, anche se lontanissima dall’essere “ignorante” come quella di “Ancient Insignias” dei mitici Blasphemous Noise Torment. Bisogna dire comunque che i Witchrist fanno talvolta uso di campionamenti, uno fra i quali le classiche campane a morto.
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sorcerer of Lightning/ 2 – Devour the Flesh/ 3 – Temple of War/ 4 – Adoration of Black Messiah/ 5 – The Cauldron/ 6 – Shrine of Skulls/ 7 – Deathbitch/ 8 – Judgement and Torment
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Witchrist/100601926657647
Monday, January 2, 2012
Dr. Gore - "Rotting Remnants" (2012)
Album autoprodotto (1 Gennaio 2012)
Formazione (2002): Alessio “Pacio” Pacifici, voce/basso;
Marco Acorte, chitarra/voce aggiuntiva;
Luigi Longo, chitarra;
Massimo “Mastino” Romano, batteria.
Provenienza: Roma, Lazio.
Canzone migliore dell’opera:sicuramente “Night of the Living Dead”, che offre spunti interessantissimi per il futuro del gruppo.
Punto di forza del disco:
senz’ombra di dubbio l’abilità sopraffina di variare l’assalto rimanendo però (quasi) sempre negli angusti confini del brutal/grind.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Nota:
i Dr. Gore stanno cercando disperatamente un'etichetta discografica. Quindi, chi è interessato contatti il gruppo attraverso la mail:
band@drgore.net
Era veramente da tempo che aspettavo il secondo album di questo branco di pazzi, che 3 anni fa diedero alla luce il proprio esordio “Rigore Mortis” (recensito in queste stesse pagine), compendio anfetaminico di 6 pezzi assolutamente promettente ma che aveva l’unico difetto di essere troppo breve per essere uscito da un gruppo nato addirittura nel 2002 (durava poco più di un quarto d'ora nonostante fosse fra l'altro classificato come un album...). Anche se, in fin dei conti, è da preferire tale poca prolificità, visto che così facendo l’ispirazione non si trova soffocata dall’operare in tempi ristretti, i quali spesso e volentieri si rivelano controproducenti.
Effettivamente l’ispirazione è qui veramente alle stelle, e la cosa incredibile è che i nostri sono riusciti nel difficile compito di brutalizzare ancor di più una proposta già pesantissima di suo. Infatti, tra blast – beats angoscianti e tupa – tupa battaglieri a là Slaughter vi è pochissimo spazio per i tempi più lenti, che guardacaso quando si fanno vivi sono sempre benvoluti, soprattutto perché qualitativamente fanno a dir poco paura.
Una qualità che si sposa con una semplicità ed immediatezza che colpiscono come un vero e proprio treno in corsa (ascoltatevi “Slaughterhouse” per crederci). Ciò anche perché nei Dr. Gore, nonostante ci siano due asce, non c’è nemmeno la traccia più misera della chitarra solista. Ma anche perché molti pezzi presentano una struttura ossessiva e paranoica da incubo. Il bello è che quando i nostri cercano di dinamicizzare il proprio discorso, ci riescono perfettamente (“Night of the Living Dead”, ultra – isterica e contenente addirittura interessanti parti thrasheggianti), sapendosi quindi re – interpretare senza problemi.
Quest’ultima è in effetti la caratteristica più importante che il gruppo si ritrova, dato che gli permette di arricchire il proprio brutal/grind spietatissimo di una ricchezza di soluzioni esorbitante, praticamente a livello totale. Per esempio:
1) le linee vocali da tal punto di vista sono incredibili, la cui riuscita è aiutata anche dall’uso delle due voci (per quanto le urla spaventose di Marco siano diventate più essenziali e meno protagoniste…), con Alessio abile a variare ottimamente fra grugniti (specialmente) ultra – cavernosi e “lamenti” maialeschi;
2) la batteria, di cui non ho comunque molto apprezzato il suono del rullante, un po’ finto e troppo in linea con le tipiche produzioni brutal di oggigiorno, riesce a potenziare tutto l’insieme tramite degli accenti superlativi, anche sparando blast – beats a singhiozzo (“Butchered”).
In generale vi è però una cooperazione tra i singoli assolutamente fantastica (anche se la pecora nera rimane il basso), non dimenticando nemmeno di sperimentare, ma con misura, a livello di produzione, così da sfoggiare magari qualche eco che dal punto di vista strategico – tattico risulta strabiliante per un gruppo bestiale come i Dr. Gore.
A tutto ciò si aggiunga la tendenza (per i nostri quasi una novità) di introdurre i vari brani attraverso degli spezzoni solitamente (e naturalmente) horror; idealmente la divisione dell’album in 2 parti. “Idealmente” perché la prima non ha nome, e perciò rappresenta la parte “normale” del disco, mentre la seconda si chiama “Corpse Trilogy” ed interessa gli ultimi 3 pezzi (c'è da osservare che questi, rispetto agli altri episodi, sono curiosamente più vari per quanto concerne i tempi presi). Bisogna notare che, sebbene le due parti siano state registrate in studi differenti, la produzione non è che cambi poi così tanto, anzi, a dir la verità in quasi quasi niente; infine, il suono ultra – puzzolente e letteralmente affilato che si ritrovano le chitarre.
Voto: 93
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Maggots Under Skin/ 2 – Tools of Torture/ 3 – Gore Surgery/ 4 – G.O.M.B. (Gore Obsession of Mutilated Bodies)/ 5 – Spermatozombie/ 6 – Goreland/ 7 – Slaughterhouse/ 8 – Night of the Living Dead/ 9 – Butchered/ 10 – Autopsy/ 11 Reborn
MySpace:
http://www.myspace/thegoredoctor
FaceBook:
http://www.facebook.com/doctorgore
Sito ufficiale (non proprio utilissimo ma pazienza):
http://www.drgore.net/
Formazione (2002): Alessio “Pacio” Pacifici, voce/basso;
Marco Acorte, chitarra/voce aggiuntiva;
Luigi Longo, chitarra;
Massimo “Mastino” Romano, batteria.
Provenienza: Roma, Lazio.
Canzone migliore dell’opera:sicuramente “Night of the Living Dead”, che offre spunti interessantissimi per il futuro del gruppo.
Punto di forza del disco:
senz’ombra di dubbio l’abilità sopraffina di variare l’assalto rimanendo però (quasi) sempre negli angusti confini del brutal/grind.
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Nota:
i Dr. Gore stanno cercando disperatamente un'etichetta discografica. Quindi, chi è interessato contatti il gruppo attraverso la mail:
band@drgore.net
Era veramente da tempo che aspettavo il secondo album di questo branco di pazzi, che 3 anni fa diedero alla luce il proprio esordio “Rigore Mortis” (recensito in queste stesse pagine), compendio anfetaminico di 6 pezzi assolutamente promettente ma che aveva l’unico difetto di essere troppo breve per essere uscito da un gruppo nato addirittura nel 2002 (durava poco più di un quarto d'ora nonostante fosse fra l'altro classificato come un album...). Anche se, in fin dei conti, è da preferire tale poca prolificità, visto che così facendo l’ispirazione non si trova soffocata dall’operare in tempi ristretti, i quali spesso e volentieri si rivelano controproducenti.
Effettivamente l’ispirazione è qui veramente alle stelle, e la cosa incredibile è che i nostri sono riusciti nel difficile compito di brutalizzare ancor di più una proposta già pesantissima di suo. Infatti, tra blast – beats angoscianti e tupa – tupa battaglieri a là Slaughter vi è pochissimo spazio per i tempi più lenti, che guardacaso quando si fanno vivi sono sempre benvoluti, soprattutto perché qualitativamente fanno a dir poco paura.
Una qualità che si sposa con una semplicità ed immediatezza che colpiscono come un vero e proprio treno in corsa (ascoltatevi “Slaughterhouse” per crederci). Ciò anche perché nei Dr. Gore, nonostante ci siano due asce, non c’è nemmeno la traccia più misera della chitarra solista. Ma anche perché molti pezzi presentano una struttura ossessiva e paranoica da incubo. Il bello è che quando i nostri cercano di dinamicizzare il proprio discorso, ci riescono perfettamente (“Night of the Living Dead”, ultra – isterica e contenente addirittura interessanti parti thrasheggianti), sapendosi quindi re – interpretare senza problemi.
Quest’ultima è in effetti la caratteristica più importante che il gruppo si ritrova, dato che gli permette di arricchire il proprio brutal/grind spietatissimo di una ricchezza di soluzioni esorbitante, praticamente a livello totale. Per esempio:
1) le linee vocali da tal punto di vista sono incredibili, la cui riuscita è aiutata anche dall’uso delle due voci (per quanto le urla spaventose di Marco siano diventate più essenziali e meno protagoniste…), con Alessio abile a variare ottimamente fra grugniti (specialmente) ultra – cavernosi e “lamenti” maialeschi;
2) la batteria, di cui non ho comunque molto apprezzato il suono del rullante, un po’ finto e troppo in linea con le tipiche produzioni brutal di oggigiorno, riesce a potenziare tutto l’insieme tramite degli accenti superlativi, anche sparando blast – beats a singhiozzo (“Butchered”).
In generale vi è però una cooperazione tra i singoli assolutamente fantastica (anche se la pecora nera rimane il basso), non dimenticando nemmeno di sperimentare, ma con misura, a livello di produzione, così da sfoggiare magari qualche eco che dal punto di vista strategico – tattico risulta strabiliante per un gruppo bestiale come i Dr. Gore.
A tutto ciò si aggiunga la tendenza (per i nostri quasi una novità) di introdurre i vari brani attraverso degli spezzoni solitamente (e naturalmente) horror; idealmente la divisione dell’album in 2 parti. “Idealmente” perché la prima non ha nome, e perciò rappresenta la parte “normale” del disco, mentre la seconda si chiama “Corpse Trilogy” ed interessa gli ultimi 3 pezzi (c'è da osservare che questi, rispetto agli altri episodi, sono curiosamente più vari per quanto concerne i tempi presi). Bisogna notare che, sebbene le due parti siano state registrate in studi differenti, la produzione non è che cambi poi così tanto, anzi, a dir la verità in quasi quasi niente; infine, il suono ultra – puzzolente e letteralmente affilato che si ritrovano le chitarre.
Voto: 93
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Maggots Under Skin/ 2 – Tools of Torture/ 3 – Gore Surgery/ 4 – G.O.M.B. (Gore Obsession of Mutilated Bodies)/ 5 – Spermatozombie/ 6 – Goreland/ 7 – Slaughterhouse/ 8 – Night of the Living Dead/ 9 – Butchered/ 10 – Autopsy/ 11 Reborn
MySpace:
http://www.myspace/thegoredoctor
FaceBook:
http://www.facebook.com/doctorgore
Sito ufficiale (non proprio utilissimo ma pazienza):
http://www.drgore.net/