Album (Supremacy Through Intolerance, 31 Gennaio 2011)
Formazione (2002): Titanic Furor of the Inexorable March, voce/basso;
Black Pestilence of Mass Destruction, chitarre/voce aggiuntiva;
Murmur, batteria.
Provenienza: Belluno, Veneto
Canzone migliore del disco:
“Cult of Death”, sia perchè presenta alcuni dei passaggi più grintosi di tutto il lotto, sia perchè ha una lunga parte doom da brividi, fra l’altro perfettamente giostrata anche da un notevole siparietto di batteria.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la ricchezza di soluzioni che il gruppo si ritrova, cosa che gli permette di differenziarsi già moltissimo da formazioni simili.
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In questi ultimi giorni mi sono così “intrippato” con questo bestiale terzetto da cercare invano di quantificare la rabbia e l’odio profusi in quest’album, la cui lunga attesa ha forse contribuito ad aumentare a dismisura questi due fattori, dopo più o meno 9 anni di demo, split e fuffa varia. C’entra anche il fatto che il gruppo sia rimasto fermo causa temporaneo scioglimento di 4 anni, ossia dal 2004 al 2008? In ogni caso, è un evento, anche perché di gruppi del genere ce ne sono purtroppo veramente pochi, qui nella cara Italia, beninteso.
Perché? I Blasphemous Noise Torment che suonano? Uno dei miei sottogeneri preferiti, che solitamente si risolve in un massacro senza scampo: il black/death metal guerrafondaio tanto diffuso in Oceania. Più che altro il vero problema è il come ed è per qui che i nostri si dimostrano di saperci immensamente fare. “Immensamente” anche perché, rispetto alle passate produzioni, hanno preferito allungare pericolosamente la durata media dei pezzi, magari con punte da 7 minuti (“Primitive Blood”), riuscendo allo stesso tempo a non stancare l’ascoltatore per mezzo soprattutto di sorprese di ogni tipo sempre puntuali come un orologio svizzero.
‘Sti 3 pazzi hanno infatti la capacità non comune di sapersi re – interpretare in vari modi, magari rendendo un pochino più complicata una struttura che comunque è più o meno di tipo sequenziale e che, proprio per questo, in alcune (rare) occasioni, difetta di troppa meccanicità e prolissità. Tale “camaleontismo” (termine ad ogni modo da prendere con le pinze) lo conferma pure “Awaiting Below”, il pezzo meno convincente del lotto, imbottito com’è di stacchi e pause che rendono semplicistico e troppo controllato tutto il discorso. Ma questa è una nota negativa subito sradicata con assoluta maestria da “Cult of Death” in poi.
Altra caratteristica particolare viene dalle frequenti e angoscianti parti doom che scalzano per un po’ il predominio blasteggiante, il quale permette lo stesso a Murmur di intessere un discorso ritmico imprevedibile (ma sempre bello lineare) abile ad enfatizzare a più non posso tutto l’insieme, attraverso delle variazioni a dir poco gustose. Tale alternanza di tempi molto diversi fra loro permette di metabolizzare meglio l’assalto, magari snocciolando contagiose parti groovy che gente come Conqueror o Bestial Warlust neanche si sognavano (forse perché non le volevano?).
E qui si allarga ancora di più lo spettro d’azione per il tramite di passaggi thrash, i quali alle volte vengono perfettamente integrati con le sonorità più black/death, se non addirittura di ritmiche più heavy metal ("Primitive Blood”, l’unico brano, a tratti rockeggiante, quasi esclusivamente improntato sui tempi più lenti, che però conta un finale in dissolvenza glaciale, ipnotico e tutto in blast – beats). Curioso notare come le parti thrash metal si presentino da “Invert the Moral of the Weak” in poi.
Alle volte sono curiosi anche gli assoli che Black Pestilence of Mass Destruction sputa con il contagocce. “Curiosi” perché in loro può essere presente qualche tocco melodico che quasi fa a cazzotti con il rumorismo da stupro a cui essi sono solitamente sottoposti, come insomma il genere comanda. Vi è però un piccolo appunto inerente il finale di “Awaiting Below”, dove si fanno vive addirittura 2 chitarre soliste, cosa un po’ artificiosa e ingiustificata anche dalla natura profondamente collettiva del gruppo.
Ma se si parla della voce, “Ancient Insignias” diviene un capolavoro come pochi. Infatti, Titanic Furor of the Inexorable March ha una delle voci più espressive che ho mai sentito, essendo capace di sputare di base un grugnito fiero e battagliero che viene supportato:
1) da un effetto d’eco con il quale (per esempio in “Superion War Assault”) si plagiano nientepopodimeno che i Von;
2) dal compagno alla chitarra, autore di una specie di urlo “scatarrato”, in parole povere agghiacciante.
Se poi si aggiungono delle linee vocali spesso strabilianti (da menzionare soprattutto quelle dell’ossessiva “Winds of Apocalyptic Fire”), il quadro diventa completo, e così, contando anche una produzione sporca e “viva” in tutto, tutti gli altri black/deathettoni divengono dei semplici, pulitini mestieranti…
Oddio, i Blasphemophager avrebbero forse qualcuno da ridire a quest’ultima affermazione.
Voto: 91
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Ancient Insignias/ 2 – Awaiting Below/ 3 – Cult of Death/ 4 – Spartan Justice/ 5 – Invert the Moral of the Weak/ 6 – Superion War Assault/ 7 – Winds of Apocalyptic Fire/ 8 – Primitive Blood
MySpace:
http://www.myspace.com/warhorde
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Tuesday, December 27, 2011
Monday, December 19, 2011
Lilyum - "Nothing Is Mine" (2011)
Album (Dusktone, 1 Novembre 2011)
Formazione (2002): Xes, voce;
Kosmos Reversum, chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Torino/Potenza, Piemonte/Basilicata.
Canzone migliore del disco:
“Into the Fire”, per motivi che verranno esplicati esaustivamente nel corpo della recensione.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la struttura – tipo dei pezzi, anche se bisogna ancora affinarla meglio.
-------------------------------------------------------------------------------------------------Kosmos Reversum me l’ha fatto immaginare come qualcosa di molto diverso dalle produzioni precedenti, ma a dir la verità con quest’album si segna un ritorno, a parte certe differenze (la maggior parte non molto rilevanti), alle sonorità di “Fear Tension Cold”, prendendo però allo stesso tempo in considerazione certo riffing di “Crawling in the Past”. Devo dire che tale regressione non è stata esattamente rose e fuori, soprattutto a partire dal rapporto intercorrente fra la voce e gli altri aspetti dell’esperienza.
La voce, appunto. Xes è un ottimo cantante, su questo non ci piove, e qui e là è anche un maestro nella costruzione delle linee vocali. Però in fase di produzione ha voluto sperimentare un po’ troppo, visto che ha innestato nel cantato un effetto “da ovatta”, e così ne è uscito fuori qualcosa di inespressivo e troppo controllato. Inoltre, il nostro non funziona in pezzi statici come “Fides Belialus” (che dal punto di vista ritmico è spaventosamente uguale a sé stesso) i quali invece sarebbero usciti forse meglio con l’istrionismo assurdista di Lord J.H. Psycho, cantante abilissimo a rendere malato e dinamico un black metal minimalista come quello dei Lilyum.
La musica in generale mal si sposa con l’effetto sulla voce, più che altro perché la struttura dei pezzi è già controllata di suo. Ma in tal caso, si nota un netto miglioramento nella seconda parte dell’opera, dove finalmente si fa vivo un approccio strutturale meno convenzionale per i nostri, cioè (un poco) più libero e meno vincolante e meccanico.
La metodologia strutturale per l’appunto risulta essere la caratteristica più interessante dell’intera proposta, anche per delle variazioni quasi impercettibili, per esempio sulla cassa (“Altar of Darkness”, pezzo in ogni caso tipico dei Lilyum). Consiglio infatti di lavorare ancora di più su tale aspetto, anche per interpretare in maniera diversa uno schema ormai consolidato. Il quale sorregge un discorso tremendamente fluido, privo del tutto di qualsiasi tipo di stacco, ragion per cui gli unici momenti di respiro sono e rimangono delle semplici pause.
L’altra mezza novità è rappresentata dal ritorno alla batteria elettronica, cosa per me incomprensibile visto l’ottimo lavoro di Frozen in “Crawling in the Past”, capace di evolvere un discorso ritmico altrimenti troppo limitato, ripetitivo oltreché spesso non molto brillante nel collegare sufficientemente bene i vari passaggi. In compenso, rispetto a “Fear Tension Cold”, la batteria è stata finalmente messa bene in evidenza, e si nota inoltre la preponderanza dei tempi veloci su quelli più lenti, cosa che fa del nuovo album un’opera più black metal e meno intrisa di influssi rock’n’roll.
L’utilizzo (ma sempre molto misurato) del basso, ereditato da “Crawling in the Past”, nella costruzione dei vari motivi è stato per fortuna mantenuto, aggiungendo quel tocco in più ad un discorso sostanzialmente ultra – collettivo che non offre molto sorprese.
Insomma, nel complesso non è che poi le cose siano tanto cambiate, in prima linea il riffing e la sua impostazione ossessiva, e nel quale qui e là si fanno sentire dei fastidiosi deja – vù, pur mostrando interessanti svisate addirittura melodiche durante i momenti iniziali di “My Darkened Path”; in secondo luogo, l’uso tutto particolare della chitarra solista, quasi totalmente asservita alla sua compagna ma capace comunque di prove più sui generis, come in “Into the Fire”, in cui si fa portavoce di melodie quasi dolci e soprattutto dal lavorìo più dinamico del solito.
In parole povere, “Nothing Is Mine” è da considerare come un album transitorio, forse pubblicato troppo di fretta e che deve fare a cazzotti con le due grandi prestazioni offerte in “Fear Tension Cold” (che riusciva a essere grintoso nonostante la sua estrema meccanicità) e in “Crawling in the Past” (capolavoro di assoluta ispirazione e inventiva). Transitorio anche perché vi sono accennate certe caratteristiche ancora da sviluppare debitamente (come le intuizioni strutturali), e che si spera vengano tenute in buona considerazione in futuro.
Dai che anche i Maestri hanno periodi di stanca, e quindi, come diceva Carlo Verdone in “Un Sacco Bello”: “Abbi fede”!
Voto: 62
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Nothing Is Mine/ 2 – Altar of Darkness/ 3 – Fides Belialus/ 4 – Slave of Hate/ 5 – Hic Fuit Locus Traitor/ 6 – Into the Fire/ 7 – The Eternal Embrace of Dark Dream/ 8 – I Am the Black Plague/ 9 – My Darkened Path
MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum
FaceBook:
http://www.facebook.com/lilyumofficial1?sk=app_2405167945
Formazione (2002): Xes, voce;
Kosmos Reversum, chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Torino/Potenza, Piemonte/Basilicata.
Canzone migliore del disco:
“Into the Fire”, per motivi che verranno esplicati esaustivamente nel corpo della recensione.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la struttura – tipo dei pezzi, anche se bisogna ancora affinarla meglio.
-------------------------------------------------------------------------------------------------Kosmos Reversum me l’ha fatto immaginare come qualcosa di molto diverso dalle produzioni precedenti, ma a dir la verità con quest’album si segna un ritorno, a parte certe differenze (la maggior parte non molto rilevanti), alle sonorità di “Fear Tension Cold”, prendendo però allo stesso tempo in considerazione certo riffing di “Crawling in the Past”. Devo dire che tale regressione non è stata esattamente rose e fuori, soprattutto a partire dal rapporto intercorrente fra la voce e gli altri aspetti dell’esperienza.
La voce, appunto. Xes è un ottimo cantante, su questo non ci piove, e qui e là è anche un maestro nella costruzione delle linee vocali. Però in fase di produzione ha voluto sperimentare un po’ troppo, visto che ha innestato nel cantato un effetto “da ovatta”, e così ne è uscito fuori qualcosa di inespressivo e troppo controllato. Inoltre, il nostro non funziona in pezzi statici come “Fides Belialus” (che dal punto di vista ritmico è spaventosamente uguale a sé stesso) i quali invece sarebbero usciti forse meglio con l’istrionismo assurdista di Lord J.H. Psycho, cantante abilissimo a rendere malato e dinamico un black metal minimalista come quello dei Lilyum.
La musica in generale mal si sposa con l’effetto sulla voce, più che altro perché la struttura dei pezzi è già controllata di suo. Ma in tal caso, si nota un netto miglioramento nella seconda parte dell’opera, dove finalmente si fa vivo un approccio strutturale meno convenzionale per i nostri, cioè (un poco) più libero e meno vincolante e meccanico.
La metodologia strutturale per l’appunto risulta essere la caratteristica più interessante dell’intera proposta, anche per delle variazioni quasi impercettibili, per esempio sulla cassa (“Altar of Darkness”, pezzo in ogni caso tipico dei Lilyum). Consiglio infatti di lavorare ancora di più su tale aspetto, anche per interpretare in maniera diversa uno schema ormai consolidato. Il quale sorregge un discorso tremendamente fluido, privo del tutto di qualsiasi tipo di stacco, ragion per cui gli unici momenti di respiro sono e rimangono delle semplici pause.
L’altra mezza novità è rappresentata dal ritorno alla batteria elettronica, cosa per me incomprensibile visto l’ottimo lavoro di Frozen in “Crawling in the Past”, capace di evolvere un discorso ritmico altrimenti troppo limitato, ripetitivo oltreché spesso non molto brillante nel collegare sufficientemente bene i vari passaggi. In compenso, rispetto a “Fear Tension Cold”, la batteria è stata finalmente messa bene in evidenza, e si nota inoltre la preponderanza dei tempi veloci su quelli più lenti, cosa che fa del nuovo album un’opera più black metal e meno intrisa di influssi rock’n’roll.
L’utilizzo (ma sempre molto misurato) del basso, ereditato da “Crawling in the Past”, nella costruzione dei vari motivi è stato per fortuna mantenuto, aggiungendo quel tocco in più ad un discorso sostanzialmente ultra – collettivo che non offre molto sorprese.
Insomma, nel complesso non è che poi le cose siano tanto cambiate, in prima linea il riffing e la sua impostazione ossessiva, e nel quale qui e là si fanno sentire dei fastidiosi deja – vù, pur mostrando interessanti svisate addirittura melodiche durante i momenti iniziali di “My Darkened Path”; in secondo luogo, l’uso tutto particolare della chitarra solista, quasi totalmente asservita alla sua compagna ma capace comunque di prove più sui generis, come in “Into the Fire”, in cui si fa portavoce di melodie quasi dolci e soprattutto dal lavorìo più dinamico del solito.
In parole povere, “Nothing Is Mine” è da considerare come un album transitorio, forse pubblicato troppo di fretta e che deve fare a cazzotti con le due grandi prestazioni offerte in “Fear Tension Cold” (che riusciva a essere grintoso nonostante la sua estrema meccanicità) e in “Crawling in the Past” (capolavoro di assoluta ispirazione e inventiva). Transitorio anche perché vi sono accennate certe caratteristiche ancora da sviluppare debitamente (come le intuizioni strutturali), e che si spera vengano tenute in buona considerazione in futuro.
Dai che anche i Maestri hanno periodi di stanca, e quindi, come diceva Carlo Verdone in “Un Sacco Bello”: “Abbi fede”!
Voto: 62
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Nothing Is Mine/ 2 – Altar of Darkness/ 3 – Fides Belialus/ 4 – Slave of Hate/ 5 – Hic Fuit Locus Traitor/ 6 – Into the Fire/ 7 – The Eternal Embrace of Dark Dream/ 8 – I Am the Black Plague/ 9 – My Darkened Path
MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum
FaceBook:
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Saturday, December 17, 2011
Redemption Curse - "7.1" (2011)
Demo (D.N.A. Collective, 2011)
Formazione: Wolf, voce/basso;
Akh, chitarra/rumori/tastiere.
Provenienza: Toscana
Pezzo migliore del disco:
per ragioni esplicate nella rece, ho una netta predilezione per “La Fenice”.
Punto di forza dell’opera:
sinceramente non lo so, essendo “7.1” piuttosto disomogeneo, ma se proprio devo scegliere citerei l’atmosfera creata dai sintetizzatori e dal basso, i quali in prospettiva futura promettono cose molto interessanti.
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I Redemption Curse sono un gruppo infinitamente… “storto”. Niente nella loro musica è normale. Ogni cosa infatti è stata stuprata a dovere, come nel più grande degli scherzi diabolici. Ma si può dire che anche il loro rumore (perché questo è, in fin dei conti) non sia normale. Perché l’opera che mi appresto a recensire è un compendio di dissacrante e provocatorio sperimentalismo a più piani dove lo schifo, l’anti – estetismo più sfrenato divengono materia per la consapevolezza di sé stessi e…
“A’ CLAUSTRO’! FALLA FINITA CON ‘STI PAROLONI E DICCI COME SUONANO I REDEMPTION CURSE!”
Dio quanto siete rompicalli! Allora calma e sangue freddo che vi accontento. Anche perché la calma e il sangue freddo sono di regola per non farsi prendere un infarto;
1) dalla voce, la quale è una specie di terrificante urlo gorgogliante che rende praticamente incomprensibili i testi in italiano. Per di più, questi vengono “aiutati” per la discesa da un procedimento copia – incolla che doppia la voce originale, così da generare un caos di notevoli dimensioni, quasi come se fosse una eco pur non essendolo veramente;
2) dalla chitarra, il cui riffing fa ricordare qui e là addirittura i disturbanti Vlad Tepes (“La Fenice”). Ma il fatto curioso viene più che altro dalla produzione “sballata”, che ora fa sentire bene la chitarra, mentre adesso le abbassa improvvisamente le frequenze, magari affossandola con rumori di disturbo (“Sia Fatta la Tua Volontà”) – rumori che a dir la verità non sono così presenti come invece si potrebbe intuire;
3) dalla tecnica, a tratti inesistente, visto che talvolta o il ritmo viene temporaneamente perso, oppure si hanno delle vere e proprie stecche (la parte di piano di “Sia Fatta la Tua Volontà” è esemplare) in modo da rendere ancora più (volutamente) disordinato tutto l’insieme;
4) dalla batteria, che si sente invece moooolto male, anche perché, di fatto, non ve n’è traccia (ci siete cascati prima, eh?). E devo dire che tale mossa mi è tremendamente piaciuta, dato che è funzionale alla stessa formazione perché altrimenti uno dei due avrebbe programmato la batteria elettronica in maniera ultra – minimalista, quasi trasformandola in un inutile contorno.
A tutto ciò, si aggiunga un utilizzo del basso sì terra – terra ma comunque interessante oltreché agghiacciante; e la presenza di sintetizzatori belli atmosferici ne “La Fenice”. Ma è proprio da questi strumenti che partono paradossalmente le critiche a “7.1”, il quale, praticamente già al primo ascolto, mi ha dato l’impressione di essere un esperimento riuscito solo per metà.
Infatti, “Sia Fatta…” è un pezzo che, a parte le ovvie sensazioni di disgusto che genera, non colpisce per niente, soprattutto perché il disgusto è qui fine a sé stesso e quindi viene usato in maniera semplicistica. Inoltre, il basso si sente debolissimo, mentre il piano poteva essere sfruttato meglio ed invece gli si concede un semplice siparietto. La voce, poi, in un gioco limitatissimo, spesso e volentieri urla e basta, senza dire niente. In pratica manca una vera e propria atmosfera.
Al contrario, con “La Fenice” si comincia a ragionare, peccato solo che sia l’ultimo episodio del lotto. Infatti, il basso (finalmente bello presente) e i sintetizzatori aiutano debitamente gli altri strumenti, l’uno utilizzando le armi dell’ossessività e del caos, l’altro “ingabbiato” in una rigida cornice minimalista. E tutto ciò funziona nonostante i 6 minuti di durata del brano, contro i quasi 5 del pezzo precedente.
Insomma, le idee ci sono. Le possibilità concrete di affrancarsi dal modello “NO BATTERIA” dei Progetto:ChaosGoat.666 (in cui suona per l’appunto Akh) pure. Basta incanalarle meglio (anche perché per un gruppo del genere fermarsi soltanto a voce/chitarra/basso è un po’ troppo facile) e lì sì che poi saranno dolori per tutti!
Voto: 58
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sia Fatta la Tua Volontà/ 2 – La Fenice
Formazione: Wolf, voce/basso;
Akh, chitarra/rumori/tastiere.
Provenienza: Toscana
Pezzo migliore del disco:
per ragioni esplicate nella rece, ho una netta predilezione per “La Fenice”.
Punto di forza dell’opera:
sinceramente non lo so, essendo “7.1” piuttosto disomogeneo, ma se proprio devo scegliere citerei l’atmosfera creata dai sintetizzatori e dal basso, i quali in prospettiva futura promettono cose molto interessanti.
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I Redemption Curse sono un gruppo infinitamente… “storto”. Niente nella loro musica è normale. Ogni cosa infatti è stata stuprata a dovere, come nel più grande degli scherzi diabolici. Ma si può dire che anche il loro rumore (perché questo è, in fin dei conti) non sia normale. Perché l’opera che mi appresto a recensire è un compendio di dissacrante e provocatorio sperimentalismo a più piani dove lo schifo, l’anti – estetismo più sfrenato divengono materia per la consapevolezza di sé stessi e…
“A’ CLAUSTRO’! FALLA FINITA CON ‘STI PAROLONI E DICCI COME SUONANO I REDEMPTION CURSE!”
Dio quanto siete rompicalli! Allora calma e sangue freddo che vi accontento. Anche perché la calma e il sangue freddo sono di regola per non farsi prendere un infarto;
1) dalla voce, la quale è una specie di terrificante urlo gorgogliante che rende praticamente incomprensibili i testi in italiano. Per di più, questi vengono “aiutati” per la discesa da un procedimento copia – incolla che doppia la voce originale, così da generare un caos di notevoli dimensioni, quasi come se fosse una eco pur non essendolo veramente;
2) dalla chitarra, il cui riffing fa ricordare qui e là addirittura i disturbanti Vlad Tepes (“La Fenice”). Ma il fatto curioso viene più che altro dalla produzione “sballata”, che ora fa sentire bene la chitarra, mentre adesso le abbassa improvvisamente le frequenze, magari affossandola con rumori di disturbo (“Sia Fatta la Tua Volontà”) – rumori che a dir la verità non sono così presenti come invece si potrebbe intuire;
3) dalla tecnica, a tratti inesistente, visto che talvolta o il ritmo viene temporaneamente perso, oppure si hanno delle vere e proprie stecche (la parte di piano di “Sia Fatta la Tua Volontà” è esemplare) in modo da rendere ancora più (volutamente) disordinato tutto l’insieme;
4) dalla batteria, che si sente invece moooolto male, anche perché, di fatto, non ve n’è traccia (ci siete cascati prima, eh?). E devo dire che tale mossa mi è tremendamente piaciuta, dato che è funzionale alla stessa formazione perché altrimenti uno dei due avrebbe programmato la batteria elettronica in maniera ultra – minimalista, quasi trasformandola in un inutile contorno.
A tutto ciò, si aggiunga un utilizzo del basso sì terra – terra ma comunque interessante oltreché agghiacciante; e la presenza di sintetizzatori belli atmosferici ne “La Fenice”. Ma è proprio da questi strumenti che partono paradossalmente le critiche a “7.1”, il quale, praticamente già al primo ascolto, mi ha dato l’impressione di essere un esperimento riuscito solo per metà.
Infatti, “Sia Fatta…” è un pezzo che, a parte le ovvie sensazioni di disgusto che genera, non colpisce per niente, soprattutto perché il disgusto è qui fine a sé stesso e quindi viene usato in maniera semplicistica. Inoltre, il basso si sente debolissimo, mentre il piano poteva essere sfruttato meglio ed invece gli si concede un semplice siparietto. La voce, poi, in un gioco limitatissimo, spesso e volentieri urla e basta, senza dire niente. In pratica manca una vera e propria atmosfera.
Al contrario, con “La Fenice” si comincia a ragionare, peccato solo che sia l’ultimo episodio del lotto. Infatti, il basso (finalmente bello presente) e i sintetizzatori aiutano debitamente gli altri strumenti, l’uno utilizzando le armi dell’ossessività e del caos, l’altro “ingabbiato” in una rigida cornice minimalista. E tutto ciò funziona nonostante i 6 minuti di durata del brano, contro i quasi 5 del pezzo precedente.
Insomma, le idee ci sono. Le possibilità concrete di affrancarsi dal modello “NO BATTERIA” dei Progetto:ChaosGoat.666 (in cui suona per l’appunto Akh) pure. Basta incanalarle meglio (anche perché per un gruppo del genere fermarsi soltanto a voce/chitarra/basso è un po’ troppo facile) e lì sì che poi saranno dolori per tutti!
Voto: 58
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sia Fatta la Tua Volontà/ 2 – La Fenice
Monday, December 12, 2011
Vesper - "Possession of Evil Will" (2010)
Album (Dusterwald Produktionen, 17 Dicembre 2010)
Formazione (2008): Sho, voce/basso;
Haemon, chitarre;
Redrum, batteria.
Provenienza: Roma, Lazio
Canzone migliore dell’album:
indubbiamente la stessa “Possession of Evil Will”, una delle più lunghe del lotto nonché l’unica avente un’introduzione tremendamente atmosferica nella quale fra l’altro vi è una “conversazione” fra quella che sembra una vecchia decrepita e un generico uomo (che belle descrizioni che do alle volte…).
Punto di forza del disco:
udite udite, la complessità che i nostri si ritrovano, che riesce a dinamicizzare in maniera non banale tutto l’insieme. Non a caso già da adesso consiglio ai diretti interessati di porre in futuro maggiore attenzione su quest’interessante caratteristica.
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I Vesper sono praticamente il gruppo dei ritorni. Sì, perché, prima di tutto, nei Vesper vi suona Sho, che chi sa un po’ di storia di Timpani allo Spiedo sa che costui suonava negli ormai sciolti Gremory, il cui “In Nomine Martis” venne guardacaso recensito nel 3° numero della rivista; in secondo luogo, era veramente da tanto che da queste parti non si parlava di un gruppo black/thrash metal, da quando cioè i favolosi Bunker 66 esordirono 2 anni fa su queste pagine; e come ultimo, ritorna finalmente il metal capitolino, e lo fa con grande stile.
Lo fa sparando infatti una bella dose di “ignorante” black/thrash declinato però spesso non solo attraverso una contagiosa ottica rock’n’roll ma anche una complessità, sia ritmica che strutturale, che qui e là si fa sentire, mostrando così una cura nei particolari, magari snocciolando dei cambi di tempi (talvolta sottoforma di blast – beats) improvvisi ma strategicamente perfetti, che è difficile cogliere in altri gruppi del genere.
Tale complessità si avverte anche nella fantasia che i nostri si ritrovano, e di cui una degna rappresentante è la voce. Il suo lavoro (impreziosito da un effetto d’eco bello presente) è infatti lontanissimo dall’essere statico, visto che tra grugniti e urla (e qualche risata “molto simpatica”) c’è l’imbarazzo della scelta. Anche perché l’espressività e l’intensità è alle stelle, e magari c’è pure il supporto di qualche fulminante coro. Per non dimenticare qualche siparietto porno (“White Poison”) di cui su Timpani (l’ho forse detto che i Vesper sono il gruppo dei ritorni?) se ne sentiva la mancanza da ben 2 anni, ossia da quando Orifice mi fece crepare dal ridere con l’album “…Better Than Sex”.
Intensità che fra l’altro si “dimentica” in qualche pezzo di sfoggiare quei tempi veloci pieni di groove tipici di certo black/thrash, e così, via con tempi medi che infettano ancor di più l’ascoltatore (la stessa “White Poison”, che è comunque uno degli episodi più immediati del lotto, pur sperimentando un po’ con la chitarra).
Un altro aspetto curioso viene dalla chitarra solista la quale, utilizzata in pochissime occasioni (come in “Narcotoxic Overdose”), esprime degli assoli spesso belli birraioli che però un po’ peccano di artificiosità. Mi spiego meglio: essi sono stati costruiti in modo da far immaginare all’ascoltatore la presenza non di uno ma di ben 2 chitarristi. Di conseguenza, ecco che gli assoli si sentono ora dall’una, adesso dall’altra parte. In “Flesh for Masses” poi le chitarre in un certo momento sono 3 ma vabbè…
Un secondo appunto da fare riguarda proprio quest’ultimo pezzo, che sciorina, purtroppo solo nei momenti iniziali, degli arpeggi in puro stile black metal. Purtroppo perché essi, lungo la parte centrale, potevano renderla sicuramente più atmosferica e meno semplicistica di un più convenzionale tempo medio thrasheggiante.
In ogni caso, il riffing, dal punto di vista qualitativo, è notevole, anche perché talvolta spara qualche (rara) puntatina nel death nonché soluzioni stoppate dall’impronta quasi percussiva. Ma ovviamente per i Vesper il concetto di melodia è quasi inesistente, e quel “quasi” si riferisce a “H.K.H.K.H.P.”, ultimo brano che altrettanto ovviamente non si poteva/doveva concludere in questa maniera. Cosa che comunque dimostra per l’ennesima volta una ricercatezza, per quanto limitata (in fin dei conti stiamo sempre parlando di un gruppo vecchia scuola), non comune ma che permette lo stesso l’assalto di 37 secondi di “Scat ‘Till Death”.
Strutturalmente parlando, i nostri sono da preferire nella loro versione più dinamica e complessa dove liberano tutto il proprio ego. E’ anche vero che, in quanto ad apporto dei singoli, i pezzi vengono giostrati benissimo, e da tale punto di vista la batteria riesce a cavare le migliori cose togliendo d’impiccio l’intero gruppo, magari proponendo variazioni – ponte tra un passaggio e l’altro (in questo caso, gli ultimi pezzi dell’album sono esemplari), e tra l’altro assolutamente magnifiche.
…e Roma si inorgoglì per aver partorito un altro ottimo gruppo! E cazzo!
Scusate il francesismo….
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Narcotoxic Overdose/ 2 – Scat ‘Till Death/ 3 – Gruesome Fornication/ 4 – White Poison/ 5 – Proliferation of Planet’s Cancer/ 6 – Possession of Evil Will/ 7 – Analfisted by Satan/ 8 – Flesh for Masses/ 9 – Raging Dogs/ 10 – Sex Slave Zombie/ 11 – H.K.H.K.H.P.
MySpace:
http://www.myspace.com/vesperscum
Formazione (2008): Sho, voce/basso;
Haemon, chitarre;
Redrum, batteria.
Provenienza: Roma, Lazio
Canzone migliore dell’album:
indubbiamente la stessa “Possession of Evil Will”, una delle più lunghe del lotto nonché l’unica avente un’introduzione tremendamente atmosferica nella quale fra l’altro vi è una “conversazione” fra quella che sembra una vecchia decrepita e un generico uomo (che belle descrizioni che do alle volte…).
Punto di forza del disco:
udite udite, la complessità che i nostri si ritrovano, che riesce a dinamicizzare in maniera non banale tutto l’insieme. Non a caso già da adesso consiglio ai diretti interessati di porre in futuro maggiore attenzione su quest’interessante caratteristica.
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I Vesper sono praticamente il gruppo dei ritorni. Sì, perché, prima di tutto, nei Vesper vi suona Sho, che chi sa un po’ di storia di Timpani allo Spiedo sa che costui suonava negli ormai sciolti Gremory, il cui “In Nomine Martis” venne guardacaso recensito nel 3° numero della rivista; in secondo luogo, era veramente da tanto che da queste parti non si parlava di un gruppo black/thrash metal, da quando cioè i favolosi Bunker 66 esordirono 2 anni fa su queste pagine; e come ultimo, ritorna finalmente il metal capitolino, e lo fa con grande stile.
Lo fa sparando infatti una bella dose di “ignorante” black/thrash declinato però spesso non solo attraverso una contagiosa ottica rock’n’roll ma anche una complessità, sia ritmica che strutturale, che qui e là si fa sentire, mostrando così una cura nei particolari, magari snocciolando dei cambi di tempi (talvolta sottoforma di blast – beats) improvvisi ma strategicamente perfetti, che è difficile cogliere in altri gruppi del genere.
Tale complessità si avverte anche nella fantasia che i nostri si ritrovano, e di cui una degna rappresentante è la voce. Il suo lavoro (impreziosito da un effetto d’eco bello presente) è infatti lontanissimo dall’essere statico, visto che tra grugniti e urla (e qualche risata “molto simpatica”) c’è l’imbarazzo della scelta. Anche perché l’espressività e l’intensità è alle stelle, e magari c’è pure il supporto di qualche fulminante coro. Per non dimenticare qualche siparietto porno (“White Poison”) di cui su Timpani (l’ho forse detto che i Vesper sono il gruppo dei ritorni?) se ne sentiva la mancanza da ben 2 anni, ossia da quando Orifice mi fece crepare dal ridere con l’album “…Better Than Sex”.
Intensità che fra l’altro si “dimentica” in qualche pezzo di sfoggiare quei tempi veloci pieni di groove tipici di certo black/thrash, e così, via con tempi medi che infettano ancor di più l’ascoltatore (la stessa “White Poison”, che è comunque uno degli episodi più immediati del lotto, pur sperimentando un po’ con la chitarra).
Un altro aspetto curioso viene dalla chitarra solista la quale, utilizzata in pochissime occasioni (come in “Narcotoxic Overdose”), esprime degli assoli spesso belli birraioli che però un po’ peccano di artificiosità. Mi spiego meglio: essi sono stati costruiti in modo da far immaginare all’ascoltatore la presenza non di uno ma di ben 2 chitarristi. Di conseguenza, ecco che gli assoli si sentono ora dall’una, adesso dall’altra parte. In “Flesh for Masses” poi le chitarre in un certo momento sono 3 ma vabbè…
Un secondo appunto da fare riguarda proprio quest’ultimo pezzo, che sciorina, purtroppo solo nei momenti iniziali, degli arpeggi in puro stile black metal. Purtroppo perché essi, lungo la parte centrale, potevano renderla sicuramente più atmosferica e meno semplicistica di un più convenzionale tempo medio thrasheggiante.
In ogni caso, il riffing, dal punto di vista qualitativo, è notevole, anche perché talvolta spara qualche (rara) puntatina nel death nonché soluzioni stoppate dall’impronta quasi percussiva. Ma ovviamente per i Vesper il concetto di melodia è quasi inesistente, e quel “quasi” si riferisce a “H.K.H.K.H.P.”, ultimo brano che altrettanto ovviamente non si poteva/doveva concludere in questa maniera. Cosa che comunque dimostra per l’ennesima volta una ricercatezza, per quanto limitata (in fin dei conti stiamo sempre parlando di un gruppo vecchia scuola), non comune ma che permette lo stesso l’assalto di 37 secondi di “Scat ‘Till Death”.
Strutturalmente parlando, i nostri sono da preferire nella loro versione più dinamica e complessa dove liberano tutto il proprio ego. E’ anche vero che, in quanto ad apporto dei singoli, i pezzi vengono giostrati benissimo, e da tale punto di vista la batteria riesce a cavare le migliori cose togliendo d’impiccio l’intero gruppo, magari proponendo variazioni – ponte tra un passaggio e l’altro (in questo caso, gli ultimi pezzi dell’album sono esemplari), e tra l’altro assolutamente magnifiche.
…e Roma si inorgoglì per aver partorito un altro ottimo gruppo! E cazzo!
Scusate il francesismo….
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Narcotoxic Overdose/ 2 – Scat ‘Till Death/ 3 – Gruesome Fornication/ 4 – White Poison/ 5 – Proliferation of Planet’s Cancer/ 6 – Possession of Evil Will/ 7 – Analfisted by Satan/ 8 – Flesh for Masses/ 9 – Raging Dogs/ 10 – Sex Slave Zombie/ 11 – H.K.H.K.H.P.
MySpace:
http://www.myspace.com/vesperscum
Thursday, December 8, 2011
Deadly Carnage - "Sentieri II - Ceneri"
Album autoprodotto (Agosto 2011)
Formazione (2005): Marcello, voce;
Dave, chitarra/voce aggiuntiva;
Alexios Ciancio, chitarra/sintetizzatori/voce aggiuntiva;
Adres, basso/rumori;
Marco, batteria.
Provenienza: Rimini, Emila Romagna.
Canzone migliore del disco:
indubbiamente “Growth and New Gods”, la quale ha un finale da capogiro che si avvale di lungo e caldo assolo, tanto semplice quanto fantasioso nella costruzione della melodia.
Punto di forza dell’opera:
la struttura dei pezzi, spesso molto difficile da gestire oltreché varia all’ennesima potenza.
Oggi, 7 Dicembre, è successo un miracolo, anzi 2:
1) era da qualche settimana che non mi svegliavo alle 8;
2) punto estremamente legato con il precedente, il sonno è stato interrotto dalla manifestazione dell’IDI proprio davanti casa, in una piazza dove non c’era qualcosa del genere (fra l’altro di serio) da non si sa quanto tempo, svegliando finalmente un quartiere solitamente invaso dalla divinità dell’automobile con annessi (e inutili) vigili.
Il bello è che dovrei studiare, ma un’ondata di altruismo nonché la musica che mettono in piazza (finora gli ultimi sono stati i grandi Ska – P) mi hanno contagiato, per cui Artaud, Locke e cazzi e mazzi aspetteranno.
Così, vi presento i Deadly Carnage ed il loro secondo album, disco interessante soprattutto per la notevole contraddizione che intercorre fra il riffing spesso adottato, inquietante e ipnotico come la tradizione del black metal più oltranzista comanda, e la chitarra solista, la quale si prodiga in assoli non solo tremendamente atmosferici ma anche paradossalmente romantici e spesso lunghissimi, senza però mai scadere nella noia. Inoltre, su di essi, fatto rarissimo nella maggior parte dei gruppi, il cantante con una certa frequenza prende voce in capitolo. In altre occasioni però, le intuizioni solistiche si fanno addirittura arabeggianti (“Epitaph Part II”, di cui si riparlerà), dimostrando per l’ennesima volta una capacità di osare di certo non comune.
E’ anche vero che in quanto a romanticismo le chitarre acustiche ci mettono il loro zampino, fino a esplodere nell’assurdo pezzo (assurdo per una formazione black metal, beninteso), gestito benissimo, dal titolo di “Ceneri”, che alla fine si rivela come una specie di (infinita… tanto da essere l’episodio più lungo dell’opera…)) outro quasi slegata dal resto del lotto, e nel quale il cantante dà addirittura adito a tutta la sua verve melodica sciorinando una voce pulita precedentemente solo accennata. Insomma, una vera sorpresa che ha soltanto il peccato, estremamente relativo, di essere l’unico episodio ad utilizzare la madrelingua, nonostante in passato i Deadly Carnage l’avessero usata decisamente di più.
La voce, d’altro canto, è un altro aspetto ottimamente curato dal gruppo. Sì, perché, anche se inizialmente appare come un tipico urlo black metal, dopo un po’ lascia trasparire una personalità più marcata [intanto hanno rimesso il pezzo con cui mi sono svegliato!] sfoggiando ora urla più, per così dire, “umane” e disperate, mentre adesso, ma in misura minore, urla più soffocate. Insomma, il lavoro non è statico, anche se un po’ di dubbi riguardano “Growth and New Gods”, che inizia con una serie di “oi” che sanno tanto di roba vichinga che però non sono stati contestualizzati per bene, soprattutto perché vengono quasi subito dimenticati non trovando più riscontro nel resto del pezzo.
In ogni caso, la dinamicità è un tratto caratteristico del quintetto, e da questo punto di vista la batteria è capace di estremizzarla per bene, presentando quindi un discorso nervoso ed abilissimo ad enfatizzare notevolmente tutto l’insieme, a volte stupendo nella maniera più devastante. Ciò osando dare una bella preminenza ai tempi medi, ma vi assicuro che il nostro quando mena con i blast – beats (o i tupa – tupa – “Guilt of Discipline” e “Growth and New Gods”) non scherza affatto, a dispetto di un rullante dal suono quasi finto e plastico.
E pure molto coraggiosa [adesso purtroppo la manifestazione vera e propria è finita] si dimostra la struttura dei pezzi, e a tal proposito non si può far a meno di notare che i nostri danno il meglio in quelli strutturalmente più isterici e selvaggi (“Guilt of Discipline”, “Parallels” e “Growth and New Gods”), i quali, avendo fra l’altro in comune una durata non indifferente che vai dai 7 ai quasi 9 minuti, non rispettano uno schema preciso. Nello specifico:
1) “Guilt of Discipline” poggia, anche se in maniera labile, sul tema principale, che più volte ritorna pure variandolo;
2) “Parallels” parte lenta, disperata e melodica per poi prendere definitivamente il largo sfoggiando, in modo da estremizzare una schizofrenia già bella presente, qualche influsso thrash e death (quest’ultima è un’influenza che si fa viva anche nel precedente episodio). Da notare il suo finale angosciosamente aperto;
3) Infine, “Growth and New Gods” ripropone, fino ad un certo punto, con sonorità più cattive, praticamente i primi momenti del brano, proposti inizialmente in versione melodica.
Ma come ho fatto notare più o meno implicitamente prima, “Epitaph Part I” e la sua seconda parte sono pezzi oserei dire interlocutori dato che sono decisamente più semplici e immediati rispetto agli altri. Dei due il migliore è il primo, che non soltanto consta di quel tipo di assolo citato qualche riga fa ma anche di un gioco ritmico dal sapore tribale utilizzato purtroppo solo nell’introduzione, anche se sarebbe stato funzionale con gli arabeschi della chitarra solista. “Epitaph Part II” invece è degno di nota specialmente per il finale, dove c’è una pausa da brividi con tanto di urlo inquietante seguito da una bella esplosione sonora.
Altri appunti da fare riguardano i rumori, che nei crediti sembravano così importanti ma che alla fine si riducono a qualche (ottimo, del resto) brandello di feedback (“Parallels”), caratteristica che poteva essere sicuramente giostrata meglio; e quel rumore greve, molto atmosferico, con cui si conclude quasi ogni pezzo, il quale poteva invece essere approfondito e ampliato, casomai nell’ultimo episodio così da non ridursi sempre ad un qualcosa di sempre uguale a sé stesso.
Ma se è vero che gli esperimenti implicano sempre la gradualità, che poco a poco rende sicuri dei propri mezzi, allora tutte queste ultime critiche sono (almeno per ora) relative. Anche perché, ad ogni modo, il gruppo sa essere non solo personale ma tremendamente raffinato. Quindi, il secondo album dei Deadly Carnage è un acquisto consigliatissimo.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Guilt of Discipline/ 2 – Parallels/ 3 – Epitaph Part II/ 4 – Epitaph Part II/ Growth and New Gods/ 6 - Ceneri
Formazione (2005): Marcello, voce;
Dave, chitarra/voce aggiuntiva;
Alexios Ciancio, chitarra/sintetizzatori/voce aggiuntiva;
Adres, basso/rumori;
Marco, batteria.
Provenienza: Rimini, Emila Romagna.
Canzone migliore del disco:
indubbiamente “Growth and New Gods”, la quale ha un finale da capogiro che si avvale di lungo e caldo assolo, tanto semplice quanto fantasioso nella costruzione della melodia.
Punto di forza dell’opera:
la struttura dei pezzi, spesso molto difficile da gestire oltreché varia all’ennesima potenza.
Oggi, 7 Dicembre, è successo un miracolo, anzi 2:
1) era da qualche settimana che non mi svegliavo alle 8;
2) punto estremamente legato con il precedente, il sonno è stato interrotto dalla manifestazione dell’IDI proprio davanti casa, in una piazza dove non c’era qualcosa del genere (fra l’altro di serio) da non si sa quanto tempo, svegliando finalmente un quartiere solitamente invaso dalla divinità dell’automobile con annessi (e inutili) vigili.
Il bello è che dovrei studiare, ma un’ondata di altruismo nonché la musica che mettono in piazza (finora gli ultimi sono stati i grandi Ska – P) mi hanno contagiato, per cui Artaud, Locke e cazzi e mazzi aspetteranno.
Così, vi presento i Deadly Carnage ed il loro secondo album, disco interessante soprattutto per la notevole contraddizione che intercorre fra il riffing spesso adottato, inquietante e ipnotico come la tradizione del black metal più oltranzista comanda, e la chitarra solista, la quale si prodiga in assoli non solo tremendamente atmosferici ma anche paradossalmente romantici e spesso lunghissimi, senza però mai scadere nella noia. Inoltre, su di essi, fatto rarissimo nella maggior parte dei gruppi, il cantante con una certa frequenza prende voce in capitolo. In altre occasioni però, le intuizioni solistiche si fanno addirittura arabeggianti (“Epitaph Part II”, di cui si riparlerà), dimostrando per l’ennesima volta una capacità di osare di certo non comune.
E’ anche vero che in quanto a romanticismo le chitarre acustiche ci mettono il loro zampino, fino a esplodere nell’assurdo pezzo (assurdo per una formazione black metal, beninteso), gestito benissimo, dal titolo di “Ceneri”, che alla fine si rivela come una specie di (infinita… tanto da essere l’episodio più lungo dell’opera…)) outro quasi slegata dal resto del lotto, e nel quale il cantante dà addirittura adito a tutta la sua verve melodica sciorinando una voce pulita precedentemente solo accennata. Insomma, una vera sorpresa che ha soltanto il peccato, estremamente relativo, di essere l’unico episodio ad utilizzare la madrelingua, nonostante in passato i Deadly Carnage l’avessero usata decisamente di più.
La voce, d’altro canto, è un altro aspetto ottimamente curato dal gruppo. Sì, perché, anche se inizialmente appare come un tipico urlo black metal, dopo un po’ lascia trasparire una personalità più marcata [intanto hanno rimesso il pezzo con cui mi sono svegliato!] sfoggiando ora urla più, per così dire, “umane” e disperate, mentre adesso, ma in misura minore, urla più soffocate. Insomma, il lavoro non è statico, anche se un po’ di dubbi riguardano “Growth and New Gods”, che inizia con una serie di “oi” che sanno tanto di roba vichinga che però non sono stati contestualizzati per bene, soprattutto perché vengono quasi subito dimenticati non trovando più riscontro nel resto del pezzo.
In ogni caso, la dinamicità è un tratto caratteristico del quintetto, e da questo punto di vista la batteria è capace di estremizzarla per bene, presentando quindi un discorso nervoso ed abilissimo ad enfatizzare notevolmente tutto l’insieme, a volte stupendo nella maniera più devastante. Ciò osando dare una bella preminenza ai tempi medi, ma vi assicuro che il nostro quando mena con i blast – beats (o i tupa – tupa – “Guilt of Discipline” e “Growth and New Gods”) non scherza affatto, a dispetto di un rullante dal suono quasi finto e plastico.
E pure molto coraggiosa [adesso purtroppo la manifestazione vera e propria è finita] si dimostra la struttura dei pezzi, e a tal proposito non si può far a meno di notare che i nostri danno il meglio in quelli strutturalmente più isterici e selvaggi (“Guilt of Discipline”, “Parallels” e “Growth and New Gods”), i quali, avendo fra l’altro in comune una durata non indifferente che vai dai 7 ai quasi 9 minuti, non rispettano uno schema preciso. Nello specifico:
1) “Guilt of Discipline” poggia, anche se in maniera labile, sul tema principale, che più volte ritorna pure variandolo;
2) “Parallels” parte lenta, disperata e melodica per poi prendere definitivamente il largo sfoggiando, in modo da estremizzare una schizofrenia già bella presente, qualche influsso thrash e death (quest’ultima è un’influenza che si fa viva anche nel precedente episodio). Da notare il suo finale angosciosamente aperto;
3) Infine, “Growth and New Gods” ripropone, fino ad un certo punto, con sonorità più cattive, praticamente i primi momenti del brano, proposti inizialmente in versione melodica.
Ma come ho fatto notare più o meno implicitamente prima, “Epitaph Part I” e la sua seconda parte sono pezzi oserei dire interlocutori dato che sono decisamente più semplici e immediati rispetto agli altri. Dei due il migliore è il primo, che non soltanto consta di quel tipo di assolo citato qualche riga fa ma anche di un gioco ritmico dal sapore tribale utilizzato purtroppo solo nell’introduzione, anche se sarebbe stato funzionale con gli arabeschi della chitarra solista. “Epitaph Part II” invece è degno di nota specialmente per il finale, dove c’è una pausa da brividi con tanto di urlo inquietante seguito da una bella esplosione sonora.
Altri appunti da fare riguardano i rumori, che nei crediti sembravano così importanti ma che alla fine si riducono a qualche (ottimo, del resto) brandello di feedback (“Parallels”), caratteristica che poteva essere sicuramente giostrata meglio; e quel rumore greve, molto atmosferico, con cui si conclude quasi ogni pezzo, il quale poteva invece essere approfondito e ampliato, casomai nell’ultimo episodio così da non ridursi sempre ad un qualcosa di sempre uguale a sé stesso.
Ma se è vero che gli esperimenti implicano sempre la gradualità, che poco a poco rende sicuri dei propri mezzi, allora tutte queste ultime critiche sono (almeno per ora) relative. Anche perché, ad ogni modo, il gruppo sa essere non solo personale ma tremendamente raffinato. Quindi, il secondo album dei Deadly Carnage è un acquisto consigliatissimo.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Guilt of Discipline/ 2 – Parallels/ 3 – Epitaph Part II/ 4 – Epitaph Part II/ Growth and New Gods/ 6 - Ceneri
Friday, November 25, 2011
Dehumanization - "Swallowed by Eternity" (2011)
Demo autoprodotto (15 Maggio 2011)
Formazione (2010): Bojan, voce;
Thomas, chitarre;
Gabriele, basso;
Fava, batteria.
Provenienza: Pordenone, Trentino Alto – Adige
Canzone migliore del disco:provo una particolare predilezione per “Reign of Ruin”, più che altro perché stavolta i nostri non solo osano non sputare neanche un misero assolo ma esprimono il meglio di loro stessi negli stacchi con relative ripartenze, tutti momenti incredibilmente azzeccati.
Punto di forza del demo:
probabilmente la batteria, che riesce a unire il sacro con il profano senza mostrare un grammo di incertezza.
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A forza di farmi una testa così con gli studi universitari mi sono dimenticato bellamente di Timpani allo Spiedo per parecchio tempo e, peggio ancora, dovete pensare che la rece sul demo dei Blaspherit è stata la prima dopo qualcosa come 2 settimane. L’avevo detto che sarei andato molto a rilento, nonostante la montagna di materiale arrivatami negli ultimissimi tempi. Fortuna che la webzine non abbia delle scadenze precise, se non quelle vagamente adottate dalla mia testa malata…
Testa malata che ultimamente si è entusiasmata del primissimo disco dei Dehumanization, gruppo che si discosta finalmente dallo strapotere black metal che sta imperversando su Timpani allo Spiedo (c’è un ritorno di questo genere dalle mie parti che manco nei primissimi tempi della rivista!), e non senza una certa eleganza di fondo, la quale si fa notare per delle caratteristiche particolarmente interessante, nonostante la giovane età di questo branco di pazzi. Quindi:
1) il lavoro di chitarra è nervoso, psicotico, profondamente a – melodico quasi ai limiti del mathcore, pur essendo strutturalmente di natura in fin dei conti classica. Gli interventi della chitarra solista sono circoscritti agli ottimi assoli, uno per pezzo e lontani ad ogni modo dall’essere delle cascate di note essendo fra l’altro dalla durata breve ma non troppo, oltre al fatto di possedere un’ottima atmosfera. Tale limitatezza della solista è da apprezzare molto in quanto così facendo si rispetta il fatto che ci sia una sola ascia in formazione;
2) la batteria l’ho trovata però più curata e fantasiosa del settore chitarre (le quali infatti appaiono un po’ monolitiche). In non pochi casi, le sue costruzioni sono ostiche ed isteriche, pur cercando di porre un buon equilibrio fra i tempi veloci (non manca neppure qualche blast – beat) e quelli più lenti. Questi ultimi riescono spesso e volentieri a rendere più digeribile l’intero massacro, visto che viene data particolare importanza ad un groove quantomai contagioso.
D’altro canto, la voce non è da meno, soprattutto perché il nostro risulta capace di variare per bene il proprio cantato, passando così dai grugniti (non particolarmente profondi a dire il vero, ma pazienza) a varie urla per finire con delle parti sussurrate presenti nei momenti più atmosferici di “Reign of Ruin” (da menzionare per delle notevoli linee di basso) e “Outburst”. Il comparto vocale è stato curato molto bene anche utilizzando, in maniera però misurata e ragionevole, le sovraincisioni.
Stupisce la lunghezza media dei pezzi, che si attestano sempre intorno ai 4 minuti, e quindi i nostri si sono presi i loro bei rischi, almeno in rapporto alla loro giovinezza e alla scelta di un tipo di death metal di sicuro per niente comune. Da questo punto di vista, è da segnalare specialmente la struttura dei brani, lontana comunque dall’essere veramente poco intelligibile dato che lo schema non è poi così libero come apparentemente sembra (si citi per esempio “Implosion”, addirittura ossessivo in alcune parti). Gli episodi si articolano fra l’altro sfruttando degli stacchi fantastici, esplicati in soluzioni sempre differenti e che non fanno mai calare l’attenzione dell’ascoltatore.
Ma se è vero che i nostri sono alla primissima opera, allora sorprende anche la produzione, pulita e con tutti gli strumenti messi bene in evidenza da far sentire per filo e per segno ogni finezza senza necessariamente scomodare le cuffie.
E’ pur vero che in formazione c’è una vecchia conoscenza di Timpani allo Spiedo. Sto parlando di quel Der Antikrist Seelen Mord che ultimamente mi ha deluso (e non poco) prima con il solo – progetto black depressivo Howling in the Fog e poi con l’esperienza drone Bleeding Void of Utter Mysticism. Insomma, il buon Gabriele si è risollevato, anche se avrei desiderato una sua prestazione (a ogni modo brillante ed efficace) più solista che non si limitasse soltanto ai passaggi meno canonici degli ultimi due pezzi.
Ma in fin dei conti ‘sti gran cazzi! Il disco è pur sempre una bella botta italianissima di death metal tecnico che è un vero calco in culo a chi crede che il metallo estremo debba essere solo primitivo e basta!
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Implosion/ 2 – Reign of Ruin/ 3 – Outburst
MySpace:
http://www.myspace.com/dehumanizationtn
Formazione (2010): Bojan, voce;
Thomas, chitarre;
Gabriele, basso;
Fava, batteria.
Provenienza: Pordenone, Trentino Alto – Adige
Canzone migliore del disco:provo una particolare predilezione per “Reign of Ruin”, più che altro perché stavolta i nostri non solo osano non sputare neanche un misero assolo ma esprimono il meglio di loro stessi negli stacchi con relative ripartenze, tutti momenti incredibilmente azzeccati.
Punto di forza del demo:
probabilmente la batteria, che riesce a unire il sacro con il profano senza mostrare un grammo di incertezza.
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A forza di farmi una testa così con gli studi universitari mi sono dimenticato bellamente di Timpani allo Spiedo per parecchio tempo e, peggio ancora, dovete pensare che la rece sul demo dei Blaspherit è stata la prima dopo qualcosa come 2 settimane. L’avevo detto che sarei andato molto a rilento, nonostante la montagna di materiale arrivatami negli ultimissimi tempi. Fortuna che la webzine non abbia delle scadenze precise, se non quelle vagamente adottate dalla mia testa malata…
Testa malata che ultimamente si è entusiasmata del primissimo disco dei Dehumanization, gruppo che si discosta finalmente dallo strapotere black metal che sta imperversando su Timpani allo Spiedo (c’è un ritorno di questo genere dalle mie parti che manco nei primissimi tempi della rivista!), e non senza una certa eleganza di fondo, la quale si fa notare per delle caratteristiche particolarmente interessante, nonostante la giovane età di questo branco di pazzi. Quindi:
1) il lavoro di chitarra è nervoso, psicotico, profondamente a – melodico quasi ai limiti del mathcore, pur essendo strutturalmente di natura in fin dei conti classica. Gli interventi della chitarra solista sono circoscritti agli ottimi assoli, uno per pezzo e lontani ad ogni modo dall’essere delle cascate di note essendo fra l’altro dalla durata breve ma non troppo, oltre al fatto di possedere un’ottima atmosfera. Tale limitatezza della solista è da apprezzare molto in quanto così facendo si rispetta il fatto che ci sia una sola ascia in formazione;
2) la batteria l’ho trovata però più curata e fantasiosa del settore chitarre (le quali infatti appaiono un po’ monolitiche). In non pochi casi, le sue costruzioni sono ostiche ed isteriche, pur cercando di porre un buon equilibrio fra i tempi veloci (non manca neppure qualche blast – beat) e quelli più lenti. Questi ultimi riescono spesso e volentieri a rendere più digeribile l’intero massacro, visto che viene data particolare importanza ad un groove quantomai contagioso.
D’altro canto, la voce non è da meno, soprattutto perché il nostro risulta capace di variare per bene il proprio cantato, passando così dai grugniti (non particolarmente profondi a dire il vero, ma pazienza) a varie urla per finire con delle parti sussurrate presenti nei momenti più atmosferici di “Reign of Ruin” (da menzionare per delle notevoli linee di basso) e “Outburst”. Il comparto vocale è stato curato molto bene anche utilizzando, in maniera però misurata e ragionevole, le sovraincisioni.
Stupisce la lunghezza media dei pezzi, che si attestano sempre intorno ai 4 minuti, e quindi i nostri si sono presi i loro bei rischi, almeno in rapporto alla loro giovinezza e alla scelta di un tipo di death metal di sicuro per niente comune. Da questo punto di vista, è da segnalare specialmente la struttura dei brani, lontana comunque dall’essere veramente poco intelligibile dato che lo schema non è poi così libero come apparentemente sembra (si citi per esempio “Implosion”, addirittura ossessivo in alcune parti). Gli episodi si articolano fra l’altro sfruttando degli stacchi fantastici, esplicati in soluzioni sempre differenti e che non fanno mai calare l’attenzione dell’ascoltatore.
Ma se è vero che i nostri sono alla primissima opera, allora sorprende anche la produzione, pulita e con tutti gli strumenti messi bene in evidenza da far sentire per filo e per segno ogni finezza senza necessariamente scomodare le cuffie.
E’ pur vero che in formazione c’è una vecchia conoscenza di Timpani allo Spiedo. Sto parlando di quel Der Antikrist Seelen Mord che ultimamente mi ha deluso (e non poco) prima con il solo – progetto black depressivo Howling in the Fog e poi con l’esperienza drone Bleeding Void of Utter Mysticism. Insomma, il buon Gabriele si è risollevato, anche se avrei desiderato una sua prestazione (a ogni modo brillante ed efficace) più solista che non si limitasse soltanto ai passaggi meno canonici degli ultimi due pezzi.
Ma in fin dei conti ‘sti gran cazzi! Il disco è pur sempre una bella botta italianissima di death metal tecnico che è un vero calco in culo a chi crede che il metallo estremo debba essere solo primitivo e basta!
Voto: 82
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Implosion/ 2 – Reign of Ruin/ 3 – Outburst
MySpace:
http://www.myspace.com/dehumanizationtn
Sunday, November 20, 2011
Blaspherit - "Fallen Oath of Black Doom" (2011)
Demo (Silver Key Records, 27 Maggio 2011)
Formazione (2010): Strigoi Verminator, voce/batteria;
Zroknyxgorphallus, chitarre/voce;
Xhankthemoneum, basso/flauto.
Provenienza: Næstved (Danimarca)
Pezzo migliore del demo:
probabilmente “Werewolf of the Black Abyss”, specialmente per la sua Babele “caciarona” di urla come se non ci fosse un domani.
Punto di forza del disco:
la voce, sia perché la produzione l’ha stuprata a dovere, sia perché le urla qui proposte sono da leggenda, riuscendo così a trasmettere follia pura.
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Curiosità:
sembrerà strano, ma le 120 copie del demo sono andate in tutto esaurito 2 giorni dopo la sua pubblicazione!
Non posso farci niente ragazzi! Non posso resistere alla tentazione di dare una qualche possibilità di ascolto a gente che se ne infischia altamente di produrre i loro dischi in maniera almeno decente. Il metallaro medio, dopo esser stato scaraventato da così tanto “rumore”, avrebbe praticamente gli incubi per tutto il resto della sua vita. Se no perché, in quella favolosa notte dei tempi in cui fondai Timpani allo Spiedo, l’ho chiamata così? Certo, in passato c’è stata qualche bocciatura inerente soprattutto la produzione (per esempio, quella del demo dei filippini Nekroholocaust, che però a dir la verità l’ho risolta con un senza voto) ma sono state delle eccezioni rarissime a dir poco estreme… in cui nonostante tutto non rientrano i Blaspherit. Infatti, mi pare indiscutibile che loro se la siano cercata una produzione così “inascoltabile”, e fra l’altro non è neanche fine a sé stessa visto che risulta perfettamente funzionale all’atmosfera malatissima da loro creata. Ma se dicessi al metallaro medio con un minimo di cultura che la produzione non è solo inadatta per lui ma che il gruppo che mi appresto a recensire fa parte del bestiale calderone del black/death metal, come dite che reagirebbe? Come minimo con l’infarto, oserei dire.
In parole povere, la produzione è stata cercata principalmente perché la voce è così manipolata da pesanti effetti di riverbero ed eco da risultare angosciosamente innaturale, ed il “problema” è che essa risulta già di suo particolarmente inquietante per mezzo di grugniti belli profondi. I quali vengono alternati, e pure con una buona frequenza, con urla da psicopatico a volte da castrato vero e proprio. E l’effetto sa essere allo stesso tempo demenziale e spaventoso.
La batteria invece la si sente decisamente meglio con l’ausilio delle cuffie da gustare una prestazione che, per quanto poco varia, riesce ad accentare spesso molto bene il riffing stesso. La cosa strana è che, seppur ci sia una proliferazione dei blast – beats notevole come il genere comanda, ben 2 pezzi sono stati costruiti (quasi) esclusivamente sui tempi medio – lenti, declinati anche attraverso un bel groove, ossia "Goat Command Desolation" e "Gods of Goldenwood and Pagan Fire", pezzo quest’ultimo in cui fra l’altro c’è un plagio di proporzioni epiche, e su cui naturalmente ritornerò.
Con le chitarre l’inquietudine assume livelli ancor più assurdi. Infatti, oltre a un tipo di riffing che si avvicina a un death/brutal a dir poco primitivo, la chitarra solista trova spesso espressione, estremizzando la lezione impartita da gente simpatica come i Bestial Warlust, e compagnia. Con un paio di differenze però:
1) gli assoli, o che dir si voglia, sono molto simili fra di loro;
2) essi sembrano stati messi nei vari pezzi quasi “a cazzo di cane”;
Quest’ultimo punto, se da una parte è un aspetto negativo della faccenda, dall’altro è assolutamente positivo, visto che così facendo si riesce a trasmettere un sentore di rovina e follia che è un po’ la cifra stilistica del demo. E non soltanto per una chitarra solista impazzita.
Ascoltatevi infatti "Weltering in Semen and Blood", nel cui finale c’è persino un flauto dalla melodia malandata e stonata (quindi che melodia è?). L’effetto, alla fine, è così fastidioso da risultare perfetto e volutamente ironico (e non scordiamo che anche alcuni jazzisti hanno provato a fare simili esperimenti con strumenti non loro).
Ma anche la struttura di "Gods of Goldenwood and Pagan Fire" non scherza affatto. Prima di tutto, il pezzo è un plagio al passaggio principale groovy di “Baphomet’s Vomit” dei Sadomator (e guardacaso la Silver Key Records è di loro proprietà…) periodo “Sadomatic Goat Cult”, solo riproposto qui all’infinito. Ma il brano è così paranoico da “scadere” in momenti dove il gruppo impazzisce quasi di noia sparando “pause rumoriste” così da perdere progressivamente il tema principale. Fra l’altro, "Gods...." è pure l’episodio più lungo del lotto, visto che dura qualcosa come 5 minuti (e lo standard del terzetto si aggira fra i 2 e i 3 minuti).
Effettivamente bisogna dire che il tipo di struttura che i nostri hanno adottato ha un discorso piuttosto lento, nonostante i ritmi spesso veloci. Infatti, si ha qui la tendenza a ripetere le varie soluzioni musicali più del solito, pur non arrivando all’”estremizzazione ribelle” dell’ultimo brano, ultimo tratto che personalizza (ed appesantisce) abbastanza bene la proposta dei Blaspherit.
Devo andare oltre? Da ascoltare solo se si è sicuro di uscire un minimo indenni dall’ascolto.
Voto: 65
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Temple Cult/ 2 – Fallen Oath of Black Doom/ 3 – Six Days of Desecration/ 4 – Werewolf of the Black Abyss/ 5 – Goat Command Desolation/ 6 – Weltering in Semen and Blood/ 7 – Gods of Goldenwood and Pagan Fire
Formazione (2010): Strigoi Verminator, voce/batteria;
Zroknyxgorphallus, chitarre/voce;
Xhankthemoneum, basso/flauto.
Provenienza: Næstved (Danimarca)
Pezzo migliore del demo:
probabilmente “Werewolf of the Black Abyss”, specialmente per la sua Babele “caciarona” di urla come se non ci fosse un domani.
Punto di forza del disco:
la voce, sia perché la produzione l’ha stuprata a dovere, sia perché le urla qui proposte sono da leggenda, riuscendo così a trasmettere follia pura.
------------------------------------------------------------------------------------------------
Curiosità:
sembrerà strano, ma le 120 copie del demo sono andate in tutto esaurito 2 giorni dopo la sua pubblicazione!
Non posso farci niente ragazzi! Non posso resistere alla tentazione di dare una qualche possibilità di ascolto a gente che se ne infischia altamente di produrre i loro dischi in maniera almeno decente. Il metallaro medio, dopo esser stato scaraventato da così tanto “rumore”, avrebbe praticamente gli incubi per tutto il resto della sua vita. Se no perché, in quella favolosa notte dei tempi in cui fondai Timpani allo Spiedo, l’ho chiamata così? Certo, in passato c’è stata qualche bocciatura inerente soprattutto la produzione (per esempio, quella del demo dei filippini Nekroholocaust, che però a dir la verità l’ho risolta con un senza voto) ma sono state delle eccezioni rarissime a dir poco estreme… in cui nonostante tutto non rientrano i Blaspherit. Infatti, mi pare indiscutibile che loro se la siano cercata una produzione così “inascoltabile”, e fra l’altro non è neanche fine a sé stessa visto che risulta perfettamente funzionale all’atmosfera malatissima da loro creata. Ma se dicessi al metallaro medio con un minimo di cultura che la produzione non è solo inadatta per lui ma che il gruppo che mi appresto a recensire fa parte del bestiale calderone del black/death metal, come dite che reagirebbe? Come minimo con l’infarto, oserei dire.
In parole povere, la produzione è stata cercata principalmente perché la voce è così manipolata da pesanti effetti di riverbero ed eco da risultare angosciosamente innaturale, ed il “problema” è che essa risulta già di suo particolarmente inquietante per mezzo di grugniti belli profondi. I quali vengono alternati, e pure con una buona frequenza, con urla da psicopatico a volte da castrato vero e proprio. E l’effetto sa essere allo stesso tempo demenziale e spaventoso.
La batteria invece la si sente decisamente meglio con l’ausilio delle cuffie da gustare una prestazione che, per quanto poco varia, riesce ad accentare spesso molto bene il riffing stesso. La cosa strana è che, seppur ci sia una proliferazione dei blast – beats notevole come il genere comanda, ben 2 pezzi sono stati costruiti (quasi) esclusivamente sui tempi medio – lenti, declinati anche attraverso un bel groove, ossia "Goat Command Desolation" e "Gods of Goldenwood and Pagan Fire", pezzo quest’ultimo in cui fra l’altro c’è un plagio di proporzioni epiche, e su cui naturalmente ritornerò.
Con le chitarre l’inquietudine assume livelli ancor più assurdi. Infatti, oltre a un tipo di riffing che si avvicina a un death/brutal a dir poco primitivo, la chitarra solista trova spesso espressione, estremizzando la lezione impartita da gente simpatica come i Bestial Warlust, e compagnia. Con un paio di differenze però:
1) gli assoli, o che dir si voglia, sono molto simili fra di loro;
2) essi sembrano stati messi nei vari pezzi quasi “a cazzo di cane”;
Quest’ultimo punto, se da una parte è un aspetto negativo della faccenda, dall’altro è assolutamente positivo, visto che così facendo si riesce a trasmettere un sentore di rovina e follia che è un po’ la cifra stilistica del demo. E non soltanto per una chitarra solista impazzita.
Ascoltatevi infatti "Weltering in Semen and Blood", nel cui finale c’è persino un flauto dalla melodia malandata e stonata (quindi che melodia è?). L’effetto, alla fine, è così fastidioso da risultare perfetto e volutamente ironico (e non scordiamo che anche alcuni jazzisti hanno provato a fare simili esperimenti con strumenti non loro).
Ma anche la struttura di "Gods of Goldenwood and Pagan Fire" non scherza affatto. Prima di tutto, il pezzo è un plagio al passaggio principale groovy di “Baphomet’s Vomit” dei Sadomator (e guardacaso la Silver Key Records è di loro proprietà…) periodo “Sadomatic Goat Cult”, solo riproposto qui all’infinito. Ma il brano è così paranoico da “scadere” in momenti dove il gruppo impazzisce quasi di noia sparando “pause rumoriste” così da perdere progressivamente il tema principale. Fra l’altro, "Gods...." è pure l’episodio più lungo del lotto, visto che dura qualcosa come 5 minuti (e lo standard del terzetto si aggira fra i 2 e i 3 minuti).
Effettivamente bisogna dire che il tipo di struttura che i nostri hanno adottato ha un discorso piuttosto lento, nonostante i ritmi spesso veloci. Infatti, si ha qui la tendenza a ripetere le varie soluzioni musicali più del solito, pur non arrivando all’”estremizzazione ribelle” dell’ultimo brano, ultimo tratto che personalizza (ed appesantisce) abbastanza bene la proposta dei Blaspherit.
Devo andare oltre? Da ascoltare solo se si è sicuro di uscire un minimo indenni dall’ascolto.
Voto: 65
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Temple Cult/ 2 – Fallen Oath of Black Doom/ 3 – Six Days of Desecration/ 4 – Werewolf of the Black Abyss/ 5 – Goat Command Desolation/ 6 – Weltering in Semen and Blood/ 7 – Gods of Goldenwood and Pagan Fire
Thursday, November 10, 2011
Progetto:ChaosGoat.666 - "Cosmic Eraser of Lifeforms" (2009)
Demo (War Kommand Productions, 2009)
Formazione: The Nuclear Goddess, voce, chitarra;
200 – 821 – 6, chitarra;
RBMK – 666, batteria.
Provenienza: Scandicci/Firenze/Fabriano, Toscana/Marche
Canzone migliore del demo:
scelta difficile, ma se devo andare sul sicuro, preferirei citare “Der SataNazi Nuklear Kult”, più che altro perché è corredata da un assolo magnifico e imprevedibilissimo, e che quindi va in netto contrasto con tutto il “rumore” snocciolato con impudica nonchalance.
Punto di forza del disco:
il sentore di rovina che si sente per tutti i 41 minuti dell'opera. Provare per credere.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Avete presente quelli che si lamentano per una presunta mancanza di creatività che ormai dicono sia presente nella nostra cara musica da molti anni? Bene, chissà come si comporterebbero sapendo che in giro c’è qualche pazzo pronto a utilizzare quella loro stessa creatività per vederla… ridotta in cenere? Prendiamo ad esempio i Progetto:ChaosGoat.666, che farebbero morire d’invidia persino i Bestial Warlust più rumoristi, e che al nostro prode Claustrofobia interessano così tanto perché vuole maciullarsi per bene i timpani (dio quanto è scemo!).
Già, parliamo dei Progetto:ChaosGoat.666 e della loro finora unica demo – cassetta che alla fine è un vero e proprio album, un catalogo di orrori che parte di base da una specie di black/death metal in salsa grind per quanto è pressappochista. E ciò per due motivi principali:
1) la batteria (elettronica?) la quale è quasi sempre sparata all’inverosimile, e ciò significa blast – beats a oltranza senza molta fantasia;
2) le chitarre, ma più per come vengono utilizzate che per il riffing in sé stesso, il quale si presenta sicuramente più curato della batteria (fino a sputare incredibilmente un assolo anche piuttosto lungo e fantasioso in “Der SataNazi Nuklear Kult”… a questo punto peccato che sia l’unico), pur essendo sempre bello “ignorante” come si conviene ad un gruppo del genere. Il riffing viene infatti utilizzato attraverso un tipo di struttura ossessiva, paranoica e minimalista così da proporre talvolta lo stesso riff (o quasi) per tutta una canzone.
A questo si aggiunga il fatto che il gruppo tende a preferire pezzi da 2 – 3 minuti, quindi la pesantezza generale viene compensata da una capacità di sintesi aiutata anche da una buona presenza delle pause con relative ripartenza pure durante uno stesso brano.
D’altro canto, la suddetta pesantezza viene aumentata a dismisura dai seguenti fattori:
1) la voce che, utilizzando talvolta pure la madrelingua, è semplicemente un classico del black/death visto che nel gruppo si trovano delle urla stile Bestial Warlust, solo in versione ancor più raccapricciante, e dei grugniti schifosi;
2) il lavoro fatto in fase di produzione e missaggio, consistente non soltanto nell’effettistica che talvolta manipola spaventosamente le voci, ma anche nei vari rumori di cui sono ricchi i pezzi, andando così dalle sirene d’allarme ai discorsi hitleriani (…) con tanto di folla urlante, da veri e propri spezzoni di film per finire con i cori gregoriani, ragion per cui il demo rimanda continuamente ad un’atmosfera di rovina e irrazionalismo esasperato perfettamente ricreata.
Ma, beninteso, ‘sti pazzi non si fermano soltanto a ciò ma vanno ben oltre, così da distruggere sul serio il concetto stesso di musica. In che modo? In tutti i modi, oserei dire.
Fate conto che alcuni brani sono letteralmente stuprati della base ritmica, di conseguenza tutto quello che si sente è (di norma) una chitarra, voce + “abbellimenti” di sorta fino a presentare in “Male Dictum Est in Fa#“ addirittura una chitarra acustica la cui melodia viene insultata per esempio dall’assurdo comparto vocale, stavolta più sussurrato. Da ciò si può intuire la tendenza a rendere oggetto di blasfemia sonorità piacevoli come certi momenti ambientali che qui e là vorrebbero vanamente “cullare” l’ascoltatore.
Oppure fate conto che la produzione è così sporca e a tratti “offuscata” da irridere l’ascoltatore, anche perché è stata impostata su frequenze altine. Di certo però, in quanto a sporcizia, le mie orecchie hanno sentito cose infinitamente “peggiori”.
Ma è da menzionare assolutamente anche la stranissima disposizione dei pezzi, frutto della politica repressiva attuata dal gruppo. Si prendano come esemplari soprattutto quelli finali, che niente hanno di quelli tipici del metal estremo. Ciò perché, parlato di “Male Dictum Est in Fa#“, la seguente, ossia “Noise – Imput – Jupiter” è un infinito pezzo atmosferico (7 minuti di durata!) nel quale vi è principalmente una chitarra psichedelica e specialmente quello che sembra un focolare duro a spegnersi (insomma, come scritto a inizio recensione, la creatività ridotta in cenere…).
Certo, una tale metodologia non è esente da pericoli, soprattutto perché in certi casi avrei preferito meno esperimenti (leggasi, riempitivi) e più caos in modo da colpire perfettamente l’ascoltatore sia in senso psicologico che fisico. D’altro canto, il caos è anche questo, radicato però in maniera più profonda e indiretta, ma quel che è sicuro è che simili “creazioni abortite” (come Antonin Artaud chiamava da giovane le sue poesie) sono da amare. E se io dico questo, allora dovete riflettere per millenni prima di comprare una cassetta così sadomaso…
Voto: 71
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Attack to Peace/ 2 – Extirpation of Life from the Universe/ 3 – Nuclear Chaos Over the Realm of God/ 4 – Antilife Terror Strike/ 5 – Necro Alienz Extermination/ 6 - 86. 04. 25. 01. 23. 47/ 7 – Der SataNazi Nuklear Kult/ 8 – New Radiancy/ 9 – Plutonium Uber Alles/ 10 – Planet Hell/ 11 Nozozcas/ 12 – Deus Nobiscum/ 13 – In the Sign of Anti – Materia/ 14 – Male Dictum Est in Fa#/ 15 – Noise – Imput – Jupiter
MySpace:
http://www.myspace.com/progettochaosgoat666
Formazione: The Nuclear Goddess, voce, chitarra;
200 – 821 – 6, chitarra;
RBMK – 666, batteria.
Provenienza: Scandicci/Firenze/Fabriano, Toscana/Marche
Canzone migliore del demo:
scelta difficile, ma se devo andare sul sicuro, preferirei citare “Der SataNazi Nuklear Kult”, più che altro perché è corredata da un assolo magnifico e imprevedibilissimo, e che quindi va in netto contrasto con tutto il “rumore” snocciolato con impudica nonchalance.
Punto di forza del disco:
il sentore di rovina che si sente per tutti i 41 minuti dell'opera. Provare per credere.
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Avete presente quelli che si lamentano per una presunta mancanza di creatività che ormai dicono sia presente nella nostra cara musica da molti anni? Bene, chissà come si comporterebbero sapendo che in giro c’è qualche pazzo pronto a utilizzare quella loro stessa creatività per vederla… ridotta in cenere? Prendiamo ad esempio i Progetto:ChaosGoat.666, che farebbero morire d’invidia persino i Bestial Warlust più rumoristi, e che al nostro prode Claustrofobia interessano così tanto perché vuole maciullarsi per bene i timpani (dio quanto è scemo!).
Già, parliamo dei Progetto:ChaosGoat.666 e della loro finora unica demo – cassetta che alla fine è un vero e proprio album, un catalogo di orrori che parte di base da una specie di black/death metal in salsa grind per quanto è pressappochista. E ciò per due motivi principali:
1) la batteria (elettronica?) la quale è quasi sempre sparata all’inverosimile, e ciò significa blast – beats a oltranza senza molta fantasia;
2) le chitarre, ma più per come vengono utilizzate che per il riffing in sé stesso, il quale si presenta sicuramente più curato della batteria (fino a sputare incredibilmente un assolo anche piuttosto lungo e fantasioso in “Der SataNazi Nuklear Kult”… a questo punto peccato che sia l’unico), pur essendo sempre bello “ignorante” come si conviene ad un gruppo del genere. Il riffing viene infatti utilizzato attraverso un tipo di struttura ossessiva, paranoica e minimalista così da proporre talvolta lo stesso riff (o quasi) per tutta una canzone.
A questo si aggiunga il fatto che il gruppo tende a preferire pezzi da 2 – 3 minuti, quindi la pesantezza generale viene compensata da una capacità di sintesi aiutata anche da una buona presenza delle pause con relative ripartenza pure durante uno stesso brano.
D’altro canto, la suddetta pesantezza viene aumentata a dismisura dai seguenti fattori:
1) la voce che, utilizzando talvolta pure la madrelingua, è semplicemente un classico del black/death visto che nel gruppo si trovano delle urla stile Bestial Warlust, solo in versione ancor più raccapricciante, e dei grugniti schifosi;
2) il lavoro fatto in fase di produzione e missaggio, consistente non soltanto nell’effettistica che talvolta manipola spaventosamente le voci, ma anche nei vari rumori di cui sono ricchi i pezzi, andando così dalle sirene d’allarme ai discorsi hitleriani (…) con tanto di folla urlante, da veri e propri spezzoni di film per finire con i cori gregoriani, ragion per cui il demo rimanda continuamente ad un’atmosfera di rovina e irrazionalismo esasperato perfettamente ricreata.
Ma, beninteso, ‘sti pazzi non si fermano soltanto a ciò ma vanno ben oltre, così da distruggere sul serio il concetto stesso di musica. In che modo? In tutti i modi, oserei dire.
Fate conto che alcuni brani sono letteralmente stuprati della base ritmica, di conseguenza tutto quello che si sente è (di norma) una chitarra, voce + “abbellimenti” di sorta fino a presentare in “Male Dictum Est in Fa#“ addirittura una chitarra acustica la cui melodia viene insultata per esempio dall’assurdo comparto vocale, stavolta più sussurrato. Da ciò si può intuire la tendenza a rendere oggetto di blasfemia sonorità piacevoli come certi momenti ambientali che qui e là vorrebbero vanamente “cullare” l’ascoltatore.
Oppure fate conto che la produzione è così sporca e a tratti “offuscata” da irridere l’ascoltatore, anche perché è stata impostata su frequenze altine. Di certo però, in quanto a sporcizia, le mie orecchie hanno sentito cose infinitamente “peggiori”.
Ma è da menzionare assolutamente anche la stranissima disposizione dei pezzi, frutto della politica repressiva attuata dal gruppo. Si prendano come esemplari soprattutto quelli finali, che niente hanno di quelli tipici del metal estremo. Ciò perché, parlato di “Male Dictum Est in Fa#“, la seguente, ossia “Noise – Imput – Jupiter” è un infinito pezzo atmosferico (7 minuti di durata!) nel quale vi è principalmente una chitarra psichedelica e specialmente quello che sembra un focolare duro a spegnersi (insomma, come scritto a inizio recensione, la creatività ridotta in cenere…).
Certo, una tale metodologia non è esente da pericoli, soprattutto perché in certi casi avrei preferito meno esperimenti (leggasi, riempitivi) e più caos in modo da colpire perfettamente l’ascoltatore sia in senso psicologico che fisico. D’altro canto, il caos è anche questo, radicato però in maniera più profonda e indiretta, ma quel che è sicuro è che simili “creazioni abortite” (come Antonin Artaud chiamava da giovane le sue poesie) sono da amare. E se io dico questo, allora dovete riflettere per millenni prima di comprare una cassetta così sadomaso…
Voto: 71
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Attack to Peace/ 2 – Extirpation of Life from the Universe/ 3 – Nuclear Chaos Over the Realm of God/ 4 – Antilife Terror Strike/ 5 – Necro Alienz Extermination/ 6 - 86. 04. 25. 01. 23. 47/ 7 – Der SataNazi Nuklear Kult/ 8 – New Radiancy/ 9 – Plutonium Uber Alles/ 10 – Planet Hell/ 11 Nozozcas/ 12 – Deus Nobiscum/ 13 – In the Sign of Anti – Materia/ 14 – Male Dictum Est in Fa#/ 15 – Noise – Imput – Jupiter
MySpace:
http://www.myspace.com/progettochaosgoat666
Tuesday, November 1, 2011
Infernal Angels - "Midwinter Blood" (2009)
Album (My Kingdom Music, 28 Settembre 2009)
Formazione (2002): Xes, voce;
Managarmr, chitarre;
Beast, basso;
Asmodeus Draco Dux, batteria.
Provenienza: Potenza, Basilicata
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “Melody of Pain”, dal sapore a tratti depressivo.
Punto di forza dell’opera:
la voce, che fra l’altro si concede qualche puntatina nella nostra amata madrelingua, sicuramente più evocativa dell’inglese, ragion per cui consiglio di abbandonare in toto quest’ultimo.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Dite quello che volete ma sinceramente serbavo molte aspettative su questo album. Invece, mi sono purtroppo dovuto ricredere, pur trovando nel disco degli spunti, se non delle caratteristiche propriamente dette, interessanti e non di poco conto. La cosa che mi ha comunque più dato fastidio è stato individuare il problema di questa delusione, ed in effetti l’analisi dell’opera è stata veramente lunga e ponderata in modo da non incappare in argomentazioni poco razionali (è anche vero che con tutti i miei impegni universitari i miei neuroni stanno andando letteralmente in fuffa!). Ma siccome oggi sono dispetto, preferisco trasmettere un po’ di suspence così da partire immediatamente con gli aspetti positivi dell’album.
La voce, ad esempio. Come già scritto nella recensione di “Princeps Malis Generis” dei Byblis, Xes sputa urla quasi gutturali, con l’unica differenza che negli Infernal Angels dà adito a tutte le sue potenzialità espressive, sciorinando quindi un campo d’azione non comune. Infatti, lui va da veri e propri grugniti a voci pulite un po’ ipnotiche (“Melody Is Pain”) – peccato che non siano state utilizzate di più perché regalano un’atmosfera tutta particolare -, dai sussurrii di “Sangue” per finire con urla da incubo e sofferenti come non mai (“Melody of Pain” e soprattutto “Sangue”). In più, si deve dire che il lavoro è stato rifinito veramente bene anche perchè le sovraincisioni sono belle frequenti.
Oppure prendiamo ad esempio le chitarre. Il riffing è di tipo melodico anche se non mancano pezzi più raggelanti e cupi (come “Prologus Odii” e “Sangue”, il quale presenta un lavoro per certi versi particolare e pure agghiacciante), ed inoltre, in un brano come “Inesorabile”, le linee melodiche sanno essere più bizzarre e personali del solito. L’utilizzo della chitarra solista è limitato a pochissime canzoni, specialmente a quelle della seconda parte, così da trasmettere talvolta un clima di tempesta notevole, ragion per cui consiglio vivamente ai nostri di reclutare un secondo chitarrista. Ma in ogni caso, non aspettatevi nemmeno una misera traccia di assoli, totalmente assenti, mentre vi dovete aspettare un po’ di decadenti chitarre acustiche, usate quasi esclusivamente nella prima parte dell’album.
Oltre a ciò, bisogna segnalare il fatto che gli Infernal Angels preferiscano, seppur non in gran lunga, i tempi veloci raggiungendo però raramente la velocità da blast – beat in senso stretto. Ma purtroppo, è proprio dal lavoro di batteria che partono effettivamente le prime impressioni negative, comunque circoscritte e quindi per ora abbastanza secondarie.
Infatti, la batteria presenta, specialmente in episodi come “Prologus Odii” e “A New Era Is Coming” (il quale si avvale di un’ottima introduzione ambientale), un lavoro a volte poco curato e poco abile ad enfatizzare tutto l’insieme, sia perché le soluzioni scelte non sempre si legano bene con il riffing, sia per via di un immobilismo ritmico che non riesce a differenziare veramente i vari passaggi che così facendo sembrano uguali fra di loro anche quando il riff cambia. Poi ci sono altri brani, come “Sangue” (dal finale addirittura paranoico), nei quali il batterista risulta più dinamico del solito, e quando ci si libera dai vincoli sopraddetti il risultato, guardacaso, è decisamente migliore.
Il secondo problema, ben più importante e in parte conseguenza della stessa batteria, riguarda il tipo di struttura adottato dal gruppo. La sua è una struttura oserei dire troppo razionale e poco esplosiva, anche perché spesso ci si fissa con le stesse soluzioni senza proporne effettivamente una nuova che dia il colpo di grazia nudo e crudo. Infatti, in un gruppo nel quale la melodia prevale, per me è sempre sottintesa la capacità di rendere veramente drammatica tutta la musica, cosa che nell’album avverto completamente soltanto in “Melody of Pain”, vero capolavoro dal punto di vista strutturale e quindi emotivo. E’ anche per questo che avrei preferito un utilizzo più frequente della chitarra acustica, visto che essa riesce ad aggiungere quel pizzico in più di sofferenza romantica che gli Infernal Angels hanno praticamente dimenticato nella seconda parte.
Eccetto però nell’outro, spaventoso episodio di natura praticamente atmosferica e ambientale che mette quasi in discussione tutto il resto del disco visto che è stato costruito benissimo nonostante le sue sonorità non siano per nessuna ragione al mondo lo standard per il quartetto, anche perché “Epilogus Humanitatis” non è neanche breve per essere una outro.
In conclusione, nonostante il voto particolarmente basso (almeno per Timpani allo Spiedo), confido nelle potenzialità degli Infernal Angels, che hanno praticamente a portata di mano le soluzioni atte a distruggere per bene i padiglioni auricolari, ragion per cui mi dispiace sentitamente di non dare un giudizio che riletta più correttamente queste stesse potenzialità. Quindi, è da attendersi molto volentieri la loro prossima produzione.
Voto: 64
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Prologus Odii/ 2 – Melody of Pain/ 3 – Midwinter Blood/ 4 – Coronation of Dark Victory/ 5 – Conquering the Throne of Sin/ 6 – A New Era Is Coming/ 7 – Tutto Quel Che Rimane/ 8 – Sangue/ 9 – Inesorabile/ 10 – Epilogus Humanitatis
Sito ufficiale:
http://www.infernalangels.org/
MySpace:
http://www.myspace.com/infernalangels
Formazione (2002): Xes, voce;
Managarmr, chitarre;
Beast, basso;
Asmodeus Draco Dux, batteria.
Provenienza: Potenza, Basilicata
Canzone migliore del disco:
senz’ombra di dubbio “Melody of Pain”, dal sapore a tratti depressivo.
Punto di forza dell’opera:
la voce, che fra l’altro si concede qualche puntatina nella nostra amata madrelingua, sicuramente più evocativa dell’inglese, ragion per cui consiglio di abbandonare in toto quest’ultimo.
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Dite quello che volete ma sinceramente serbavo molte aspettative su questo album. Invece, mi sono purtroppo dovuto ricredere, pur trovando nel disco degli spunti, se non delle caratteristiche propriamente dette, interessanti e non di poco conto. La cosa che mi ha comunque più dato fastidio è stato individuare il problema di questa delusione, ed in effetti l’analisi dell’opera è stata veramente lunga e ponderata in modo da non incappare in argomentazioni poco razionali (è anche vero che con tutti i miei impegni universitari i miei neuroni stanno andando letteralmente in fuffa!). Ma siccome oggi sono dispetto, preferisco trasmettere un po’ di suspence così da partire immediatamente con gli aspetti positivi dell’album.
La voce, ad esempio. Come già scritto nella recensione di “Princeps Malis Generis” dei Byblis, Xes sputa urla quasi gutturali, con l’unica differenza che negli Infernal Angels dà adito a tutte le sue potenzialità espressive, sciorinando quindi un campo d’azione non comune. Infatti, lui va da veri e propri grugniti a voci pulite un po’ ipnotiche (“Melody Is Pain”) – peccato che non siano state utilizzate di più perché regalano un’atmosfera tutta particolare -, dai sussurrii di “Sangue” per finire con urla da incubo e sofferenti come non mai (“Melody of Pain” e soprattutto “Sangue”). In più, si deve dire che il lavoro è stato rifinito veramente bene anche perchè le sovraincisioni sono belle frequenti.
Oppure prendiamo ad esempio le chitarre. Il riffing è di tipo melodico anche se non mancano pezzi più raggelanti e cupi (come “Prologus Odii” e “Sangue”, il quale presenta un lavoro per certi versi particolare e pure agghiacciante), ed inoltre, in un brano come “Inesorabile”, le linee melodiche sanno essere più bizzarre e personali del solito. L’utilizzo della chitarra solista è limitato a pochissime canzoni, specialmente a quelle della seconda parte, così da trasmettere talvolta un clima di tempesta notevole, ragion per cui consiglio vivamente ai nostri di reclutare un secondo chitarrista. Ma in ogni caso, non aspettatevi nemmeno una misera traccia di assoli, totalmente assenti, mentre vi dovete aspettare un po’ di decadenti chitarre acustiche, usate quasi esclusivamente nella prima parte dell’album.
Oltre a ciò, bisogna segnalare il fatto che gli Infernal Angels preferiscano, seppur non in gran lunga, i tempi veloci raggiungendo però raramente la velocità da blast – beat in senso stretto. Ma purtroppo, è proprio dal lavoro di batteria che partono effettivamente le prime impressioni negative, comunque circoscritte e quindi per ora abbastanza secondarie.
Infatti, la batteria presenta, specialmente in episodi come “Prologus Odii” e “A New Era Is Coming” (il quale si avvale di un’ottima introduzione ambientale), un lavoro a volte poco curato e poco abile ad enfatizzare tutto l’insieme, sia perché le soluzioni scelte non sempre si legano bene con il riffing, sia per via di un immobilismo ritmico che non riesce a differenziare veramente i vari passaggi che così facendo sembrano uguali fra di loro anche quando il riff cambia. Poi ci sono altri brani, come “Sangue” (dal finale addirittura paranoico), nei quali il batterista risulta più dinamico del solito, e quando ci si libera dai vincoli sopraddetti il risultato, guardacaso, è decisamente migliore.
Il secondo problema, ben più importante e in parte conseguenza della stessa batteria, riguarda il tipo di struttura adottato dal gruppo. La sua è una struttura oserei dire troppo razionale e poco esplosiva, anche perché spesso ci si fissa con le stesse soluzioni senza proporne effettivamente una nuova che dia il colpo di grazia nudo e crudo. Infatti, in un gruppo nel quale la melodia prevale, per me è sempre sottintesa la capacità di rendere veramente drammatica tutta la musica, cosa che nell’album avverto completamente soltanto in “Melody of Pain”, vero capolavoro dal punto di vista strutturale e quindi emotivo. E’ anche per questo che avrei preferito un utilizzo più frequente della chitarra acustica, visto che essa riesce ad aggiungere quel pizzico in più di sofferenza romantica che gli Infernal Angels hanno praticamente dimenticato nella seconda parte.
Eccetto però nell’outro, spaventoso episodio di natura praticamente atmosferica e ambientale che mette quasi in discussione tutto il resto del disco visto che è stato costruito benissimo nonostante le sue sonorità non siano per nessuna ragione al mondo lo standard per il quartetto, anche perché “Epilogus Humanitatis” non è neanche breve per essere una outro.
In conclusione, nonostante il voto particolarmente basso (almeno per Timpani allo Spiedo), confido nelle potenzialità degli Infernal Angels, che hanno praticamente a portata di mano le soluzioni atte a distruggere per bene i padiglioni auricolari, ragion per cui mi dispiace sentitamente di non dare un giudizio che riletta più correttamente queste stesse potenzialità. Quindi, è da attendersi molto volentieri la loro prossima produzione.
Voto: 64
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Prologus Odii/ 2 – Melody of Pain/ 3 – Midwinter Blood/ 4 – Coronation of Dark Victory/ 5 – Conquering the Throne of Sin/ 6 – A New Era Is Coming/ 7 – Tutto Quel Che Rimane/ 8 – Sangue/ 9 – Inesorabile/ 10 – Epilogus Humanitatis
Sito ufficiale:
http://www.infernalangels.org/
MySpace:
http://www.myspace.com/infernalangels
Saturday, October 29, 2011
Monday, October 24, 2011
Slaughtergrave - "Antifa Psychedelic"
Demo (DeathForce Records, 2011)
Formazione (2002): Pavel, voce;
Kostas, chitarre;
Spiros, basso;
Dimitris, batteria.
Provenienza: Thessaloniki, Grecia.
Canzone migliore del demo:
a dir la verità citarne una in particolare è praticamente impossibile visto che tra brano e brano le differenze sono spesso enormi, ma se proprio devo farlo preferirei per “Mo – Mo Producer”. Sì, ma perché? Perché è una canzone incredibilmente lenta e, nonostante questo non sia lo standard del gruppo, è stata costruita veramente molto bene e con uno sviluppo anche abbastanza imprevedibile.
Punto di forza del disco:
senz’ombra di dubbio la batteria, che regala a tutto l’insieme un’imprevedibilità pazzesca così da dimostrare un lavoro di rifinitura veramente raro in gruppi del genere.
Curiosità:
Spiros parla italiano! Quindi chi è interessato a comprare roba da ‘sti pazzi greci non avrà problemi di comunicazione anche non sapendo quindi una cippa di inglese.
Dal punto di vista mentale l’Università ti rinforza così tanto da riuscire a leggere e a scrivere anche per 8 ore di fila senza che gli occhi si stanchino veramente. Ecco perché, tra una pausa e l’altra, e dopo aver fatto viaggi da e verso la Sapienza completamente assurdi (sì perché, noi romani, oltre ad avere SOLO 2 linee metropolitane – e Parigi ne ha 14! – abbiamo anche una metro di merda che il 20, giorno in cui è stata scritta la recensione, è stata allagata, con conseguente aria di rivolta per la città….), ho trovato il tempo per recensire questo bel disco. Un “bel disco” che a dir la verità è come un fulmine a ciel sereno visto che gli Slaughtergrave mi hanno colto totalmente di sorpresa, considerando che con lo split recensito qualche settimana fa non hanno quasi niente a che fare. Miracoli dell’Arte!
Infatti, per chiarirvi le idee, preferirei un’analisi attenta dei vari pezzi. Per ora, vi basti sapere che i nostri hanno abbandonato quasi in toto le sonorità precedenti riassumibili in un grindcore punkeggiante e bello groovy. Quindi:
- “Work Slavery”, come indica il titolo, si rifà ad un punk – hardcore di marca classica che però risulta a tratti piuttosto raffinato e tecnico sotto il profilo ritmico, con una prestazione del batterista a dir poco ottima. L’unica anomalia piacevolmente contrastante con la militanza e l’intensità del pezzo deriva nientepopodimeno che dalla voce, ossia un grugnito gutturale che spiega finalmente perché il gruppo ha citato sul proprio MySpace il death metal per quanto riguarda le influenze. La struttura del brano è invece super – essenziali dato che non è altro che un 1 – 2 - 1 – 2 (l’1 è un tempo medio dal sapore più punk) e fine, visto che l’episodio dura un solo minuto. Tale schema si ripeterà più o meno in maniera simile nei successivi pezzi;
- “Mo – Mo Producer” invece dà un senso allo “Psychedelic” utilizzato nel titolo, ed infatti stavolta siamo su binari radicalmente differenti. La musica guardacaso è decisamente metallica e doomeggiante, e alla fine ci si rende conto che tutto il discorso è per la verità sorretto dalle variazioni di una batteria superlativa così da compensare l’aria un po’ psicotica e ripetitiva del riffing. Il quale riffing si risolve inaspettatamente in un assolo con i controcazzi e dalla chiusa in sostanza dal taglio persino blues, enfatizzata notevolmente dagli altri strumenti che si fermano del tutto. In questi stessi strumenti fa bella figura di sé la voce, ancor più cupa e gutturale oltreché urlata come nella più classica alternanza nel death e nel brutal. Da notare infine che “Mo – Mo Producer” dura la bellezza di quasi 4 minuti, contrariamente ai tipici standard dei nostri;
- Infine c’è “Metal Is their Business… and Business Isn't Good”. Il titolo, nonostante sembri cavalcare la vecchia diatribe “metal vs punk – hc” prendendo, come si sa, di petto il primo album dei Megadeth (da me affettuosamente chiamati Merdadeath), rimanda curiosamente ad un pezzo thrashcore con un po’ di epicismo e tupa – tupa con doppia cassa continuamente presente, elementi invece caratterizzanti dello speed metal. Non a caso, anche qui si fa vivo un assolo che come il precedente non conclude soltanto il pezzo m è pure bello lungo e dallo sviluppo sempre ben congegnato. E ancora non a caso la voce è un urlo declamatorio e molto vicino ai dettami thrashcore. Serve altro?
Sì, serve qualche osservazione non di poco conto, a prescindere dal valore qualitativo di tutti e 3 i pezzi, comunque intensi e interessanti come non mai.
Infatti, se nello split gli Slaughtergrave sembravano soffrire di un’omogeneità incredibile eppur efficace, in questo disco peccano esattamente del contrario tanto da indurre l’ascoltatore a pensare di ascoltare ogni volta un gruppo diverso, similmente a quanto accade nelle ultime produzioni di Impaled Bitch (che però sovrabbondano di musicisti sempre diversi). Insomma, nei ragazzi aleggia un po’ di confusione circa la strada musicale da prendere. E’ pur vero però che la formazione, rispetto allo split, è decisamente diversa dato che non solo Spiros e Pavel si sono scambiati i ruoli ma gli altri due membri sono persino nuovi, quindi è inevitabile che lo stile cambi.
Conseguenza di ciò, è anche il tipo di voce utilizzato in “Metal Is their Business… and Business Isn't Good”. E dico questo anche perché sarebbe stato molto interessante usare i grugniti in salsa thrashcore visto che negli altri due pezzi l’esperimento ha funzionato molto bene.
In ogni caso, oltre alla musica in sé stessa, pure la produzione è molto diversa rispetto a quanto sentito nello split. Infatti, pur essendo sporca, è molto più comprensibile e d’impatto. Mi è piaciuto molto il fatto che non sia stata incisa una seconda chitarra, cosa ravvisabile non soltanto dalle frequenze più basse del previsto della chitarra ma anche durante gli assoli, i quali mettono in buon risalto il basso. E’ quindi una produzione quasi da concerto, che rispetta cioè il fatto che il gruppo sia un semplice e classico quartetto.
Voto: 72
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Work Slavery/ 2 – Mo – Mo Producer/ 3 – Metal Is their Business…and Business Is Good
MySpace:
http://www.myspace.com/slaughtergrave
Formazione (2002): Pavel, voce;
Kostas, chitarre;
Spiros, basso;
Dimitris, batteria.
Provenienza: Thessaloniki, Grecia.
Canzone migliore del demo:
a dir la verità citarne una in particolare è praticamente impossibile visto che tra brano e brano le differenze sono spesso enormi, ma se proprio devo farlo preferirei per “Mo – Mo Producer”. Sì, ma perché? Perché è una canzone incredibilmente lenta e, nonostante questo non sia lo standard del gruppo, è stata costruita veramente molto bene e con uno sviluppo anche abbastanza imprevedibile.
Punto di forza del disco:
senz’ombra di dubbio la batteria, che regala a tutto l’insieme un’imprevedibilità pazzesca così da dimostrare un lavoro di rifinitura veramente raro in gruppi del genere.
Curiosità:
Spiros parla italiano! Quindi chi è interessato a comprare roba da ‘sti pazzi greci non avrà problemi di comunicazione anche non sapendo quindi una cippa di inglese.
Dal punto di vista mentale l’Università ti rinforza così tanto da riuscire a leggere e a scrivere anche per 8 ore di fila senza che gli occhi si stanchino veramente. Ecco perché, tra una pausa e l’altra, e dopo aver fatto viaggi da e verso la Sapienza completamente assurdi (sì perché, noi romani, oltre ad avere SOLO 2 linee metropolitane – e Parigi ne ha 14! – abbiamo anche una metro di merda che il 20, giorno in cui è stata scritta la recensione, è stata allagata, con conseguente aria di rivolta per la città….), ho trovato il tempo per recensire questo bel disco. Un “bel disco” che a dir la verità è come un fulmine a ciel sereno visto che gli Slaughtergrave mi hanno colto totalmente di sorpresa, considerando che con lo split recensito qualche settimana fa non hanno quasi niente a che fare. Miracoli dell’Arte!
Infatti, per chiarirvi le idee, preferirei un’analisi attenta dei vari pezzi. Per ora, vi basti sapere che i nostri hanno abbandonato quasi in toto le sonorità precedenti riassumibili in un grindcore punkeggiante e bello groovy. Quindi:
- “Work Slavery”, come indica il titolo, si rifà ad un punk – hardcore di marca classica che però risulta a tratti piuttosto raffinato e tecnico sotto il profilo ritmico, con una prestazione del batterista a dir poco ottima. L’unica anomalia piacevolmente contrastante con la militanza e l’intensità del pezzo deriva nientepopodimeno che dalla voce, ossia un grugnito gutturale che spiega finalmente perché il gruppo ha citato sul proprio MySpace il death metal per quanto riguarda le influenze. La struttura del brano è invece super – essenziali dato che non è altro che un 1 – 2 - 1 – 2 (l’1 è un tempo medio dal sapore più punk) e fine, visto che l’episodio dura un solo minuto. Tale schema si ripeterà più o meno in maniera simile nei successivi pezzi;
- “Mo – Mo Producer” invece dà un senso allo “Psychedelic” utilizzato nel titolo, ed infatti stavolta siamo su binari radicalmente differenti. La musica guardacaso è decisamente metallica e doomeggiante, e alla fine ci si rende conto che tutto il discorso è per la verità sorretto dalle variazioni di una batteria superlativa così da compensare l’aria un po’ psicotica e ripetitiva del riffing. Il quale riffing si risolve inaspettatamente in un assolo con i controcazzi e dalla chiusa in sostanza dal taglio persino blues, enfatizzata notevolmente dagli altri strumenti che si fermano del tutto. In questi stessi strumenti fa bella figura di sé la voce, ancor più cupa e gutturale oltreché urlata come nella più classica alternanza nel death e nel brutal. Da notare infine che “Mo – Mo Producer” dura la bellezza di quasi 4 minuti, contrariamente ai tipici standard dei nostri;
- Infine c’è “Metal Is their Business… and Business Isn't Good”. Il titolo, nonostante sembri cavalcare la vecchia diatribe “metal vs punk – hc” prendendo, come si sa, di petto il primo album dei Megadeth (da me affettuosamente chiamati Merdadeath), rimanda curiosamente ad un pezzo thrashcore con un po’ di epicismo e tupa – tupa con doppia cassa continuamente presente, elementi invece caratterizzanti dello speed metal. Non a caso, anche qui si fa vivo un assolo che come il precedente non conclude soltanto il pezzo m è pure bello lungo e dallo sviluppo sempre ben congegnato. E ancora non a caso la voce è un urlo declamatorio e molto vicino ai dettami thrashcore. Serve altro?
Sì, serve qualche osservazione non di poco conto, a prescindere dal valore qualitativo di tutti e 3 i pezzi, comunque intensi e interessanti come non mai.
Infatti, se nello split gli Slaughtergrave sembravano soffrire di un’omogeneità incredibile eppur efficace, in questo disco peccano esattamente del contrario tanto da indurre l’ascoltatore a pensare di ascoltare ogni volta un gruppo diverso, similmente a quanto accade nelle ultime produzioni di Impaled Bitch (che però sovrabbondano di musicisti sempre diversi). Insomma, nei ragazzi aleggia un po’ di confusione circa la strada musicale da prendere. E’ pur vero però che la formazione, rispetto allo split, è decisamente diversa dato che non solo Spiros e Pavel si sono scambiati i ruoli ma gli altri due membri sono persino nuovi, quindi è inevitabile che lo stile cambi.
Conseguenza di ciò, è anche il tipo di voce utilizzato in “Metal Is their Business… and Business Isn't Good”. E dico questo anche perché sarebbe stato molto interessante usare i grugniti in salsa thrashcore visto che negli altri due pezzi l’esperimento ha funzionato molto bene.
In ogni caso, oltre alla musica in sé stessa, pure la produzione è molto diversa rispetto a quanto sentito nello split. Infatti, pur essendo sporca, è molto più comprensibile e d’impatto. Mi è piaciuto molto il fatto che non sia stata incisa una seconda chitarra, cosa ravvisabile non soltanto dalle frequenze più basse del previsto della chitarra ma anche durante gli assoli, i quali mettono in buon risalto il basso. E’ quindi una produzione quasi da concerto, che rispetta cioè il fatto che il gruppo sia un semplice e classico quartetto.
Voto: 72
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Work Slavery/ 2 – Mo – Mo Producer/ 3 – Metal Is their Business…and Business Is Good
MySpace:
http://www.myspace.com/slaughtergrave
Saturday, October 22, 2011
Hieros Gamos - "The Sounds of Doom (The Ancestral Myths)" (2007)
Demo autoprodotto (2007)
Formazione (2003): Roberto Moro, voce/chitarre/basso/batteria/tastiere
Provenienza: Ittiri (Sassari), Sardegna
Canzone migliore del disco:
sicuramente “The Sound of Doom”, fatalista e profondamente irrazionale ai limiti dell’istintività più pura com’è.
Punto di forza del demo:
senz’ombra di dubbio il settore di chitarre, molto curato, originale e soprattutto quasi “fastidioso” per come è strutturato.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Nota:
il progetto Hieros Gamos è ritornato finalmente a farsi sentire, dato che proprio da poco è stato pubblicato l'album "Bionic Era of Psychosis", nel quale Roberto Moro è stato aiutato da vari musicisti, come Lord Bahal dei Bahal e Bloody Hansen dell'esperienza horror The Providence.
Mi ricordo che 3 anni fa, prima di recensire il secondo demo di Hieros Gamos, dovetti ascoltarlo più e più volte in modo da comprendere al meglio quest’opera complessa. A dir la verità l’operazione fu sempre un vero dramma, pur riconoscendo all’epoca l’immane originalità di “The Sounds of Doom”, anche se alla fine conclusi che essa veniva filtrata in maniera un po’ senza senso e quindi irrilevante dal punto di vista emotiva. Solo che, a riascoltare questo disco dopo ben 3 anni, l’effetto è stato diverso nonché spiegabile in maniera sicuramente più razionale.
Infatti, ciò che fa il demo un qualcosa di tremendamente migliorabile è da ravvisare in sostanza in due aspetti poco digeribili, ovverosia:
1) la voce, formalmente quasi vicina al cantato schifoso e inquietante dei Vlad Tepes, ma sostanzialmente quasi inespressiva e senza fantasia nella costruzione delle linee vocali, le quali si basano su un discorso spesso dall’andamento spezzettato;
2) la batteria elettronica, soprattutto perché è stata malamente bilanciata rispetto alle chitarre. Ciò significa che la si sente in maniera troppo debole, impedendo di conseguenza di gustarsela fino in fondo. Unitamente a questo, pur riconoscendo il buon lavoro in fase di programmazione, si deve dire che ci si ostina troppo e con poco costrutto sui tom – tom, i quali si ripetono spesso uguali sé stessi nonché attraverso un suono molto fittizio, e quindi veramente poco profondo.
Stringendo, i problemi derivano tutti dalla produzione molto chiusa e cavernosa oltreché basata sostanzialmente sulle chitarre, che alla fine si rivelano come l’aspetto più interessante della proposta, e non soltanto di per sé, come si vedrà fra poco.
Infatti, prima di tutto il riffing è piuttosto tecnico e dinamico, molto lontano dai classici canoni del black metal, e quindi dal punto di vista più strutturale si presenta abbastanza pesante e coraggioso nelle varie soluzioni adottate. Questo anche perché il nostro è riuscito a combinare un’aura mistica e desertica, direttamente proveniente dalla musicalità araba e orientale, con un riffing di tipo più occidentale, creando così un’atmosfera particolare e affascinante.
Nonostante questo riffing quasi trascendentale anche tecnicamente parlando, gli assoli (che possono essere melodici, come nella lunga introduzione di “The Sound of Insanity”) non sono mai e poi mai una vera e propria cascata di note, dato che si preoccupano più di evocare qualcosa, e non sono neanche belli lunghi, visto che si risolvono dopo pochi secondi, ed inoltre in un pezzo come “The Sound of Melancholy” non ve n’è praticamente traccia. A questo punto sono molto curioso di come usciranno i soli ora che c’è in formazione Lord Bahal dei lecchesi Bahal ad occuparsene!
All’epoca criticai la presunta monotonia del riffing. “Presunta” perché, ad analizzare veramente il disco, mi si è palesata una buona caratterizzazione dello stesso da pezzo a pezzo, non solo perché i riffs sono belli fantasiosi ma anche perché ogni episodio risulta atmosfericamente molto diverso dall’altro. Si passa infatti dal sentore di minaccia di “The Sound of Abyss”, il pezzo più cupo del lotto tanto per mettere le cose subito in chiaro, alle melodie da mare in tempesta (enfatizzate per bene da blast – beats finalmente fondamentali ma quasi mai sovrastanti sui tempi medio – lenti, più utilizzati) di “The Sound of Melancholy”, dalle atmosfere a tratti crepuscolari e disperate di “The Sound of Insanity” per finire con l’apocalisse di “The Sound of Doom”, canzone nella quale il discorso solitamente irrazionale di Hieros Gamos viene estremizzato alla massima potenza attraverso un continuo alternarsi fra melodie senza speranza e riffs più oscuri e severi.
Il “discorso irrazionale” citato è effettivamente la millesima caratteristica del progetto che appesantisce tutto l’ascolto, mitigate in parte dal inserto di atmosferiche chitarre acustiche che qui e là fanno capolino, magari integrandosi con tutti gli altri strumenti come in “The Sound of Insanity”. Il discorso generale dei pezzi è infatti sorretto da una struttura imprevedibile e sfuggente come non mai, assolutamente non rispondente ad un tipico schema a strofa – ritornello, e che fa la spia alle interessanti tematiche freudiane del nostro. Una struttura volta quasi a suggerire una sorta di brainstorming che fa cadere l’ascoltatore in un vortice follia perché così facendo niente è più sicuro. Fra l’altro, chissà perché quasi ogni brano si conclude in dissolvenza (da ricordare soprattutto il cupissimo fatalismo di “The Sound of Doom”), ed in effetti forse avrei preferito un approccio più fantasioso durante la fase conclusiva, ma in fin dei conti è pur vero che la struttura – tipo adottata è lontanissima dall’esser semplicistica.
Tale imprevedibilità scatenata inoltre quasi cozza con l’impostazione profondamente minimale eppur evocativa delle tastiere, utilizzate in maniera sì frugale ma saggiamente.
Ultima caratteristica è la tendenza a proporre suggestivi campionamenti ambientali, dei quali degno di una particolare menzione è quello di “The Sound of Insanity”, il quale, oltre a fungere da (lunghissima) introduzione, è pure bello crudo, visto che è sostanzialmente una macchina di tortura in azione. Curiosamente (e a suo tempo l’ho debitamente osservato), è lo stesso identico campionamento, solo accorciato, che i calabresi Land of Hate hanno usato nel pezzo “In the Hands of Destruction” contenuto nel album “Neutralized Existence”.
Voto: 66
Claustrofobia
Scaletta:
1 – The Sound of Abyss/ 2 – The Sound of Melancholy/ 3 – The Sound of Insanity/ 4 – The Sound of Doom
MySpace:
http://www.myspace.com/hierosgamositalia
Formazione (2003): Roberto Moro, voce/chitarre/basso/batteria/tastiere
Provenienza: Ittiri (Sassari), Sardegna
Canzone migliore del disco:
sicuramente “The Sound of Doom”, fatalista e profondamente irrazionale ai limiti dell’istintività più pura com’è.
Punto di forza del demo:
senz’ombra di dubbio il settore di chitarre, molto curato, originale e soprattutto quasi “fastidioso” per come è strutturato.
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Nota:
il progetto Hieros Gamos è ritornato finalmente a farsi sentire, dato che proprio da poco è stato pubblicato l'album "Bionic Era of Psychosis", nel quale Roberto Moro è stato aiutato da vari musicisti, come Lord Bahal dei Bahal e Bloody Hansen dell'esperienza horror The Providence.
Mi ricordo che 3 anni fa, prima di recensire il secondo demo di Hieros Gamos, dovetti ascoltarlo più e più volte in modo da comprendere al meglio quest’opera complessa. A dir la verità l’operazione fu sempre un vero dramma, pur riconoscendo all’epoca l’immane originalità di “The Sounds of Doom”, anche se alla fine conclusi che essa veniva filtrata in maniera un po’ senza senso e quindi irrilevante dal punto di vista emotiva. Solo che, a riascoltare questo disco dopo ben 3 anni, l’effetto è stato diverso nonché spiegabile in maniera sicuramente più razionale.
Infatti, ciò che fa il demo un qualcosa di tremendamente migliorabile è da ravvisare in sostanza in due aspetti poco digeribili, ovverosia:
1) la voce, formalmente quasi vicina al cantato schifoso e inquietante dei Vlad Tepes, ma sostanzialmente quasi inespressiva e senza fantasia nella costruzione delle linee vocali, le quali si basano su un discorso spesso dall’andamento spezzettato;
2) la batteria elettronica, soprattutto perché è stata malamente bilanciata rispetto alle chitarre. Ciò significa che la si sente in maniera troppo debole, impedendo di conseguenza di gustarsela fino in fondo. Unitamente a questo, pur riconoscendo il buon lavoro in fase di programmazione, si deve dire che ci si ostina troppo e con poco costrutto sui tom – tom, i quali si ripetono spesso uguali sé stessi nonché attraverso un suono molto fittizio, e quindi veramente poco profondo.
Stringendo, i problemi derivano tutti dalla produzione molto chiusa e cavernosa oltreché basata sostanzialmente sulle chitarre, che alla fine si rivelano come l’aspetto più interessante della proposta, e non soltanto di per sé, come si vedrà fra poco.
Infatti, prima di tutto il riffing è piuttosto tecnico e dinamico, molto lontano dai classici canoni del black metal, e quindi dal punto di vista più strutturale si presenta abbastanza pesante e coraggioso nelle varie soluzioni adottate. Questo anche perché il nostro è riuscito a combinare un’aura mistica e desertica, direttamente proveniente dalla musicalità araba e orientale, con un riffing di tipo più occidentale, creando così un’atmosfera particolare e affascinante.
Nonostante questo riffing quasi trascendentale anche tecnicamente parlando, gli assoli (che possono essere melodici, come nella lunga introduzione di “The Sound of Insanity”) non sono mai e poi mai una vera e propria cascata di note, dato che si preoccupano più di evocare qualcosa, e non sono neanche belli lunghi, visto che si risolvono dopo pochi secondi, ed inoltre in un pezzo come “The Sound of Melancholy” non ve n’è praticamente traccia. A questo punto sono molto curioso di come usciranno i soli ora che c’è in formazione Lord Bahal dei lecchesi Bahal ad occuparsene!
All’epoca criticai la presunta monotonia del riffing. “Presunta” perché, ad analizzare veramente il disco, mi si è palesata una buona caratterizzazione dello stesso da pezzo a pezzo, non solo perché i riffs sono belli fantasiosi ma anche perché ogni episodio risulta atmosfericamente molto diverso dall’altro. Si passa infatti dal sentore di minaccia di “The Sound of Abyss”, il pezzo più cupo del lotto tanto per mettere le cose subito in chiaro, alle melodie da mare in tempesta (enfatizzate per bene da blast – beats finalmente fondamentali ma quasi mai sovrastanti sui tempi medio – lenti, più utilizzati) di “The Sound of Melancholy”, dalle atmosfere a tratti crepuscolari e disperate di “The Sound of Insanity” per finire con l’apocalisse di “The Sound of Doom”, canzone nella quale il discorso solitamente irrazionale di Hieros Gamos viene estremizzato alla massima potenza attraverso un continuo alternarsi fra melodie senza speranza e riffs più oscuri e severi.
Il “discorso irrazionale” citato è effettivamente la millesima caratteristica del progetto che appesantisce tutto l’ascolto, mitigate in parte dal inserto di atmosferiche chitarre acustiche che qui e là fanno capolino, magari integrandosi con tutti gli altri strumenti come in “The Sound of Insanity”. Il discorso generale dei pezzi è infatti sorretto da una struttura imprevedibile e sfuggente come non mai, assolutamente non rispondente ad un tipico schema a strofa – ritornello, e che fa la spia alle interessanti tematiche freudiane del nostro. Una struttura volta quasi a suggerire una sorta di brainstorming che fa cadere l’ascoltatore in un vortice follia perché così facendo niente è più sicuro. Fra l’altro, chissà perché quasi ogni brano si conclude in dissolvenza (da ricordare soprattutto il cupissimo fatalismo di “The Sound of Doom”), ed in effetti forse avrei preferito un approccio più fantasioso durante la fase conclusiva, ma in fin dei conti è pur vero che la struttura – tipo adottata è lontanissima dall’esser semplicistica.
Tale imprevedibilità scatenata inoltre quasi cozza con l’impostazione profondamente minimale eppur evocativa delle tastiere, utilizzate in maniera sì frugale ma saggiamente.
Ultima caratteristica è la tendenza a proporre suggestivi campionamenti ambientali, dei quali degno di una particolare menzione è quello di “The Sound of Insanity”, il quale, oltre a fungere da (lunghissima) introduzione, è pure bello crudo, visto che è sostanzialmente una macchina di tortura in azione. Curiosamente (e a suo tempo l’ho debitamente osservato), è lo stesso identico campionamento, solo accorciato, che i calabresi Land of Hate hanno usato nel pezzo “In the Hands of Destruction” contenuto nel album “Neutralized Existence”.
Voto: 66
Claustrofobia
Scaletta:
1 – The Sound of Abyss/ 2 – The Sound of Melancholy/ 3 – The Sound of Insanity/ 4 – The Sound of Doom
MySpace:
http://www.myspace.com/hierosgamositalia
Tuesday, October 11, 2011
Byblis - "Princeps Malis Generis" (2011)
Album (25 Marzo 2011, Salute Records)
Formazione (2003): Xes, voce
Kosmos Reversum, chitarre;
Mohr, basso;
Midgard, batteria.
Provenienza: Ancona/Torino, Marche/Piemonte
Canzone migliore del disco:
relativamente allo stile, chiamiamolo così, standard, dei Byblis, direi “I’m Back for Blood”, che oltre ad essere abbastanza completo sotto il profilo ritmico (per esempio i blast – beats per un po’ regnano indisturbati) è strutturata anche molto bene (in questo senso, è da menzionare quella pausa inquietante nei minuti finali con tanto di feedback pronto ad esplodere). Per non dimenticare d'altro canto certi riffs meno canonici dal sapore a dir poco estraniante e spaventoso.
Per quanto riguarda invece gli sviluppi futuri, beh, assolutamente la “religiosa” e per certi versi bizzarra canzone seguente, ovvero “Princeps Malis Generis”.
Punto di forza dell’album:
il basso. Senza parole.
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Sarà pure una cazzata la mia convinzione ma non credo che sia sbagliato definire i Byblis come una sorta di copia carbone dei Lilyum periodo “Fear Tension Cold”. Certo, non una copia carbone veramente esatta dato che dalla loro i Byblis hanno delle caratteristiche molto interessanti e che talvolta li elevano pure dalla massa ma per dare un quadro chiaro della situazione mi sembra più che giusto elencare uno per uno gli aspetti musicali che legano (a parte alcuni membri della formazione) i Byblis con i Lilyum, partendo da quello superficiale a quello più profondo. Ovverosia:
1) l’estrema linearità del lavoro di batteria, molto attenta a creare ritmi spesso essenziali anche se per fortuna il batterista è in carne e ossa, e quindi il tipo di produzione tiene bene in conto la sua prestazione;
2) il riffing glaciale e apocalittico. In molti casi si rivela addirittura molto più minimalista di quello dei Lilyum, anche perché spesso e volentieri è praticamente uguale a sé stesso per parecchio tempo, senza nessuna reale variazione. Il problema di quest’operazione è che il riffing appare abbastanza limitato e ripetitivo (almeno ciò avviene nelle prime 4 canzoni). Inoltre, molto marcata e netta è in certi momenti la derivazione rock’n’roll, solo che in questo caso tale caratteristica viene espressa solitamente attraverso robusti tempi medio – lenti;
3) l’uso della chitarra solista, che in molte occasioni non fa altro che seguire paro paro ciò che fa la ritmica, limitandosi così a rendere semplicemente più acuto il riff di base;
4) la struttura delle canzoni che, oltre a essere spesso belle ossessive e pur non raggiungendo le vette di robotica sequenzialità dei Lilyum (il discorso infatti è nonostante tutto un po’ più dinamico, e non solo per questo, come si vedrà del resto), non conosce pause né stacchi, roba rara e quindi preziosa per entrambi i gruppi.
Ora diamo voce alle differenze:
1) il cantato di Xes, lontanissimo dallo stile assurdista di Lord J.H. Psycho e quindi molto più tradizionale rispetto al suo collega, pur facendo presente che anche Xes ha un’importanza a dir poco centrale nel discorso. Inoltre, sa essere sufficientemente vario (sentitevi ad esempio “I’m Back for Blood” ), sapendo quindi anche andare oltre il suo cantato gutturale (le sue urla standard infatti non sono da definirsi esattamente tali), magari con qualche sovraincisione sofferente o persino attraverso una voce pulita e ritualistica (“Princeps Malis Generis”). Il bello è che Xes è da qualche mese il cantante ufficiale dei Lilyum…
2) la melodia, presente specialmente nella stessa “Princeps Malis Generis” e in “The Horizon is Black” (quest’ultima in certi momenti è praticamente disperata), le quali infatti sono alcuni degli episodi migliori, anche perché è proprio qui che la chitarra solista è veramente tale, esplodendo nel finale del secondo pezzo citato. Ragion per cui consiglio al gruppo di continuare proprio su questa strada, dato inoltre l’uso a tratti particolare della solista;
3) il lavoro di batteria nel suo complesso, vuoi perché i Byblis prediligono più che altro i tempi medio – lenti, vuoi perché la prestazione è decisamente meno statica e quindi più imprevedibile. Tale considerazione va fatta anche perché in alcuni casi è proprio la batteria che dinamicizza tutto il discorso, solo in apparenza immobile, tramite delle variazioni che possono (“possono” raramente a dire il vero) essere pure incredibilmente raffinate. I tempi veloci sono spesso rappresentati da tupa – tupa raggelanti molto simili a quanto propongo io nel mio progetto black metal Il Banco della Nebbia (quando si dice la modestia…), mentre per chi vuole i blast – beats è meglio cambiare aria perché sono un filino meno frequenti degli stessi tupa – tupa;
4) e qui veniamo al piatto forte dell’intera proposta, il quale è nientepopodimeno che il basso, che in un gruppo del genere non ho mai sentito così centrale. Infatti, spesso e volentieri il riffing della chitarra è talmente ridotto all’osso che il ruolo melodico viene assunto praticamente dal basso, il cui lavoro però non viene premiato del tutto da una produzione troppo fondata sulle chitarre (altra similitudine con i Lilyum), perciò consiglio agli interessati di ascoltare il disco in cuffia. Ma almeno si conferma per l’ennesima volta l’importanza capitale del basso nel black metal.
Aggiungete a tutte queste caratteristiche la tendenza a comporre brani dalla durata non indifferente (non si scende mai e poi mai sotto i 4 minuti e 50 secondi di “Die in Pain”, raggiungendo il climax di 10 minuti nella canzone finale, “Soul of Wolf and Raven”), cosa abbastanza pesante da “sopportare” se la struttura delle canzoni è quasi senza pause; e i momenti ambientali, che quando presenti fungono da introduzione o outro delle canzoni fino ad avere un pezzo tutto proprio rappresentato dai 2 minuti di “Circles”.
L’ultimo discorso spetta a “Soul of Wolf and Raven”, che i Byblis hanno voluto mettere come episodio finale, probabilmente per la sua natura soffocante e senza scampo. Infatti, questo pezzo è l’unico che rispetta (quasi) in toto le direttive strutturali dei Lilyum, presentando così una sequenza a dir poco lunghissima (che però si “libera”, seppur leggermente, durante il finale), anche se semplicissima, che fra l’altro è tutta fondata sui tempi medi e su un lavoro di chitarre oserei dire da “botta e risposta” (per esempio, la solista e la ritmica si scambiano continuamente i ruoli nel ripetere in maniera ossessiva e fluida una sola solitaria nota). Infine, anche qui c’è più melodia del previsto, quasi a voler ribadire ancora una volta la divisione dell’album in 2 parti ben distinte, sia dal punto di vista atmosferico che, in misura minore, da quello ritmico.
In ogni caso, bisognerebbe allontanarsi dallo spettro dei Lilyum, più che altro perché odio ascoltare un artista (per gli “ignoranti”, sto parlando di Kosmos Reversum) che si “strozza” suonando quasi ("quasi" anche perchè qui e là si sente che il nostro ha cercato di sperimentare un po' di più con le chitarre producendo così effetti inusuali. A questo punto sarebbe interessante affinare ancor meglio tale caratteristica) le stesse medesime cose in due gruppi che dovrebbero assolutamente essere differenti fra loro. Dai che la strada per farlo, come si è visto, c’è eccome!
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In Blood/ 2 – Die in Pain/ 3 – Succubus/ 4 – Desolation/ 5 – I’m Back for Blood/ 6 – Princeps Malis Generis/ 7 – Circles/ 8 – The Horizon is Black/ 9 – Soul of Wolf and Raven
MySpace:
http://www.myspace.com/byblis
Sito ufficiale:
http://byblis.altervista.org/
Formazione (2003): Xes, voce
Kosmos Reversum, chitarre;
Mohr, basso;
Midgard, batteria.
Provenienza: Ancona/Torino, Marche/Piemonte
Canzone migliore del disco:
relativamente allo stile, chiamiamolo così, standard, dei Byblis, direi “I’m Back for Blood”, che oltre ad essere abbastanza completo sotto il profilo ritmico (per esempio i blast – beats per un po’ regnano indisturbati) è strutturata anche molto bene (in questo senso, è da menzionare quella pausa inquietante nei minuti finali con tanto di feedback pronto ad esplodere). Per non dimenticare d'altro canto certi riffs meno canonici dal sapore a dir poco estraniante e spaventoso.
Per quanto riguarda invece gli sviluppi futuri, beh, assolutamente la “religiosa” e per certi versi bizzarra canzone seguente, ovvero “Princeps Malis Generis”.
Punto di forza dell’album:
il basso. Senza parole.
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Sarà pure una cazzata la mia convinzione ma non credo che sia sbagliato definire i Byblis come una sorta di copia carbone dei Lilyum periodo “Fear Tension Cold”. Certo, non una copia carbone veramente esatta dato che dalla loro i Byblis hanno delle caratteristiche molto interessanti e che talvolta li elevano pure dalla massa ma per dare un quadro chiaro della situazione mi sembra più che giusto elencare uno per uno gli aspetti musicali che legano (a parte alcuni membri della formazione) i Byblis con i Lilyum, partendo da quello superficiale a quello più profondo. Ovverosia:
1) l’estrema linearità del lavoro di batteria, molto attenta a creare ritmi spesso essenziali anche se per fortuna il batterista è in carne e ossa, e quindi il tipo di produzione tiene bene in conto la sua prestazione;
2) il riffing glaciale e apocalittico. In molti casi si rivela addirittura molto più minimalista di quello dei Lilyum, anche perché spesso e volentieri è praticamente uguale a sé stesso per parecchio tempo, senza nessuna reale variazione. Il problema di quest’operazione è che il riffing appare abbastanza limitato e ripetitivo (almeno ciò avviene nelle prime 4 canzoni). Inoltre, molto marcata e netta è in certi momenti la derivazione rock’n’roll, solo che in questo caso tale caratteristica viene espressa solitamente attraverso robusti tempi medio – lenti;
3) l’uso della chitarra solista, che in molte occasioni non fa altro che seguire paro paro ciò che fa la ritmica, limitandosi così a rendere semplicemente più acuto il riff di base;
4) la struttura delle canzoni che, oltre a essere spesso belle ossessive e pur non raggiungendo le vette di robotica sequenzialità dei Lilyum (il discorso infatti è nonostante tutto un po’ più dinamico, e non solo per questo, come si vedrà del resto), non conosce pause né stacchi, roba rara e quindi preziosa per entrambi i gruppi.
Ora diamo voce alle differenze:
1) il cantato di Xes, lontanissimo dallo stile assurdista di Lord J.H. Psycho e quindi molto più tradizionale rispetto al suo collega, pur facendo presente che anche Xes ha un’importanza a dir poco centrale nel discorso. Inoltre, sa essere sufficientemente vario (sentitevi ad esempio “I’m Back for Blood” ), sapendo quindi anche andare oltre il suo cantato gutturale (le sue urla standard infatti non sono da definirsi esattamente tali), magari con qualche sovraincisione sofferente o persino attraverso una voce pulita e ritualistica (“Princeps Malis Generis”). Il bello è che Xes è da qualche mese il cantante ufficiale dei Lilyum…
2) la melodia, presente specialmente nella stessa “Princeps Malis Generis” e in “The Horizon is Black” (quest’ultima in certi momenti è praticamente disperata), le quali infatti sono alcuni degli episodi migliori, anche perché è proprio qui che la chitarra solista è veramente tale, esplodendo nel finale del secondo pezzo citato. Ragion per cui consiglio al gruppo di continuare proprio su questa strada, dato inoltre l’uso a tratti particolare della solista;
3) il lavoro di batteria nel suo complesso, vuoi perché i Byblis prediligono più che altro i tempi medio – lenti, vuoi perché la prestazione è decisamente meno statica e quindi più imprevedibile. Tale considerazione va fatta anche perché in alcuni casi è proprio la batteria che dinamicizza tutto il discorso, solo in apparenza immobile, tramite delle variazioni che possono (“possono” raramente a dire il vero) essere pure incredibilmente raffinate. I tempi veloci sono spesso rappresentati da tupa – tupa raggelanti molto simili a quanto propongo io nel mio progetto black metal Il Banco della Nebbia (quando si dice la modestia…), mentre per chi vuole i blast – beats è meglio cambiare aria perché sono un filino meno frequenti degli stessi tupa – tupa;
4) e qui veniamo al piatto forte dell’intera proposta, il quale è nientepopodimeno che il basso, che in un gruppo del genere non ho mai sentito così centrale. Infatti, spesso e volentieri il riffing della chitarra è talmente ridotto all’osso che il ruolo melodico viene assunto praticamente dal basso, il cui lavoro però non viene premiato del tutto da una produzione troppo fondata sulle chitarre (altra similitudine con i Lilyum), perciò consiglio agli interessati di ascoltare il disco in cuffia. Ma almeno si conferma per l’ennesima volta l’importanza capitale del basso nel black metal.
Aggiungete a tutte queste caratteristiche la tendenza a comporre brani dalla durata non indifferente (non si scende mai e poi mai sotto i 4 minuti e 50 secondi di “Die in Pain”, raggiungendo il climax di 10 minuti nella canzone finale, “Soul of Wolf and Raven”), cosa abbastanza pesante da “sopportare” se la struttura delle canzoni è quasi senza pause; e i momenti ambientali, che quando presenti fungono da introduzione o outro delle canzoni fino ad avere un pezzo tutto proprio rappresentato dai 2 minuti di “Circles”.
L’ultimo discorso spetta a “Soul of Wolf and Raven”, che i Byblis hanno voluto mettere come episodio finale, probabilmente per la sua natura soffocante e senza scampo. Infatti, questo pezzo è l’unico che rispetta (quasi) in toto le direttive strutturali dei Lilyum, presentando così una sequenza a dir poco lunghissima (che però si “libera”, seppur leggermente, durante il finale), anche se semplicissima, che fra l’altro è tutta fondata sui tempi medi e su un lavoro di chitarre oserei dire da “botta e risposta” (per esempio, la solista e la ritmica si scambiano continuamente i ruoli nel ripetere in maniera ossessiva e fluida una sola solitaria nota). Infine, anche qui c’è più melodia del previsto, quasi a voler ribadire ancora una volta la divisione dell’album in 2 parti ben distinte, sia dal punto di vista atmosferico che, in misura minore, da quello ritmico.
In ogni caso, bisognerebbe allontanarsi dallo spettro dei Lilyum, più che altro perché odio ascoltare un artista (per gli “ignoranti”, sto parlando di Kosmos Reversum) che si “strozza” suonando quasi ("quasi" anche perchè qui e là si sente che il nostro ha cercato di sperimentare un po' di più con le chitarre producendo così effetti inusuali. A questo punto sarebbe interessante affinare ancor meglio tale caratteristica) le stesse medesime cose in due gruppi che dovrebbero assolutamente essere differenti fra loro. Dai che la strada per farlo, come si è visto, c’è eccome!
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In Blood/ 2 – Die in Pain/ 3 – Succubus/ 4 – Desolation/ 5 – I’m Back for Blood/ 6 – Princeps Malis Generis/ 7 – Circles/ 8 – The Horizon is Black/ 9 – Soul of Wolf and Raven
MySpace:
http://www.myspace.com/byblis
Sito ufficiale:
http://byblis.altervista.org/
Friday, October 7, 2011
The Providence - "Horror Music Made in Hell" (2011)
Album (Audio Ferox, Maggio 2011)
Formazione (2008): Bloody Hansen, voce, chitarre, basso, drum – machine, tastiere, effetti vari.
Provenienza: Siligo (Sassari), Sardegna
Canzone migliore dell’album:
sicuramente “Rosemary”, e per sapere perché leggetevi tranquillamente la rece.
Punto di forza del disco:
il fatto di essere concepito come un film, e di conseguenza la struttura molto particolare delle canzoni.
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Mai nome è stato più azzeccato di The Providence. Infatti, contestualizzandolo con l’immaginario horror di questo progetto sardo, grazie al nome si può risalire al memorabile scrittore H.P. Lovecraft, colui che dalla ridente cittadina di Providence appunto riuscì a rivoluzionare per sempre la narrativa horror, creando fra l’altro una specie di mitologia mostruosa a cui si ispirano ancora adesso vari artisti delle più differenti estrazioni. Solo che, nonostante questo tipo di ispirazione, The Providence (che più precisamente ha preso il nome ispirandosi al film “Danza Macabra” di Antonio Margheriti, film girato nel 1964) ha veramente poco a che fare con il metal, pur ben sapendo che Bloody Hansen è un nome non nuovo nel nostro ambiente dato che, per dirne una, ha curato l’outro del validissimo “Etrom” dei calabresi Carnal Gore. Sì, perché la musica quivi presentata è un altro di quegli esperimenti che ormai stanno dominando le pagine di Timpani allo Spiedo, e devo fin da subito dire che presenta delle caratteristiche indubbiamente molto interessanti.
Infatti, prima di tutto, vi è un così profondo amore per la cinematografia horror che praticamente in ogni pezzo (da notare che in tutto sono 13, numero porta(s)fortuna nei paesi anglosassoni) vi sono degli spezzoni tratti da vari film del genere, fortunatamente anche in italiano nonostante i titoli sempre e solo anglofoni delle canzoni, riuscendo così a rendere sicuramente più atmosferico tutto l’insieme.
Questo aspetto si lega coerentemente con la natura spesso melodica eppur non poche volte lugubre della musica, anche quando diventa più tradizionalmente rock, dato che così facendo si entra in pratica nel punto di vista delle vittime dei film horror, rendendo di conseguenza palpabile la loro disperazione. Ed in questi casi, la melodia diventa veramente avvolgente non soltanto per la mole degli strumenti presenti ma anche perché è stato fatto un lavoro certosino sulle due chitarre, seppur l’assolo vero e proprio non sia una parte importante del progetto (l’unico si fa vivo in “Don’t Go to Town”).
Altra caratteristica importante di The Providence è l’ossessività a volte paranoica che anima la musica. E’ quel tipo di ossessività che rende del tutto inconcludenti le varie canzoni, e attenzione che questa non è una critica negativa bensì positiva. Ciò perché è come se l’album fosse stato concepito come un film, nel quale la ripetizione morbosa degli omicidi, dei dettagli raccapriccianti, rimanda sempre al finale, pregno di tutti i significati precedenti solo intensificati per l’occasione. Ed in questo film, il Bene è sempre destinato a morire, perché incapace di risolvere, di comprendere il Male, storicamente quasi sempre vincitore (ragion per cui è il Male che è banale, non il Bene, come si dice spesso).
Certo, quest’ossessività (che comunque spesso implica incredibilmente pezzi da 2 – 3 minuti) ha anche i suoi risvolti negativi. Infatti, il lavoro della batteria elettronica, pur essendo in certi punti molto interessante, risulta a volte un po’ troppo statica, incapace di enfatizzare per quel poco di più tutta l’atmosfera. Solo in pezzi come “Slasher” si mostra più dinamica del solito, e peccato perché così facendo avrebbe reso tutto più imprevedibile proprio com’è il Male.
L’ossessività si riflette inoltre anche nel cantato, spesso molto vicino alle urla black metal. Sì perché, in quelle poche canzoni in cui si presenta (la semi – blackeggiante “Tall Man” e “Slasher”), esso risulta praticamente ancorato a quelle 2 parolette, preferendo quindi un lavoro essenziale nel quale l’essere umano è strozzato dal Male che lo circonda. Però sarebbe stato interessante usarla di più, dato che gli esperimenti funzionano e non poco. (ricordo che The Providence è un progetto quasi esclusivamente strumentale).
La musica del nostro però si avvale anche di passaggi più ambientali nei quali le tastiere assumono un ruolo primario, seppur non manchino soluzioni ancora più anomale e d’effetto, come la voce di un bimbo piccolo piccolo la cui gioia diventa pressoché inquietante (“Coming You”). Curioso constatare inoltre come alcuni momenti ambient, magari apparentemente più sereni, mi abbiano ricordato le colonne sonore di alcuni videogiochi, anche in formato flash (i primi che mi vengono in mente sono il complicatissimo The Umbrella Adventure e il nostalgico Symon). Da ciò si può intuire il lavoro di fino di Bloody Hansen per rendere mai ripetitiva la propria creatura.
E’ stato inoltre abbastanza intelligente la scelta di dare una parvenza più epica e pericolosa all’ultimo pezzo, “Rosemary”, che infatti è l’episodio più lungo di tutto il lotto, visto che dura la bellezza di 10 minuti. Certo, la canzone a volte pecca di prolissità gravando quindi sull’emotività, ma è anche vero che non si può avere tutto dalla vita (a dire il vero quasi niente ma questo è un altro conto...) e soprattutto gestire canzoni di una durata simile non è mai e poi mai semplice.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Coming You/ 2 – Tarot for the People Train/ 3 – Interlude for the Dead/ 4 – Take a Look Through the Hills/ 5 – Never Sleep Again/ 6 – Tall Man/ 7 – Everything Comes the Blind/ 8 – Slasher/ 9 – We Eat You At Midnight/ 10 – Cursed/ 11 – Death Bag/ 12 – Don’t Go to Town/ 13 – Rosemary
MySpace:
http://www.myspace.com/horrorprovidence
Formazione (2008): Bloody Hansen, voce, chitarre, basso, drum – machine, tastiere, effetti vari.
Provenienza: Siligo (Sassari), Sardegna
Canzone migliore dell’album:
sicuramente “Rosemary”, e per sapere perché leggetevi tranquillamente la rece.
Punto di forza del disco:
il fatto di essere concepito come un film, e di conseguenza la struttura molto particolare delle canzoni.
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Mai nome è stato più azzeccato di The Providence. Infatti, contestualizzandolo con l’immaginario horror di questo progetto sardo, grazie al nome si può risalire al memorabile scrittore H.P. Lovecraft, colui che dalla ridente cittadina di Providence appunto riuscì a rivoluzionare per sempre la narrativa horror, creando fra l’altro una specie di mitologia mostruosa a cui si ispirano ancora adesso vari artisti delle più differenti estrazioni. Solo che, nonostante questo tipo di ispirazione, The Providence (che più precisamente ha preso il nome ispirandosi al film “Danza Macabra” di Antonio Margheriti, film girato nel 1964) ha veramente poco a che fare con il metal, pur ben sapendo che Bloody Hansen è un nome non nuovo nel nostro ambiente dato che, per dirne una, ha curato l’outro del validissimo “Etrom” dei calabresi Carnal Gore. Sì, perché la musica quivi presentata è un altro di quegli esperimenti che ormai stanno dominando le pagine di Timpani allo Spiedo, e devo fin da subito dire che presenta delle caratteristiche indubbiamente molto interessanti.
Infatti, prima di tutto, vi è un così profondo amore per la cinematografia horror che praticamente in ogni pezzo (da notare che in tutto sono 13, numero porta(s)fortuna nei paesi anglosassoni) vi sono degli spezzoni tratti da vari film del genere, fortunatamente anche in italiano nonostante i titoli sempre e solo anglofoni delle canzoni, riuscendo così a rendere sicuramente più atmosferico tutto l’insieme.
Questo aspetto si lega coerentemente con la natura spesso melodica eppur non poche volte lugubre della musica, anche quando diventa più tradizionalmente rock, dato che così facendo si entra in pratica nel punto di vista delle vittime dei film horror, rendendo di conseguenza palpabile la loro disperazione. Ed in questi casi, la melodia diventa veramente avvolgente non soltanto per la mole degli strumenti presenti ma anche perché è stato fatto un lavoro certosino sulle due chitarre, seppur l’assolo vero e proprio non sia una parte importante del progetto (l’unico si fa vivo in “Don’t Go to Town”).
Altra caratteristica importante di The Providence è l’ossessività a volte paranoica che anima la musica. E’ quel tipo di ossessività che rende del tutto inconcludenti le varie canzoni, e attenzione che questa non è una critica negativa bensì positiva. Ciò perché è come se l’album fosse stato concepito come un film, nel quale la ripetizione morbosa degli omicidi, dei dettagli raccapriccianti, rimanda sempre al finale, pregno di tutti i significati precedenti solo intensificati per l’occasione. Ed in questo film, il Bene è sempre destinato a morire, perché incapace di risolvere, di comprendere il Male, storicamente quasi sempre vincitore (ragion per cui è il Male che è banale, non il Bene, come si dice spesso).
Certo, quest’ossessività (che comunque spesso implica incredibilmente pezzi da 2 – 3 minuti) ha anche i suoi risvolti negativi. Infatti, il lavoro della batteria elettronica, pur essendo in certi punti molto interessante, risulta a volte un po’ troppo statica, incapace di enfatizzare per quel poco di più tutta l’atmosfera. Solo in pezzi come “Slasher” si mostra più dinamica del solito, e peccato perché così facendo avrebbe reso tutto più imprevedibile proprio com’è il Male.
L’ossessività si riflette inoltre anche nel cantato, spesso molto vicino alle urla black metal. Sì perché, in quelle poche canzoni in cui si presenta (la semi – blackeggiante “Tall Man” e “Slasher”), esso risulta praticamente ancorato a quelle 2 parolette, preferendo quindi un lavoro essenziale nel quale l’essere umano è strozzato dal Male che lo circonda. Però sarebbe stato interessante usarla di più, dato che gli esperimenti funzionano e non poco. (ricordo che The Providence è un progetto quasi esclusivamente strumentale).
La musica del nostro però si avvale anche di passaggi più ambientali nei quali le tastiere assumono un ruolo primario, seppur non manchino soluzioni ancora più anomale e d’effetto, come la voce di un bimbo piccolo piccolo la cui gioia diventa pressoché inquietante (“Coming You”). Curioso constatare inoltre come alcuni momenti ambient, magari apparentemente più sereni, mi abbiano ricordato le colonne sonore di alcuni videogiochi, anche in formato flash (i primi che mi vengono in mente sono il complicatissimo The Umbrella Adventure e il nostalgico Symon). Da ciò si può intuire il lavoro di fino di Bloody Hansen per rendere mai ripetitiva la propria creatura.
E’ stato inoltre abbastanza intelligente la scelta di dare una parvenza più epica e pericolosa all’ultimo pezzo, “Rosemary”, che infatti è l’episodio più lungo di tutto il lotto, visto che dura la bellezza di 10 minuti. Certo, la canzone a volte pecca di prolissità gravando quindi sull’emotività, ma è anche vero che non si può avere tutto dalla vita (a dire il vero quasi niente ma questo è un altro conto...) e soprattutto gestire canzoni di una durata simile non è mai e poi mai semplice.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Coming You/ 2 – Tarot for the People Train/ 3 – Interlude for the Dead/ 4 – Take a Look Through the Hills/ 5 – Never Sleep Again/ 6 – Tall Man/ 7 – Everything Comes the Blind/ 8 – Slasher/ 9 – We Eat You At Midnight/ 10 – Cursed/ 11 – Death Bag/ 12 – Don’t Go to Town/ 13 – Rosemary
MySpace:
http://www.myspace.com/horrorprovidence
Tuesday, October 4, 2011
"Rejekts/Slaughtergrave/Tuco 3 way split" (2011)
Demo split autoprodotto (2011)
Formazioni:
Rejekts (2007): Black, voce;
Dave, chitarra e voce;
Joe, chitarra;
Pacho, basso;
Pio, batteria (sostituito giusto un mese fa da Sean).
Slaughtergrave (2001): Spiros, voce, effetti rumoristici;
Telis (Fast Clark), chitarra;
Pavel, basso;
Jim (Mallias), batteria.
Tuco (2008): Damiano, voce e batteria;
Pierpo, chitarra;
Robi, basso e voce.
Provenienza:
Rejekts: Saronno/Garbagnate, Lombardia.
Slaughtergrave: Thessaloniki (Grecia).
Tuco: Cagliari/Iglesias, Sardegna.
Canzoni migliori del disco:
dei Rejekts fra tutte preferisco sicuramente “Nihilius”, che è così imprevedibile dal punto di vista ritmico da compensare la staticità del riffing. Mi mancherà Pio, ed in effetti sarei curioso di testare lo stile del nuovo batterista;
degli Slaughtergrave indubbiamente “Bastardi, Assassini, Criminali” (sì, il titolo è proprio così!) dato che riesce a combinare una parte punk che fa ballare tremendamente il culo con un semplicissimo assalto grindcore condito come sempre dallo sbraitare di Spiros;
infine, “Tucollapse” è a mio avviso il miglior brano dei Tuco, dato che è un qualcosa di anomalo per un gruppo del genere. Anomalo sì ma perfettamente gestito e comunque lo stile dei Tuco è sempre ben riconoscibile.
Punti di forza dello split:
non ho voglia di ripetermi, e quindi per quanto riguarda i Rejekts scelgo la prestazione bella tecnica e varia del batterista, che lascia il gruppo con un più che ottimo biglietto d’addio;
degli Slaughtergrave mi piace invece da matti quelle montagne di groove che spesso sciorinano con tutta tranquillità;
ed invece i Tuco si fanno riconoscere per un riffing strambissimo, e che consiglio di sfruttare in maniera migliore nei prossimi dischi.
Nota:
oggi mi sento fin troppo buono. Ricordo infatti che 1) Robi dei Tuco sta cercando un chitarrista e batterista nuovi (quindi chi è interessato si sbrighi a contattarlo) e 2) lo stesso Robi porta avanti un'interessantissima distro chiamata SickPunx (fra l'altro vende "Morte Chimica" dei bresciani Cilicium... yam yam!). Dai che il contatto MySpace ce l'avete!
Proprio in uno dei periodi più angoscianti della mia esistenza (il 10 Ottobre dovrò per la seconda volta fare un noiosissimo esame di guida per una patente che userò sì e no ogni morte di papa; inoltre da domani dovrò sudare quintalate di camicie per ottenere la laurea alla Facoltà di Filosofia della Sapienza con l’unico vantaggio rappresentato dall’essere circondato da una caterva di esponenti del gentil sesso iscritte all’Università) mi è arrivato un succoso split fra 3 branchi di pazzi, utile a rincuorarmi un po’ anche grazie a delle trovate favolose le quali, è bene dirlo fin da subito, sono tutte circoscritte nell’irriverente calderone del grindcore.
REJEKTS.
Dei Rejekts dovreste già sapere qualcosa visto che qualche mese fa di loro ho recensito il bellissimo ep “Nessuno”. In ogni caso, basti sapere che ‘sti lombardi suonano un grindegore di base che però si sposa spesso e volentieri con sonorità black/death metal, ragion per cui la musica solitamente è bella cupa. E soprattutto, da loro ci si può aspettare “solo” assalti fantasiosi e mai e poi mai ripetitivi. E’ però un peccato che a distanza di circa un anno da “Nessuno” ci siano solo due inediti (le altre due sono direttamente prese dal disco succitato, quindi non sono ri – registrazioni) nello split, pur essendo questi molto interessanti e promettenti. Ciò perché i nostri sembrano aver meglio definito la propria proposta rendendola al contempo più ossessiva nel riffing (capace però di certe finezze come la chitarra solista in “Sguardo a Ponente”), ma più tecnica ed imprevedibile sotto il profilo ritmico.
Si avverte un bel cambiamento anche per quanto riguarda la produzione, più “viva” ma “caciarona”, seppur rimanga curiosamente intatta la non facile intelligibilità delle parole sfornate dalle urla indiavolate di Black.
SLAUGHTERGRAVE.
Questi, a parte la derivazione grindcore della loro musica, possono essere tranquillamente definiti come il pesce fuor d’acqua del disco, e ciò per diverse considerazioni (escludendo quella ovvia inerente la nazionalità):
1) sono quelli sicuramente meno dotati di inventiva, anche perché, pur essendo divertenti da ascoltare, presentano qua e là qualche pesante deja – vù (per esempio, “Mouvottava” e la canzone successiva in certi punti si somigliano troppo);
2) il loro approccio al grindcore è semplicissimo, anche perché rifiutano qualsiasi influenza proveniente dal metal preferendo di conseguenza un approccio più punk’n’roll e grooveggiante (sì, nonostante tutto non sono fissati con i blast – beats). Inoltre dal punto di vista strutturale sono pressoché paranoici, dato che spesso una stessa soluzione se la portano appresso più del previsto;
3) sono gli unici ad aver proposto un pezzo anomalo sotto tutti i punti di vista e che farebbe invidia ad Andrea Lisi ed i suoi Mass Obliteration. Sto parlando di “46 Shits For Your White Pride”, pseudo – canzone geniale priva di qualsivoglia ritmo e melodia dall’”andamento” continuamente spezzettato consistente fra l’altro di minime variazioni che stranamente dicono più di mille parole. Urge segnalare che un delirio di tal fatta è incredibilmente l’episodio più lungo di tutto il lotto (sapete sorbirvi ben 3 minuti e 36 secondi di questa cosa senza imprecare?);
4) il tipo di produzione, mega – sporca e disturbata, molto vicina a quella del grandioso demo “Necromancy” dei Mortuary Drape, con l’unica sostanziale differenza che con gli Slaughtergrave ogni strumento è al suo posto, ossia nessuno seppellisce l’altro. Bisogna avere dei bei timpani allenati per ascoltare ‘sto gruppo, ma ben venga così, visto che così facendo si riesce bene a trasmettere la corruzione e la malattia della società moderna.
TUCO.
Per certi versi questi sardi (che prendono il nome da quel Tuco Ramirez impersonato dal grande Eli Wallach ne "Il Buono, il Brutto e il Cattivo". EVVIVA! IO CI SGUAZZO NEGLI SPAGHETTI WESTERN!) sono quelli che mi hanno impressionato di più, se solo lasciassero da parte quelle schegge impazzite da 5 secondi tutte uguali a sé stesse, influsso del grindcore più puro.
In sostanza i Tuco suonano un punk – hardcore spesso bello grooveggiante ma schizzato con influssi provenienti dal grindcore e in misura decisamente minore dal metal. Oltre a tutto questo offrono una caratteristica del tutto gradita che purtroppo viene sfruttata soltanto in “Tucollapse” (pezzo per la maggiore incredibilmente lento e tutto costruito attraverso un rallentamento progressivo) e “From the South I Cum Your Mouth”: la bizzarrìa del riffing, a volte così spaventosamente dissonante e malato da sembrare completamente alieno.
Quest’alienazione viene enfatizzata fra l’altro dal comparto vocale, nel quale trovano posto 2 tipi di voce: la prima, quella più frequente, è una voce sgraziatissima tipicamente hardcore, mentre l’altra mi ha ricordato nientepopodimeno che Serj Tankian dei primissimi System of a Down (avete presente quella specie di inquietante “soffio gutturale” che si sente particolarmente nell’album omonimo del 1998?), utilizzato in maniera sì limitata ma in perfetta simbiosi con tutto il resto.
Di tutti i gruppi però quelli che mi sono garbati di più sono i Rejekts, vuoi perché presentano una completezza ed una voglia di osare rare nel grindecore, vuoi perché dal punto di vista strettamente qualitativo non presentano veri e propri punti da limare.
I quali, escludendo quelli già espressi dei Tuco, riguardano specialmente gli Slaughtergrave perché, oltre al fatto di essere ripetitivi (ma è anche vero che è impossibile giudicare un gruppo attraverso soli 3 pezzi per altrettanti minuti), sono un po’ meccanici nella costruzione dei brani, soprattutto perché, passati almeno 20 secondi, uno stacco di chitarra è praticamente inevitabile in ogni loro canzone.
Claustrofobia
Voto Rejekts: 76
Voto Slaughtergrave: 65
Voto Tuco: 70
Scaletta:
Rejekts: 1 – L’Odio Che Hai Dentro/ 2 – Sguardo a Ponente/ 3 – Fango/ 4 – Nihilius
Slaughtergrave: 5 – Mouvottava/ 6 - ? (titolo in greco)/ 7 – Bastardi, Assassini, Criminali/ 8 – 46 Shits For Your White Pride
Tuco: 9 – Politiclash Blowjob + Politicrass Blowjob/ 10 – Annal Cunt/ 11 – Broken Feet/ 12 – 4A/ 13 – Dany Speppard Crew/ 14 – Extremismo Alcolico/ 15 – Tucollapse/ 16 – From the South I Cum Your Mouth
MySpace:
Rejekts: http://www.myspace.com/rejektshc
Slaughtergrave : http://www.myspace.com/slaughtergrave
Tuco: http://www.myspace.com/tucogrindcore
Formazioni:
Rejekts (2007): Black, voce;
Dave, chitarra e voce;
Joe, chitarra;
Pacho, basso;
Pio, batteria (sostituito giusto un mese fa da Sean).
Slaughtergrave (2001): Spiros, voce, effetti rumoristici;
Telis (Fast Clark), chitarra;
Pavel, basso;
Jim (Mallias), batteria.
Tuco (2008): Damiano, voce e batteria;
Pierpo, chitarra;
Robi, basso e voce.
Provenienza:
Rejekts: Saronno/Garbagnate, Lombardia.
Slaughtergrave: Thessaloniki (Grecia).
Tuco: Cagliari/Iglesias, Sardegna.
Canzoni migliori del disco:
dei Rejekts fra tutte preferisco sicuramente “Nihilius”, che è così imprevedibile dal punto di vista ritmico da compensare la staticità del riffing. Mi mancherà Pio, ed in effetti sarei curioso di testare lo stile del nuovo batterista;
degli Slaughtergrave indubbiamente “Bastardi, Assassini, Criminali” (sì, il titolo è proprio così!) dato che riesce a combinare una parte punk che fa ballare tremendamente il culo con un semplicissimo assalto grindcore condito come sempre dallo sbraitare di Spiros;
infine, “Tucollapse” è a mio avviso il miglior brano dei Tuco, dato che è un qualcosa di anomalo per un gruppo del genere. Anomalo sì ma perfettamente gestito e comunque lo stile dei Tuco è sempre ben riconoscibile.
Punti di forza dello split:
non ho voglia di ripetermi, e quindi per quanto riguarda i Rejekts scelgo la prestazione bella tecnica e varia del batterista, che lascia il gruppo con un più che ottimo biglietto d’addio;
degli Slaughtergrave mi piace invece da matti quelle montagne di groove che spesso sciorinano con tutta tranquillità;
ed invece i Tuco si fanno riconoscere per un riffing strambissimo, e che consiglio di sfruttare in maniera migliore nei prossimi dischi.
Nota:
oggi mi sento fin troppo buono. Ricordo infatti che 1) Robi dei Tuco sta cercando un chitarrista e batterista nuovi (quindi chi è interessato si sbrighi a contattarlo) e 2) lo stesso Robi porta avanti un'interessantissima distro chiamata SickPunx (fra l'altro vende "Morte Chimica" dei bresciani Cilicium... yam yam!). Dai che il contatto MySpace ce l'avete!
Proprio in uno dei periodi più angoscianti della mia esistenza (il 10 Ottobre dovrò per la seconda volta fare un noiosissimo esame di guida per una patente che userò sì e no ogni morte di papa; inoltre da domani dovrò sudare quintalate di camicie per ottenere la laurea alla Facoltà di Filosofia della Sapienza con l’unico vantaggio rappresentato dall’essere circondato da una caterva di esponenti del gentil sesso iscritte all’Università) mi è arrivato un succoso split fra 3 branchi di pazzi, utile a rincuorarmi un po’ anche grazie a delle trovate favolose le quali, è bene dirlo fin da subito, sono tutte circoscritte nell’irriverente calderone del grindcore.
REJEKTS.
Dei Rejekts dovreste già sapere qualcosa visto che qualche mese fa di loro ho recensito il bellissimo ep “Nessuno”. In ogni caso, basti sapere che ‘sti lombardi suonano un grindegore di base che però si sposa spesso e volentieri con sonorità black/death metal, ragion per cui la musica solitamente è bella cupa. E soprattutto, da loro ci si può aspettare “solo” assalti fantasiosi e mai e poi mai ripetitivi. E’ però un peccato che a distanza di circa un anno da “Nessuno” ci siano solo due inediti (le altre due sono direttamente prese dal disco succitato, quindi non sono ri – registrazioni) nello split, pur essendo questi molto interessanti e promettenti. Ciò perché i nostri sembrano aver meglio definito la propria proposta rendendola al contempo più ossessiva nel riffing (capace però di certe finezze come la chitarra solista in “Sguardo a Ponente”), ma più tecnica ed imprevedibile sotto il profilo ritmico.
Si avverte un bel cambiamento anche per quanto riguarda la produzione, più “viva” ma “caciarona”, seppur rimanga curiosamente intatta la non facile intelligibilità delle parole sfornate dalle urla indiavolate di Black.
SLAUGHTERGRAVE.
Questi, a parte la derivazione grindcore della loro musica, possono essere tranquillamente definiti come il pesce fuor d’acqua del disco, e ciò per diverse considerazioni (escludendo quella ovvia inerente la nazionalità):
1) sono quelli sicuramente meno dotati di inventiva, anche perché, pur essendo divertenti da ascoltare, presentano qua e là qualche pesante deja – vù (per esempio, “Mouvottava” e la canzone successiva in certi punti si somigliano troppo);
2) il loro approccio al grindcore è semplicissimo, anche perché rifiutano qualsiasi influenza proveniente dal metal preferendo di conseguenza un approccio più punk’n’roll e grooveggiante (sì, nonostante tutto non sono fissati con i blast – beats). Inoltre dal punto di vista strutturale sono pressoché paranoici, dato che spesso una stessa soluzione se la portano appresso più del previsto;
3) sono gli unici ad aver proposto un pezzo anomalo sotto tutti i punti di vista e che farebbe invidia ad Andrea Lisi ed i suoi Mass Obliteration. Sto parlando di “46 Shits For Your White Pride”, pseudo – canzone geniale priva di qualsivoglia ritmo e melodia dall’”andamento” continuamente spezzettato consistente fra l’altro di minime variazioni che stranamente dicono più di mille parole. Urge segnalare che un delirio di tal fatta è incredibilmente l’episodio più lungo di tutto il lotto (sapete sorbirvi ben 3 minuti e 36 secondi di questa cosa senza imprecare?);
4) il tipo di produzione, mega – sporca e disturbata, molto vicina a quella del grandioso demo “Necromancy” dei Mortuary Drape, con l’unica sostanziale differenza che con gli Slaughtergrave ogni strumento è al suo posto, ossia nessuno seppellisce l’altro. Bisogna avere dei bei timpani allenati per ascoltare ‘sto gruppo, ma ben venga così, visto che così facendo si riesce bene a trasmettere la corruzione e la malattia della società moderna.
TUCO.
Per certi versi questi sardi (che prendono il nome da quel Tuco Ramirez impersonato dal grande Eli Wallach ne "Il Buono, il Brutto e il Cattivo". EVVIVA! IO CI SGUAZZO NEGLI SPAGHETTI WESTERN!) sono quelli che mi hanno impressionato di più, se solo lasciassero da parte quelle schegge impazzite da 5 secondi tutte uguali a sé stesse, influsso del grindcore più puro.
In sostanza i Tuco suonano un punk – hardcore spesso bello grooveggiante ma schizzato con influssi provenienti dal grindcore e in misura decisamente minore dal metal. Oltre a tutto questo offrono una caratteristica del tutto gradita che purtroppo viene sfruttata soltanto in “Tucollapse” (pezzo per la maggiore incredibilmente lento e tutto costruito attraverso un rallentamento progressivo) e “From the South I Cum Your Mouth”: la bizzarrìa del riffing, a volte così spaventosamente dissonante e malato da sembrare completamente alieno.
Quest’alienazione viene enfatizzata fra l’altro dal comparto vocale, nel quale trovano posto 2 tipi di voce: la prima, quella più frequente, è una voce sgraziatissima tipicamente hardcore, mentre l’altra mi ha ricordato nientepopodimeno che Serj Tankian dei primissimi System of a Down (avete presente quella specie di inquietante “soffio gutturale” che si sente particolarmente nell’album omonimo del 1998?), utilizzato in maniera sì limitata ma in perfetta simbiosi con tutto il resto.
Di tutti i gruppi però quelli che mi sono garbati di più sono i Rejekts, vuoi perché presentano una completezza ed una voglia di osare rare nel grindecore, vuoi perché dal punto di vista strettamente qualitativo non presentano veri e propri punti da limare.
I quali, escludendo quelli già espressi dei Tuco, riguardano specialmente gli Slaughtergrave perché, oltre al fatto di essere ripetitivi (ma è anche vero che è impossibile giudicare un gruppo attraverso soli 3 pezzi per altrettanti minuti), sono un po’ meccanici nella costruzione dei brani, soprattutto perché, passati almeno 20 secondi, uno stacco di chitarra è praticamente inevitabile in ogni loro canzone.
Claustrofobia
Voto Rejekts: 76
Voto Slaughtergrave: 65
Voto Tuco: 70
Scaletta:
Rejekts: 1 – L’Odio Che Hai Dentro/ 2 – Sguardo a Ponente/ 3 – Fango/ 4 – Nihilius
Slaughtergrave: 5 – Mouvottava/ 6 - ? (titolo in greco)/ 7 – Bastardi, Assassini, Criminali/ 8 – 46 Shits For Your White Pride
Tuco: 9 – Politiclash Blowjob + Politicrass Blowjob/ 10 – Annal Cunt/ 11 – Broken Feet/ 12 – 4A/ 13 – Dany Speppard Crew/ 14 – Extremismo Alcolico/ 15 – Tucollapse/ 16 – From the South I Cum Your Mouth
MySpace:
Rejekts: http://www.myspace.com/rejektshc
Slaughtergrave : http://www.myspace.com/slaughtergrave
Tuco: http://www.myspace.com/tucogrindcore