Album (Supremacy Through Intolerance, 31 Gennaio 2011)
Formazione (2002): Titanic Furor of the Inexorable March, voce/basso;
Black Pestilence of Mass Destruction, chitarre/voce aggiuntiva;
Murmur, batteria.
Provenienza: Belluno, Veneto
Canzone migliore del disco:
“Cult of Death”, sia perchè presenta alcuni dei passaggi più grintosi di tutto il lotto, sia perchè ha una lunga parte doom da brividi, fra l’altro perfettamente giostrata anche da un notevole siparietto di batteria.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la ricchezza di soluzioni che il gruppo si ritrova, cosa che gli permette di differenziarsi già moltissimo da formazioni simili.
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In questi ultimi giorni mi sono così “intrippato” con questo bestiale terzetto da cercare invano di quantificare la rabbia e l’odio profusi in quest’album, la cui lunga attesa ha forse contribuito ad aumentare a dismisura questi due fattori, dopo più o meno 9 anni di demo, split e fuffa varia. C’entra anche il fatto che il gruppo sia rimasto fermo causa temporaneo scioglimento di 4 anni, ossia dal 2004 al 2008? In ogni caso, è un evento, anche perché di gruppi del genere ce ne sono purtroppo veramente pochi, qui nella cara Italia, beninteso.
Perché? I Blasphemous Noise Torment che suonano? Uno dei miei sottogeneri preferiti, che solitamente si risolve in un massacro senza scampo: il black/death metal guerrafondaio tanto diffuso in Oceania. Più che altro il vero problema è il come ed è per qui che i nostri si dimostrano di saperci immensamente fare. “Immensamente” anche perché, rispetto alle passate produzioni, hanno preferito allungare pericolosamente la durata media dei pezzi, magari con punte da 7 minuti (“Primitive Blood”), riuscendo allo stesso tempo a non stancare l’ascoltatore per mezzo soprattutto di sorprese di ogni tipo sempre puntuali come un orologio svizzero.
‘Sti 3 pazzi hanno infatti la capacità non comune di sapersi re – interpretare in vari modi, magari rendendo un pochino più complicata una struttura che comunque è più o meno di tipo sequenziale e che, proprio per questo, in alcune (rare) occasioni, difetta di troppa meccanicità e prolissità. Tale “camaleontismo” (termine ad ogni modo da prendere con le pinze) lo conferma pure “Awaiting Below”, il pezzo meno convincente del lotto, imbottito com’è di stacchi e pause che rendono semplicistico e troppo controllato tutto il discorso. Ma questa è una nota negativa subito sradicata con assoluta maestria da “Cult of Death” in poi.
Altra caratteristica particolare viene dalle frequenti e angoscianti parti doom che scalzano per un po’ il predominio blasteggiante, il quale permette lo stesso a Murmur di intessere un discorso ritmico imprevedibile (ma sempre bello lineare) abile ad enfatizzare a più non posso tutto l’insieme, attraverso delle variazioni a dir poco gustose. Tale alternanza di tempi molto diversi fra loro permette di metabolizzare meglio l’assalto, magari snocciolando contagiose parti groovy che gente come Conqueror o Bestial Warlust neanche si sognavano (forse perché non le volevano?).
E qui si allarga ancora di più lo spettro d’azione per il tramite di passaggi thrash, i quali alle volte vengono perfettamente integrati con le sonorità più black/death, se non addirittura di ritmiche più heavy metal ("Primitive Blood”, l’unico brano, a tratti rockeggiante, quasi esclusivamente improntato sui tempi più lenti, che però conta un finale in dissolvenza glaciale, ipnotico e tutto in blast – beats). Curioso notare come le parti thrash metal si presentino da “Invert the Moral of the Weak” in poi.
Alle volte sono curiosi anche gli assoli che Black Pestilence of Mass Destruction sputa con il contagocce. “Curiosi” perché in loro può essere presente qualche tocco melodico che quasi fa a cazzotti con il rumorismo da stupro a cui essi sono solitamente sottoposti, come insomma il genere comanda. Vi è però un piccolo appunto inerente il finale di “Awaiting Below”, dove si fanno vive addirittura 2 chitarre soliste, cosa un po’ artificiosa e ingiustificata anche dalla natura profondamente collettiva del gruppo.
Ma se si parla della voce, “Ancient Insignias” diviene un capolavoro come pochi. Infatti, Titanic Furor of the Inexorable March ha una delle voci più espressive che ho mai sentito, essendo capace di sputare di base un grugnito fiero e battagliero che viene supportato:
1) da un effetto d’eco con il quale (per esempio in “Superion War Assault”) si plagiano nientepopodimeno che i Von;
2) dal compagno alla chitarra, autore di una specie di urlo “scatarrato”, in parole povere agghiacciante.
Se poi si aggiungono delle linee vocali spesso strabilianti (da menzionare soprattutto quelle dell’ossessiva “Winds of Apocalyptic Fire”), il quadro diventa completo, e così, contando anche una produzione sporca e “viva” in tutto, tutti gli altri black/deathettoni divengono dei semplici, pulitini mestieranti…
Oddio, i Blasphemophager avrebbero forse qualcuno da ridire a quest’ultima affermazione.
Voto: 91
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Ancient Insignias/ 2 – Awaiting Below/ 3 – Cult of Death/ 4 – Spartan Justice/ 5 – Invert the Moral of the Weak/ 6 – Superion War Assault/ 7 – Winds of Apocalyptic Fire/ 8 – Primitive Blood
MySpace:
http://www.myspace.com/warhorde
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Tuesday, December 27, 2011
Monday, December 19, 2011
Lilyum - "Nothing Is Mine" (2011)
Album (Dusktone, 1 Novembre 2011)
Formazione (2002): Xes, voce;
Kosmos Reversum, chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Torino/Potenza, Piemonte/Basilicata.
Canzone migliore del disco:
“Into the Fire”, per motivi che verranno esplicati esaustivamente nel corpo della recensione.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la struttura – tipo dei pezzi, anche se bisogna ancora affinarla meglio.
-------------------------------------------------------------------------------------------------Kosmos Reversum me l’ha fatto immaginare come qualcosa di molto diverso dalle produzioni precedenti, ma a dir la verità con quest’album si segna un ritorno, a parte certe differenze (la maggior parte non molto rilevanti), alle sonorità di “Fear Tension Cold”, prendendo però allo stesso tempo in considerazione certo riffing di “Crawling in the Past”. Devo dire che tale regressione non è stata esattamente rose e fuori, soprattutto a partire dal rapporto intercorrente fra la voce e gli altri aspetti dell’esperienza.
La voce, appunto. Xes è un ottimo cantante, su questo non ci piove, e qui e là è anche un maestro nella costruzione delle linee vocali. Però in fase di produzione ha voluto sperimentare un po’ troppo, visto che ha innestato nel cantato un effetto “da ovatta”, e così ne è uscito fuori qualcosa di inespressivo e troppo controllato. Inoltre, il nostro non funziona in pezzi statici come “Fides Belialus” (che dal punto di vista ritmico è spaventosamente uguale a sé stesso) i quali invece sarebbero usciti forse meglio con l’istrionismo assurdista di Lord J.H. Psycho, cantante abilissimo a rendere malato e dinamico un black metal minimalista come quello dei Lilyum.
La musica in generale mal si sposa con l’effetto sulla voce, più che altro perché la struttura dei pezzi è già controllata di suo. Ma in tal caso, si nota un netto miglioramento nella seconda parte dell’opera, dove finalmente si fa vivo un approccio strutturale meno convenzionale per i nostri, cioè (un poco) più libero e meno vincolante e meccanico.
La metodologia strutturale per l’appunto risulta essere la caratteristica più interessante dell’intera proposta, anche per delle variazioni quasi impercettibili, per esempio sulla cassa (“Altar of Darkness”, pezzo in ogni caso tipico dei Lilyum). Consiglio infatti di lavorare ancora di più su tale aspetto, anche per interpretare in maniera diversa uno schema ormai consolidato. Il quale sorregge un discorso tremendamente fluido, privo del tutto di qualsiasi tipo di stacco, ragion per cui gli unici momenti di respiro sono e rimangono delle semplici pause.
L’altra mezza novità è rappresentata dal ritorno alla batteria elettronica, cosa per me incomprensibile visto l’ottimo lavoro di Frozen in “Crawling in the Past”, capace di evolvere un discorso ritmico altrimenti troppo limitato, ripetitivo oltreché spesso non molto brillante nel collegare sufficientemente bene i vari passaggi. In compenso, rispetto a “Fear Tension Cold”, la batteria è stata finalmente messa bene in evidenza, e si nota inoltre la preponderanza dei tempi veloci su quelli più lenti, cosa che fa del nuovo album un’opera più black metal e meno intrisa di influssi rock’n’roll.
L’utilizzo (ma sempre molto misurato) del basso, ereditato da “Crawling in the Past”, nella costruzione dei vari motivi è stato per fortuna mantenuto, aggiungendo quel tocco in più ad un discorso sostanzialmente ultra – collettivo che non offre molto sorprese.
Insomma, nel complesso non è che poi le cose siano tanto cambiate, in prima linea il riffing e la sua impostazione ossessiva, e nel quale qui e là si fanno sentire dei fastidiosi deja – vù, pur mostrando interessanti svisate addirittura melodiche durante i momenti iniziali di “My Darkened Path”; in secondo luogo, l’uso tutto particolare della chitarra solista, quasi totalmente asservita alla sua compagna ma capace comunque di prove più sui generis, come in “Into the Fire”, in cui si fa portavoce di melodie quasi dolci e soprattutto dal lavorìo più dinamico del solito.
In parole povere, “Nothing Is Mine” è da considerare come un album transitorio, forse pubblicato troppo di fretta e che deve fare a cazzotti con le due grandi prestazioni offerte in “Fear Tension Cold” (che riusciva a essere grintoso nonostante la sua estrema meccanicità) e in “Crawling in the Past” (capolavoro di assoluta ispirazione e inventiva). Transitorio anche perché vi sono accennate certe caratteristiche ancora da sviluppare debitamente (come le intuizioni strutturali), e che si spera vengano tenute in buona considerazione in futuro.
Dai che anche i Maestri hanno periodi di stanca, e quindi, come diceva Carlo Verdone in “Un Sacco Bello”: “Abbi fede”!
Voto: 62
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Nothing Is Mine/ 2 – Altar of Darkness/ 3 – Fides Belialus/ 4 – Slave of Hate/ 5 – Hic Fuit Locus Traitor/ 6 – Into the Fire/ 7 – The Eternal Embrace of Dark Dream/ 8 – I Am the Black Plague/ 9 – My Darkened Path
MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum
FaceBook:
http://www.facebook.com/lilyumofficial1?sk=app_2405167945
Formazione (2002): Xes, voce;
Kosmos Reversum, chitarre/basso/batteria elettronica.
Provenienza: Torino/Potenza, Piemonte/Basilicata.
Canzone migliore del disco:
“Into the Fire”, per motivi che verranno esplicati esaustivamente nel corpo della recensione.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la struttura – tipo dei pezzi, anche se bisogna ancora affinarla meglio.
-------------------------------------------------------------------------------------------------Kosmos Reversum me l’ha fatto immaginare come qualcosa di molto diverso dalle produzioni precedenti, ma a dir la verità con quest’album si segna un ritorno, a parte certe differenze (la maggior parte non molto rilevanti), alle sonorità di “Fear Tension Cold”, prendendo però allo stesso tempo in considerazione certo riffing di “Crawling in the Past”. Devo dire che tale regressione non è stata esattamente rose e fuori, soprattutto a partire dal rapporto intercorrente fra la voce e gli altri aspetti dell’esperienza.
La voce, appunto. Xes è un ottimo cantante, su questo non ci piove, e qui e là è anche un maestro nella costruzione delle linee vocali. Però in fase di produzione ha voluto sperimentare un po’ troppo, visto che ha innestato nel cantato un effetto “da ovatta”, e così ne è uscito fuori qualcosa di inespressivo e troppo controllato. Inoltre, il nostro non funziona in pezzi statici come “Fides Belialus” (che dal punto di vista ritmico è spaventosamente uguale a sé stesso) i quali invece sarebbero usciti forse meglio con l’istrionismo assurdista di Lord J.H. Psycho, cantante abilissimo a rendere malato e dinamico un black metal minimalista come quello dei Lilyum.
La musica in generale mal si sposa con l’effetto sulla voce, più che altro perché la struttura dei pezzi è già controllata di suo. Ma in tal caso, si nota un netto miglioramento nella seconda parte dell’opera, dove finalmente si fa vivo un approccio strutturale meno convenzionale per i nostri, cioè (un poco) più libero e meno vincolante e meccanico.
La metodologia strutturale per l’appunto risulta essere la caratteristica più interessante dell’intera proposta, anche per delle variazioni quasi impercettibili, per esempio sulla cassa (“Altar of Darkness”, pezzo in ogni caso tipico dei Lilyum). Consiglio infatti di lavorare ancora di più su tale aspetto, anche per interpretare in maniera diversa uno schema ormai consolidato. Il quale sorregge un discorso tremendamente fluido, privo del tutto di qualsiasi tipo di stacco, ragion per cui gli unici momenti di respiro sono e rimangono delle semplici pause.
L’altra mezza novità è rappresentata dal ritorno alla batteria elettronica, cosa per me incomprensibile visto l’ottimo lavoro di Frozen in “Crawling in the Past”, capace di evolvere un discorso ritmico altrimenti troppo limitato, ripetitivo oltreché spesso non molto brillante nel collegare sufficientemente bene i vari passaggi. In compenso, rispetto a “Fear Tension Cold”, la batteria è stata finalmente messa bene in evidenza, e si nota inoltre la preponderanza dei tempi veloci su quelli più lenti, cosa che fa del nuovo album un’opera più black metal e meno intrisa di influssi rock’n’roll.
L’utilizzo (ma sempre molto misurato) del basso, ereditato da “Crawling in the Past”, nella costruzione dei vari motivi è stato per fortuna mantenuto, aggiungendo quel tocco in più ad un discorso sostanzialmente ultra – collettivo che non offre molto sorprese.
Insomma, nel complesso non è che poi le cose siano tanto cambiate, in prima linea il riffing e la sua impostazione ossessiva, e nel quale qui e là si fanno sentire dei fastidiosi deja – vù, pur mostrando interessanti svisate addirittura melodiche durante i momenti iniziali di “My Darkened Path”; in secondo luogo, l’uso tutto particolare della chitarra solista, quasi totalmente asservita alla sua compagna ma capace comunque di prove più sui generis, come in “Into the Fire”, in cui si fa portavoce di melodie quasi dolci e soprattutto dal lavorìo più dinamico del solito.
In parole povere, “Nothing Is Mine” è da considerare come un album transitorio, forse pubblicato troppo di fretta e che deve fare a cazzotti con le due grandi prestazioni offerte in “Fear Tension Cold” (che riusciva a essere grintoso nonostante la sua estrema meccanicità) e in “Crawling in the Past” (capolavoro di assoluta ispirazione e inventiva). Transitorio anche perché vi sono accennate certe caratteristiche ancora da sviluppare debitamente (come le intuizioni strutturali), e che si spera vengano tenute in buona considerazione in futuro.
Dai che anche i Maestri hanno periodi di stanca, e quindi, come diceva Carlo Verdone in “Un Sacco Bello”: “Abbi fede”!
Voto: 62
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro – Nothing Is Mine/ 2 – Altar of Darkness/ 3 – Fides Belialus/ 4 – Slave of Hate/ 5 – Hic Fuit Locus Traitor/ 6 – Into the Fire/ 7 – The Eternal Embrace of Dark Dream/ 8 – I Am the Black Plague/ 9 – My Darkened Path
MySpace:
http://www.myspace.com/lilyum
FaceBook:
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Saturday, December 17, 2011
Redemption Curse - "7.1" (2011)
Demo (D.N.A. Collective, 2011)
Formazione: Wolf, voce/basso;
Akh, chitarra/rumori/tastiere.
Provenienza: Toscana
Pezzo migliore del disco:
per ragioni esplicate nella rece, ho una netta predilezione per “La Fenice”.
Punto di forza dell’opera:
sinceramente non lo so, essendo “7.1” piuttosto disomogeneo, ma se proprio devo scegliere citerei l’atmosfera creata dai sintetizzatori e dal basso, i quali in prospettiva futura promettono cose molto interessanti.
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I Redemption Curse sono un gruppo infinitamente… “storto”. Niente nella loro musica è normale. Ogni cosa infatti è stata stuprata a dovere, come nel più grande degli scherzi diabolici. Ma si può dire che anche il loro rumore (perché questo è, in fin dei conti) non sia normale. Perché l’opera che mi appresto a recensire è un compendio di dissacrante e provocatorio sperimentalismo a più piani dove lo schifo, l’anti – estetismo più sfrenato divengono materia per la consapevolezza di sé stessi e…
“A’ CLAUSTRO’! FALLA FINITA CON ‘STI PAROLONI E DICCI COME SUONANO I REDEMPTION CURSE!”
Dio quanto siete rompicalli! Allora calma e sangue freddo che vi accontento. Anche perché la calma e il sangue freddo sono di regola per non farsi prendere un infarto;
1) dalla voce, la quale è una specie di terrificante urlo gorgogliante che rende praticamente incomprensibili i testi in italiano. Per di più, questi vengono “aiutati” per la discesa da un procedimento copia – incolla che doppia la voce originale, così da generare un caos di notevoli dimensioni, quasi come se fosse una eco pur non essendolo veramente;
2) dalla chitarra, il cui riffing fa ricordare qui e là addirittura i disturbanti Vlad Tepes (“La Fenice”). Ma il fatto curioso viene più che altro dalla produzione “sballata”, che ora fa sentire bene la chitarra, mentre adesso le abbassa improvvisamente le frequenze, magari affossandola con rumori di disturbo (“Sia Fatta la Tua Volontà”) – rumori che a dir la verità non sono così presenti come invece si potrebbe intuire;
3) dalla tecnica, a tratti inesistente, visto che talvolta o il ritmo viene temporaneamente perso, oppure si hanno delle vere e proprie stecche (la parte di piano di “Sia Fatta la Tua Volontà” è esemplare) in modo da rendere ancora più (volutamente) disordinato tutto l’insieme;
4) dalla batteria, che si sente invece moooolto male, anche perché, di fatto, non ve n’è traccia (ci siete cascati prima, eh?). E devo dire che tale mossa mi è tremendamente piaciuta, dato che è funzionale alla stessa formazione perché altrimenti uno dei due avrebbe programmato la batteria elettronica in maniera ultra – minimalista, quasi trasformandola in un inutile contorno.
A tutto ciò, si aggiunga un utilizzo del basso sì terra – terra ma comunque interessante oltreché agghiacciante; e la presenza di sintetizzatori belli atmosferici ne “La Fenice”. Ma è proprio da questi strumenti che partono paradossalmente le critiche a “7.1”, il quale, praticamente già al primo ascolto, mi ha dato l’impressione di essere un esperimento riuscito solo per metà.
Infatti, “Sia Fatta…” è un pezzo che, a parte le ovvie sensazioni di disgusto che genera, non colpisce per niente, soprattutto perché il disgusto è qui fine a sé stesso e quindi viene usato in maniera semplicistica. Inoltre, il basso si sente debolissimo, mentre il piano poteva essere sfruttato meglio ed invece gli si concede un semplice siparietto. La voce, poi, in un gioco limitatissimo, spesso e volentieri urla e basta, senza dire niente. In pratica manca una vera e propria atmosfera.
Al contrario, con “La Fenice” si comincia a ragionare, peccato solo che sia l’ultimo episodio del lotto. Infatti, il basso (finalmente bello presente) e i sintetizzatori aiutano debitamente gli altri strumenti, l’uno utilizzando le armi dell’ossessività e del caos, l’altro “ingabbiato” in una rigida cornice minimalista. E tutto ciò funziona nonostante i 6 minuti di durata del brano, contro i quasi 5 del pezzo precedente.
Insomma, le idee ci sono. Le possibilità concrete di affrancarsi dal modello “NO BATTERIA” dei Progetto:ChaosGoat.666 (in cui suona per l’appunto Akh) pure. Basta incanalarle meglio (anche perché per un gruppo del genere fermarsi soltanto a voce/chitarra/basso è un po’ troppo facile) e lì sì che poi saranno dolori per tutti!
Voto: 58
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sia Fatta la Tua Volontà/ 2 – La Fenice
Formazione: Wolf, voce/basso;
Akh, chitarra/rumori/tastiere.
Provenienza: Toscana
Pezzo migliore del disco:
per ragioni esplicate nella rece, ho una netta predilezione per “La Fenice”.
Punto di forza dell’opera:
sinceramente non lo so, essendo “7.1” piuttosto disomogeneo, ma se proprio devo scegliere citerei l’atmosfera creata dai sintetizzatori e dal basso, i quali in prospettiva futura promettono cose molto interessanti.
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I Redemption Curse sono un gruppo infinitamente… “storto”. Niente nella loro musica è normale. Ogni cosa infatti è stata stuprata a dovere, come nel più grande degli scherzi diabolici. Ma si può dire che anche il loro rumore (perché questo è, in fin dei conti) non sia normale. Perché l’opera che mi appresto a recensire è un compendio di dissacrante e provocatorio sperimentalismo a più piani dove lo schifo, l’anti – estetismo più sfrenato divengono materia per la consapevolezza di sé stessi e…
“A’ CLAUSTRO’! FALLA FINITA CON ‘STI PAROLONI E DICCI COME SUONANO I REDEMPTION CURSE!”
Dio quanto siete rompicalli! Allora calma e sangue freddo che vi accontento. Anche perché la calma e il sangue freddo sono di regola per non farsi prendere un infarto;
1) dalla voce, la quale è una specie di terrificante urlo gorgogliante che rende praticamente incomprensibili i testi in italiano. Per di più, questi vengono “aiutati” per la discesa da un procedimento copia – incolla che doppia la voce originale, così da generare un caos di notevoli dimensioni, quasi come se fosse una eco pur non essendolo veramente;
2) dalla chitarra, il cui riffing fa ricordare qui e là addirittura i disturbanti Vlad Tepes (“La Fenice”). Ma il fatto curioso viene più che altro dalla produzione “sballata”, che ora fa sentire bene la chitarra, mentre adesso le abbassa improvvisamente le frequenze, magari affossandola con rumori di disturbo (“Sia Fatta la Tua Volontà”) – rumori che a dir la verità non sono così presenti come invece si potrebbe intuire;
3) dalla tecnica, a tratti inesistente, visto che talvolta o il ritmo viene temporaneamente perso, oppure si hanno delle vere e proprie stecche (la parte di piano di “Sia Fatta la Tua Volontà” è esemplare) in modo da rendere ancora più (volutamente) disordinato tutto l’insieme;
4) dalla batteria, che si sente invece moooolto male, anche perché, di fatto, non ve n’è traccia (ci siete cascati prima, eh?). E devo dire che tale mossa mi è tremendamente piaciuta, dato che è funzionale alla stessa formazione perché altrimenti uno dei due avrebbe programmato la batteria elettronica in maniera ultra – minimalista, quasi trasformandola in un inutile contorno.
A tutto ciò, si aggiunga un utilizzo del basso sì terra – terra ma comunque interessante oltreché agghiacciante; e la presenza di sintetizzatori belli atmosferici ne “La Fenice”. Ma è proprio da questi strumenti che partono paradossalmente le critiche a “7.1”, il quale, praticamente già al primo ascolto, mi ha dato l’impressione di essere un esperimento riuscito solo per metà.
Infatti, “Sia Fatta…” è un pezzo che, a parte le ovvie sensazioni di disgusto che genera, non colpisce per niente, soprattutto perché il disgusto è qui fine a sé stesso e quindi viene usato in maniera semplicistica. Inoltre, il basso si sente debolissimo, mentre il piano poteva essere sfruttato meglio ed invece gli si concede un semplice siparietto. La voce, poi, in un gioco limitatissimo, spesso e volentieri urla e basta, senza dire niente. In pratica manca una vera e propria atmosfera.
Al contrario, con “La Fenice” si comincia a ragionare, peccato solo che sia l’ultimo episodio del lotto. Infatti, il basso (finalmente bello presente) e i sintetizzatori aiutano debitamente gli altri strumenti, l’uno utilizzando le armi dell’ossessività e del caos, l’altro “ingabbiato” in una rigida cornice minimalista. E tutto ciò funziona nonostante i 6 minuti di durata del brano, contro i quasi 5 del pezzo precedente.
Insomma, le idee ci sono. Le possibilità concrete di affrancarsi dal modello “NO BATTERIA” dei Progetto:ChaosGoat.666 (in cui suona per l’appunto Akh) pure. Basta incanalarle meglio (anche perché per un gruppo del genere fermarsi soltanto a voce/chitarra/basso è un po’ troppo facile) e lì sì che poi saranno dolori per tutti!
Voto: 58
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sia Fatta la Tua Volontà/ 2 – La Fenice
Monday, December 12, 2011
Vesper - "Possession of Evil Will" (2010)
Album (Dusterwald Produktionen, 17 Dicembre 2010)
Formazione (2008): Sho, voce/basso;
Haemon, chitarre;
Redrum, batteria.
Provenienza: Roma, Lazio
Canzone migliore dell’album:
indubbiamente la stessa “Possession of Evil Will”, una delle più lunghe del lotto nonché l’unica avente un’introduzione tremendamente atmosferica nella quale fra l’altro vi è una “conversazione” fra quella che sembra una vecchia decrepita e un generico uomo (che belle descrizioni che do alle volte…).
Punto di forza del disco:
udite udite, la complessità che i nostri si ritrovano, che riesce a dinamicizzare in maniera non banale tutto l’insieme. Non a caso già da adesso consiglio ai diretti interessati di porre in futuro maggiore attenzione su quest’interessante caratteristica.
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I Vesper sono praticamente il gruppo dei ritorni. Sì, perché, prima di tutto, nei Vesper vi suona Sho, che chi sa un po’ di storia di Timpani allo Spiedo sa che costui suonava negli ormai sciolti Gremory, il cui “In Nomine Martis” venne guardacaso recensito nel 3° numero della rivista; in secondo luogo, era veramente da tanto che da queste parti non si parlava di un gruppo black/thrash metal, da quando cioè i favolosi Bunker 66 esordirono 2 anni fa su queste pagine; e come ultimo, ritorna finalmente il metal capitolino, e lo fa con grande stile.
Lo fa sparando infatti una bella dose di “ignorante” black/thrash declinato però spesso non solo attraverso una contagiosa ottica rock’n’roll ma anche una complessità, sia ritmica che strutturale, che qui e là si fa sentire, mostrando così una cura nei particolari, magari snocciolando dei cambi di tempi (talvolta sottoforma di blast – beats) improvvisi ma strategicamente perfetti, che è difficile cogliere in altri gruppi del genere.
Tale complessità si avverte anche nella fantasia che i nostri si ritrovano, e di cui una degna rappresentante è la voce. Il suo lavoro (impreziosito da un effetto d’eco bello presente) è infatti lontanissimo dall’essere statico, visto che tra grugniti e urla (e qualche risata “molto simpatica”) c’è l’imbarazzo della scelta. Anche perché l’espressività e l’intensità è alle stelle, e magari c’è pure il supporto di qualche fulminante coro. Per non dimenticare qualche siparietto porno (“White Poison”) di cui su Timpani (l’ho forse detto che i Vesper sono il gruppo dei ritorni?) se ne sentiva la mancanza da ben 2 anni, ossia da quando Orifice mi fece crepare dal ridere con l’album “…Better Than Sex”.
Intensità che fra l’altro si “dimentica” in qualche pezzo di sfoggiare quei tempi veloci pieni di groove tipici di certo black/thrash, e così, via con tempi medi che infettano ancor di più l’ascoltatore (la stessa “White Poison”, che è comunque uno degli episodi più immediati del lotto, pur sperimentando un po’ con la chitarra).
Un altro aspetto curioso viene dalla chitarra solista la quale, utilizzata in pochissime occasioni (come in “Narcotoxic Overdose”), esprime degli assoli spesso belli birraioli che però un po’ peccano di artificiosità. Mi spiego meglio: essi sono stati costruiti in modo da far immaginare all’ascoltatore la presenza non di uno ma di ben 2 chitarristi. Di conseguenza, ecco che gli assoli si sentono ora dall’una, adesso dall’altra parte. In “Flesh for Masses” poi le chitarre in un certo momento sono 3 ma vabbè…
Un secondo appunto da fare riguarda proprio quest’ultimo pezzo, che sciorina, purtroppo solo nei momenti iniziali, degli arpeggi in puro stile black metal. Purtroppo perché essi, lungo la parte centrale, potevano renderla sicuramente più atmosferica e meno semplicistica di un più convenzionale tempo medio thrasheggiante.
In ogni caso, il riffing, dal punto di vista qualitativo, è notevole, anche perché talvolta spara qualche (rara) puntatina nel death nonché soluzioni stoppate dall’impronta quasi percussiva. Ma ovviamente per i Vesper il concetto di melodia è quasi inesistente, e quel “quasi” si riferisce a “H.K.H.K.H.P.”, ultimo brano che altrettanto ovviamente non si poteva/doveva concludere in questa maniera. Cosa che comunque dimostra per l’ennesima volta una ricercatezza, per quanto limitata (in fin dei conti stiamo sempre parlando di un gruppo vecchia scuola), non comune ma che permette lo stesso l’assalto di 37 secondi di “Scat ‘Till Death”.
Strutturalmente parlando, i nostri sono da preferire nella loro versione più dinamica e complessa dove liberano tutto il proprio ego. E’ anche vero che, in quanto ad apporto dei singoli, i pezzi vengono giostrati benissimo, e da tale punto di vista la batteria riesce a cavare le migliori cose togliendo d’impiccio l’intero gruppo, magari proponendo variazioni – ponte tra un passaggio e l’altro (in questo caso, gli ultimi pezzi dell’album sono esemplari), e tra l’altro assolutamente magnifiche.
…e Roma si inorgoglì per aver partorito un altro ottimo gruppo! E cazzo!
Scusate il francesismo….
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Narcotoxic Overdose/ 2 – Scat ‘Till Death/ 3 – Gruesome Fornication/ 4 – White Poison/ 5 – Proliferation of Planet’s Cancer/ 6 – Possession of Evil Will/ 7 – Analfisted by Satan/ 8 – Flesh for Masses/ 9 – Raging Dogs/ 10 – Sex Slave Zombie/ 11 – H.K.H.K.H.P.
MySpace:
http://www.myspace.com/vesperscum
Formazione (2008): Sho, voce/basso;
Haemon, chitarre;
Redrum, batteria.
Provenienza: Roma, Lazio
Canzone migliore dell’album:
indubbiamente la stessa “Possession of Evil Will”, una delle più lunghe del lotto nonché l’unica avente un’introduzione tremendamente atmosferica nella quale fra l’altro vi è una “conversazione” fra quella che sembra una vecchia decrepita e un generico uomo (che belle descrizioni che do alle volte…).
Punto di forza del disco:
udite udite, la complessità che i nostri si ritrovano, che riesce a dinamicizzare in maniera non banale tutto l’insieme. Non a caso già da adesso consiglio ai diretti interessati di porre in futuro maggiore attenzione su quest’interessante caratteristica.
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I Vesper sono praticamente il gruppo dei ritorni. Sì, perché, prima di tutto, nei Vesper vi suona Sho, che chi sa un po’ di storia di Timpani allo Spiedo sa che costui suonava negli ormai sciolti Gremory, il cui “In Nomine Martis” venne guardacaso recensito nel 3° numero della rivista; in secondo luogo, era veramente da tanto che da queste parti non si parlava di un gruppo black/thrash metal, da quando cioè i favolosi Bunker 66 esordirono 2 anni fa su queste pagine; e come ultimo, ritorna finalmente il metal capitolino, e lo fa con grande stile.
Lo fa sparando infatti una bella dose di “ignorante” black/thrash declinato però spesso non solo attraverso una contagiosa ottica rock’n’roll ma anche una complessità, sia ritmica che strutturale, che qui e là si fa sentire, mostrando così una cura nei particolari, magari snocciolando dei cambi di tempi (talvolta sottoforma di blast – beats) improvvisi ma strategicamente perfetti, che è difficile cogliere in altri gruppi del genere.
Tale complessità si avverte anche nella fantasia che i nostri si ritrovano, e di cui una degna rappresentante è la voce. Il suo lavoro (impreziosito da un effetto d’eco bello presente) è infatti lontanissimo dall’essere statico, visto che tra grugniti e urla (e qualche risata “molto simpatica”) c’è l’imbarazzo della scelta. Anche perché l’espressività e l’intensità è alle stelle, e magari c’è pure il supporto di qualche fulminante coro. Per non dimenticare qualche siparietto porno (“White Poison”) di cui su Timpani (l’ho forse detto che i Vesper sono il gruppo dei ritorni?) se ne sentiva la mancanza da ben 2 anni, ossia da quando Orifice mi fece crepare dal ridere con l’album “…Better Than Sex”.
Intensità che fra l’altro si “dimentica” in qualche pezzo di sfoggiare quei tempi veloci pieni di groove tipici di certo black/thrash, e così, via con tempi medi che infettano ancor di più l’ascoltatore (la stessa “White Poison”, che è comunque uno degli episodi più immediati del lotto, pur sperimentando un po’ con la chitarra).
Un altro aspetto curioso viene dalla chitarra solista la quale, utilizzata in pochissime occasioni (come in “Narcotoxic Overdose”), esprime degli assoli spesso belli birraioli che però un po’ peccano di artificiosità. Mi spiego meglio: essi sono stati costruiti in modo da far immaginare all’ascoltatore la presenza non di uno ma di ben 2 chitarristi. Di conseguenza, ecco che gli assoli si sentono ora dall’una, adesso dall’altra parte. In “Flesh for Masses” poi le chitarre in un certo momento sono 3 ma vabbè…
Un secondo appunto da fare riguarda proprio quest’ultimo pezzo, che sciorina, purtroppo solo nei momenti iniziali, degli arpeggi in puro stile black metal. Purtroppo perché essi, lungo la parte centrale, potevano renderla sicuramente più atmosferica e meno semplicistica di un più convenzionale tempo medio thrasheggiante.
In ogni caso, il riffing, dal punto di vista qualitativo, è notevole, anche perché talvolta spara qualche (rara) puntatina nel death nonché soluzioni stoppate dall’impronta quasi percussiva. Ma ovviamente per i Vesper il concetto di melodia è quasi inesistente, e quel “quasi” si riferisce a “H.K.H.K.H.P.”, ultimo brano che altrettanto ovviamente non si poteva/doveva concludere in questa maniera. Cosa che comunque dimostra per l’ennesima volta una ricercatezza, per quanto limitata (in fin dei conti stiamo sempre parlando di un gruppo vecchia scuola), non comune ma che permette lo stesso l’assalto di 37 secondi di “Scat ‘Till Death”.
Strutturalmente parlando, i nostri sono da preferire nella loro versione più dinamica e complessa dove liberano tutto il proprio ego. E’ anche vero che, in quanto ad apporto dei singoli, i pezzi vengono giostrati benissimo, e da tale punto di vista la batteria riesce a cavare le migliori cose togliendo d’impiccio l’intero gruppo, magari proponendo variazioni – ponte tra un passaggio e l’altro (in questo caso, gli ultimi pezzi dell’album sono esemplari), e tra l’altro assolutamente magnifiche.
…e Roma si inorgoglì per aver partorito un altro ottimo gruppo! E cazzo!
Scusate il francesismo….
Voto: 85
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Narcotoxic Overdose/ 2 – Scat ‘Till Death/ 3 – Gruesome Fornication/ 4 – White Poison/ 5 – Proliferation of Planet’s Cancer/ 6 – Possession of Evil Will/ 7 – Analfisted by Satan/ 8 – Flesh for Masses/ 9 – Raging Dogs/ 10 – Sex Slave Zombie/ 11 – H.K.H.K.H.P.
MySpace:
http://www.myspace.com/vesperscum
Thursday, December 8, 2011
Deadly Carnage - "Sentieri II - Ceneri"
Album autoprodotto (Agosto 2011)
Formazione (2005): Marcello, voce;
Dave, chitarra/voce aggiuntiva;
Alexios Ciancio, chitarra/sintetizzatori/voce aggiuntiva;
Adres, basso/rumori;
Marco, batteria.
Provenienza: Rimini, Emila Romagna.
Canzone migliore del disco:
indubbiamente “Growth and New Gods”, la quale ha un finale da capogiro che si avvale di lungo e caldo assolo, tanto semplice quanto fantasioso nella costruzione della melodia.
Punto di forza dell’opera:
la struttura dei pezzi, spesso molto difficile da gestire oltreché varia all’ennesima potenza.
Oggi, 7 Dicembre, è successo un miracolo, anzi 2:
1) era da qualche settimana che non mi svegliavo alle 8;
2) punto estremamente legato con il precedente, il sonno è stato interrotto dalla manifestazione dell’IDI proprio davanti casa, in una piazza dove non c’era qualcosa del genere (fra l’altro di serio) da non si sa quanto tempo, svegliando finalmente un quartiere solitamente invaso dalla divinità dell’automobile con annessi (e inutili) vigili.
Il bello è che dovrei studiare, ma un’ondata di altruismo nonché la musica che mettono in piazza (finora gli ultimi sono stati i grandi Ska – P) mi hanno contagiato, per cui Artaud, Locke e cazzi e mazzi aspetteranno.
Così, vi presento i Deadly Carnage ed il loro secondo album, disco interessante soprattutto per la notevole contraddizione che intercorre fra il riffing spesso adottato, inquietante e ipnotico come la tradizione del black metal più oltranzista comanda, e la chitarra solista, la quale si prodiga in assoli non solo tremendamente atmosferici ma anche paradossalmente romantici e spesso lunghissimi, senza però mai scadere nella noia. Inoltre, su di essi, fatto rarissimo nella maggior parte dei gruppi, il cantante con una certa frequenza prende voce in capitolo. In altre occasioni però, le intuizioni solistiche si fanno addirittura arabeggianti (“Epitaph Part II”, di cui si riparlerà), dimostrando per l’ennesima volta una capacità di osare di certo non comune.
E’ anche vero che in quanto a romanticismo le chitarre acustiche ci mettono il loro zampino, fino a esplodere nell’assurdo pezzo (assurdo per una formazione black metal, beninteso), gestito benissimo, dal titolo di “Ceneri”, che alla fine si rivela come una specie di (infinita… tanto da essere l’episodio più lungo dell’opera…)) outro quasi slegata dal resto del lotto, e nel quale il cantante dà addirittura adito a tutta la sua verve melodica sciorinando una voce pulita precedentemente solo accennata. Insomma, una vera sorpresa che ha soltanto il peccato, estremamente relativo, di essere l’unico episodio ad utilizzare la madrelingua, nonostante in passato i Deadly Carnage l’avessero usata decisamente di più.
La voce, d’altro canto, è un altro aspetto ottimamente curato dal gruppo. Sì, perché, anche se inizialmente appare come un tipico urlo black metal, dopo un po’ lascia trasparire una personalità più marcata [intanto hanno rimesso il pezzo con cui mi sono svegliato!] sfoggiando ora urla più, per così dire, “umane” e disperate, mentre adesso, ma in misura minore, urla più soffocate. Insomma, il lavoro non è statico, anche se un po’ di dubbi riguardano “Growth and New Gods”, che inizia con una serie di “oi” che sanno tanto di roba vichinga che però non sono stati contestualizzati per bene, soprattutto perché vengono quasi subito dimenticati non trovando più riscontro nel resto del pezzo.
In ogni caso, la dinamicità è un tratto caratteristico del quintetto, e da questo punto di vista la batteria è capace di estremizzarla per bene, presentando quindi un discorso nervoso ed abilissimo ad enfatizzare notevolmente tutto l’insieme, a volte stupendo nella maniera più devastante. Ciò osando dare una bella preminenza ai tempi medi, ma vi assicuro che il nostro quando mena con i blast – beats (o i tupa – tupa – “Guilt of Discipline” e “Growth and New Gods”) non scherza affatto, a dispetto di un rullante dal suono quasi finto e plastico.
E pure molto coraggiosa [adesso purtroppo la manifestazione vera e propria è finita] si dimostra la struttura dei pezzi, e a tal proposito non si può far a meno di notare che i nostri danno il meglio in quelli strutturalmente più isterici e selvaggi (“Guilt of Discipline”, “Parallels” e “Growth and New Gods”), i quali, avendo fra l’altro in comune una durata non indifferente che vai dai 7 ai quasi 9 minuti, non rispettano uno schema preciso. Nello specifico:
1) “Guilt of Discipline” poggia, anche se in maniera labile, sul tema principale, che più volte ritorna pure variandolo;
2) “Parallels” parte lenta, disperata e melodica per poi prendere definitivamente il largo sfoggiando, in modo da estremizzare una schizofrenia già bella presente, qualche influsso thrash e death (quest’ultima è un’influenza che si fa viva anche nel precedente episodio). Da notare il suo finale angosciosamente aperto;
3) Infine, “Growth and New Gods” ripropone, fino ad un certo punto, con sonorità più cattive, praticamente i primi momenti del brano, proposti inizialmente in versione melodica.
Ma come ho fatto notare più o meno implicitamente prima, “Epitaph Part I” e la sua seconda parte sono pezzi oserei dire interlocutori dato che sono decisamente più semplici e immediati rispetto agli altri. Dei due il migliore è il primo, che non soltanto consta di quel tipo di assolo citato qualche riga fa ma anche di un gioco ritmico dal sapore tribale utilizzato purtroppo solo nell’introduzione, anche se sarebbe stato funzionale con gli arabeschi della chitarra solista. “Epitaph Part II” invece è degno di nota specialmente per il finale, dove c’è una pausa da brividi con tanto di urlo inquietante seguito da una bella esplosione sonora.
Altri appunti da fare riguardano i rumori, che nei crediti sembravano così importanti ma che alla fine si riducono a qualche (ottimo, del resto) brandello di feedback (“Parallels”), caratteristica che poteva essere sicuramente giostrata meglio; e quel rumore greve, molto atmosferico, con cui si conclude quasi ogni pezzo, il quale poteva invece essere approfondito e ampliato, casomai nell’ultimo episodio così da non ridursi sempre ad un qualcosa di sempre uguale a sé stesso.
Ma se è vero che gli esperimenti implicano sempre la gradualità, che poco a poco rende sicuri dei propri mezzi, allora tutte queste ultime critiche sono (almeno per ora) relative. Anche perché, ad ogni modo, il gruppo sa essere non solo personale ma tremendamente raffinato. Quindi, il secondo album dei Deadly Carnage è un acquisto consigliatissimo.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Guilt of Discipline/ 2 – Parallels/ 3 – Epitaph Part II/ 4 – Epitaph Part II/ Growth and New Gods/ 6 - Ceneri
Formazione (2005): Marcello, voce;
Dave, chitarra/voce aggiuntiva;
Alexios Ciancio, chitarra/sintetizzatori/voce aggiuntiva;
Adres, basso/rumori;
Marco, batteria.
Provenienza: Rimini, Emila Romagna.
Canzone migliore del disco:
indubbiamente “Growth and New Gods”, la quale ha un finale da capogiro che si avvale di lungo e caldo assolo, tanto semplice quanto fantasioso nella costruzione della melodia.
Punto di forza dell’opera:
la struttura dei pezzi, spesso molto difficile da gestire oltreché varia all’ennesima potenza.
Oggi, 7 Dicembre, è successo un miracolo, anzi 2:
1) era da qualche settimana che non mi svegliavo alle 8;
2) punto estremamente legato con il precedente, il sonno è stato interrotto dalla manifestazione dell’IDI proprio davanti casa, in una piazza dove non c’era qualcosa del genere (fra l’altro di serio) da non si sa quanto tempo, svegliando finalmente un quartiere solitamente invaso dalla divinità dell’automobile con annessi (e inutili) vigili.
Il bello è che dovrei studiare, ma un’ondata di altruismo nonché la musica che mettono in piazza (finora gli ultimi sono stati i grandi Ska – P) mi hanno contagiato, per cui Artaud, Locke e cazzi e mazzi aspetteranno.
Così, vi presento i Deadly Carnage ed il loro secondo album, disco interessante soprattutto per la notevole contraddizione che intercorre fra il riffing spesso adottato, inquietante e ipnotico come la tradizione del black metal più oltranzista comanda, e la chitarra solista, la quale si prodiga in assoli non solo tremendamente atmosferici ma anche paradossalmente romantici e spesso lunghissimi, senza però mai scadere nella noia. Inoltre, su di essi, fatto rarissimo nella maggior parte dei gruppi, il cantante con una certa frequenza prende voce in capitolo. In altre occasioni però, le intuizioni solistiche si fanno addirittura arabeggianti (“Epitaph Part II”, di cui si riparlerà), dimostrando per l’ennesima volta una capacità di osare di certo non comune.
E’ anche vero che in quanto a romanticismo le chitarre acustiche ci mettono il loro zampino, fino a esplodere nell’assurdo pezzo (assurdo per una formazione black metal, beninteso), gestito benissimo, dal titolo di “Ceneri”, che alla fine si rivela come una specie di (infinita… tanto da essere l’episodio più lungo dell’opera…)) outro quasi slegata dal resto del lotto, e nel quale il cantante dà addirittura adito a tutta la sua verve melodica sciorinando una voce pulita precedentemente solo accennata. Insomma, una vera sorpresa che ha soltanto il peccato, estremamente relativo, di essere l’unico episodio ad utilizzare la madrelingua, nonostante in passato i Deadly Carnage l’avessero usata decisamente di più.
La voce, d’altro canto, è un altro aspetto ottimamente curato dal gruppo. Sì, perché, anche se inizialmente appare come un tipico urlo black metal, dopo un po’ lascia trasparire una personalità più marcata [intanto hanno rimesso il pezzo con cui mi sono svegliato!] sfoggiando ora urla più, per così dire, “umane” e disperate, mentre adesso, ma in misura minore, urla più soffocate. Insomma, il lavoro non è statico, anche se un po’ di dubbi riguardano “Growth and New Gods”, che inizia con una serie di “oi” che sanno tanto di roba vichinga che però non sono stati contestualizzati per bene, soprattutto perché vengono quasi subito dimenticati non trovando più riscontro nel resto del pezzo.
In ogni caso, la dinamicità è un tratto caratteristico del quintetto, e da questo punto di vista la batteria è capace di estremizzarla per bene, presentando quindi un discorso nervoso ed abilissimo ad enfatizzare notevolmente tutto l’insieme, a volte stupendo nella maniera più devastante. Ciò osando dare una bella preminenza ai tempi medi, ma vi assicuro che il nostro quando mena con i blast – beats (o i tupa – tupa – “Guilt of Discipline” e “Growth and New Gods”) non scherza affatto, a dispetto di un rullante dal suono quasi finto e plastico.
E pure molto coraggiosa [adesso purtroppo la manifestazione vera e propria è finita] si dimostra la struttura dei pezzi, e a tal proposito non si può far a meno di notare che i nostri danno il meglio in quelli strutturalmente più isterici e selvaggi (“Guilt of Discipline”, “Parallels” e “Growth and New Gods”), i quali, avendo fra l’altro in comune una durata non indifferente che vai dai 7 ai quasi 9 minuti, non rispettano uno schema preciso. Nello specifico:
1) “Guilt of Discipline” poggia, anche se in maniera labile, sul tema principale, che più volte ritorna pure variandolo;
2) “Parallels” parte lenta, disperata e melodica per poi prendere definitivamente il largo sfoggiando, in modo da estremizzare una schizofrenia già bella presente, qualche influsso thrash e death (quest’ultima è un’influenza che si fa viva anche nel precedente episodio). Da notare il suo finale angosciosamente aperto;
3) Infine, “Growth and New Gods” ripropone, fino ad un certo punto, con sonorità più cattive, praticamente i primi momenti del brano, proposti inizialmente in versione melodica.
Ma come ho fatto notare più o meno implicitamente prima, “Epitaph Part I” e la sua seconda parte sono pezzi oserei dire interlocutori dato che sono decisamente più semplici e immediati rispetto agli altri. Dei due il migliore è il primo, che non soltanto consta di quel tipo di assolo citato qualche riga fa ma anche di un gioco ritmico dal sapore tribale utilizzato purtroppo solo nell’introduzione, anche se sarebbe stato funzionale con gli arabeschi della chitarra solista. “Epitaph Part II” invece è degno di nota specialmente per il finale, dove c’è una pausa da brividi con tanto di urlo inquietante seguito da una bella esplosione sonora.
Altri appunti da fare riguardano i rumori, che nei crediti sembravano così importanti ma che alla fine si riducono a qualche (ottimo, del resto) brandello di feedback (“Parallels”), caratteristica che poteva essere sicuramente giostrata meglio; e quel rumore greve, molto atmosferico, con cui si conclude quasi ogni pezzo, il quale poteva invece essere approfondito e ampliato, casomai nell’ultimo episodio così da non ridursi sempre ad un qualcosa di sempre uguale a sé stesso.
Ma se è vero che gli esperimenti implicano sempre la gradualità, che poco a poco rende sicuri dei propri mezzi, allora tutte queste ultime critiche sono (almeno per ora) relative. Anche perché, ad ogni modo, il gruppo sa essere non solo personale ma tremendamente raffinato. Quindi, il secondo album dei Deadly Carnage è un acquisto consigliatissimo.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Guilt of Discipline/ 2 – Parallels/ 3 – Epitaph Part II/ 4 – Epitaph Part II/ Growth and New Gods/ 6 - Ceneri