Album (Noisehead Records, 5 Marzo 2010)
Formazione (1996): Riccardo Paioro, voce/chitarra;
Luca Colombo, chitarra;
Mauro Passiatore, basso;
Davide Firinu, batteria.
Provenienza: Milano, Lombardia
Canzone migliore dell'album:
senz'ombra di dubbio "Nothing On My Mind", una delle più fantasiose ed anche delle più spietate e cattive.
Punto di forza dell'album:
la complessità di certe soluzioni nonostante la razionalizzazione attuata nella composizione dei pezzi. Una complessità che rende cervellotico il tutto integrandosi perfettamente con la violenza della musica quivi proposta.
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Ci sono voluti ben 5 anni affinchè gli Irreverence si “decidessero” di pubblicare un altro album, il terzo della serie in 16 anni di carriera. In vista della sua uscita è stata fatta una bella pubblicità, giustificatissima fra l’altro dato che i nostri per registrarlo se ne sono andati addirittura in Austria (con relativo cambio d’etichetta) e come ciliegina sulla torta hanno approfittato di questa situazione per ospitare un loro grande amico nonché storica icona del thrash tedesco (per ora bastano questi indizi?). L’unico problema (se così si può chiamare) è che il nuovo parto l’ho trovato un pochino inferiore rispetto a “War Was Won” perché l’opera di semplificazione (termine che nello specifico ha un significato decisamente relativo) non è andata del tutto a buon fine. Ma per favore non fraintendetemi che prima ho scritto “un pochino inferiore”.
Sì perché, prima di tutto il gruppo ha reso sicuramente più completo e versatile il proprio death/thrash metal che prima appariva più monolitico. Certo, non mancano ovviamente le parti veloci alternate ad altre dal carattere più groovy ma si ha l’impressione che i vari pezzi siano stati meglio caratterizzati fra di loro. Da questo punto di vista è la seconda parte che fa più bella figura, e si vedano a tal proposito:
- “Nothing On My Mind”, dai passaggi doom ora pieni di desolazione, enfatizzati da una chitarra solista angosciante, adesso dal piglio assassino più death metal, e non mancano all’appello nemmeno atmosfere quasi sfuggenti con tanto di effetto d’eco innestato sulla voce come anche sonorità persino rockeggianti che si fanno vive pure nella seguente “Repentance of God”;
- La quale è da citare in particolare per una struttura a tratti saltellante (cioè che in certi punti pare che il gruppo abbandoni una soluzione per poi riprenderla imprevedibilmente un attimo dopo), direi molto originale. Notevole anche il discorso piacevolmente nascosto della chitarra solista. Insomma, “Repentance of God” , a quanto si è capito, è una canzone dai contorni molto subliminali;
- “Vengeance”, probabilmente la più cattiva (e a detta del titolo non poteva essere altrimenti), con quei riffs death metal dal sapore a tratti spaventosamente doom, da vera e propria minaccia incombente. Non a caso è anche l’unica canzone dell’album che si “conclude” strategicamente in dissolvenza così da lasciar presagire il gran finale;
- Che è rappresentato da “Instinct of Death”, pezzo che consta fra le altre cose di una chitarra solista sorprendentemente dolce e arpeggiata, molto in linea con la capacità dei nostri di ricamare melodie dall’alto tasso emotivo. Anche se stavolta quest’abilità, rispetto a “War Was Won”, è stata forse leggermente messa in secondo piano. Il bello è che nonostante questo tipo di melodia sono presenti velocità al limite del blast – beat, similmente al finale esplosivo di “Hands of Fate”, tutto giocato sulle rapide, fulminanti e chirurgiche variazioni sul rullante. Peccato però che “Instinct of Death” soffra di certi deja – vù già sentiti in “Echoes of War”.
Se le sonorità si sono fatte più complete, l’assalto con cui esse si esprimono è stato razionalizzato, proprio come promesso nell’intervista che feci a suo tempo ai milanesi. Se prima non ci si poneva nessun problema ad esternare un’infinità di soluzioni musicali prive di un carattere anche vagamente sequenziale, adesso ci si attesta su binari più logici anche per un ascoltatore medio. Ciò però non significa minimamente che gli Irreverence abbiano abbandonato la strada precedente, e non solo perché le varie canzoni scorrono come al solito tremendamente fluide quasi non conoscendo né pause né stacchi (con relative ripartenze). Ma soprattutto perché i nostri non hanno perso il gusto per la complessità, per la ricercatezza, specialmente dal punto di vista ritmico tant’è vero che in taluni casi se ne è riposta maggior cura che in passato (come in “Echoes of War”). Di conseguenza gli Irreverence non sono da considerare esattamente come un gruppo tradizionale, da impatto nudo e crudo viste certe piacevoli lungaggini (che però non sempre funzionano, come si vedrà), anche se ciò non significa che non manchi un bella dose di sana violenza (e grazie al....!).
Una novità che però ho mal digerito è il ruolo attuale che ha assunto il basso. Infatti, se prima si concedeva seppur qualche leggera puntatina in un certo senso solista, ora ha un ruolo decisamente più limitato e classico per il metal, è diventato praticamente una terza chitarra che per di più è stata messa purtroppo in secondo piano da una produzione che si avvicina molto a quella ultimamente sentita nel demo dei palermitani blackettoni Beasts of Torah. Una produzione quindi che, ponendo l’accento su frequenze altissime e sul carattere impastato tipico dei concerti rende sì vivo il tutto ma allo stesso tempo affossa in certi momenti le chitarre. Per questo consiglio caldamente di ascoltare l’album con le cuffie.
Dubbi più seri riguardano paradossalmente “Echoes of War”, nella quale si fa viva (avete indovinato?) nient’altro che la voce di Tom Angelripper. Paradossalmente anche perché è IL pezzo particolare dell’album, basato com’è su tempi medi (che strano per il gruppo…) per la maggiore belli eccentrici e complicati. Solo che l’episodio non ha spinta, emotivamente viene soffocato da una struttura che ripete con una certa meccanicità le stesse soluzioni per tutta la durata. Inoltre, nel brano traspare una prolissità che gli ha impedito di sfruttare e quindi di sviluppare in maniera veramente strategica alcune fra le soluzioni più bizzarre dell’opera (per esempio lungo il finale sarebbe stato meglio accorciare il passaggio ritmicamente più fantasioso - che mi ha ricordato per struttura i Detestor di "In the Circle of Time" -, per poi magari proporre qualcosa di consistente dal punto di vista emotivo).
Gli Irreverence infatti, seppur in pochissimi casi, denotano una freddezza che impedisce all’ascoltatore di essere trasportato del tutto. A questo punto non si può non menzionare “Destructive Illusions” che, pur avendo brillanti intuizioni come certe vaghe (beninteso, ho scritto “vaghe”) similitudini con il metalcore su severi tempi medi, ha un finale forse un po’ troppo in sordina, burrascoso e soprattutto per niente enfatizzato. Il quale si sarebbe giovato di una maggiore espressività, da rintracciare ad esempio nella voce, tanto fantasiosa nelle linee vocali quanto un poco statica nelle soluzioni tonali.
Voto: 71
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Not One of Them/ 2 – The Sheperd Dog/ 3 – Hands of Fate/ 4 – The Truth Mask/ 5 – Echoes of War/ 6 – Nothing On My Mind/ 7 – Repentance of God/ 8 – Destructive Illusions/ 9 – Vengeance/ 10 – Instinct of Death
MySpace:
http://www.myspace.com/inthechaos
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Thursday, June 30, 2011
Tuesday, June 28, 2011
A Buried Existence - "The Dying Breed" (2011)
Recensione pubblicata il 24 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Album autoprodotto (2011)
Formazione 2008): Marco Veraldi, voce;
Gianluca Molè, chitarre;
Giuseppe Tatangelo, basso;
Alessandro Vinci, batteria.
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
senz’ombra di dubbio l’ipnotica e spaventosa “Reborn in the Sick”. Non ci sono termini che possano descrivere pienamente la malattia e la particolarità di questo pezzo.
Punto di forza del disco:
la capacità del gruppo di costruire sempre canzoni dal taglio apocalittico attraverso una varietà e fantasia veramente rare.
Degli A Buried Existence potete leggere anche la recensione di “Ferocity” fatta ormai un secolo fa:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2010/02/buried-existence-ferocity-2008.html
Nota:
è stata corretta la parte riguardante la canzone intitolata "Unite" che fino a qualche giorno fa non credevo fosse una cover dei Throwdown (svista dovuta alla versione internettiana del disco in mio possesso). Che errore "irrecuperabile" eh?
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Chi mi conosce veramente sa che io ho una capacità di autocritica notevole e soprattutto sana. Sì perché rileggendo la rece che a suo tempo feci su “Ferocity” c’è qualcosa che proprio non mi convince, a parte il mio vecchio stile sbrodolante e senza spazi. Ovvero:
1) per paragonare gli A Buried Existence presi addirittura i brutallari Zora, che niente hanno della loro violenza cerebrale e psicologica, oltre che essere dal punto di vista strettamente musicale due gruppi ben distinti;
2) al contempo presi i Land of Hate che, benché il cantante sia lo stesso e benché le sonorità metalcore siano fondamentali in entrambe le esperienze, li citai spesso e volentieri come se la sola presenza di Marco Veraldi me lo consentisse, non accorgendomi delle tante differenze (di chitarra solista, dell’utilizzo delle battute, della struttura, dell’abilità di reinterpretarsi ecc… ecc…) che intercorrono fra le due formazioni;
3) non compresi del tutto una caratteristica a dir poco centrale del gruppo, cioè l’atmosfera desolante dei loro pezzi che si esplica anche attraverso la tendenza a proporre finali senza enfasi, praticamente da nulla di fatto, spaventosamente immobili e quindi emotivamente “inconcludenti”. E invece non apprezzai una tale scelta, anche perché i nostri, prima di arrivare alla conclusione, lavorano di fino riuscendo a potenziare il tutto tramite semplicemente l’intervento dei singoli “trascurando” fino ad un certo punto il fattore melodico. In sostanza, è un metodo strutturale abbastanza originale che rende lo schema strofa – ritornello il punto d’arrivo del climax, cosa che riesce ottimamente solo a pochissimi gruppi.
Per comprendere appieno questa metodologia mi sono in aiuto soprattutto le prime 4 canzoni, come ad esempio “Family Ties” (che finisce totalmente all’improvviso, nonostante si potesse sviluppare ancor di più e senza fra l’altro riprendere la strofa e il ritornello che nei primi momenti sembravano così importanti); oppure la seguente “Revenge” il cui “finale” si trastulla in un vertiginoso lento in dissolvenza con ogni speranza decimata e senza la presenza di un vero e proprio colpo di grazia conclusivo. Vabbè certo, non tutti i brani hanno questa suggestiva aura decostruzionista visto che a tal proposito “Reborn in the Sick” ha un andamento più logico ed emozionalmente attivo. Altri episodi invece vengono tutti giocati sulle variazioni di ogni singolo strumento su un canovaccio statico come può essere quello della strumentale (strumentale?) “28 Weeks Later”.
Ma nonostante ci sia una strumentale non vi è nessunissimo assolo di chitarra, al massimo ne viene abbozzato uno in “Combat Shock”, però di fatto i nostri hanno eliminato totalmente il concetto di assolo, ri – registrando quindi le vecchie canzoni secondo l’attuale discorso collettivo. In compenso hanno immesso qui e là nel proprio suono una chitarra solista che dando manforte alla chitarra ritmica riesce con fredde note (che in ogni caso concedono pochissimo alla melodia) a trasportare l’ascoltatore in un mondo spaventoso ed apocalittico, e senza fare chissà che cosa di tecnico. Alle volte mi vengono in mente i blackettoni torinesi Lilyum che utilizzano la solista in maniera simile. Ciò significa che oltre agli assoli hanno tolto di mezzo anche i vari suoni sintetici che seppur raramente si facevano vivi in “Ferocity”, sostituendo genialmente il loro gelo con una chitarra così fredda da sembrare quasi suonata da un robot.
Oddio, a dir la verità quest’attualizzazione dei vecchi pezzi, se da una parte risulta molto coraggiosa perché consente di testare in modo più diretto la maturità compositiva di un gruppo col passare degli anni (ragion per cui considero inutili e controproducenti le ri – registrazioni totalmente o quasi identiche a quelle originali), dall’altra non è sempre azzeccata, anche se in sé potrebbe non avere una piega. Nello specifico sto parlando di “Perverted Church”, che rispetto all’originale non fa esattamente una bella figura dato che è stata semplificata (per esempio la parte disperata e rullata è stata accorciata eliminando un po’ di linee vocali, mentre non vi è traccia dell’assolo originario). Stilisticamente insomma è stata messa al livello degli altri brani però a questo punto si potevano rifinire i momenti conclusivi, magari accentando la paranoia con il lavoro di batteria, tanto per fare un esempio.
Eppure, bisogna dare atto della rara varietà espressiva che si ritrova il gruppo, così da permettere una differenziazione dei vari pezzi a dir poco estrema senza però dimenticare uno stile ben preciso di fare death/thrash metal. E soprattutto dando particolare importanza ai tempi medio – lenti, e ciò significa sforzarsi un po’ di più per creare un’intensità (in 2 – 3 minuti fra l’altro, e così ci riescono veramente in pochi) che nell’immediato riescono a partorire solo quelli più veloci. Nell’ordine:
- in apertura troviamo “Family Ties” (di cui un anno venne fatto un video) che per ironia della sorte è furbescamente quella più veloce e tradizionalmente più death metal tanto da essere finora l’unica canzone degli A Buried Existence ad avere dei possenti blast – beats prima di “cascare” in un duro rallentamento metalcore;
- con “Revenge” entriamo in territori più tipici del gruppo. Trattasi di un episodio dal piglio più rockeggiante e che presenta un lavoro di basso semplice ma eccezionale. Nel “finale” doom da menzionare sia l’ottima e fantasiosa prestazione della batteria che l’eliminazione delle varie urla che caratterizzavano la versione originale;
- “Perverted Church” ha così tante facce da essere quasi la canzone più rappresentativa della succitata varietà espressiva. Infatti, a momenti thrash da headbanging sfrenato con relativo tapping che dire agghiacciante è un eufemismo combina soluzioni dal riffing melodico e “sfuggente”, ai quali viene alternata una paranoia che pare non finire mai a causa di un tempo medio dal sapore apocalittico. Questo sapore è inoltre accentuato dall’assenza della voce negli ultimi 90 secondi, a parte qualche minuscolo ma efficace intervento, così da assomigliare a “Look Around” dei conterranei Glacial Fear;
- La seguente “The Dying Breed” è tra le canzoni più severe, sia perché ha un riffing a volte allucinato e senza sbocchi melodici sia perché ha un lavoro di batteria marziale, abile ad enfatizzarlo e praticamente incapace di eseguire consistenti cambi di tempo se non rifacendosi (o ispirandosi) al metalcore più duro e lento. In sostanza è un pezzo che agisce nel profondo dell’animo (seppur qui manchi veramente qualcosa che faccia sobbalzare i timpani dall’entusiasmo, ed è per questo che poteva servire alla causa anche una modesta dose di chitarra solista) nel quale è principalmente la batteria che detta legge irrobustendosi nel finale (un po’ come succede in “28 Weeks Later”);
- “Reborn in the Sick” è invece come minimo una delle prime 5 più belle canzoni fatte da un gruppo calabarese oltre che l’essere decisamente una delle più particolari dell’album. Ha un andamento sonnolento quasi da trip – hop, con il suo tempo medio – lento reso stavolta più isterico e dai cambi improvvisi. Un pezzo ammaliante oserei dire che lungo la parte centrale diventa completamente pauroso, dai toni blackeggianti enfatizzati dall’uno – due ipnotico della batteria. Ecco come scrivere una canzone ultra – intensa senza sfoderare velocità assassine;
- Le quali si fanno vive strategicamente in “Public Enemies”, dalle parti death dal tupa – tupa furioso. Ma non solo di violenza cieca si parla dato che vi sono anche momenti più rock’n’roll piacevolmente grooveggianti prima di dare spazio ad un riffing praticamente e semplicemente allucinato. “Public Enemies” fra l’altro è uno dei brani più rigidi dal punto di vista strutturale ed esplica quel tipo di finale esemplificato in “The Dying Breed”;
- “Unite”, un titolo, un programma. Non sempre la prevedibilità è un difetto perché mi aspettavo effettivamente un metalcore tinto di thrash ed accompagnato da semplici cori. L’unica cosa inaspettata è la bizzarra introduzione che non solo contiene una chitarra minacciosa ed ipnotica ma anche per la prima volta una voce pulita. Da notare che "Unite" è una cover, precisamente del gruppo metalcore statunitense Throwdown (prima traccia contenuta nel suo secondo album datato 2001 "You Don't Have to be Blood to be Family"), qui rifatta in maniera sostanzialmente quasi identica all'originale, quindi un po' più di personalizzazione non avrebbe sicuramente guastato;
- “New World Desaster” è l’ultimo episodio preso da “Ferocity”, riadattato per l’occasione alle volte in maniera a dire il vero non del tutto convincente. Nello specifico non capisco perché si sono volute cambiare, seppur leggerissimamente, le suggestive linee vocali pulite dell’originale, rese ora più semplici ma povere allo stesso tempo. Nonostante ciò, è forse la canzone più bella e interessante dal punto di vista ritmico (da menzionare le danze sui tom – tom e l’eccentricità esternata durante i momenti più melodici e “liquidi” quasi alla Children Collide), con un basso sugli scudi;
- “Combat Shock”, ultimo fra i brani con l’apporto vocale, si caratterizza per un riffing molto duro e severo tanto da possedere nel proprio DNA stralci da death metal antico da incubo con tupa – tupa incorporati e riffs granitici stoppati i cui vuoti vengono enfatizzati perfettamente dalla sezione ritmica. E qui vengono rilette attraverso arpeggi inquietanti le influenze rockeggianti che fanno capolino nell’opera;
- Infine, “28 Weeks Later”, come già si sa, è la strumentale del disco, che altro non è che la cover del tema principale del film chiamato appunto “28 Settimane Dopo”. Ed è qui che i nostri sfogano tutta la propria componente apocalittica partendo da lugubri tastiere che guidano per tutto il tempo quella melodia maledetta e soffocante con lo scopo di terrorizzare l’ascoltatore scaraventandolo in un’atmosfera disumana e senza possibilità di scampo. La quale viene imbottita fra l’altro da un bellissimo lavoro di batteria atto a regalare una dinamicità molto in sintonia con lo stile del gruppo.
Ultimo appunto da muovere: preferisco di gran lunga la produzione iper – glaciale di “Ferocity” che quella più umana di “The Dying Breed”. E’ anche vero però che quest’”umanità” è stata sollecitata dall’assenza più totale dei campionamenti, anche se certi effetti alienanti innestati sulla voce (“Family Ties”) curiosamente sono presenti (o i miei timpani non ci sentono bene?), in maniera non molto coerente.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Family Ties/ 2 – Revenge/ 3 – Perverted Church/ 4 – The Dying Breed/ 5 – Reborn in the Sick/ 6 – Public Enemies/ 7 – Unite (Throwdown cover)/ 8 – New World Desaster/ 9 – Combat Shock/ 10 – 28 Weeks Later
MySpace
http://www.myspace.com/aburiedexistence
Album autoprodotto (2011)
Formazione 2008): Marco Veraldi, voce;
Gianluca Molè, chitarre;
Giuseppe Tatangelo, basso;
Alessandro Vinci, batteria.
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
senz’ombra di dubbio l’ipnotica e spaventosa “Reborn in the Sick”. Non ci sono termini che possano descrivere pienamente la malattia e la particolarità di questo pezzo.
Punto di forza del disco:
la capacità del gruppo di costruire sempre canzoni dal taglio apocalittico attraverso una varietà e fantasia veramente rare.
Degli A Buried Existence potete leggere anche la recensione di “Ferocity” fatta ormai un secolo fa:
http://timpaniallospiedo.blogspot.com/2010/02/buried-existence-ferocity-2008.html
Nota:
è stata corretta la parte riguardante la canzone intitolata "Unite" che fino a qualche giorno fa non credevo fosse una cover dei Throwdown (svista dovuta alla versione internettiana del disco in mio possesso). Che errore "irrecuperabile" eh?
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Chi mi conosce veramente sa che io ho una capacità di autocritica notevole e soprattutto sana. Sì perché rileggendo la rece che a suo tempo feci su “Ferocity” c’è qualcosa che proprio non mi convince, a parte il mio vecchio stile sbrodolante e senza spazi. Ovvero:
1) per paragonare gli A Buried Existence presi addirittura i brutallari Zora, che niente hanno della loro violenza cerebrale e psicologica, oltre che essere dal punto di vista strettamente musicale due gruppi ben distinti;
2) al contempo presi i Land of Hate che, benché il cantante sia lo stesso e benché le sonorità metalcore siano fondamentali in entrambe le esperienze, li citai spesso e volentieri come se la sola presenza di Marco Veraldi me lo consentisse, non accorgendomi delle tante differenze (di chitarra solista, dell’utilizzo delle battute, della struttura, dell’abilità di reinterpretarsi ecc… ecc…) che intercorrono fra le due formazioni;
3) non compresi del tutto una caratteristica a dir poco centrale del gruppo, cioè l’atmosfera desolante dei loro pezzi che si esplica anche attraverso la tendenza a proporre finali senza enfasi, praticamente da nulla di fatto, spaventosamente immobili e quindi emotivamente “inconcludenti”. E invece non apprezzai una tale scelta, anche perché i nostri, prima di arrivare alla conclusione, lavorano di fino riuscendo a potenziare il tutto tramite semplicemente l’intervento dei singoli “trascurando” fino ad un certo punto il fattore melodico. In sostanza, è un metodo strutturale abbastanza originale che rende lo schema strofa – ritornello il punto d’arrivo del climax, cosa che riesce ottimamente solo a pochissimi gruppi.
Per comprendere appieno questa metodologia mi sono in aiuto soprattutto le prime 4 canzoni, come ad esempio “Family Ties” (che finisce totalmente all’improvviso, nonostante si potesse sviluppare ancor di più e senza fra l’altro riprendere la strofa e il ritornello che nei primi momenti sembravano così importanti); oppure la seguente “Revenge” il cui “finale” si trastulla in un vertiginoso lento in dissolvenza con ogni speranza decimata e senza la presenza di un vero e proprio colpo di grazia conclusivo. Vabbè certo, non tutti i brani hanno questa suggestiva aura decostruzionista visto che a tal proposito “Reborn in the Sick” ha un andamento più logico ed emozionalmente attivo. Altri episodi invece vengono tutti giocati sulle variazioni di ogni singolo strumento su un canovaccio statico come può essere quello della strumentale (strumentale?) “28 Weeks Later”.
Ma nonostante ci sia una strumentale non vi è nessunissimo assolo di chitarra, al massimo ne viene abbozzato uno in “Combat Shock”, però di fatto i nostri hanno eliminato totalmente il concetto di assolo, ri – registrando quindi le vecchie canzoni secondo l’attuale discorso collettivo. In compenso hanno immesso qui e là nel proprio suono una chitarra solista che dando manforte alla chitarra ritmica riesce con fredde note (che in ogni caso concedono pochissimo alla melodia) a trasportare l’ascoltatore in un mondo spaventoso ed apocalittico, e senza fare chissà che cosa di tecnico. Alle volte mi vengono in mente i blackettoni torinesi Lilyum che utilizzano la solista in maniera simile. Ciò significa che oltre agli assoli hanno tolto di mezzo anche i vari suoni sintetici che seppur raramente si facevano vivi in “Ferocity”, sostituendo genialmente il loro gelo con una chitarra così fredda da sembrare quasi suonata da un robot.
Oddio, a dir la verità quest’attualizzazione dei vecchi pezzi, se da una parte risulta molto coraggiosa perché consente di testare in modo più diretto la maturità compositiva di un gruppo col passare degli anni (ragion per cui considero inutili e controproducenti le ri – registrazioni totalmente o quasi identiche a quelle originali), dall’altra non è sempre azzeccata, anche se in sé potrebbe non avere una piega. Nello specifico sto parlando di “Perverted Church”, che rispetto all’originale non fa esattamente una bella figura dato che è stata semplificata (per esempio la parte disperata e rullata è stata accorciata eliminando un po’ di linee vocali, mentre non vi è traccia dell’assolo originario). Stilisticamente insomma è stata messa al livello degli altri brani però a questo punto si potevano rifinire i momenti conclusivi, magari accentando la paranoia con il lavoro di batteria, tanto per fare un esempio.
Eppure, bisogna dare atto della rara varietà espressiva che si ritrova il gruppo, così da permettere una differenziazione dei vari pezzi a dir poco estrema senza però dimenticare uno stile ben preciso di fare death/thrash metal. E soprattutto dando particolare importanza ai tempi medio – lenti, e ciò significa sforzarsi un po’ di più per creare un’intensità (in 2 – 3 minuti fra l’altro, e così ci riescono veramente in pochi) che nell’immediato riescono a partorire solo quelli più veloci. Nell’ordine:
- in apertura troviamo “Family Ties” (di cui un anno venne fatto un video) che per ironia della sorte è furbescamente quella più veloce e tradizionalmente più death metal tanto da essere finora l’unica canzone degli A Buried Existence ad avere dei possenti blast – beats prima di “cascare” in un duro rallentamento metalcore;
- con “Revenge” entriamo in territori più tipici del gruppo. Trattasi di un episodio dal piglio più rockeggiante e che presenta un lavoro di basso semplice ma eccezionale. Nel “finale” doom da menzionare sia l’ottima e fantasiosa prestazione della batteria che l’eliminazione delle varie urla che caratterizzavano la versione originale;
- “Perverted Church” ha così tante facce da essere quasi la canzone più rappresentativa della succitata varietà espressiva. Infatti, a momenti thrash da headbanging sfrenato con relativo tapping che dire agghiacciante è un eufemismo combina soluzioni dal riffing melodico e “sfuggente”, ai quali viene alternata una paranoia che pare non finire mai a causa di un tempo medio dal sapore apocalittico. Questo sapore è inoltre accentuato dall’assenza della voce negli ultimi 90 secondi, a parte qualche minuscolo ma efficace intervento, così da assomigliare a “Look Around” dei conterranei Glacial Fear;
- La seguente “The Dying Breed” è tra le canzoni più severe, sia perché ha un riffing a volte allucinato e senza sbocchi melodici sia perché ha un lavoro di batteria marziale, abile ad enfatizzarlo e praticamente incapace di eseguire consistenti cambi di tempo se non rifacendosi (o ispirandosi) al metalcore più duro e lento. In sostanza è un pezzo che agisce nel profondo dell’animo (seppur qui manchi veramente qualcosa che faccia sobbalzare i timpani dall’entusiasmo, ed è per questo che poteva servire alla causa anche una modesta dose di chitarra solista) nel quale è principalmente la batteria che detta legge irrobustendosi nel finale (un po’ come succede in “28 Weeks Later”);
- “Reborn in the Sick” è invece come minimo una delle prime 5 più belle canzoni fatte da un gruppo calabarese oltre che l’essere decisamente una delle più particolari dell’album. Ha un andamento sonnolento quasi da trip – hop, con il suo tempo medio – lento reso stavolta più isterico e dai cambi improvvisi. Un pezzo ammaliante oserei dire che lungo la parte centrale diventa completamente pauroso, dai toni blackeggianti enfatizzati dall’uno – due ipnotico della batteria. Ecco come scrivere una canzone ultra – intensa senza sfoderare velocità assassine;
- Le quali si fanno vive strategicamente in “Public Enemies”, dalle parti death dal tupa – tupa furioso. Ma non solo di violenza cieca si parla dato che vi sono anche momenti più rock’n’roll piacevolmente grooveggianti prima di dare spazio ad un riffing praticamente e semplicemente allucinato. “Public Enemies” fra l’altro è uno dei brani più rigidi dal punto di vista strutturale ed esplica quel tipo di finale esemplificato in “The Dying Breed”;
- “Unite”, un titolo, un programma. Non sempre la prevedibilità è un difetto perché mi aspettavo effettivamente un metalcore tinto di thrash ed accompagnato da semplici cori. L’unica cosa inaspettata è la bizzarra introduzione che non solo contiene una chitarra minacciosa ed ipnotica ma anche per la prima volta una voce pulita. Da notare che "Unite" è una cover, precisamente del gruppo metalcore statunitense Throwdown (prima traccia contenuta nel suo secondo album datato 2001 "You Don't Have to be Blood to be Family"), qui rifatta in maniera sostanzialmente quasi identica all'originale, quindi un po' più di personalizzazione non avrebbe sicuramente guastato;
- “New World Desaster” è l’ultimo episodio preso da “Ferocity”, riadattato per l’occasione alle volte in maniera a dire il vero non del tutto convincente. Nello specifico non capisco perché si sono volute cambiare, seppur leggerissimamente, le suggestive linee vocali pulite dell’originale, rese ora più semplici ma povere allo stesso tempo. Nonostante ciò, è forse la canzone più bella e interessante dal punto di vista ritmico (da menzionare le danze sui tom – tom e l’eccentricità esternata durante i momenti più melodici e “liquidi” quasi alla Children Collide), con un basso sugli scudi;
- “Combat Shock”, ultimo fra i brani con l’apporto vocale, si caratterizza per un riffing molto duro e severo tanto da possedere nel proprio DNA stralci da death metal antico da incubo con tupa – tupa incorporati e riffs granitici stoppati i cui vuoti vengono enfatizzati perfettamente dalla sezione ritmica. E qui vengono rilette attraverso arpeggi inquietanti le influenze rockeggianti che fanno capolino nell’opera;
- Infine, “28 Weeks Later”, come già si sa, è la strumentale del disco, che altro non è che la cover del tema principale del film chiamato appunto “28 Settimane Dopo”. Ed è qui che i nostri sfogano tutta la propria componente apocalittica partendo da lugubri tastiere che guidano per tutto il tempo quella melodia maledetta e soffocante con lo scopo di terrorizzare l’ascoltatore scaraventandolo in un’atmosfera disumana e senza possibilità di scampo. La quale viene imbottita fra l’altro da un bellissimo lavoro di batteria atto a regalare una dinamicità molto in sintonia con lo stile del gruppo.
Ultimo appunto da muovere: preferisco di gran lunga la produzione iper – glaciale di “Ferocity” che quella più umana di “The Dying Breed”. E’ anche vero però che quest’”umanità” è stata sollecitata dall’assenza più totale dei campionamenti, anche se certi effetti alienanti innestati sulla voce (“Family Ties”) curiosamente sono presenti (o i miei timpani non ci sentono bene?), in maniera non molto coerente.
Voto: 77
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Family Ties/ 2 – Revenge/ 3 – Perverted Church/ 4 – The Dying Breed/ 5 – Reborn in the Sick/ 6 – Public Enemies/ 7 – Unite (Throwdown cover)/ 8 – New World Desaster/ 9 – Combat Shock/ 10 – 28 Weeks Later
MySpace
http://www.myspace.com/aburiedexistence
Glacial Fear - "Frames" (1997)
Recensione pubblicata il 15 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Album (Nocturnal Music, 1997)
Formazione (1992): Andrea “Big Foot” Rizzuto – voce, basso
Gianluca “Leon” Molè – chitarra, programming
Gianluca “Orko” Anastasi – chitarra (?)
Salvatoer “Deathead” Mancuso – batteria, programming
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
“Garden of Sight”: la perfezione assoluta! Qui c’è di tutto, perfino chitarre di zeppeliniana memoria. Ed un finale di fatto infinito, effetto di un testo così pessimistico e senza speranza da far considerare fringuelli i Napalm Death. Per non parlare della costruzione emotiva del pezzo che non sbaglia nemmeno un colpo. Ripeto, la perfezione assoluta.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la devastante e rara varietà e fantasia che il gruppo si ritrova appresso e che non fa mai perdere di vista, attraverso anche paradossali tipi di emozioni, un’atmosfera apocalittica che dopo ogni ascolto ti rimane nelle viscere della tua coscienza per non mollarti più.
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Curiosità:
come tantissimi altri gruppi italiani e non, solitamente underground, quest’album l’ho comprato in offerta, poco meno di un anno fa, nel mio negozio di fiducia sottocasa, Star Music. Un omaggio è giusto quello che ci vuole per un negozio (che però funge anche da libreria) per niente specializzato nella nostra musica che però la promuove in maniera efficace e soprattutto dando una mano alle formazioni nostrane.
Alcune delle quali si trovano proprio nella lista dei ringraziamenti dei Glacial Fear, nel caso specifico i napoletani Funereum (tremendamente promettenti ma dalla vita brevissima fra l’altro senza mai pubblicare un album) e i genovesi Detestor (gruppo geniale come pochi);
la stessa pagina dei ringraziamenti è intrisa della Storia del metal estremo italiano: vi si trovano infatti, oltre ai Detestor, gli immarcescibili catanesi Schizo, i malati pugliesi Funeral Oration, i tecnici lombardo/pugliesi Gory Blister e, dulcis in fundo, il gruppo bolognese che pubblicò nel lontano 1993 il primo vero disco death metal della penisola, cioè gli Electrocution.
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I Glacial Fear sono letteralmente uno dei gruppi storici della nostra penisola, pur non essendo particolarmente conosciuti. A loro va probabilmente ascritto il merito di aver dato il via a quella scia inarrestabile di formazioni politicizzate dall’impronta quasi anarchica (e comunque SEMPRE contro i vari tipi di ingiustizie) come gli Zora, i Land of Hate, gli Acrylate e compagnia, che in parole povere tutte insieme non formano altro che la (piccola) grande ed agguerrita scena calabrese, da sempre ospitata volentieri sulle pagine di Timpani allo Spiedo. Fra l’altro, “Frames” non rappresenta altro che il primissimo album dei Glacial Fear che, se erano molto interessanti già all’epoca, oggigiorno stanno ancora continuando in maniera coraggiosa a portare avanti un cammino evolutivo abile a sorprendere ogni volta l’ascoltatore.
Eppure, mi pare un po’ difficile considerare “Frames” come un album veramente catalogabile come di Metal estremo. Va bene, ci sono urla belle grosse a là Isis (“In the Absolute Deep Blue Sea”) mentre grugniti non esattamente profondissimi dominano la scena alle volte in modi addirittura molto melodici e incredibilmente intonati (“Underworld”). Ma una delle caratteristiche peculiari di (quasi) tutto il metal estremo sono i ritmi indiavolati, che qui non dico che sono assenti però marginali e paradossalmente non – violenti sì (per esempio non c’è nemmeno l’ombra di un misero blast – beat). Si fa infatti spesso uso di tempi medi belli groovy ma presentando al contempo sia una bella tecnica che un’occasionale tendenza a sparare ritmi di una bizzarria talvolta mai sentita (sentitevi a tal proposito l’isteria impressionante e filo – jazzistica di “Zoom” – che nel finale genialmente la mischia con tutta un’altra soluzione facendo esplodere il tutto).
Ma non credete che dal punto di vista vocale ci si fermi soltanto lì. Sì, perché i nostri hanno avuto la brillante accortezza di ospitare nella maggior parte delle canzoni Patrizia “Patty” Schioppa, che con i suoi toni più alti e puliti riesce a donare un’atmosfera quasi minacciosa. Non facendo neanche chissà che cosa dato che ha uno stile di canto statico e piuttosto limitato, eppure diavolo se è efficace! Curiosamente, si fa viva particolarmente nei momenti più psichedelici (nel senso letterale del termine) ed apparentemente delicati, come in “Third Millenium” dove viene introdotta da un urlo “echizzato” in perfetto manuale black metal, oppure nei momenti persino più sereni (“Underworld”). A dir la verità sarebbe stato meglio testarla anche in passaggi diversi da questi così da darle maggior respiro, ergo più capacità d’interpretazione.
Un’altra caratteristica interessante dei Glacial Fear e che li allontana notevolmente dai soliti gruppi qui recensiti è rappresentato dal tipo di riffing. Infatti, sarò blasfemo ma può capitare che i classici riffs granitici del gruppo virino nientepopodimeno che nel più duro nu (o new) metal. A tal proposito, ascoltatevi per bene la rocciosa “Theocratic Stubborn” che spesso richiama la pesantezza tipica del genere. D’altro canto, qui e là affiorano spesso sonorità rockeggianti, perfino nel thrash metal da headbanging di “Frames” (curioso come il pezzo più veloce, e quindi non esattamente rappresentativo della musicalità della formazione, abbia dato il titolo al disco), ma è anche vero che i Glacial Fear sono stati capaci di partorire un disco molto vario e fantasioso riempiendo inoltre il discorso di qualche assolo per nulla banale.
Per far comprendere appieno la natura multiforme di “Frames”, la seconda parte dell’opera è sicuramente quella più congeniale essendo quella decisamente più coraggiosa, e non soltanto per la presenza conclusiva e magnifica del tour de force di ben 9 minuti di “Garden of Sight” (che ad un certo punto contiene raffinati sviluppi arabeggianti con tanto di abbozzate percussioni tribali). Nell’ordine:
- “Third Millenium” si fa rispettare per dei tratti marcatamente black metal unito ad un austero ma spaventoso decadentismo portato avanti da lugubri tastiere;
- “Look Around” è isterica in senso molto rock ed è da menzionare soprattutto per la “scomparsa” della voce negli ultimi 2 minuti e mezzo, così da permettere una lunga fase strumentale che in mancanza avrebbe necessitato di parti più consistenti dal punto di vista emotivo e di almeno un assolo in più. Fra l’altro, Patrizia è qui completamente assente e probabilmente il suo apporto melodico avrebbe regalato più linfa vitale al pezzo che invece non arriva molto lontano;
- “Underworld” è in un certo senso la canzone più commerciale (in senso buono) di tutto il lotto avendo un andamento tremendamente melodico con la voce che non solo fa quasi il verso al cantato punk – oi! ma è incredibilmente più alta del solito. Il carattere sereno e armonioso di quest’episodio è giustificato dal testo praticamente vendicativo contro il potente di turno che in uno scenario apocalittico si trova solo nel mondo e che di conseguenza, non potendo più realizzare i suoi sogni di onnipotenza, dovrà pagare presto i suoi crimini. Da notare inoltre in tale brano, oltre a quella di una chitarra solista perfetta, l’ottima prestazione del basso che nei Glacial Fear non è raro sentirlo intrufolarsi anche lui nel discorso melodico rifiutando così il ruolo di seconda/terza chitarra che gli è di solito attribuito nel metal (si ascolti in tal senso pure “In the Absolute Deep Blue Sea”).
Ma l’atmosfera maledetta e cupa del gruppo non sarebbe niente se non ci fossero degli effetti sfuggenti, minimalisti ed estranianti a coronare il tutto, così apparentemente innocui da scaraventare l’ascoltatore in un qualcosa di freddo e disumano. A volte, come in “Theocratic Stubborn” sfoderano campionamenti più diretti, ossia nel caso specifico delle vere e proprie badilate. Ne viene fuori un quadro nel quale l’elemento elettronico prende spesso piede concedendosi addirittura in “Garden of Sight”, fra i tanti assoli di chitarre, anche un ottimo solismo di sintetizzatore.
In parole povere, una musica che esalta e difende il lato civile del Sud, che si dimostra ancora una volta avanti nel metal.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In the Absolute Deep Blue Sea/ 2 – Numb/ 3 – Frames/ 4 – Zoom/ 5 – Theocratic Stubborn/ 6 – Third Millenium/ 7 – Look Around/ 8 – Underworld/ 9 – Garden of Sight
FaceBook:
http://www.facebook.com/search/?q=glacial+fear&init=quick#/pages/Glacial-Fear/45727677942?v=wall&vie
Album (Nocturnal Music, 1997)
Formazione (1992): Andrea “Big Foot” Rizzuto – voce, basso
Gianluca “Leon” Molè – chitarra, programming
Gianluca “Orko” Anastasi – chitarra (?)
Salvatoer “Deathead” Mancuso – batteria, programming
Provenienza: Catanzaro, Calabria
Canzone migliore dell’album:
“Garden of Sight”: la perfezione assoluta! Qui c’è di tutto, perfino chitarre di zeppeliniana memoria. Ed un finale di fatto infinito, effetto di un testo così pessimistico e senza speranza da far considerare fringuelli i Napalm Death. Per non parlare della costruzione emotiva del pezzo che non sbaglia nemmeno un colpo. Ripeto, la perfezione assoluta.
Punto di forza dell’opera:
sicuramente la devastante e rara varietà e fantasia che il gruppo si ritrova appresso e che non fa mai perdere di vista, attraverso anche paradossali tipi di emozioni, un’atmosfera apocalittica che dopo ogni ascolto ti rimane nelle viscere della tua coscienza per non mollarti più.
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Curiosità:
come tantissimi altri gruppi italiani e non, solitamente underground, quest’album l’ho comprato in offerta, poco meno di un anno fa, nel mio negozio di fiducia sottocasa, Star Music. Un omaggio è giusto quello che ci vuole per un negozio (che però funge anche da libreria) per niente specializzato nella nostra musica che però la promuove in maniera efficace e soprattutto dando una mano alle formazioni nostrane.
Alcune delle quali si trovano proprio nella lista dei ringraziamenti dei Glacial Fear, nel caso specifico i napoletani Funereum (tremendamente promettenti ma dalla vita brevissima fra l’altro senza mai pubblicare un album) e i genovesi Detestor (gruppo geniale come pochi);
la stessa pagina dei ringraziamenti è intrisa della Storia del metal estremo italiano: vi si trovano infatti, oltre ai Detestor, gli immarcescibili catanesi Schizo, i malati pugliesi Funeral Oration, i tecnici lombardo/pugliesi Gory Blister e, dulcis in fundo, il gruppo bolognese che pubblicò nel lontano 1993 il primo vero disco death metal della penisola, cioè gli Electrocution.
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I Glacial Fear sono letteralmente uno dei gruppi storici della nostra penisola, pur non essendo particolarmente conosciuti. A loro va probabilmente ascritto il merito di aver dato il via a quella scia inarrestabile di formazioni politicizzate dall’impronta quasi anarchica (e comunque SEMPRE contro i vari tipi di ingiustizie) come gli Zora, i Land of Hate, gli Acrylate e compagnia, che in parole povere tutte insieme non formano altro che la (piccola) grande ed agguerrita scena calabrese, da sempre ospitata volentieri sulle pagine di Timpani allo Spiedo. Fra l’altro, “Frames” non rappresenta altro che il primissimo album dei Glacial Fear che, se erano molto interessanti già all’epoca, oggigiorno stanno ancora continuando in maniera coraggiosa a portare avanti un cammino evolutivo abile a sorprendere ogni volta l’ascoltatore.
Eppure, mi pare un po’ difficile considerare “Frames” come un album veramente catalogabile come di Metal estremo. Va bene, ci sono urla belle grosse a là Isis (“In the Absolute Deep Blue Sea”) mentre grugniti non esattamente profondissimi dominano la scena alle volte in modi addirittura molto melodici e incredibilmente intonati (“Underworld”). Ma una delle caratteristiche peculiari di (quasi) tutto il metal estremo sono i ritmi indiavolati, che qui non dico che sono assenti però marginali e paradossalmente non – violenti sì (per esempio non c’è nemmeno l’ombra di un misero blast – beat). Si fa infatti spesso uso di tempi medi belli groovy ma presentando al contempo sia una bella tecnica che un’occasionale tendenza a sparare ritmi di una bizzarria talvolta mai sentita (sentitevi a tal proposito l’isteria impressionante e filo – jazzistica di “Zoom” – che nel finale genialmente la mischia con tutta un’altra soluzione facendo esplodere il tutto).
Ma non credete che dal punto di vista vocale ci si fermi soltanto lì. Sì, perché i nostri hanno avuto la brillante accortezza di ospitare nella maggior parte delle canzoni Patrizia “Patty” Schioppa, che con i suoi toni più alti e puliti riesce a donare un’atmosfera quasi minacciosa. Non facendo neanche chissà che cosa dato che ha uno stile di canto statico e piuttosto limitato, eppure diavolo se è efficace! Curiosamente, si fa viva particolarmente nei momenti più psichedelici (nel senso letterale del termine) ed apparentemente delicati, come in “Third Millenium” dove viene introdotta da un urlo “echizzato” in perfetto manuale black metal, oppure nei momenti persino più sereni (“Underworld”). A dir la verità sarebbe stato meglio testarla anche in passaggi diversi da questi così da darle maggior respiro, ergo più capacità d’interpretazione.
Un’altra caratteristica interessante dei Glacial Fear e che li allontana notevolmente dai soliti gruppi qui recensiti è rappresentato dal tipo di riffing. Infatti, sarò blasfemo ma può capitare che i classici riffs granitici del gruppo virino nientepopodimeno che nel più duro nu (o new) metal. A tal proposito, ascoltatevi per bene la rocciosa “Theocratic Stubborn” che spesso richiama la pesantezza tipica del genere. D’altro canto, qui e là affiorano spesso sonorità rockeggianti, perfino nel thrash metal da headbanging di “Frames” (curioso come il pezzo più veloce, e quindi non esattamente rappresentativo della musicalità della formazione, abbia dato il titolo al disco), ma è anche vero che i Glacial Fear sono stati capaci di partorire un disco molto vario e fantasioso riempiendo inoltre il discorso di qualche assolo per nulla banale.
Per far comprendere appieno la natura multiforme di “Frames”, la seconda parte dell’opera è sicuramente quella più congeniale essendo quella decisamente più coraggiosa, e non soltanto per la presenza conclusiva e magnifica del tour de force di ben 9 minuti di “Garden of Sight” (che ad un certo punto contiene raffinati sviluppi arabeggianti con tanto di abbozzate percussioni tribali). Nell’ordine:
- “Third Millenium” si fa rispettare per dei tratti marcatamente black metal unito ad un austero ma spaventoso decadentismo portato avanti da lugubri tastiere;
- “Look Around” è isterica in senso molto rock ed è da menzionare soprattutto per la “scomparsa” della voce negli ultimi 2 minuti e mezzo, così da permettere una lunga fase strumentale che in mancanza avrebbe necessitato di parti più consistenti dal punto di vista emotivo e di almeno un assolo in più. Fra l’altro, Patrizia è qui completamente assente e probabilmente il suo apporto melodico avrebbe regalato più linfa vitale al pezzo che invece non arriva molto lontano;
- “Underworld” è in un certo senso la canzone più commerciale (in senso buono) di tutto il lotto avendo un andamento tremendamente melodico con la voce che non solo fa quasi il verso al cantato punk – oi! ma è incredibilmente più alta del solito. Il carattere sereno e armonioso di quest’episodio è giustificato dal testo praticamente vendicativo contro il potente di turno che in uno scenario apocalittico si trova solo nel mondo e che di conseguenza, non potendo più realizzare i suoi sogni di onnipotenza, dovrà pagare presto i suoi crimini. Da notare inoltre in tale brano, oltre a quella di una chitarra solista perfetta, l’ottima prestazione del basso che nei Glacial Fear non è raro sentirlo intrufolarsi anche lui nel discorso melodico rifiutando così il ruolo di seconda/terza chitarra che gli è di solito attribuito nel metal (si ascolti in tal senso pure “In the Absolute Deep Blue Sea”).
Ma l’atmosfera maledetta e cupa del gruppo non sarebbe niente se non ci fossero degli effetti sfuggenti, minimalisti ed estranianti a coronare il tutto, così apparentemente innocui da scaraventare l’ascoltatore in un qualcosa di freddo e disumano. A volte, come in “Theocratic Stubborn” sfoderano campionamenti più diretti, ossia nel caso specifico delle vere e proprie badilate. Ne viene fuori un quadro nel quale l’elemento elettronico prende spesso piede concedendosi addirittura in “Garden of Sight”, fra i tanti assoli di chitarre, anche un ottimo solismo di sintetizzatore.
In parole povere, una musica che esalta e difende il lato civile del Sud, che si dimostra ancora una volta avanti nel metal.
Voto: 87
Claustrofobia
Scaletta:
1 – In the Absolute Deep Blue Sea/ 2 – Numb/ 3 – Frames/ 4 – Zoom/ 5 – Theocratic Stubborn/ 6 – Third Millenium/ 7 – Look Around/ 8 – Underworld/ 9 – Garden of Sight
FaceBook:
http://www.facebook.com/search/?q=glacial+fear&init=quick#/pages/Glacial-Fear/45727677942?v=wall&vie
Cemento - "Vite" (2011)
Recensione pubblicata l'8 Giugno 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Ep autoprodotto (2011)
Formazione: Sconosciuta (presto la saprete!)
Provenienza: Pordenone, Friuli - Venezia Giulia
Canzone migliore dell’ep:
indubbiamente l’oscura “Ricordi”, follia totale!
Punto di forza del disco:
riflettendoci su, è l’ossessività paranoica ed ipnotizzante delle linee vocali, anche perchè esternate in questo modo dimostrano una buona personalità di fondo.
I Cemento sono il classico gruppo per intenditori. Sì perché il mathcore è (quasi) come il funeral doom: lo ascoltano in pochi, di conseguenza pochi lo suonano. I Cemento sono per Timpani allo Spiedo un evento enorme perché finalmente sono riuscito per la prima volta a far entrare in scuderia una formazione mathcore, una lacuna pressoché imperdonabile. Soprattutto perché questo genere particolarissimo, che muove dal grindcore per partorire qualcosa di nemmeno paragonabile ai generi estremi tradizionalmente conosciuti, è l’essenza stessa su cui è nata questa webzine 2 anni e mezzo fa: l’essenza del puro estremo, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello fisico, sia da quello esecutivo e come ultimo da quello compositivo. Insomma, stavolta siamo dalle parti di quell’ultra – violenza che il black metal spesso si sogna soltanto, un’ultra – violenza di cui come già scritto, l’essere fondamentalmente underground è l’effetto principe pauroso (ed in certi specifici casi giustificatissimo).
Suonare mathcore significa in linee generali le seguenti cose:
1) essere particolarmente tecnici fino a costruire fra le altre un riffing isterico e dissonante tanto che i Cemento concedono pochissimo alla melodia ma quando lo fanno riescono a trasmettere una bella dose di disperazione (“Buio” e “Neve” specialmente). Ciò però non significa che non sanno mai essere giocosi con la propria materia, e per questo vi consiglio di ascoltare la bellissima “Violet Wall/You” nella quale vi è un’esilarante citazione della sigla dei Simpson!
D’altro canto, essere tecnici non equivale necessariamente ad esibirsi in assoli infiniti dato che i nostri non ne propongono nemmeno uno, scegliendo al massimo puntatine di chitarra solista come nelle tentazioni rumoriste di “Buio” o nella sofferta maestosità di “Neve” (che nel finale di chitarre ne conta addirittura ben 3!);
2) creare un discorso ritmico sempre in tensione ed in divenire, ergo bello imprevedibile e complicato. I Cemento però riescono ad offrire un seppur fragile equilibrio fra ritmiche più convenzionali e di più raffinate e bizzarre. In parole povere, qui e là affiorano influenze provenienti dal metalcore più roccioso come tupa – tupa con tanto di doppia cassa in perfetto stile speed metal (“Violet Wall/You”), presentando comunque il discorso sempre ovviamente in maniera dinamica e non disdegnando neanche blast – beats, a volte resi così irregolari da stordire l’ascoltatore (“Buio”), e soprattutto senza dimenticare di enfatizzare l’intero l’insieme;
3) come conseguenza di tutto ciò, viene la libertà talvolta estrema che il mathcore si concede nella fase di costruzione strutturale dei pezzi. In alcuni casi, come nei War From a Harlots Mouth, ogni soluzione sembra praticamente staccata dalle altre anche in uno stesso brano come se si stesse cercando di emulare il continuo e irrazionale flusso della mente. Nei Cemento invece non è presente questa caratteristica, anche perché loro risultano incredibilmente capaci di partorire un discorso piuttosto logico e fluido dal punto di vista emotivo (“Violet Wall/You" è il massimo esempio). Inoltre, pur in un modo abbastanza personale e non scontato, in un pezzo geniale come “Ricordi” sono riusciti a rileggere la classica struttura a strofa – ritornello apportando via via pesanti variazioni di natura statica (ossia vale quella stessa variazione per esempio in tutte e 4 le battute, insomma un po’ come quanto fatto dai melodici deathettoni svedesi Armageddon in “Crossing the Rubicon” del 1997, geniale e raffinato album allo stesso tempo superficiale e tronfio) ad un passaggio che precedentemente figurava più semplice e diretto. D’altro canto, a partire curiosamente da “Strade” per finire in “Neve”, il gruppo ricorre almeno una volta ad una pausa bella lunga come a voler separare l’ep in due parti (la prima ben più continua e senza pietà) vagamente distinte solo da questo fattore. Per carità, la pausa sarà anche d’effetto ma a forza di riproporla sembra un po’ troppo semplicistica per potenziare degnamente tutta la musica, ed inoltre, in rapporto alla lunghezza solitamente breve dei pezzi, forse gli stessi ne risentono per riacquistare ed aumentare la tensione creatasi precedentemente;
4) urlare a più non posso tanto che in questo caso l’urlo appare un po’ sgraziato, insomma lontanissimo dalla ferocia di un Kurt Ballou dei Converge, eppure molto suggestivo e disperato. Infatti ci si avvicina in maniera molto similare a quello di Edoardo degli ormai defunti Deprogrammazione, non privandosi però di qualche variazione al tema con le urla più soffocate e gutturali di “Buio” (che conta pure grugniti intensi ed “umani”) oppure con i veri e propri grugniti lerci di “Violet Wall/You”. La caratteristica più interessante proviene dal fatto che qui si ama ripetere spesso e volentieri uno stesso verso per brano massimo per 4 volte di seguito così da creare un’atmosfera pericolosamente paranoica e di accumulazione di tensione la quale culmina inevitabilmente nel finale. Peccato però che la voce viene probabilmente utilizzata in maniera un po’ monodimensionale perché praticamente 5 pezzi su… 7 (indovinate un po’ qual è la strumentale…) si concludono improvvisamente sempre insieme ad un urlo tagliente congedando il tutto. Va bene per qualche brano ma così facendo il gioco diventa un po’ troppo semplice e a mano a mano poco incisivo.
Un po’ meno semplicistica risulta la caratterizzazione dei vari pezzi. Fra i quali ne spiccano soprattutto 3, ovvero:
- “Ricordi”, sicuramente la più bizzarra e personale, anche dal punto di vista emotivo. Riffs ipnotici e disturbanti, vuoti di chitarra e basso, un’atmosfera maledetta e ritualistica acuita da cori maledettamente “spenti” (gli unici, fra l’altro puliti, del disco), così spiritati da non sembrare appartenenti a questo mondo. E attenzione a non trascurare nemmeno quel favoloso e inquietante giro di basso che finalmente s’infila nel discorso melodico dando manforte a chitarre soffocanti e minimaliste;
- “Violet Wall/You”, di cui finora ho elencato tutte le caratteristiche che lo rendono unico tranne quelle influenze thrasheggianti che si trovano nei primi momenti, riletti in chiave piuttosto personale;
- L’Outro, ossia la strumentale dell’opera, tutta fondata su sentimenti contrastanti e su pause molto d’atmosfera che li dividono e legano allo stesso tempo, giocando tutto sui tempi medio – lenti, caso pressoché unico. Prima la musica è melodica e attendista, dopodiché si fa minacciosa e minimalista, infine esplode in una disperazione quasi maestosa, sviluppata egregiamente con la sovrabbondanza di chitarre soliste e con la batteria che si fa lentamente più astratta ed eccentrica, concludendo il brano in maniera sì logica ma al contempo brusca e soffocata visto che dal punto di vista melodico non vi è esattamente un picco emotivo. Così il tutto assume contorni senza speranza e fatalistici.
Come ultima cosa, c’è da parlare della produzione, secca e pulita, con tutti gli strumenti ben bilanciati fra di loro, e pochissimamente propensa a utilizzare l’effettistica.
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sassi/ 2 – Buio/ 3 – Vite/ 4 – Ricordi/ 5 – Strade/ 6 – Violet Wall - You/ 7 – Neve/ 8 – Outro
MySpace:
www.myspace.com/tombadicemento
Ep autoprodotto (2011)
Formazione: Sconosciuta (presto la saprete!)
Provenienza: Pordenone, Friuli - Venezia Giulia
Canzone migliore dell’ep:
indubbiamente l’oscura “Ricordi”, follia totale!
Punto di forza del disco:
riflettendoci su, è l’ossessività paranoica ed ipnotizzante delle linee vocali, anche perchè esternate in questo modo dimostrano una buona personalità di fondo.
I Cemento sono il classico gruppo per intenditori. Sì perché il mathcore è (quasi) come il funeral doom: lo ascoltano in pochi, di conseguenza pochi lo suonano. I Cemento sono per Timpani allo Spiedo un evento enorme perché finalmente sono riuscito per la prima volta a far entrare in scuderia una formazione mathcore, una lacuna pressoché imperdonabile. Soprattutto perché questo genere particolarissimo, che muove dal grindcore per partorire qualcosa di nemmeno paragonabile ai generi estremi tradizionalmente conosciuti, è l’essenza stessa su cui è nata questa webzine 2 anni e mezzo fa: l’essenza del puro estremo, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello fisico, sia da quello esecutivo e come ultimo da quello compositivo. Insomma, stavolta siamo dalle parti di quell’ultra – violenza che il black metal spesso si sogna soltanto, un’ultra – violenza di cui come già scritto, l’essere fondamentalmente underground è l’effetto principe pauroso (ed in certi specifici casi giustificatissimo).
Suonare mathcore significa in linee generali le seguenti cose:
1) essere particolarmente tecnici fino a costruire fra le altre un riffing isterico e dissonante tanto che i Cemento concedono pochissimo alla melodia ma quando lo fanno riescono a trasmettere una bella dose di disperazione (“Buio” e “Neve” specialmente). Ciò però non significa che non sanno mai essere giocosi con la propria materia, e per questo vi consiglio di ascoltare la bellissima “Violet Wall/You” nella quale vi è un’esilarante citazione della sigla dei Simpson!
D’altro canto, essere tecnici non equivale necessariamente ad esibirsi in assoli infiniti dato che i nostri non ne propongono nemmeno uno, scegliendo al massimo puntatine di chitarra solista come nelle tentazioni rumoriste di “Buio” o nella sofferta maestosità di “Neve” (che nel finale di chitarre ne conta addirittura ben 3!);
2) creare un discorso ritmico sempre in tensione ed in divenire, ergo bello imprevedibile e complicato. I Cemento però riescono ad offrire un seppur fragile equilibrio fra ritmiche più convenzionali e di più raffinate e bizzarre. In parole povere, qui e là affiorano influenze provenienti dal metalcore più roccioso come tupa – tupa con tanto di doppia cassa in perfetto stile speed metal (“Violet Wall/You”), presentando comunque il discorso sempre ovviamente in maniera dinamica e non disdegnando neanche blast – beats, a volte resi così irregolari da stordire l’ascoltatore (“Buio”), e soprattutto senza dimenticare di enfatizzare l’intero l’insieme;
3) come conseguenza di tutto ciò, viene la libertà talvolta estrema che il mathcore si concede nella fase di costruzione strutturale dei pezzi. In alcuni casi, come nei War From a Harlots Mouth, ogni soluzione sembra praticamente staccata dalle altre anche in uno stesso brano come se si stesse cercando di emulare il continuo e irrazionale flusso della mente. Nei Cemento invece non è presente questa caratteristica, anche perché loro risultano incredibilmente capaci di partorire un discorso piuttosto logico e fluido dal punto di vista emotivo (“Violet Wall/You" è il massimo esempio). Inoltre, pur in un modo abbastanza personale e non scontato, in un pezzo geniale come “Ricordi” sono riusciti a rileggere la classica struttura a strofa – ritornello apportando via via pesanti variazioni di natura statica (ossia vale quella stessa variazione per esempio in tutte e 4 le battute, insomma un po’ come quanto fatto dai melodici deathettoni svedesi Armageddon in “Crossing the Rubicon” del 1997, geniale e raffinato album allo stesso tempo superficiale e tronfio) ad un passaggio che precedentemente figurava più semplice e diretto. D’altro canto, a partire curiosamente da “Strade” per finire in “Neve”, il gruppo ricorre almeno una volta ad una pausa bella lunga come a voler separare l’ep in due parti (la prima ben più continua e senza pietà) vagamente distinte solo da questo fattore. Per carità, la pausa sarà anche d’effetto ma a forza di riproporla sembra un po’ troppo semplicistica per potenziare degnamente tutta la musica, ed inoltre, in rapporto alla lunghezza solitamente breve dei pezzi, forse gli stessi ne risentono per riacquistare ed aumentare la tensione creatasi precedentemente;
4) urlare a più non posso tanto che in questo caso l’urlo appare un po’ sgraziato, insomma lontanissimo dalla ferocia di un Kurt Ballou dei Converge, eppure molto suggestivo e disperato. Infatti ci si avvicina in maniera molto similare a quello di Edoardo degli ormai defunti Deprogrammazione, non privandosi però di qualche variazione al tema con le urla più soffocate e gutturali di “Buio” (che conta pure grugniti intensi ed “umani”) oppure con i veri e propri grugniti lerci di “Violet Wall/You”. La caratteristica più interessante proviene dal fatto che qui si ama ripetere spesso e volentieri uno stesso verso per brano massimo per 4 volte di seguito così da creare un’atmosfera pericolosamente paranoica e di accumulazione di tensione la quale culmina inevitabilmente nel finale. Peccato però che la voce viene probabilmente utilizzata in maniera un po’ monodimensionale perché praticamente 5 pezzi su… 7 (indovinate un po’ qual è la strumentale…) si concludono improvvisamente sempre insieme ad un urlo tagliente congedando il tutto. Va bene per qualche brano ma così facendo il gioco diventa un po’ troppo semplice e a mano a mano poco incisivo.
Un po’ meno semplicistica risulta la caratterizzazione dei vari pezzi. Fra i quali ne spiccano soprattutto 3, ovvero:
- “Ricordi”, sicuramente la più bizzarra e personale, anche dal punto di vista emotivo. Riffs ipnotici e disturbanti, vuoti di chitarra e basso, un’atmosfera maledetta e ritualistica acuita da cori maledettamente “spenti” (gli unici, fra l’altro puliti, del disco), così spiritati da non sembrare appartenenti a questo mondo. E attenzione a non trascurare nemmeno quel favoloso e inquietante giro di basso che finalmente s’infila nel discorso melodico dando manforte a chitarre soffocanti e minimaliste;
- “Violet Wall/You”, di cui finora ho elencato tutte le caratteristiche che lo rendono unico tranne quelle influenze thrasheggianti che si trovano nei primi momenti, riletti in chiave piuttosto personale;
- L’Outro, ossia la strumentale dell’opera, tutta fondata su sentimenti contrastanti e su pause molto d’atmosfera che li dividono e legano allo stesso tempo, giocando tutto sui tempi medio – lenti, caso pressoché unico. Prima la musica è melodica e attendista, dopodiché si fa minacciosa e minimalista, infine esplode in una disperazione quasi maestosa, sviluppata egregiamente con la sovrabbondanza di chitarre soliste e con la batteria che si fa lentamente più astratta ed eccentrica, concludendo il brano in maniera sì logica ma al contempo brusca e soffocata visto che dal punto di vista melodico non vi è esattamente un picco emotivo. Così il tutto assume contorni senza speranza e fatalistici.
Come ultima cosa, c’è da parlare della produzione, secca e pulita, con tutti gli strumenti ben bilanciati fra di loro, e pochissimamente propensa a utilizzare l’effettistica.
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sassi/ 2 – Buio/ 3 – Vite/ 4 – Ricordi/ 5 – Strade/ 6 – Violet Wall - You/ 7 – Neve/ 8 – Outro
MySpace:
www.myspace.com/tombadicemento
Beasts of Torah - "Demo 2009" (2009)
Recensione pubblicata il 30 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Demo autoprodotto (15 Maggio 2009)
Formazione (2009): Hyperion, voce e basso (poi sostituito da Alastor);
K. Mega, chitarra;
Valgoroth, batteria.
Provenienza: Palermo, Sicilia
Canzone migliore del demo:
provo una particolare predilezione per “Inhaling the Ixion Winds”, in sostanza perché è l’episodio più violento di tutto il lotto dato che ha una parte conclusiva imbottita di un riffing sì semplice ma veramente impazzito. Inoltre, è degna di menzione anche per l’utilizzo di una specie di urlo più gutturale e soffocato che riesce ad aggiungere più malattia al tutto.
Punto di forza del demo:
probabilmente la capacità del batterista di rendere l’assalto ancora più violento ed intenso attraverso interventi sempre precisi ma semplici e diretti, lontani mille miglia dallo stile tecnico e tempestoso dei batteristi di gruppi ben diversi come i sardi Cold Empire ed i liguri Sacradis.
Curiosità:
Torah in ebraico significa “insegnamento” o “legge”. Ma è anche il termine per indicare i 5 libri della Bibbia ebraica (Tanakh).
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Eccovi la prima reazione che ho avuto sapendo dell’esistenza dei Beasts of Torah su Metal – Archives:
“Ma ‘sti qua so’ fascisti?” (infatti, se si fa attenzione l’estremità inferiore della croce rovesciata del loro logo forma praticamente una croce celtica. Ma se c’è sul serio tale connotazione politica nel gruppo allora secondo me dovrebbe scattare automaticamente l’obbligo di cantare in madrelingua).
Eccovi invece la seconda, determinata da un puro caso perché Valgoroth un giorno ebbe la bella pensata di aggiungermi su Msn avendo letto un mio vecchio annuncio su Internet nel quale dice(vo) di vendere qualcosa:
“Per caso suoni in un gruppo black siciliano?” (o qualcosa del genere).
La terza è nata da una curiosità impellente sperando per un pervertito amore per il paradosso che la cosa fosse vera (e infatti…):
“Cooosa? K. Mega è lo stesso tastierista dei Tuam Nescis? Oddio, sona sia in un gruppo di filo – cristiani che in un altro di occulto – satanisti?” (solo che il caso deliberatamente più eclatante che la storia ricordi è stato Hellhammer dei Mayhem che per un po’ di tempo militò nei cristianissimi Antestor….)
L’ultima invece è stata di meraviglia, di stupore, anche perché mi aspettavo una musica simile notando il minutaggio esiguo dei vari brani:
“VIOLENZA, VIOLENZA, VIOLENZAAAAA!” (certo che detto da uno che non ha mai tirato un pugno – oddio, è un po’ inesatto… - in vita sua fa una certa impressione nevvero?)
D’altro canto, un massacro del genere quasi fa da contrasto con le interessanti liriche occulte che alle volte danno un tocco di virtuosismo citando addirittura nel brano omonimo nient’altro che Melchizedek. Dietro cui si cela, nonostante il nome non molto rassicurante, il ritorno di Gesù Cristo, una reincarnazione legata ad una fantasiosa teoria occulta (di Eklal Kueshana, pseudonimo di Richard Kieninger, nel libro pubblicato nel 1963 "The Ultimate Frontier") che annunciava il risorgere del continente perduto di Lemuria (in parole povere il fratello di Atlantide) più o meno negli inizi di questo secolo (complimenti per la previsione!) dopo una distruzione purificatrice del mondo (come si vede, siano fascisti o meno i Beasts of Torah, miti simili hanno sempre avuto qualcosa a che fare con certe parti della destra, comunque non necessariamente nazifasciste). Ma ad essere più precisi, è anche una figura piuttosto misteriosa che si ritrova in tutte e 3 le religioni cosiddette rivelate, e che può assumere delle caratteristiche ogni volta differenti pure in uno stesso scritto, come nell’Antico Testamento (ora re e sacerdote, adesso addirittura sacerdote eterno e vero e proprio archetipo persino di Gesù Cristo – il quale nella stessa opera viene considerato come “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek”).
Invece, dal punto di vista musicale non vi è assolutamente niente di raffinato. Questo “assolutamente” si palesa in un black metal che spesso si avvicina alla distruzione sonora del black svedese più diretto non mancando quindi di essere talvolta così severo da esternare una maestosa malvagità melodica (si senta in tal senso “Inhaling the Ixion Winds” che possiede fra l‘altro delle linee vocali superlative molto in linea con il riffing). Ciò senza dimenticare né una buona tecnica dal piglio malato e isterico né delle nette influenze thrasheggianti che qui e là fanno capolino e che quasi collidono con la malefica magniloquenza di certe soluzioni pur ovviamente non avendo niente a che spartire con gruppi come i Dawn (che di eleganza e complessità ne capiscono molto). Anzi, i nostri palermitani a volte sanno combinare con notevole maestria le due anime appena citate allontanandosi così allo stesso tempo dal grezzume tipico del black/thrash metal (come nel rifferama nervoso e incredibilmente dinamico di “Melchizedeq”).
Un elemento molto interessante della musicalità dei Beasts of Torah è dato dall’ottima alternanza fra i tempi più veloci (che comunque vengono privilegiati) e quelli meno sostenuti, i quali oltre a sputare spesso e volentieri un groove contagioso riescono a potenziare meravigliosamente tutto l’insieme dimostrandosi di conseguenza molto funzionali. I tempi medi sono tremendamente tonanti e fieri, mentre quelli più lenti e doomeggianti hanno un ruolo sì marginale ma al contempo importante perché si fanno vivi nei primi momenti dei brani (come in “Inhaling the Ixion Winds”) donando un’atmosfera oppressiva e minacciosa agli stessi. Fra l’altro in non poche occasioni il batterista risulta molto abile ad accentare con nonchalance il riffing stesso senza però mai trascurare un’estrema classicità e digeribilità delle varie ritmiche utilizzate, nonostante un lavoro di chitarra che come già scritto non è privo di intuizioni abbastanza personali e non scontate.
Come sono molto classiche le urla di Hyperion, così tipiche da avere un’espressività e una cattiveria colossali, e di conseguenza risulta tremendamente azzeccato anche l’utilizzo, comunque molto frugale e quindi in linea con il genere tanto che alla fine si fanno vivi soltanto nel primissimo brano, di grugniti belli e potenti in modo da rendere più lercia e sporca la violenza esagerata dei 3 ragazzacci (in tal senso è veramente un peccato averli usati in una sola occasione). Eppure, il nostro è stato capace di andare anche al di là di questo tipo di voci cercando di conseguenza di creare atmosfere ancor più mefitiche e non semplicistiche, dato che in un brano come “Pillars of Black Vomit” (caratterizzato fra l’altro da una sovraincisione lontana e abissale di chitarra – o almeno così pare - che fa molto “sotterranei da piramide egiziana”) è stato sovrainciso un urlo quasi lamentoso e decisamente più umano del solito. E questo, come già si è visto, non è nemmeno l’ultimo esperimento del demo…. L’unico rammarico che ho riguarda l’utilizzo purtroppo isolato della lingua italiana in “Melchisedeq”, soprattutto perché l’esperimento è riuscito alla grande risultando fra l’altro bello “cattivone”. Ma poi a cosa serve cantare per qualche secondo in una lingua mentre per il resto in inglese?
Evocativa è invece il termine adatto per descrivere la produzione – pulita ma “vera” allo stesso tempo - , che è quanto di più avvicinabile ad un contesto live soprattutto per via delle frequenze altissime ed assordanti del demo. A volte infatti c’è una tale sovrabbondanza di “rumore” che effettivamente il riffing non riesce a essere quasi minimamente comprensibile così che si debba per forza seguire il basso (ben bilanciato con gli altri strumenti, una scelta più che giusta, ed inoltre notevole la prestazione di Alastor specialmente in un pezzo come “The Truth of Samael” dove nell’introduzione regala al tutto contorni quasi ipnotici) per capire cosa stia suonando ….. (uno dei brani esemplari è il pur ottimo “Semen of Unblessed”, il quale risulta caratterizzato da parti grooveggianti di stampo più death metal), che intanto per tutto l’arco del disco si rifiuta nel senso quasi più categorico di sparare qualsiasi linea di chitarra solista, come a voler rispettare la natura da trio del gruppo. E si sa quanto io non apprezzi particolarmente questo genere di produzioni che tende in maniera pericolosa ad aumentare la potenza complessiva della musica.
Solo che in questo caso bisogna dare atto che i nostri sanno sputare sul serio e non artificialmente un bel pacco di potenza. Anche perché talvolta si affidano a delle ripartenze impressionanti di varia natura, che siano esse guidate dai tom – tom di una batteria impazzita oppure dagli anatemi di un posseduto mostrando così pure una buona fantasia nell’utilizzarle. Certo, il loro è un tipo d’impatto non esattamente controllabile specialmente se si considera che i Beasts of Torah amano concludere i vari pezzi in maniera deliberatamente istintiva, senza nessun preavviso, anche se forse da questo punto di vista si finisce di farli assomigliare un po’ troppo fra di loro. Difatti i brani sono tutti particolarmente brevi per gli standard black metal, ma alcune volte si ha l’impressione che essi non siano stati sufficientemente rifiniti, soprattutto perché la magniloquenza caratteristica che il terzetto si porta appresso mal si sposa con la rapidità estrema e lapidaria delle composizioni, le cui conclusioni rischiano spesso, comunque con molto coraggio e dignità, di essere troppo affrettate. A questo punto sarei curioso di testare il terzetto sulla lunga distanza dato che fra l’altro sono sicurissimo che ce la farebbe senza nessun problema.
Eppure, i Beasts of Torah, con la loro incrollabile fede nell’istinto musicale, nel rifiuto patologico di quasi ogni sorta di abbellimento che a sua volta può produrre maggior trasporto emotivo (come può essere determinato dall’uso della chitarra solista), nella violenza serrata, i Beasts of Torah, dicevo, riescono nell’intento di contagiare l’ascoltatore scaraventandolo in un vortice sonoro quasi monolitico che però sorprende per certe ottime intuizioni. E soprattutto è l’ennesima dimostrazione, dopo i thrashettoni Lamiera e i misteriosi deathettoni Tuam Nescis, delle qualità nelle quali versa l’interessante scena non solo siciliana ma della stessa Palermo.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Pillars of Black Vomit/ 2 – Melchisedeq/ 3 – The Truth of Samael/ 4 – Inhaling the Ixion Winds/ 5 – Semen of Unblessed
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Beasts-of-Torah/172387279444250
Demo autoprodotto (15 Maggio 2009)
Formazione (2009): Hyperion, voce e basso (poi sostituito da Alastor);
K. Mega, chitarra;
Valgoroth, batteria.
Provenienza: Palermo, Sicilia
Canzone migliore del demo:
provo una particolare predilezione per “Inhaling the Ixion Winds”, in sostanza perché è l’episodio più violento di tutto il lotto dato che ha una parte conclusiva imbottita di un riffing sì semplice ma veramente impazzito. Inoltre, è degna di menzione anche per l’utilizzo di una specie di urlo più gutturale e soffocato che riesce ad aggiungere più malattia al tutto.
Punto di forza del demo:
probabilmente la capacità del batterista di rendere l’assalto ancora più violento ed intenso attraverso interventi sempre precisi ma semplici e diretti, lontani mille miglia dallo stile tecnico e tempestoso dei batteristi di gruppi ben diversi come i sardi Cold Empire ed i liguri Sacradis.
Curiosità:
Torah in ebraico significa “insegnamento” o “legge”. Ma è anche il termine per indicare i 5 libri della Bibbia ebraica (Tanakh).
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Eccovi la prima reazione che ho avuto sapendo dell’esistenza dei Beasts of Torah su Metal – Archives:
“Ma ‘sti qua so’ fascisti?” (infatti, se si fa attenzione l’estremità inferiore della croce rovesciata del loro logo forma praticamente una croce celtica. Ma se c’è sul serio tale connotazione politica nel gruppo allora secondo me dovrebbe scattare automaticamente l’obbligo di cantare in madrelingua).
Eccovi invece la seconda, determinata da un puro caso perché Valgoroth un giorno ebbe la bella pensata di aggiungermi su Msn avendo letto un mio vecchio annuncio su Internet nel quale dice(vo) di vendere qualcosa:
“Per caso suoni in un gruppo black siciliano?” (o qualcosa del genere).
La terza è nata da una curiosità impellente sperando per un pervertito amore per il paradosso che la cosa fosse vera (e infatti…):
“Cooosa? K. Mega è lo stesso tastierista dei Tuam Nescis? Oddio, sona sia in un gruppo di filo – cristiani che in un altro di occulto – satanisti?” (solo che il caso deliberatamente più eclatante che la storia ricordi è stato Hellhammer dei Mayhem che per un po’ di tempo militò nei cristianissimi Antestor….)
L’ultima invece è stata di meraviglia, di stupore, anche perché mi aspettavo una musica simile notando il minutaggio esiguo dei vari brani:
“VIOLENZA, VIOLENZA, VIOLENZAAAAA!” (certo che detto da uno che non ha mai tirato un pugno – oddio, è un po’ inesatto… - in vita sua fa una certa impressione nevvero?)
D’altro canto, un massacro del genere quasi fa da contrasto con le interessanti liriche occulte che alle volte danno un tocco di virtuosismo citando addirittura nel brano omonimo nient’altro che Melchizedek. Dietro cui si cela, nonostante il nome non molto rassicurante, il ritorno di Gesù Cristo, una reincarnazione legata ad una fantasiosa teoria occulta (di Eklal Kueshana, pseudonimo di Richard Kieninger, nel libro pubblicato nel 1963 "The Ultimate Frontier") che annunciava il risorgere del continente perduto di Lemuria (in parole povere il fratello di Atlantide) più o meno negli inizi di questo secolo (complimenti per la previsione!) dopo una distruzione purificatrice del mondo (come si vede, siano fascisti o meno i Beasts of Torah, miti simili hanno sempre avuto qualcosa a che fare con certe parti della destra, comunque non necessariamente nazifasciste). Ma ad essere più precisi, è anche una figura piuttosto misteriosa che si ritrova in tutte e 3 le religioni cosiddette rivelate, e che può assumere delle caratteristiche ogni volta differenti pure in uno stesso scritto, come nell’Antico Testamento (ora re e sacerdote, adesso addirittura sacerdote eterno e vero e proprio archetipo persino di Gesù Cristo – il quale nella stessa opera viene considerato come “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek”).
Invece, dal punto di vista musicale non vi è assolutamente niente di raffinato. Questo “assolutamente” si palesa in un black metal che spesso si avvicina alla distruzione sonora del black svedese più diretto non mancando quindi di essere talvolta così severo da esternare una maestosa malvagità melodica (si senta in tal senso “Inhaling the Ixion Winds” che possiede fra l‘altro delle linee vocali superlative molto in linea con il riffing). Ciò senza dimenticare né una buona tecnica dal piglio malato e isterico né delle nette influenze thrasheggianti che qui e là fanno capolino e che quasi collidono con la malefica magniloquenza di certe soluzioni pur ovviamente non avendo niente a che spartire con gruppi come i Dawn (che di eleganza e complessità ne capiscono molto). Anzi, i nostri palermitani a volte sanno combinare con notevole maestria le due anime appena citate allontanandosi così allo stesso tempo dal grezzume tipico del black/thrash metal (come nel rifferama nervoso e incredibilmente dinamico di “Melchizedeq”).
Un elemento molto interessante della musicalità dei Beasts of Torah è dato dall’ottima alternanza fra i tempi più veloci (che comunque vengono privilegiati) e quelli meno sostenuti, i quali oltre a sputare spesso e volentieri un groove contagioso riescono a potenziare meravigliosamente tutto l’insieme dimostrandosi di conseguenza molto funzionali. I tempi medi sono tremendamente tonanti e fieri, mentre quelli più lenti e doomeggianti hanno un ruolo sì marginale ma al contempo importante perché si fanno vivi nei primi momenti dei brani (come in “Inhaling the Ixion Winds”) donando un’atmosfera oppressiva e minacciosa agli stessi. Fra l’altro in non poche occasioni il batterista risulta molto abile ad accentare con nonchalance il riffing stesso senza però mai trascurare un’estrema classicità e digeribilità delle varie ritmiche utilizzate, nonostante un lavoro di chitarra che come già scritto non è privo di intuizioni abbastanza personali e non scontate.
Come sono molto classiche le urla di Hyperion, così tipiche da avere un’espressività e una cattiveria colossali, e di conseguenza risulta tremendamente azzeccato anche l’utilizzo, comunque molto frugale e quindi in linea con il genere tanto che alla fine si fanno vivi soltanto nel primissimo brano, di grugniti belli e potenti in modo da rendere più lercia e sporca la violenza esagerata dei 3 ragazzacci (in tal senso è veramente un peccato averli usati in una sola occasione). Eppure, il nostro è stato capace di andare anche al di là di questo tipo di voci cercando di conseguenza di creare atmosfere ancor più mefitiche e non semplicistiche, dato che in un brano come “Pillars of Black Vomit” (caratterizzato fra l’altro da una sovraincisione lontana e abissale di chitarra – o almeno così pare - che fa molto “sotterranei da piramide egiziana”) è stato sovrainciso un urlo quasi lamentoso e decisamente più umano del solito. E questo, come già si è visto, non è nemmeno l’ultimo esperimento del demo…. L’unico rammarico che ho riguarda l’utilizzo purtroppo isolato della lingua italiana in “Melchisedeq”, soprattutto perché l’esperimento è riuscito alla grande risultando fra l’altro bello “cattivone”. Ma poi a cosa serve cantare per qualche secondo in una lingua mentre per il resto in inglese?
Evocativa è invece il termine adatto per descrivere la produzione – pulita ma “vera” allo stesso tempo - , che è quanto di più avvicinabile ad un contesto live soprattutto per via delle frequenze altissime ed assordanti del demo. A volte infatti c’è una tale sovrabbondanza di “rumore” che effettivamente il riffing non riesce a essere quasi minimamente comprensibile così che si debba per forza seguire il basso (ben bilanciato con gli altri strumenti, una scelta più che giusta, ed inoltre notevole la prestazione di Alastor specialmente in un pezzo come “The Truth of Samael” dove nell’introduzione regala al tutto contorni quasi ipnotici) per capire cosa stia suonando ….. (uno dei brani esemplari è il pur ottimo “Semen of Unblessed”, il quale risulta caratterizzato da parti grooveggianti di stampo più death metal), che intanto per tutto l’arco del disco si rifiuta nel senso quasi più categorico di sparare qualsiasi linea di chitarra solista, come a voler rispettare la natura da trio del gruppo. E si sa quanto io non apprezzi particolarmente questo genere di produzioni che tende in maniera pericolosa ad aumentare la potenza complessiva della musica.
Solo che in questo caso bisogna dare atto che i nostri sanno sputare sul serio e non artificialmente un bel pacco di potenza. Anche perché talvolta si affidano a delle ripartenze impressionanti di varia natura, che siano esse guidate dai tom – tom di una batteria impazzita oppure dagli anatemi di un posseduto mostrando così pure una buona fantasia nell’utilizzarle. Certo, il loro è un tipo d’impatto non esattamente controllabile specialmente se si considera che i Beasts of Torah amano concludere i vari pezzi in maniera deliberatamente istintiva, senza nessun preavviso, anche se forse da questo punto di vista si finisce di farli assomigliare un po’ troppo fra di loro. Difatti i brani sono tutti particolarmente brevi per gli standard black metal, ma alcune volte si ha l’impressione che essi non siano stati sufficientemente rifiniti, soprattutto perché la magniloquenza caratteristica che il terzetto si porta appresso mal si sposa con la rapidità estrema e lapidaria delle composizioni, le cui conclusioni rischiano spesso, comunque con molto coraggio e dignità, di essere troppo affrettate. A questo punto sarei curioso di testare il terzetto sulla lunga distanza dato che fra l’altro sono sicurissimo che ce la farebbe senza nessun problema.
Eppure, i Beasts of Torah, con la loro incrollabile fede nell’istinto musicale, nel rifiuto patologico di quasi ogni sorta di abbellimento che a sua volta può produrre maggior trasporto emotivo (come può essere determinato dall’uso della chitarra solista), nella violenza serrata, i Beasts of Torah, dicevo, riescono nell’intento di contagiare l’ascoltatore scaraventandolo in un vortice sonoro quasi monolitico che però sorprende per certe ottime intuizioni. E soprattutto è l’ennesima dimostrazione, dopo i thrashettoni Lamiera e i misteriosi deathettoni Tuam Nescis, delle qualità nelle quali versa l’interessante scena non solo siciliana ma della stessa Palermo.
Voto: 74
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Pillars of Black Vomit/ 2 – Melchisedeq/ 3 – The Truth of Samael/ 4 – Inhaling the Ixion Winds/ 5 – Semen of Unblessed
FaceBook:
http://www.facebook.com/pages/Beasts-of-Torah/172387279444250
Monday, June 27, 2011
Warcore - "My War" (2010)
Recensione pubblicata il 22 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Demo autoprodotto (2010)
Formazione (2008): Simone Pollini (Pollo), voce;
Edoardo Pirisi (Piro), chitarra solista;
Timothy Logli (Timo), chitarra ritmica;
Alessio Memoli (Memo), basso;
Cesare Innocenti (Cesar), batteria.
Provenienza: Prato, Toscana
Miglior canzone del demo:
senz’ombra di dubbio “Down in Hell”, che in pratica mostra tutte le facce del quintetto innestando nel discorso anche una chitarra acustica.
Punto di forza del demo:
la costruzione di un devastante impatto senza la tipica violenza esagitata del thrash metal, presagio di una buona personalità.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Ragazzi, non so voi ma io ancora riesco a sorprendermi della magia della musica. Più precisamente, della musica fatta con pochissimi mezzi. Della musica sorretta da una produzione sporchissima e poco compatta, se non per niente, e che praticamente non aiuta il gruppo ad apparire incisivo. Giusto, apparire. Secondo me è proprio da questo tipo di produzione che si può toccare con mano quanto possa essere potente un gruppo perché l’unica cosa che veramente importa è la musica, non l’apparenza. Quante formazioni ormai utilizzano una produzione pulita dalle frequenze altissime che se non si regola il volume potrebbero con tutta tranquillità distruggere letteralmente i timpani, magari per nascondere un impatto che a dir la verità è totalmente assente? Forse sono troppe. Di conseguenza molti cosiddetti fans si lamentano perché “tal disco è incomprensibile”, casomai osando criticare pure le chitarre cavernose di grandiosi dischi come “War Cult Supremacy” dei Conqueror senza inquadrarle nel giusto contesto. E non mi si dica di essere un palloso nostalgico (e poi cazzo, ho 22 anni! Perché dovrei farmi prendere dalla nostalgia di un’epoca che non ho vissuto?), eppure sarei decisamente curioso di testare un disco tutto pulito e perfetto attraverso l’immortale fascino della sporcizia. Quest’ultima è proprio una caratteristica che informa ed esalta il demo dei Warcore, che nonostante il nome sono per Timpani allo Spiedo la classica eccezione che conferma la regola.
“Perché?”
Perché non fanno parte per nessuna ragione al mondo del territorio del metal estremo che la nostra cara webzine ormai facebookeniana intende diffondere a destra e a manca. Sì, suonano thrash metal ma per essere estremi non posseggono i seguenti requisiti:
1) la velocità. Sì, sanno essere veloci ma a sprazzi (mai in blast – beats soprattutto!), visto che sembrano preferire di gran lunga tempi medi piacevolmente “ballabili” (leggasi, grooveggianti) magari avvicinandosi in certi rallentamenti al metalcore più roccioso (“My War”);
2) il riffing brutale del thrash metal più violento. Infatti, i Warcore prediligono più che altro vere e proprie melodie (più o meno…) piuttosto semplici e classiche fino ad esternarne addirittura di più raffinate in senso heavy metal (“Down in Hell”). Non a caso gli assoli sono una parte molto importante di tale demo, dato che nella prima canzone se ne trovano ben 3 mentre nella seguente uno in meno, e fra l’altro non sono solo di ottima fattura ma si possono trovare anche in qualsiasi momento mostrando così una buona imprevedibilità;
3) gli “scartavetramenti” del cantato. Nei Warcore non si trova neanche una misera traccia di grugniti, di urla, insomma del campionario vocale del metal estremo e simili. D’altro canto, non aspettatevi falsetti o voci imponenti a dispetto di certe ascendenze heavy metal. Ciò che da queste parti si propone è un particolare cantato grosso volgarmente parlando “tamarro” che si basa molto sull’accentazione fragorosa delle parole, sottoponendo a tale operazione soprattutto le lettere iniziali, con tanto di sonori "uuuh". Ma nonostante la pochezza della produzione di cui ho parlato (a proposito, è stata ottima la scelta di non sovra incidere una terza chitarra nei momenti solisti, una cosa che fa molto live) il nostro si avvale, specialmente in “Down in Hell” dove fra l’altro il suo tipico cantato assume toni più bassi e pacati con tanto di sovraincisioni vocali, di un buon effetto d’eco atmosferico e oserei dire desolante.
Particolarmente curata è stata l’impalcatura strutturale che sorregge i vari pezzi, soprattutto perché gli interventi in solitario che fanno ripartire il discorso (il quale viene costruito con perizia notevole attraverso climax ben studiati contrariamente alla giovanissima età del gruppo) risultano molto efficaci e incisivi riuscendo così a potenziare tutto l’insieme. In tal senso, ascoltatevi “Down in Hell” nel quale il batterista con qualche bel colpo memorabile riesce a non far calare l’attenzione dell’ascoltatore.
Epperò la precedente “My War” (che non è una cover dei Black Flag!) strutturalmente non convince sempre, almeno fino all’accelerazione in tupa – tupa con tanto di assolo. Oddio, in sé funziona ma è il di per sé che risulta forse un po’ forzato, più che altro perché manca un vero e proprio ponte che introduca senza esagerati sbalzi d’umore l’accelerazione con il roccioso tempo lento di poco prima. E qui poteva tornare utile proprio il batterista ma invece non è stato trovato niente per chiudere veramente quel poderoso rallentamento. E’ pur vero però che quest’ultimo è così lungo, semplice e ponderato quasi da giustificare l’esplosione sopraccitata (incredibile come io riesca a soppesare così facilmente i dettagli che non mi convincono!).
Come è altrettanto vero che è ancora troppo presto valutare l’operato di questi ragazzi perché, come sicuramente avrete intuito, la loro primissima testimonianza artistica contiene solo 2 pezzi per circa 8 – 9 minuti di buona musica, ragion per cui già non vedo l’ora di analizzare questo giovane quintetto con un’opera più consistente nonché più difficile da gestire sotto il profilo qualitativo (e ciò mi sembra ovvio!). Per il resto, dovrei subito sfatare un malinteso che forse qualcuno avrà avuto leggendo l’introduzione, ovvero: la produzione è sì bella sporca ma è comprensibilissima, e alla fine da questo punto di vista, come unico rammarico reale si potrebbe rintracciare, oltre che un basso purtroppo praticamente seppellito dagli altri strumenti, il fatto che ogni volta si debba alzare abbondantemente il volume per ascoltare degnamente “Down in Hell”.
Voto: 70
Claustrofobia
Scaletta:
1 – War/ 2 – From Hell
FaceBook:
https://www.facebook.com/pages/Warcore/123686841003379
Demo autoprodotto (2010)
Formazione (2008): Simone Pollini (Pollo), voce;
Edoardo Pirisi (Piro), chitarra solista;
Timothy Logli (Timo), chitarra ritmica;
Alessio Memoli (Memo), basso;
Cesare Innocenti (Cesar), batteria.
Provenienza: Prato, Toscana
Miglior canzone del demo:
senz’ombra di dubbio “Down in Hell”, che in pratica mostra tutte le facce del quintetto innestando nel discorso anche una chitarra acustica.
Punto di forza del demo:
la costruzione di un devastante impatto senza la tipica violenza esagitata del thrash metal, presagio di una buona personalità.
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Ragazzi, non so voi ma io ancora riesco a sorprendermi della magia della musica. Più precisamente, della musica fatta con pochissimi mezzi. Della musica sorretta da una produzione sporchissima e poco compatta, se non per niente, e che praticamente non aiuta il gruppo ad apparire incisivo. Giusto, apparire. Secondo me è proprio da questo tipo di produzione che si può toccare con mano quanto possa essere potente un gruppo perché l’unica cosa che veramente importa è la musica, non l’apparenza. Quante formazioni ormai utilizzano una produzione pulita dalle frequenze altissime che se non si regola il volume potrebbero con tutta tranquillità distruggere letteralmente i timpani, magari per nascondere un impatto che a dir la verità è totalmente assente? Forse sono troppe. Di conseguenza molti cosiddetti fans si lamentano perché “tal disco è incomprensibile”, casomai osando criticare pure le chitarre cavernose di grandiosi dischi come “War Cult Supremacy” dei Conqueror senza inquadrarle nel giusto contesto. E non mi si dica di essere un palloso nostalgico (e poi cazzo, ho 22 anni! Perché dovrei farmi prendere dalla nostalgia di un’epoca che non ho vissuto?), eppure sarei decisamente curioso di testare un disco tutto pulito e perfetto attraverso l’immortale fascino della sporcizia. Quest’ultima è proprio una caratteristica che informa ed esalta il demo dei Warcore, che nonostante il nome sono per Timpani allo Spiedo la classica eccezione che conferma la regola.
“Perché?”
Perché non fanno parte per nessuna ragione al mondo del territorio del metal estremo che la nostra cara webzine ormai facebookeniana intende diffondere a destra e a manca. Sì, suonano thrash metal ma per essere estremi non posseggono i seguenti requisiti:
1) la velocità. Sì, sanno essere veloci ma a sprazzi (mai in blast – beats soprattutto!), visto che sembrano preferire di gran lunga tempi medi piacevolmente “ballabili” (leggasi, grooveggianti) magari avvicinandosi in certi rallentamenti al metalcore più roccioso (“My War”);
2) il riffing brutale del thrash metal più violento. Infatti, i Warcore prediligono più che altro vere e proprie melodie (più o meno…) piuttosto semplici e classiche fino ad esternarne addirittura di più raffinate in senso heavy metal (“Down in Hell”). Non a caso gli assoli sono una parte molto importante di tale demo, dato che nella prima canzone se ne trovano ben 3 mentre nella seguente uno in meno, e fra l’altro non sono solo di ottima fattura ma si possono trovare anche in qualsiasi momento mostrando così una buona imprevedibilità;
3) gli “scartavetramenti” del cantato. Nei Warcore non si trova neanche una misera traccia di grugniti, di urla, insomma del campionario vocale del metal estremo e simili. D’altro canto, non aspettatevi falsetti o voci imponenti a dispetto di certe ascendenze heavy metal. Ciò che da queste parti si propone è un particolare cantato grosso volgarmente parlando “tamarro” che si basa molto sull’accentazione fragorosa delle parole, sottoponendo a tale operazione soprattutto le lettere iniziali, con tanto di sonori "uuuh". Ma nonostante la pochezza della produzione di cui ho parlato (a proposito, è stata ottima la scelta di non sovra incidere una terza chitarra nei momenti solisti, una cosa che fa molto live) il nostro si avvale, specialmente in “Down in Hell” dove fra l’altro il suo tipico cantato assume toni più bassi e pacati con tanto di sovraincisioni vocali, di un buon effetto d’eco atmosferico e oserei dire desolante.
Particolarmente curata è stata l’impalcatura strutturale che sorregge i vari pezzi, soprattutto perché gli interventi in solitario che fanno ripartire il discorso (il quale viene costruito con perizia notevole attraverso climax ben studiati contrariamente alla giovanissima età del gruppo) risultano molto efficaci e incisivi riuscendo così a potenziare tutto l’insieme. In tal senso, ascoltatevi “Down in Hell” nel quale il batterista con qualche bel colpo memorabile riesce a non far calare l’attenzione dell’ascoltatore.
Epperò la precedente “My War” (che non è una cover dei Black Flag!) strutturalmente non convince sempre, almeno fino all’accelerazione in tupa – tupa con tanto di assolo. Oddio, in sé funziona ma è il di per sé che risulta forse un po’ forzato, più che altro perché manca un vero e proprio ponte che introduca senza esagerati sbalzi d’umore l’accelerazione con il roccioso tempo lento di poco prima. E qui poteva tornare utile proprio il batterista ma invece non è stato trovato niente per chiudere veramente quel poderoso rallentamento. E’ pur vero però che quest’ultimo è così lungo, semplice e ponderato quasi da giustificare l’esplosione sopraccitata (incredibile come io riesca a soppesare così facilmente i dettagli che non mi convincono!).
Come è altrettanto vero che è ancora troppo presto valutare l’operato di questi ragazzi perché, come sicuramente avrete intuito, la loro primissima testimonianza artistica contiene solo 2 pezzi per circa 8 – 9 minuti di buona musica, ragion per cui già non vedo l’ora di analizzare questo giovane quintetto con un’opera più consistente nonché più difficile da gestire sotto il profilo qualitativo (e ciò mi sembra ovvio!). Per il resto, dovrei subito sfatare un malinteso che forse qualcuno avrà avuto leggendo l’introduzione, ovvero: la produzione è sì bella sporca ma è comprensibilissima, e alla fine da questo punto di vista, come unico rammarico reale si potrebbe rintracciare, oltre che un basso purtroppo praticamente seppellito dagli altri strumenti, il fatto che ogni volta si debba alzare abbondantemente il volume per ascoltare degnamente “Down in Hell”.
Voto: 70
Claustrofobia
Scaletta:
1 – War/ 2 – From Hell
FaceBook:
https://www.facebook.com/pages/Warcore/123686841003379
Rejekts - "Nessuno" (2010)
Recensione pubblicata il 15 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Demo autoprodotto
Formazione 2007): Black, voce;
Dave, chitarra e voce;
Joe, chitarra;
Pacho, basso;
Pio, batteria
Provenienza: Saronno/Garbagnate, Lombardia
Discografia: “Negative Existence” (Demo, 2007)
“Old School Fun” (Split con i Vomit Hate Noise, 2010)
“Nessuno” (Demo, 2010)
“Humanity Makes Us Mediocre Mediocrity Makes Us Human” (Split -
cassetta con A Murder of Crows, Ebola e La Mort, 2011)
Canzone migliore del demo:
senza possibilità d’appello l’inaspettata “Nessuno”, costruita in maniera magistrale.
Punto di forza del demo:
sicuramente le varie chicche che lo riempiono e che non solo mostrano un’ottima varietà e fantasia non molto facili da beccare in territorio grind ma anche dei margini di miglioramento notevoli.
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Chiamatemi nazionalista (lo sono). Chiamatemi reazionario (non lo sono). Chiamatemi rompiballe (minkia se lo sono!). Chiamatemi come cazzo vi pare (sbaglio od ho appena citato i Milizia HC?). Solo che quando ho a che fare con gruppi che cantano in madrelingua non posso far altro che applaudire tale scelta. Una punta d’orgoglio inizia così a cadere sulla carta perché finalmente viene dimostrata la bellezza e l’intensità di una lingua curiosamente tanto bistrattata dal metal nostrano quanto elevata dalla nostra scena punk – hc, magari adducendo a difesa di questa autarchia la lotta alla globalizzazione. Ma perché bisogna per forza tirare in ballo le Idee e non pensare che in fondo l’italiano è la nostra lingua, quella che ci viene più naturale usare, anche quella – perché no? - dalle origini più vicine alla nostra sensibilità e meridionalità e che richiama il latino ed il greco, due idiomi figli di altrettanti nobili culture? Sarà che storicamente l’italiano non è sentito come l’inglese in quanto è una lingua che ha cominciato ad avere una sua precisa identità relativamente da poco, ossia da quando Manzoni si mise a scrivere e a revisionare fino alla sua morte i “Promessi Sposi”, ragion per cui ci manca quell’unità che invece sembrano avere i popoli anglosassoni? Eppure, c’è qualcosa che non quadra perfettamente: perché ‘sti 5 pazzi non si sono fatti chiamare “Rifiutati” in luogo del corrente “Rejekts”? I misteri della vita.
Questo non è nemmeno l’unico contrasto presente. Infatti, “Nessuno” non è soltanto musica. E’ anche spettacolo in una sua accezione più ampia visto che vi si trovano diversi spezzoni tratti da film come il magnifico e anarcoide “Fight Club” (l’intro dove si sente Brad Pitt con i suoi anatemi da misantropo consumato) o come la parodia delirante di “Tropic Thunder”, una pellicola che per quante volte l’ho guardata ormai me la ricordo a memoria (ascoltatevi “Soliloquio” che vi farà ridere a crepapelle, almeno quando entrerà nel discorso Tom Cruise che in questo film è veramente ma veramente volgare), mentre “Profondo Rosso” (titolo molto fantasioso!) prende di petto la famosa minaccia di morta dell’assassino argentiano rivolta a Marc che intanto se la sta abbondantemente cagando sotto. L’unico problema è che non mi sovviene per nulla la pellicola da cui è stato tratto lo spezzone omicida della canzone omonima (che poi da Black ho saputo che è stato preso, come la citazione dotta che citerò fra pochissimo, da “Elephant” di Gus Van Sant, regista di culto che fra gli altri ha diretto il bellissimo e disturbante “Da Morire” avvalendosi di una malata Nicole Kidman), ma d’altro canto è proprio qui che emerge un’altra caratteristica del disco, ovverosia la pratica di appiccicare, soprattutto come introduzione o conclusione per un determinato episodio, campioni di pezzi non propri, e nel brano sopraccitato viene addirittura scomodato l’immortale Beethoven e la sua storica composizione “Per Elisa”.
I Rejekts non si dimostrano comunque soltanto degli ottimi cinefili ma anche dei musicisti incredibilmente fantasiosi capaci di trovate irresistibili nonostante la materia di base storicamente limitata (ma non limitante). Infatti, i nostri sono sì dei validissimi trafficanti di un grind bello compatto ma sanno dosare sufficientemente il duro impatto di questo genere anche attraverso una differenziazione saggia ed accorta dei vari brani, tutti ben distinguibili fra di loro. Più nel dettaglio:
- “L’Odio Che Hai Dentro” è un grind dalle tinte nerissime e dai tratti talvolta nettamente metallici. Si basa fondamentalmente su una semplice sequenza di soluzioni nella quale si alternano, non trascurando interessanti variazioni ritmiche, velocità al fulmicotone ed abissali e tonanti tempi medio – lenti. Si fa inoltre la conoscenza della voce urlata allo stremo e resa quasi criptica e poco intelligibile da una produzione bella sporca che spesso l’attutisce così tanto da creare un’atmosfera spaventosa, quasi come se si stesse cantando da un’altra dimensione;
- “Soliloquio” possiede invece un riffing ipnotico e riconducibile più alle forme del black e death metal che al grindcore in senso stretto. Ma ovviamente non potevano mancare come ormai tradizione del grind dei grugniti rozzi e puzzolenti che regalano al tutto una dose immane di inquietante cavernosità, e per questo è una cosa curiosa la loro più totale assenza nel brano precedente. Il fatto più sorprendente di questo pezzo non è nient’altro che un lungo assolo di batteria (durata approssimativa: una decina di secondi) che praticamente introduce allo spezzone di “Tropic Thunder”. Non sentivo un assolo del genere da quando i miei timpani vennero accolti dal grezzume dei varesini Inlansis nel demo non – ufficiale “Three Scary Tales” (sto parlando di un disco recensito nel 2° numero di Timpani allo Spiedo…);
- Con “Profondo Rosso” si ritorna ad un grind spacca – ossa e tetro con tanto di lavoro di cassa un pochino più articolato del solito e che alla fine fa partire uno stacco di chitarra dal riffing per niente severo e ineluttabile su cui poi si stagliano inaspettati blast – beats inferociti. A quanto pare, i Rejekts sanno cosa significhi il termine “imprevedibilità”… L’unica cosa che non mi convince del tutto è l’uso forse un po’ troppo sproporzionato dello spezzone preso dal film omonimo perché, oltre alla scena “Marc cagasotto”, la conclusione è affidata alla musica infantile che l’assassino usa per uccidere le sue vittime. Di conseguenza, tutto ciò praticamente seppellisce la durata stessa della musica vera e propria (che è ciò che conta veramente), ma d’altro canto tale sproporzione avviene soltanto in quest’episodio;
- In “Fango” si rivela il lato più epico dei Rejekts che qui si danno da fare con un punk – hc più melodico e da inno vero e proprio paragonabile da vicino a quanto fatto da gruppi come i pugliesi Hazard. Certo, le solite velocità indiavolate ci sono ma stavolta sono i tempi medi a dominare su tutto. Inoltre, tanto per ribadire la natura profondamente metallica del giovane quintetto nordista, dal riffing ad un certo punto sembrano affiorare influenze thrash neanche troppo velate;
- “Laccio Emostatico” è un brano strambissimo (oddio, chiamarlo così è quasi un complimento!) essendo com’è basato su pause d’effetto di chitarra e terremotante caos puro per poi finire il discorso addirittura con insospettabili intrecci di chitarre, nude e crude minacce subliminali che danno la sensazione che il casino blasteggiante subito precedente sia solo apparentemente finito;
- Ora viene la cover degli immarcescibili Cripple Bastards, ossia “1974”. Una cover che risulta piuttosto semplificata dal punto di vista ritmico favorendo però al contempo una maggiore e pesante accentazione del riffing da parte di una batteria perfetta. I Rejekts intrattengono l’ascoltatore con il brano strutturalmente più semplice e immediato (essendo infatti un 1 – 2 – 1 – 2 senza variazioni, e punto e basta) del lotto, nonché uno dei meno “caciaroni” e veloci (sono infatti del tutto assenti i blast – beats) ma non per questo è da ritenere come il meno “cattivo”, anzi. Sentite il riffing per esempio: di una “cazzutaggine” beffarda e groovy dal piglio tremendamente contagioso. L’unico rammarico è che rispetto al pezzo originale la cover dura un minuto in meno, ed in effetto avrei desiderato una rifinitura migliore, fosse anche questa rappresentata da una semplice pausa come quanto offerto dai Cripple Bastards per poi ripartire con l’assalto. Sì perché tale riproposizione sembra avere una conclusione sbrigativa nonostante la struttura già scheletrica del brano originale. Ma in fin dei conti essa riesce a tenere bene sulle spine l’ascoltatore che così facendo è costretto ad aspettare un qualcosa di molto più incisivo con il gran finale del demo, ergo i nostri forse non hanno avuto tutti i torti nel rendere monco e non particolarmente potente un episodio memorabile del gruppo genovese;
- Gran finale che è giustamente rappresentato dalla canzone autointitolata. E’ proprio qui che i nostri mostrano con assoluta perizia un’ottima capacità nel costruire in rapidità un climax emotivo a dir poco superlativo. Prima, blast – beats a oltranza con un riffing quasi urlante, poi il ritmo rallenta con la batteria che dà prova di un discorso più vario e ragionato che riesce a rafforzare notevolmente le chitarre che ora si sono fatte epiche. E da una di esse, adesso che il tempo è diventato medio – lento, viene partorito addirittura un assolo propriamente detto. Un’altra volta il termine “imprevedibilità” è stato onorato… alla massima potenza!
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – L’Odio Che Hai Dentro/ 3 – Soliloquio/ 4 – Profondo Rosso/ 5 – Fango/ 6 – Laccio Emostatico/ 7 – 1974/ 8 – Nessuno
MySpace:
http://www.myspace.com/rejektshc
Face Book (che è meglio):
https://www.facebook.com/pages/Rejekts/178618772182368
Demo autoprodotto
Formazione 2007): Black, voce;
Dave, chitarra e voce;
Joe, chitarra;
Pacho, basso;
Pio, batteria
Provenienza: Saronno/Garbagnate, Lombardia
Discografia: “Negative Existence” (Demo, 2007)
“Old School Fun” (Split con i Vomit Hate Noise, 2010)
“Nessuno” (Demo, 2010)
“Humanity Makes Us Mediocre Mediocrity Makes Us Human” (Split -
cassetta con A Murder of Crows, Ebola e La Mort, 2011)
Canzone migliore del demo:
senza possibilità d’appello l’inaspettata “Nessuno”, costruita in maniera magistrale.
Punto di forza del demo:
sicuramente le varie chicche che lo riempiono e che non solo mostrano un’ottima varietà e fantasia non molto facili da beccare in territorio grind ma anche dei margini di miglioramento notevoli.
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Chiamatemi nazionalista (lo sono). Chiamatemi reazionario (non lo sono). Chiamatemi rompiballe (minkia se lo sono!). Chiamatemi come cazzo vi pare (sbaglio od ho appena citato i Milizia HC?). Solo che quando ho a che fare con gruppi che cantano in madrelingua non posso far altro che applaudire tale scelta. Una punta d’orgoglio inizia così a cadere sulla carta perché finalmente viene dimostrata la bellezza e l’intensità di una lingua curiosamente tanto bistrattata dal metal nostrano quanto elevata dalla nostra scena punk – hc, magari adducendo a difesa di questa autarchia la lotta alla globalizzazione. Ma perché bisogna per forza tirare in ballo le Idee e non pensare che in fondo l’italiano è la nostra lingua, quella che ci viene più naturale usare, anche quella – perché no? - dalle origini più vicine alla nostra sensibilità e meridionalità e che richiama il latino ed il greco, due idiomi figli di altrettanti nobili culture? Sarà che storicamente l’italiano non è sentito come l’inglese in quanto è una lingua che ha cominciato ad avere una sua precisa identità relativamente da poco, ossia da quando Manzoni si mise a scrivere e a revisionare fino alla sua morte i “Promessi Sposi”, ragion per cui ci manca quell’unità che invece sembrano avere i popoli anglosassoni? Eppure, c’è qualcosa che non quadra perfettamente: perché ‘sti 5 pazzi non si sono fatti chiamare “Rifiutati” in luogo del corrente “Rejekts”? I misteri della vita.
Questo non è nemmeno l’unico contrasto presente. Infatti, “Nessuno” non è soltanto musica. E’ anche spettacolo in una sua accezione più ampia visto che vi si trovano diversi spezzoni tratti da film come il magnifico e anarcoide “Fight Club” (l’intro dove si sente Brad Pitt con i suoi anatemi da misantropo consumato) o come la parodia delirante di “Tropic Thunder”, una pellicola che per quante volte l’ho guardata ormai me la ricordo a memoria (ascoltatevi “Soliloquio” che vi farà ridere a crepapelle, almeno quando entrerà nel discorso Tom Cruise che in questo film è veramente ma veramente volgare), mentre “Profondo Rosso” (titolo molto fantasioso!) prende di petto la famosa minaccia di morta dell’assassino argentiano rivolta a Marc che intanto se la sta abbondantemente cagando sotto. L’unico problema è che non mi sovviene per nulla la pellicola da cui è stato tratto lo spezzone omicida della canzone omonima (che poi da Black ho saputo che è stato preso, come la citazione dotta che citerò fra pochissimo, da “Elephant” di Gus Van Sant, regista di culto che fra gli altri ha diretto il bellissimo e disturbante “Da Morire” avvalendosi di una malata Nicole Kidman), ma d’altro canto è proprio qui che emerge un’altra caratteristica del disco, ovverosia la pratica di appiccicare, soprattutto come introduzione o conclusione per un determinato episodio, campioni di pezzi non propri, e nel brano sopraccitato viene addirittura scomodato l’immortale Beethoven e la sua storica composizione “Per Elisa”.
I Rejekts non si dimostrano comunque soltanto degli ottimi cinefili ma anche dei musicisti incredibilmente fantasiosi capaci di trovate irresistibili nonostante la materia di base storicamente limitata (ma non limitante). Infatti, i nostri sono sì dei validissimi trafficanti di un grind bello compatto ma sanno dosare sufficientemente il duro impatto di questo genere anche attraverso una differenziazione saggia ed accorta dei vari brani, tutti ben distinguibili fra di loro. Più nel dettaglio:
- “L’Odio Che Hai Dentro” è un grind dalle tinte nerissime e dai tratti talvolta nettamente metallici. Si basa fondamentalmente su una semplice sequenza di soluzioni nella quale si alternano, non trascurando interessanti variazioni ritmiche, velocità al fulmicotone ed abissali e tonanti tempi medio – lenti. Si fa inoltre la conoscenza della voce urlata allo stremo e resa quasi criptica e poco intelligibile da una produzione bella sporca che spesso l’attutisce così tanto da creare un’atmosfera spaventosa, quasi come se si stesse cantando da un’altra dimensione;
- “Soliloquio” possiede invece un riffing ipnotico e riconducibile più alle forme del black e death metal che al grindcore in senso stretto. Ma ovviamente non potevano mancare come ormai tradizione del grind dei grugniti rozzi e puzzolenti che regalano al tutto una dose immane di inquietante cavernosità, e per questo è una cosa curiosa la loro più totale assenza nel brano precedente. Il fatto più sorprendente di questo pezzo non è nient’altro che un lungo assolo di batteria (durata approssimativa: una decina di secondi) che praticamente introduce allo spezzone di “Tropic Thunder”. Non sentivo un assolo del genere da quando i miei timpani vennero accolti dal grezzume dei varesini Inlansis nel demo non – ufficiale “Three Scary Tales” (sto parlando di un disco recensito nel 2° numero di Timpani allo Spiedo…);
- Con “Profondo Rosso” si ritorna ad un grind spacca – ossa e tetro con tanto di lavoro di cassa un pochino più articolato del solito e che alla fine fa partire uno stacco di chitarra dal riffing per niente severo e ineluttabile su cui poi si stagliano inaspettati blast – beats inferociti. A quanto pare, i Rejekts sanno cosa significhi il termine “imprevedibilità”… L’unica cosa che non mi convince del tutto è l’uso forse un po’ troppo sproporzionato dello spezzone preso dal film omonimo perché, oltre alla scena “Marc cagasotto”, la conclusione è affidata alla musica infantile che l’assassino usa per uccidere le sue vittime. Di conseguenza, tutto ciò praticamente seppellisce la durata stessa della musica vera e propria (che è ciò che conta veramente), ma d’altro canto tale sproporzione avviene soltanto in quest’episodio;
- In “Fango” si rivela il lato più epico dei Rejekts che qui si danno da fare con un punk – hc più melodico e da inno vero e proprio paragonabile da vicino a quanto fatto da gruppi come i pugliesi Hazard. Certo, le solite velocità indiavolate ci sono ma stavolta sono i tempi medi a dominare su tutto. Inoltre, tanto per ribadire la natura profondamente metallica del giovane quintetto nordista, dal riffing ad un certo punto sembrano affiorare influenze thrash neanche troppo velate;
- “Laccio Emostatico” è un brano strambissimo (oddio, chiamarlo così è quasi un complimento!) essendo com’è basato su pause d’effetto di chitarra e terremotante caos puro per poi finire il discorso addirittura con insospettabili intrecci di chitarre, nude e crude minacce subliminali che danno la sensazione che il casino blasteggiante subito precedente sia solo apparentemente finito;
- Ora viene la cover degli immarcescibili Cripple Bastards, ossia “1974”. Una cover che risulta piuttosto semplificata dal punto di vista ritmico favorendo però al contempo una maggiore e pesante accentazione del riffing da parte di una batteria perfetta. I Rejekts intrattengono l’ascoltatore con il brano strutturalmente più semplice e immediato (essendo infatti un 1 – 2 – 1 – 2 senza variazioni, e punto e basta) del lotto, nonché uno dei meno “caciaroni” e veloci (sono infatti del tutto assenti i blast – beats) ma non per questo è da ritenere come il meno “cattivo”, anzi. Sentite il riffing per esempio: di una “cazzutaggine” beffarda e groovy dal piglio tremendamente contagioso. L’unico rammarico è che rispetto al pezzo originale la cover dura un minuto in meno, ed in effetto avrei desiderato una rifinitura migliore, fosse anche questa rappresentata da una semplice pausa come quanto offerto dai Cripple Bastards per poi ripartire con l’assalto. Sì perché tale riproposizione sembra avere una conclusione sbrigativa nonostante la struttura già scheletrica del brano originale. Ma in fin dei conti essa riesce a tenere bene sulle spine l’ascoltatore che così facendo è costretto ad aspettare un qualcosa di molto più incisivo con il gran finale del demo, ergo i nostri forse non hanno avuto tutti i torti nel rendere monco e non particolarmente potente un episodio memorabile del gruppo genovese;
- Gran finale che è giustamente rappresentato dalla canzone autointitolata. E’ proprio qui che i nostri mostrano con assoluta perizia un’ottima capacità nel costruire in rapidità un climax emotivo a dir poco superlativo. Prima, blast – beats a oltranza con un riffing quasi urlante, poi il ritmo rallenta con la batteria che dà prova di un discorso più vario e ragionato che riesce a rafforzare notevolmente le chitarre che ora si sono fatte epiche. E da una di esse, adesso che il tempo è diventato medio – lento, viene partorito addirittura un assolo propriamente detto. Un’altra volta il termine “imprevedibilità” è stato onorato… alla massima potenza!
Voto: 78
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – L’Odio Che Hai Dentro/ 3 – Soliloquio/ 4 – Profondo Rosso/ 5 – Fango/ 6 – Laccio Emostatico/ 7 – 1974/ 8 – Nessuno
MySpace:
http://www.myspace.com/rejektshc
Face Book (che è meglio):
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Saturday, June 25, 2011
Male Misandria - "E.DIN" (2011)
Recensione pubblicata l'11 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Album autoprodotto (20 Febbraio 2011)
Formazione (2006): Von Pontr, voce e chitarra;
Puja, basso;
Magris, batteria
Provenienza: Pordenone, Friuli – Venezia Giulia
Canzone migliore dell’album:
senz’appello l’incubo de “L’Amore Perso”, che dopo un po’ diventa pura paranoia anche grazie a Von Pontr che urla quasi all’infinito lo stesso titolo del brano.
Punto di forza dell’album:
l’abilità dei Male Misandria di aver saputo estremizzare l’assalto attraverso accorti miglioramenti e talvolta imprevedibili novità così da creare un vero e proprio inferno sonoro.
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Curiosità 1:
quando mi è arrivata qualche mese fa per posta una copia dell’album, vecchi ricordi si sono scatenati nella mia testa. La copertina infatti non è altro che il “Paradiso Perduto” di quel pazzo pittore olandese del ‘500 Hieronymus Bosch, il cui “Inferno Musicale” (presente ai lati del booklet proprio come il “Giardino dell’Eden) all’età di 12 anni mi fece una tale impressione da averne per un po’ di tempo una paura glaciale. Ma quello che più mi ha sorpreso è stata la fedeltà nel riproporre il “Trittico del Giardino delle Delizie”, che si compone dei 3 dipinti sopra accennati, sul booklet stesso il quale infatti si apre a mo’ di finestra proprio come la monumentale opera sopraccitata. Però, invece che la Terra spoglia vi si trovano i seguenti versi, curiosamente in inglese (e spero che la mia traduzione sia il più possibile corretta):
“Quando siamo nati noi abbiamo cominciato a crescere
Quando siamo morti abbiamo cominciato a capire
Quando siamo rinati abbiamo cominciato a vivere”
Curiosità 2:
L'album sembra prendere il nome da un libro pubblicato nel 2002 da un certo Elliott Rudisill, "E.DIN, Land of Righteousness", di cui a quanto pare non esiste un edizione tradotta nella nostra lingua. Ma il significato dello strano termine "E.DIN" mi è ancora sconosciuto.
Nota:
faccio presente che i Male Misandria dopo tanto tempo hanno trovato un’etichetta discografica disponibile a supportarli il più possibile: stiamo parlando della canadese Suffering Jesus Productions, che fra l’altro ha nella propria scuderia altri gruppi italiani, ovvero gli heavy metalloni The Pistons e i blackettoni Sidus Tenebrarum.
I Male Misandria li avevamo lasciati con “Volizione”, un disco estremo e intollerante come solo pochi gruppi riescono a partorire. E soprattutto un esempio di come si possa dire qualcosa di nuovo senza fare un confusionario melting pot di stili tra i più differenti ma cercando “semplicemente” di sputare fuori ciò che noi metallari estremi amiamo di più: la violenza sonora, il puro attacco frontale. Solo che questi 3 ragazzi osano esternare tale comune obiettivo in una maniera completamente folle, avendo persino il coraggio di combinare in modo perfetto l’irruenza selvaggia del grind con la tetra solennità del black metal. Una combinazione che sta riscuotendo ultimamente un successo inaspettato in terra italica, vedasi il solo – progetto purtroppo sciolto Orifice (questo in una modo molto a sé stante e tutto particolare), Deprogrammazione (poi riunitisi negli O), Noia ecc… ecc…. E’ anche vero che con molti di questi gruppi, tutti ben decisamente distinguibili fra di loro, si sta procedendo ad un’operazione volta a “riscoprire” il fascino della madrelingua, residuo proveniente dalla cultura punk – hardcore che alcuni di essi si portano fieramente addosso. Come è un residuo della stessa cultura il carattere serio e intelligente di molti testi scritti dalla succitata gentaglia (ovviamente non sto parlando di tutti), criptico nella migliore delle ipotesi, ma spesso lontano da qualsiasi tipo di ideologia fatta e finita.
I Male Misandria rappresentano con molta probabilità il lato più violento di questa giovane corrente nostrana. Ma forse anche il lato più tecnicamente valido, questo considerato pure in rapporto alle velocità assassine a cui solitamente i nostri vanno (per esempio ascoltatevi il riffing thrasheggiante e isterico di “So I’m Cook”) e nella loro capacità di cambiare tempo senza nessunissimo problema (infatti, questi ragazzi non hanno perso l’accortezza di dosare in maniera perfetta e saggia il nudo e crudo impatto con strategici tempi meno sostenuti che qui e là fanno capolino) e soprattutto in maniera fluida e con poche pause. E, se non possono essere classificati come i più completi, sicuramente da questo punto di vista hanno fatto passi da gigante, anche affinando le parti più vicine al death metal (come in “Somni Specus” – che contiene un’introduzione lenta e a dir poco minacciosa su cui si staglia una voce parlata stranamente in inglese – o “Nella Culla della Speranza”) se non richiamando addirittura il brutal da stadio terminale come in “Certezze”. Influenze che si posano magnificamente con le sonorità di base del gruppo (che in ogni caso dominano) e che si dimostrano utili a renderlo più indomabile possibile.
D’altro canto bisogna dire che con quest’album non si è voluto soltanto rendere più dura e violenta la formula precedente ma sono state introdotte parecchie novità, alcune delle quali potrebbero essere delle ottime basi di partenza su cui costruire le future produzioni:
1) prima di tutto, ci sono incredibilmente non una ma ben due canzoni che poggiano per la maggiore su ritmi meno indiavolati del solito, ossia la già citata “Somni Specus” (che fra l’altro è collegata direttamente con la successiva “Convinzioni” visto che la voce parlata è presente anche in quest’ultima) e la contraddittoria e crassiana “In Stagione di Guerra”, indubbiamente l’episodio più curioso del lotto che guardacaso funge da coda dell’album;
2) in “Homo Homini Homo” si sperimentano invece nell’introduzione delle tastiere “angeliche” che non soltanto collidono stupendamente con l’assalto subito successivo ma anche con i campioni di lupi che abbaiano in maniera veramente poco simpatica;
3) ha assunto finalmente un ruolo melodico pure il basso, seppur solo in “Coscienza”, dove per un po’ si stacca dal ruolo di seconda chitarra caratteristico del metal costruendo in tal modo un’ottima linea nei primi momenti del brano, che fra l’altro è uno dei più lunghi (dura poco più di 3 minuti);
4) questa è una novità in parte visto che rientra perfettamente nei canoni black ma è da menzionare il fatto che si è notevolmente allargato lo spettro d’azione del riffing riguardante tale genere. Infatti, nei Male Misandria mancavano le melodie più disperate e gelide, lacuna che è stata riempita in pezzi come “Alba”, la pazzesca “Daltonico” e soprattutto “Amore Perso”, le cui melodie alla fine diventano spaventosamente cupe e frastornanti nella loro terrificante dissonanza;
5) anche questa è una novità in parte visto che fino a “Volizione” le liriche sono state divise fra l’italiano e l’inglese. Ma finalmente l’italiano è diventata la lingua base dei Male Misandria, anche se qualche titolo potrebbe trarre in inganno.
La finale “In Stagione di Guerra” merita una trattazione a sé essendo non solo come già scritto la più coraggiosa del lotto ma purtroppo anche quella in un certo senso meno convincente, più che altro per due trovate un po’ incomprensibili per le mie orecchie (un effetto voluto? Ho paura di sì!).
“In Stagione di Guerra” non è soltanto il secondo e ultimo brano nel quale le velocità assassine prevalgono per pochissimo. Sì, perché in esso vi si trova per la prima ed unica volta una voce femminile recitativa molto in sintonia con il tema dell’amore che finalmente viene trattato con assoluta nonchalance. Di conseguenza i toni si fanno delicati e compassionevoli. Solo che l’episodio possiede due finali comunque non troppo dissimili né dal punto di vista emotivo né da quello musicale (beh, più o meno). Due finali? Forse è ora di spiegarsi meglio: il primo avviene in corrispondenza dei primi 3 minuti. In seguito il tempo passa a dismisura manco si stesse emulando John Cage. In parole povere si ascolta solo il crudo silenzio (oddio, se non abitassi in una zona importante di Roma forse me lo gusterei meglio ‘sto silenzio…). Per 6 – 7 minuti. Dopodichè, ariecco la musica che distrugge debitamente i timpani (grazie al….?) nonostante si tratti di un punk poppeggiato e strumentale tutto sorretto dalle semplici variazioni della batteria tutta concentrata sui tempi medi. Passato circa un minuto, è finito tutto.
Ora vorrei sapere dai diretti interessati l’utilità di fatto senza sbocchi e senza un reale sviluppo emotivo del secondo finale, e quindi qual è il senso del silenzio? Inoltre, sarà pura speculazione ma il canto del cigno dell’album ribadisce gli stessi concetti del primo finale aggiungendo poco o niente. Ossia si rallenta gradualmente il ritmo (anche se nel secondo ciò è quasi impercettibile dato che è tutto merito della sola batteria) e in entrambi i casi non c’è un vero e proprio climax emotivo, almeno non in senso classico visto che si gioca tutto al contrario. Sottolineo ad ogni modo (giustamente per non essere frainteso) che la prima conclusione funziona a meraviglia, eliminando lentamente l’aggressività e la violenza per poi proporre poco dopo il tipico finale impazzito caro a metal e al rock in generale.
Se si deve però ritornare ai netti miglioramenti, allora non posso che applaudire il lavoro vocale di Von Pontr (a.k.a. Darius a.k.a. MM oppure come cazzo volete), il cui massimo esempio di pazzia imbottita anche da urla stridulissime si può rintracciare in “Daltonico” dove si ha quasi la sensazione che lui stia per abbandonare questo mondo senza speranza. Il nostro stavolta ha fatto un buon uso frequente delle sovraincisioni (comprese quelle tra urla e grugniti belli rozzi) nonché dell’effettistica, visto e considerato che per esempio non sono pochi i momenti in cui lo si sente sbraitare ora da un’uscita adesso dall’altra dello stereo (o delle cuffie, s’intende).
La produzione guardacaso è molto diversa da quella di “Volizione”. E’ decisamente più pulita, i vari strumenti sono stati ben equilibrati fra di loro (ascoltare il basso è sempre un gran piacere!), e le frequenze sono costantemente e spaventosamente alte. Oddio, non è che quest’ultima caratteristica mi piaccia particolarmente in quanto così facendo si alza la potenza della propria musica in maniera quasi artificiale. D’altro canto, risulta molto adatta ad esemplificare la carica profondamente nichilista e provocatoria del terzetto. Che ha già dimostrato di essere potente ed incisivo con la produzione sporca di “Volizione”….
Voto: 90*
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sangue del Mio Sangue/ 2 – So I’m Cook/ 3 – Amorfe/ 4 – Earth Reset/ 5 – Somni Specus/ 6 – Convinzioni/ 7 – Non Siete/ 8 – Homo Homini Homo/ 9 – Scriba/ 10 – Alba/ 11 – Vomitsoapbubbles/ 12 – Nella Culla della Speranza/ 13 – Come Creta/ 14 – Cometa/ 15 – Certezze/ 16 – Daltonico/ 17 – Money Turns Into Paper/ 18 – L’Amore Perso/ 19 – Coscienza/ 20 – Coerenza/ 21 – Idolima/ 22 – Noi/ 23 – Incendio/ 24 – Jizo/ 25 – In Stagione di Guerra
MySpace:
http://www.myspace.com/malemisandria
*Il voto è stato una decisione piuttosto difficile. Perché, se confrontato con il 95 al tempo dato a “Volizione”, il presente album dovrebbe essere considerato un seppur minuscolo passo indietro, nonostante nella recensione si parli di una sfilza infinita di miglioramenti e novità. Di fatto non lo è, anzi, ma comunque rimane importante la conclusione poco convincente di “E.DIN”. Mentre nella precedente opera simili dubbi non mi attanagliarono per niente la capoccia. Quando si dice la pignoleria….
Album autoprodotto (20 Febbraio 2011)
Formazione (2006): Von Pontr, voce e chitarra;
Puja, basso;
Magris, batteria
Provenienza: Pordenone, Friuli – Venezia Giulia
Canzone migliore dell’album:
senz’appello l’incubo de “L’Amore Perso”, che dopo un po’ diventa pura paranoia anche grazie a Von Pontr che urla quasi all’infinito lo stesso titolo del brano.
Punto di forza dell’album:
l’abilità dei Male Misandria di aver saputo estremizzare l’assalto attraverso accorti miglioramenti e talvolta imprevedibili novità così da creare un vero e proprio inferno sonoro.
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Curiosità 1:
quando mi è arrivata qualche mese fa per posta una copia dell’album, vecchi ricordi si sono scatenati nella mia testa. La copertina infatti non è altro che il “Paradiso Perduto” di quel pazzo pittore olandese del ‘500 Hieronymus Bosch, il cui “Inferno Musicale” (presente ai lati del booklet proprio come il “Giardino dell’Eden) all’età di 12 anni mi fece una tale impressione da averne per un po’ di tempo una paura glaciale. Ma quello che più mi ha sorpreso è stata la fedeltà nel riproporre il “Trittico del Giardino delle Delizie”, che si compone dei 3 dipinti sopra accennati, sul booklet stesso il quale infatti si apre a mo’ di finestra proprio come la monumentale opera sopraccitata. Però, invece che la Terra spoglia vi si trovano i seguenti versi, curiosamente in inglese (e spero che la mia traduzione sia il più possibile corretta):
“Quando siamo nati noi abbiamo cominciato a crescere
Quando siamo morti abbiamo cominciato a capire
Quando siamo rinati abbiamo cominciato a vivere”
Curiosità 2:
L'album sembra prendere il nome da un libro pubblicato nel 2002 da un certo Elliott Rudisill, "E.DIN, Land of Righteousness", di cui a quanto pare non esiste un edizione tradotta nella nostra lingua. Ma il significato dello strano termine "E.DIN" mi è ancora sconosciuto.
Nota:
faccio presente che i Male Misandria dopo tanto tempo hanno trovato un’etichetta discografica disponibile a supportarli il più possibile: stiamo parlando della canadese Suffering Jesus Productions, che fra l’altro ha nella propria scuderia altri gruppi italiani, ovvero gli heavy metalloni The Pistons e i blackettoni Sidus Tenebrarum.
I Male Misandria li avevamo lasciati con “Volizione”, un disco estremo e intollerante come solo pochi gruppi riescono a partorire. E soprattutto un esempio di come si possa dire qualcosa di nuovo senza fare un confusionario melting pot di stili tra i più differenti ma cercando “semplicemente” di sputare fuori ciò che noi metallari estremi amiamo di più: la violenza sonora, il puro attacco frontale. Solo che questi 3 ragazzi osano esternare tale comune obiettivo in una maniera completamente folle, avendo persino il coraggio di combinare in modo perfetto l’irruenza selvaggia del grind con la tetra solennità del black metal. Una combinazione che sta riscuotendo ultimamente un successo inaspettato in terra italica, vedasi il solo – progetto purtroppo sciolto Orifice (questo in una modo molto a sé stante e tutto particolare), Deprogrammazione (poi riunitisi negli O), Noia ecc… ecc…. E’ anche vero che con molti di questi gruppi, tutti ben decisamente distinguibili fra di loro, si sta procedendo ad un’operazione volta a “riscoprire” il fascino della madrelingua, residuo proveniente dalla cultura punk – hardcore che alcuni di essi si portano fieramente addosso. Come è un residuo della stessa cultura il carattere serio e intelligente di molti testi scritti dalla succitata gentaglia (ovviamente non sto parlando di tutti), criptico nella migliore delle ipotesi, ma spesso lontano da qualsiasi tipo di ideologia fatta e finita.
I Male Misandria rappresentano con molta probabilità il lato più violento di questa giovane corrente nostrana. Ma forse anche il lato più tecnicamente valido, questo considerato pure in rapporto alle velocità assassine a cui solitamente i nostri vanno (per esempio ascoltatevi il riffing thrasheggiante e isterico di “So I’m Cook”) e nella loro capacità di cambiare tempo senza nessunissimo problema (infatti, questi ragazzi non hanno perso l’accortezza di dosare in maniera perfetta e saggia il nudo e crudo impatto con strategici tempi meno sostenuti che qui e là fanno capolino) e soprattutto in maniera fluida e con poche pause. E, se non possono essere classificati come i più completi, sicuramente da questo punto di vista hanno fatto passi da gigante, anche affinando le parti più vicine al death metal (come in “Somni Specus” – che contiene un’introduzione lenta e a dir poco minacciosa su cui si staglia una voce parlata stranamente in inglese – o “Nella Culla della Speranza”) se non richiamando addirittura il brutal da stadio terminale come in “Certezze”. Influenze che si posano magnificamente con le sonorità di base del gruppo (che in ogni caso dominano) e che si dimostrano utili a renderlo più indomabile possibile.
D’altro canto bisogna dire che con quest’album non si è voluto soltanto rendere più dura e violenta la formula precedente ma sono state introdotte parecchie novità, alcune delle quali potrebbero essere delle ottime basi di partenza su cui costruire le future produzioni:
1) prima di tutto, ci sono incredibilmente non una ma ben due canzoni che poggiano per la maggiore su ritmi meno indiavolati del solito, ossia la già citata “Somni Specus” (che fra l’altro è collegata direttamente con la successiva “Convinzioni” visto che la voce parlata è presente anche in quest’ultima) e la contraddittoria e crassiana “In Stagione di Guerra”, indubbiamente l’episodio più curioso del lotto che guardacaso funge da coda dell’album;
2) in “Homo Homini Homo” si sperimentano invece nell’introduzione delle tastiere “angeliche” che non soltanto collidono stupendamente con l’assalto subito successivo ma anche con i campioni di lupi che abbaiano in maniera veramente poco simpatica;
3) ha assunto finalmente un ruolo melodico pure il basso, seppur solo in “Coscienza”, dove per un po’ si stacca dal ruolo di seconda chitarra caratteristico del metal costruendo in tal modo un’ottima linea nei primi momenti del brano, che fra l’altro è uno dei più lunghi (dura poco più di 3 minuti);
4) questa è una novità in parte visto che rientra perfettamente nei canoni black ma è da menzionare il fatto che si è notevolmente allargato lo spettro d’azione del riffing riguardante tale genere. Infatti, nei Male Misandria mancavano le melodie più disperate e gelide, lacuna che è stata riempita in pezzi come “Alba”, la pazzesca “Daltonico” e soprattutto “Amore Perso”, le cui melodie alla fine diventano spaventosamente cupe e frastornanti nella loro terrificante dissonanza;
5) anche questa è una novità in parte visto che fino a “Volizione” le liriche sono state divise fra l’italiano e l’inglese. Ma finalmente l’italiano è diventata la lingua base dei Male Misandria, anche se qualche titolo potrebbe trarre in inganno.
La finale “In Stagione di Guerra” merita una trattazione a sé essendo non solo come già scritto la più coraggiosa del lotto ma purtroppo anche quella in un certo senso meno convincente, più che altro per due trovate un po’ incomprensibili per le mie orecchie (un effetto voluto? Ho paura di sì!).
“In Stagione di Guerra” non è soltanto il secondo e ultimo brano nel quale le velocità assassine prevalgono per pochissimo. Sì, perché in esso vi si trova per la prima ed unica volta una voce femminile recitativa molto in sintonia con il tema dell’amore che finalmente viene trattato con assoluta nonchalance. Di conseguenza i toni si fanno delicati e compassionevoli. Solo che l’episodio possiede due finali comunque non troppo dissimili né dal punto di vista emotivo né da quello musicale (beh, più o meno). Due finali? Forse è ora di spiegarsi meglio: il primo avviene in corrispondenza dei primi 3 minuti. In seguito il tempo passa a dismisura manco si stesse emulando John Cage. In parole povere si ascolta solo il crudo silenzio (oddio, se non abitassi in una zona importante di Roma forse me lo gusterei meglio ‘sto silenzio…). Per 6 – 7 minuti. Dopodichè, ariecco la musica che distrugge debitamente i timpani (grazie al….?) nonostante si tratti di un punk poppeggiato e strumentale tutto sorretto dalle semplici variazioni della batteria tutta concentrata sui tempi medi. Passato circa un minuto, è finito tutto.
Ora vorrei sapere dai diretti interessati l’utilità di fatto senza sbocchi e senza un reale sviluppo emotivo del secondo finale, e quindi qual è il senso del silenzio? Inoltre, sarà pura speculazione ma il canto del cigno dell’album ribadisce gli stessi concetti del primo finale aggiungendo poco o niente. Ossia si rallenta gradualmente il ritmo (anche se nel secondo ciò è quasi impercettibile dato che è tutto merito della sola batteria) e in entrambi i casi non c’è un vero e proprio climax emotivo, almeno non in senso classico visto che si gioca tutto al contrario. Sottolineo ad ogni modo (giustamente per non essere frainteso) che la prima conclusione funziona a meraviglia, eliminando lentamente l’aggressività e la violenza per poi proporre poco dopo il tipico finale impazzito caro a metal e al rock in generale.
Se si deve però ritornare ai netti miglioramenti, allora non posso che applaudire il lavoro vocale di Von Pontr (a.k.a. Darius a.k.a. MM oppure come cazzo volete), il cui massimo esempio di pazzia imbottita anche da urla stridulissime si può rintracciare in “Daltonico” dove si ha quasi la sensazione che lui stia per abbandonare questo mondo senza speranza. Il nostro stavolta ha fatto un buon uso frequente delle sovraincisioni (comprese quelle tra urla e grugniti belli rozzi) nonché dell’effettistica, visto e considerato che per esempio non sono pochi i momenti in cui lo si sente sbraitare ora da un’uscita adesso dall’altra dello stereo (o delle cuffie, s’intende).
La produzione guardacaso è molto diversa da quella di “Volizione”. E’ decisamente più pulita, i vari strumenti sono stati ben equilibrati fra di loro (ascoltare il basso è sempre un gran piacere!), e le frequenze sono costantemente e spaventosamente alte. Oddio, non è che quest’ultima caratteristica mi piaccia particolarmente in quanto così facendo si alza la potenza della propria musica in maniera quasi artificiale. D’altro canto, risulta molto adatta ad esemplificare la carica profondamente nichilista e provocatoria del terzetto. Che ha già dimostrato di essere potente ed incisivo con la produzione sporca di “Volizione”….
Voto: 90*
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Sangue del Mio Sangue/ 2 – So I’m Cook/ 3 – Amorfe/ 4 – Earth Reset/ 5 – Somni Specus/ 6 – Convinzioni/ 7 – Non Siete/ 8 – Homo Homini Homo/ 9 – Scriba/ 10 – Alba/ 11 – Vomitsoapbubbles/ 12 – Nella Culla della Speranza/ 13 – Come Creta/ 14 – Cometa/ 15 – Certezze/ 16 – Daltonico/ 17 – Money Turns Into Paper/ 18 – L’Amore Perso/ 19 – Coscienza/ 20 – Coerenza/ 21 – Idolima/ 22 – Noi/ 23 – Incendio/ 24 – Jizo/ 25 – In Stagione di Guerra
MySpace:
http://www.myspace.com/malemisandria
*Il voto è stato una decisione piuttosto difficile. Perché, se confrontato con il 95 al tempo dato a “Volizione”, il presente album dovrebbe essere considerato un seppur minuscolo passo indietro, nonostante nella recensione si parli di una sfilza infinita di miglioramenti e novità. Di fatto non lo è, anzi, ma comunque rimane importante la conclusione poco convincente di “E.DIN”. Mentre nella precedente opera simili dubbi non mi attanagliarono per niente la capoccia. Quando si dice la pignoleria….
Wednesday, June 22, 2011
Bahal - "Ikelos" (2010)
Recensione pubblicata il 6 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Album autoprodotto (1° Dicembre 2010)
Formazione (2005): Lord Bahal, voce, chitarre, basso, batteria elettronica
Giulia Sidhe, arpa celtica in "Tra le Braccia di Morfeo" (ora bassista ufficiale dei Bahal)
Provenienza: Lecco, Lombardia
Discografia: “Gazing at the Winter Moon” (Album, 2005)
“Striges” (Album, 2009)
“Hieros Gamos/Bahal/Cenere Split” (Split, 2010)
Canzone migliore dell’album:
Senza nessunissima ombra di dubbio il tour de force di ben 10 minuti de “Il Labirinto”: disperato, poetico, tutto costruito su un climax emotivo fenomenale dove la chitarra solista detta legge. Da non dimenticare nemmeno le grandiose pause d’effetto dominate da suggestive chitarre acustiche. Un vero e proprio viaggio sonoro.
Punto di forza dell’album:
la suddetta chitarra solista. Lord Bahal si è preoccupato così tanto di curare il settore chitarre da metterne in certi momenti addirittura 3 come sono notevoli quelle brevi, isteriche e sferzanti variazioni della solista che qui e là fanno capolino nel discorso.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Curiosità:
la musicalità di Bahal è sempre stata impregnata di riferimenti aulici, spesso a partire dal titolo dell'album. Che in questo caso prende di mira una divinità greca come Icelo la quale, come suo fratello Morfeo (citato anch'esso nei testi dell'ultima fatica), fa parte del corteo dei sogni. Ma non credete che sia una divinità positiva perchè non è nient'altro che il dio delle apparizioni, delle fobie e degli incubi.
Se gli Ammonal rappresentano il trionfo individualista del collettivo, il solo - progetto Bahal è l’apice del vero e proprio individualismo oserei dire egocentrico. Non a caso, una delle figure storiche di Timpani allo Spiedo, Roberto Moro del progetto sardo Hieros Gamos, altra formazione strambissima che a suggestioni di natura freudiana unisce un black metal ultra – contorto e dalle minacciose melodie arabeggianti, ha ultimamente reclutato Lord Bahal per le parti di chitarra solista in vista del proprio primissimo album. Ma se gli Hieros Gamos hanno abbandonato la vecchia scuola per un approccio legato alle esperienze di gruppi africani/asiatici ancorati, come giustamente dovrebbe essere, alla tradizione musicale della propria cultura, Bahal è uno dei primi 5 casi più bizzarri che mi siano mai capitati di ascoltare. Praticamente il nostro è stato capace di dire qualcosa di personale senza stravolgere praticamente nulla.
Infatti, “Ikelos” dalla copertina sembrerebbe un disco intellettualoide. In un certo senso lo è, ma di ciò è tutto merito delle grandiose liriche, impregnate di una poeticità lontana anni luce dalla misantropia ingenua tipica del black metal (e fra l’altro nella nostra lingua!). Ma musicalmente si è perfino dalle parti di un black/thrash metal comunque molto diverso dalla bestiale “ignoranza” e rozzezza di molte formazioni del genere richiamando però allo stesso tempo la vecchia scuola dell’estremo. Questo divario fra Bahal e gruppi come Horned Almighty, Bunker 66 e compagnia non è soltanto determinato dalla capacità del lecchese di partorire pezzi pericolosamente lunghi eppure distanti dalla macchinosità difficilmente emotiva degli Hieros Gamos. Eh sì, perché per questa sorta di eleganza, che paradossalmente rifugge da soluzioni complicate e non facilmente assimilabili (il riffing per esempio di solito è bello classico), concorrono sia in misura secondaria il fatto che i momenti black e thrash sono spesso autonomi fra di loro, offrendo così poche occasioni in cui i due generi effettivamente si combinano (di conseguenza il discorso chitarristico e meno primitivo e pennellato); sia primariamente il lavoro mai invasivo della chitarra solista che fa sentire il suo “peso” con una frequenza notevole e piuttosto rara da beccare in circolazione riuscendo a immettere spesso nei pezzi un’atmosfera tempestosa (si ascolti a tal proposito l’attacco de “Il Labirinto”… ma anche “La Rosa” non scherza per niente).
Una delle caratteristiche più particolari di questo progetto musicale è appunto il ruolo preponderante della chitarra solista. Lord Bahal possiede un’abilità pressoché stupefacente nello sfruttare le sue possibilità tecnico – espressive erigendo monologhi virtuosi e melodici che con la loro immane fantasia possono risolvere pezzi altrimenti più difficili da concludere. In tal modo si costruisce un crescendo emotivo molto personale per il concetto di Metal estremo partendo comunque, almeno per quanto riguarda gli assoli veri e propri, da basi metalliche prettamente ottantiane, anche perché talvolta lo schema dei pezzi assume connotati molto classici, con il solismo che magari si presenta dopo la tipica sequenza 1 – 2 – 1 – 2.
Quindi, è esatta la definizione data a Bahal su Metal – Archives? In parte sì, in parte no. Infatti, il termine “progressivo” è stato usato in maniera forse impropria, più che altro perché il nostro non partorisce una musica dalla grande e avvolgente pienezza melodica che alla fine è a esclusivo appannaggio del settore chitarre. Al massimo, le uniche cose riconducibili a tale concezione sono la già menzionata “prolissità” epica di alcuni brani e soprattutto la semi – emarginazione della voce che guardacaso è stata discriminata chissà quante volte nel rock progressivo nostrano (avete presente Il Rovescio della Medaglia, i Campo di Marte o i Picchio dal Pozzo?).
Invece il cantato rappresenta forse l’unico elemento veramente death, termine che campeggia quasi inspiegabilmente nell’etichetta regalata al progetto. Trattasi di un grugnito bello cupo ed un po’ statico molto simile a quello dei sardi Vultur, anche se non mancano poche, modeste ma efficaci “alzate” di tono, e nemmeno qualche occasionale sussurrìo (entrambe le cose sono presenti in “Erebo”). Eppure tale cupezza non ha impedito di creare delle grandiose linee vocali che tradiscono una dimensione eroica e tremendamente agguerrita mostrando così un discorso semplice ma bello potente e sufficientemente inventivo da avere esso stesso una cadenza ritmica eccezionale. Le parole spesso vengono accentuate, altre vengono dilatate, permettendo di conseguenza una comprensibilità delle liriche che certi gruppi si sognano soltanto. Appunto per tutto ciò avrei preferito che la voce avesse avuto maggiore importanza, anche perché accade non poche volte che si assenti per parecchi minuti (la lunga parte centrale de “Il Labirinto”) mentre in altre occasioni così facendo si conclude addirittura un brano come “La Rosa” – che comunque per impostazione rimane un qualcosa di superlativo visto che contiene inoltre uno stacco di chitarra in solitario severa e magniloquente, una vera chicca per intenditori. Dai, non facciamo gli errori del nostro prog che a vantaggio di un esasperato virtuosismo ha spesso abbandonato le magnifiche immagini poetiche donate dalla voce!
Il secondo punto debole dell’album è la batteria che, proprio come negli Hieros Gamos, è completamente elettronica. Ma qui vale un discorso simile a quanto detto sulla voce, ossia essa rappresenta un punto debole non esattamente in sé ma di per sé. Infatti, programmata in maniera efficace anche se talvolta non risulta abile ad accentare il riffing (“Danza del Crepuscolo”), la batteria ha più che altro problemi di bilanciamento con gli altri strumenti. La produzione da questo punto di vista è a volte “birichina”, visto che tra un pezzo e l’altro può capitare che la drum appaia più debole costringendo così l’ascoltare a riabituarsi a diverse frequenze, e la musica a fare qualche sforzo in più per risultare più incisiva possibile (ed il bello è che tale impresa non sembra poi così difficile…. Merito ancora maggiore).
Altra cosa da discutere è la struttura che regge le varie composizioni, già difficilmente gestibile per la lunghezza delle stesse ma d’altro canto è un “problema” quasi inesistente. Però bisogna far osservare che i ‘sto ragazzo a volte pare voler esagerare con i cambiamenti repentini di umore partorendo in tal modo brusche virate prive di un effettivo sviluppo emotivo. Questa osservazione grava purtroppo specialmente proprio sull’ultimo brano, che a un tempo medio thrash fa seguire all’improvviso dei blast – beats con tanto di chitarra solista evocativa ed un grugnito disperato: un momento atmosfericamente veramente troppo troppo diverso da quello precedente.
In compenso, è da notare come sia stata molto intelligente la cura riposta nel posizionamento dei pezzi. Per fare un solido esempio, mi pare validissimo l’elegantissimo intermezzo di 2 minuti de “Il Bardo” che, utilizzando due chitarre acustiche di cui una solista (e qua non si parla affatto di banali e semplicissimi arpeggi!) con tanto di armonico conclusivo, risulta praticamente perfetto per blandire gli animi dopo una prima parte dai brani apparentemente infiniti e belli in tensione. E che dire invece della rimaneggiata “Marcia Funebre” di Chopin che funge da elegante introduzione dell’album? E della riposante atmosfera quasi da “ninna – nanna” dell’outro “Tra le Braccia di Morfeo” dove una chitarra acustica si staglia su una produzione che da inquietante contrasto è di una sporcizia ineffabile, atta quasi a rappresentare la definitiva corruzione dell’animo umano che vuole continuare a vedere il Sole ma non ad accorgersi della schifosa realtà che gli sta intorno?
Pura poesia.
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – La Tormenta/ 2 – Il Sentiero/ 3 – Erebo/ 4 – Il Bardo/ 5 – Il Labirinto/ 6 – La Rosa/ 7 – Danza del Crepuscolo/ 8 – Tra le Braccia di Morfeo
MySpace:
http://www.myspace.com/bahalblackmetal
Album autoprodotto (1° Dicembre 2010)
Formazione (2005): Lord Bahal, voce, chitarre, basso, batteria elettronica
Giulia Sidhe, arpa celtica in "Tra le Braccia di Morfeo" (ora bassista ufficiale dei Bahal)
Provenienza: Lecco, Lombardia
Discografia: “Gazing at the Winter Moon” (Album, 2005)
“Striges” (Album, 2009)
“Hieros Gamos/Bahal/Cenere Split” (Split, 2010)
Canzone migliore dell’album:
Senza nessunissima ombra di dubbio il tour de force di ben 10 minuti de “Il Labirinto”: disperato, poetico, tutto costruito su un climax emotivo fenomenale dove la chitarra solista detta legge. Da non dimenticare nemmeno le grandiose pause d’effetto dominate da suggestive chitarre acustiche. Un vero e proprio viaggio sonoro.
Punto di forza dell’album:
la suddetta chitarra solista. Lord Bahal si è preoccupato così tanto di curare il settore chitarre da metterne in certi momenti addirittura 3 come sono notevoli quelle brevi, isteriche e sferzanti variazioni della solista che qui e là fanno capolino nel discorso.
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Curiosità:
la musicalità di Bahal è sempre stata impregnata di riferimenti aulici, spesso a partire dal titolo dell'album. Che in questo caso prende di mira una divinità greca come Icelo la quale, come suo fratello Morfeo (citato anch'esso nei testi dell'ultima fatica), fa parte del corteo dei sogni. Ma non credete che sia una divinità positiva perchè non è nient'altro che il dio delle apparizioni, delle fobie e degli incubi.
Se gli Ammonal rappresentano il trionfo individualista del collettivo, il solo - progetto Bahal è l’apice del vero e proprio individualismo oserei dire egocentrico. Non a caso, una delle figure storiche di Timpani allo Spiedo, Roberto Moro del progetto sardo Hieros Gamos, altra formazione strambissima che a suggestioni di natura freudiana unisce un black metal ultra – contorto e dalle minacciose melodie arabeggianti, ha ultimamente reclutato Lord Bahal per le parti di chitarra solista in vista del proprio primissimo album. Ma se gli Hieros Gamos hanno abbandonato la vecchia scuola per un approccio legato alle esperienze di gruppi africani/asiatici ancorati, come giustamente dovrebbe essere, alla tradizione musicale della propria cultura, Bahal è uno dei primi 5 casi più bizzarri che mi siano mai capitati di ascoltare. Praticamente il nostro è stato capace di dire qualcosa di personale senza stravolgere praticamente nulla.
Infatti, “Ikelos” dalla copertina sembrerebbe un disco intellettualoide. In un certo senso lo è, ma di ciò è tutto merito delle grandiose liriche, impregnate di una poeticità lontana anni luce dalla misantropia ingenua tipica del black metal (e fra l’altro nella nostra lingua!). Ma musicalmente si è perfino dalle parti di un black/thrash metal comunque molto diverso dalla bestiale “ignoranza” e rozzezza di molte formazioni del genere richiamando però allo stesso tempo la vecchia scuola dell’estremo. Questo divario fra Bahal e gruppi come Horned Almighty, Bunker 66 e compagnia non è soltanto determinato dalla capacità del lecchese di partorire pezzi pericolosamente lunghi eppure distanti dalla macchinosità difficilmente emotiva degli Hieros Gamos. Eh sì, perché per questa sorta di eleganza, che paradossalmente rifugge da soluzioni complicate e non facilmente assimilabili (il riffing per esempio di solito è bello classico), concorrono sia in misura secondaria il fatto che i momenti black e thrash sono spesso autonomi fra di loro, offrendo così poche occasioni in cui i due generi effettivamente si combinano (di conseguenza il discorso chitarristico e meno primitivo e pennellato); sia primariamente il lavoro mai invasivo della chitarra solista che fa sentire il suo “peso” con una frequenza notevole e piuttosto rara da beccare in circolazione riuscendo a immettere spesso nei pezzi un’atmosfera tempestosa (si ascolti a tal proposito l’attacco de “Il Labirinto”… ma anche “La Rosa” non scherza per niente).
Una delle caratteristiche più particolari di questo progetto musicale è appunto il ruolo preponderante della chitarra solista. Lord Bahal possiede un’abilità pressoché stupefacente nello sfruttare le sue possibilità tecnico – espressive erigendo monologhi virtuosi e melodici che con la loro immane fantasia possono risolvere pezzi altrimenti più difficili da concludere. In tal modo si costruisce un crescendo emotivo molto personale per il concetto di Metal estremo partendo comunque, almeno per quanto riguarda gli assoli veri e propri, da basi metalliche prettamente ottantiane, anche perché talvolta lo schema dei pezzi assume connotati molto classici, con il solismo che magari si presenta dopo la tipica sequenza 1 – 2 – 1 – 2.
Quindi, è esatta la definizione data a Bahal su Metal – Archives? In parte sì, in parte no. Infatti, il termine “progressivo” è stato usato in maniera forse impropria, più che altro perché il nostro non partorisce una musica dalla grande e avvolgente pienezza melodica che alla fine è a esclusivo appannaggio del settore chitarre. Al massimo, le uniche cose riconducibili a tale concezione sono la già menzionata “prolissità” epica di alcuni brani e soprattutto la semi – emarginazione della voce che guardacaso è stata discriminata chissà quante volte nel rock progressivo nostrano (avete presente Il Rovescio della Medaglia, i Campo di Marte o i Picchio dal Pozzo?).
Invece il cantato rappresenta forse l’unico elemento veramente death, termine che campeggia quasi inspiegabilmente nell’etichetta regalata al progetto. Trattasi di un grugnito bello cupo ed un po’ statico molto simile a quello dei sardi Vultur, anche se non mancano poche, modeste ma efficaci “alzate” di tono, e nemmeno qualche occasionale sussurrìo (entrambe le cose sono presenti in “Erebo”). Eppure tale cupezza non ha impedito di creare delle grandiose linee vocali che tradiscono una dimensione eroica e tremendamente agguerrita mostrando così un discorso semplice ma bello potente e sufficientemente inventivo da avere esso stesso una cadenza ritmica eccezionale. Le parole spesso vengono accentuate, altre vengono dilatate, permettendo di conseguenza una comprensibilità delle liriche che certi gruppi si sognano soltanto. Appunto per tutto ciò avrei preferito che la voce avesse avuto maggiore importanza, anche perché accade non poche volte che si assenti per parecchi minuti (la lunga parte centrale de “Il Labirinto”) mentre in altre occasioni così facendo si conclude addirittura un brano come “La Rosa” – che comunque per impostazione rimane un qualcosa di superlativo visto che contiene inoltre uno stacco di chitarra in solitario severa e magniloquente, una vera chicca per intenditori. Dai, non facciamo gli errori del nostro prog che a vantaggio di un esasperato virtuosismo ha spesso abbandonato le magnifiche immagini poetiche donate dalla voce!
Il secondo punto debole dell’album è la batteria che, proprio come negli Hieros Gamos, è completamente elettronica. Ma qui vale un discorso simile a quanto detto sulla voce, ossia essa rappresenta un punto debole non esattamente in sé ma di per sé. Infatti, programmata in maniera efficace anche se talvolta non risulta abile ad accentare il riffing (“Danza del Crepuscolo”), la batteria ha più che altro problemi di bilanciamento con gli altri strumenti. La produzione da questo punto di vista è a volte “birichina”, visto che tra un pezzo e l’altro può capitare che la drum appaia più debole costringendo così l’ascoltare a riabituarsi a diverse frequenze, e la musica a fare qualche sforzo in più per risultare più incisiva possibile (ed il bello è che tale impresa non sembra poi così difficile…. Merito ancora maggiore).
Altra cosa da discutere è la struttura che regge le varie composizioni, già difficilmente gestibile per la lunghezza delle stesse ma d’altro canto è un “problema” quasi inesistente. Però bisogna far osservare che i ‘sto ragazzo a volte pare voler esagerare con i cambiamenti repentini di umore partorendo in tal modo brusche virate prive di un effettivo sviluppo emotivo. Questa osservazione grava purtroppo specialmente proprio sull’ultimo brano, che a un tempo medio thrash fa seguire all’improvviso dei blast – beats con tanto di chitarra solista evocativa ed un grugnito disperato: un momento atmosfericamente veramente troppo troppo diverso da quello precedente.
In compenso, è da notare come sia stata molto intelligente la cura riposta nel posizionamento dei pezzi. Per fare un solido esempio, mi pare validissimo l’elegantissimo intermezzo di 2 minuti de “Il Bardo” che, utilizzando due chitarre acustiche di cui una solista (e qua non si parla affatto di banali e semplicissimi arpeggi!) con tanto di armonico conclusivo, risulta praticamente perfetto per blandire gli animi dopo una prima parte dai brani apparentemente infiniti e belli in tensione. E che dire invece della rimaneggiata “Marcia Funebre” di Chopin che funge da elegante introduzione dell’album? E della riposante atmosfera quasi da “ninna – nanna” dell’outro “Tra le Braccia di Morfeo” dove una chitarra acustica si staglia su una produzione che da inquietante contrasto è di una sporcizia ineffabile, atta quasi a rappresentare la definitiva corruzione dell’animo umano che vuole continuare a vedere il Sole ma non ad accorgersi della schifosa realtà che gli sta intorno?
Pura poesia.
Voto: 73
Claustrofobia
Scaletta:
1 – La Tormenta/ 2 – Il Sentiero/ 3 – Erebo/ 4 – Il Bardo/ 5 – Il Labirinto/ 6 – La Rosa/ 7 – Danza del Crepuscolo/ 8 – Tra le Braccia di Morfeo
MySpace:
http://www.myspace.com/bahalblackmetal
Mortuary Drape - "Necromancy" (1987)
Recensione pubblicata il 5 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.
Demo autoprodotto
Formazione (1986): Without Name, voce e basso;
Witch Rhythm, chitarra;
The Alchemist, chitarra solista;
Wildness Perversion, batteria
Provenienza: Alessandria, Piemonte
Canzone migliore del demo:
soprattutto perché è l’ultima canzone, ovvero quella a cui è attribuito il compito di concludere degnamente ogni testimonianza musicale, scelgo la magnifica, glaciale, bestiale e fin troppo avanti con i tempi “Evil Dead”. Ma anche “Into the Catacomba” non scherza affatto….
Punto di forza del demo:
sicuramente l’inumana malvagità multiforme che avvolge continuamente l’ascoltatore.
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“Questo demo tratta la negromanzia o divinazione attraverso la consultazione dei morti. Le liriche riguardano il mondo astrale con particolare riferimento a quello dei non – morti.
Tutto ciò per i Mortuary Drape rappresenta una vera fede ed una missione.
Il nostro demo è dedicato alla memoria di tutti quelli che hanno vissuto, sofferto, e che sono morti nel sacro nome della STREGONERIA.
CHE ESSI SIANO BENEDETTI.”
Ispiratori di non si sa quanti gruppi inclini a creare bastardi e infami ibridi black/death/thrash, in Italia i Mortuary Drape probabilmente sono da ritenere ben più rivoluzionari dei Necrodeath, più vecchi di due anni. In ambito nazionale infatti proponevano un massacro sonoro unico che quasi non conosceva pari neanche nel mondo, e solo gruppi come i tedeschi Sodom e gli svizzeri Hellhammer si potevano avvicinare a loro, gli uni soprattutto per la violenza, gli altri per l’immane malvagità. E ciò mentre il movimento black metal stava lentamente coprendo d’odio l’intera Norvegia grazie soprattutto ai pionieri Mayhem che di lì a qualche anno avrebbero suonato qualcosa di molto simile al quartetto del Drappo Mortuario.
Ma si può dire che i Mortuary Drape, che non si sono mai fermati in tutti questi anni grazie al lavoro inesauribile del fondatore Wildness Perversion, siano stati particolari in tutto. Nella durata stessa delle loro cassette ad esempio, se è vero che la precedente “Demo Live ‘87” era lunga ben 45 minuti mentre la successiva “Necromancer” “solo” 15 minuti in meno, praticamente il minutaggio di un album. Fortuna che vengono definiti come demo ma questi giovani alessandrini già non sembravano scherzare molto con quello che facevano.
Oppure si prenda la lunghissima introduzione proprio di “Necromancer”, una tetra litania di sole tastiere che per impostazione richiama la tradizione più nera del rock progressivo inglese, Black Widow in primis. Da questa introduzione, nella quale le note a volte saltellano in maniera schizofrenica come prese da un ascesso demoniaco, già si intuisce un’ambientazione che fa dell’oscuro, del sovrannaturale la vera chiave di lettura del reale. E l’occultismo diviene il mezzo di comunicazione con le forze più nere che regolano il cosmo tutto.
Subito dopo, ecco “Primordial”, indubbiamente il cavallo di battaglio per antonomasia del gruppo che sarebbe stato rifatto da una caterva di formazioni estreme. E’ uno dei pezzi più diretti del demo, e quindi è stato posto strategicamente per dare la giusta intensità in apertura come si faceva una volta. Ed ascoltandola si scopre quanto veramente questi ragazzi preconizzassero tutto un genere. Le chitarre sono infuocato black/thrash di una malvagità immensa ed in periodi ben definiti della canzone la solista dà adito a brevi e lancinanti interventi quasi impercettibili. La lugubre voce urla raucamente i suoi anatemi dando sfogo ad un ritornello così semplice e talvolta in coro quanto leggendario e che alla fine chiude brutalmente l’episodio. L’importante sezione ritmica si muove su binari thrash metal selvaggi ma dosati da un sapiente groove che a poco a poco contagia l’ascoltatore.
Dalla furia selvaggia di “Primordial” si va attraverso gli antri maledetti di “Into the Catacomba”, ossia l’estremo opposto. Lenta, spettrale, ha i contorni di un vero e proprio rituale. La batteria, autentico propulsore del pezzo, balla letteralmente sui tom – tom disegnando inconcepibili e bestiali danze. Le chitarre “grattano” minacciosamente, spaventano l’ascoltatore con frastornanti e contrastanti note acute che sono l’equivalente delle schizzate convulsioni provocate da un’entità innominabile che ormai t’ha preso, ed altre volte ricamano su un riffing quasi ipnotico. E la voce, ancora una volta perfetta, declama molto lentamente le parole, sembra ebbra ed in preda ad attacchi improvvisi. Da notare il carattere misterioso del titolo che mischia l’inglese con l’italiano. Per non dimenticare l’introduzione nella quale fanno capolino assordanti rintocchi di campana a morto, un classico del metal, fulmini e saette ed una chitarra acustica che cantilena un semplice ma torturato arpeggio.
La seguente “Presences” invece ha uno spirito oserei dire beffardo, soprattutto perché ha una meravigliosa parte centrale nella quale la chitarra solista, dopo minacciosi interventi in solitario spezzettati, impazza divertita accompagnata fra gli altri anche da fragorose e brevi rullate che dimostrano l’estrema fluidità del quartetto intento qui a non fermarsi praticamente mai. Ma il pezzo risalta indubbiamente pure per una lunga introduzione in crescendo aperta dal pulsare burloso di un basso che apre per un’ascia sonnolenta, concentrata a sparare almeno inizialmente delle pennellate, ed una voce che dopo un po’ diventa quasi un tutt’uno con le danze tribali sui tom – tom della batteria, ormai una costante personalissima dei Mortuary Drape.
Con “Vengeance from Beyond” si mette ancora nuova ed interessantissima carne al fuoco nonostante la giovane età dei ragazzi che già sparavano un’invidiabile fantasia. Il bello è che questa canzone è probabilmente la più particolare di tutto il lotto ed il perché è sintetizzato in questa parola: triste. Ascoltatevi l’introduzione: una chitarra acustica dai semplici giri d’arpeggio struggenti. Nel frattempo il pezzo sembra assumere i veri e propri toni di una ballata perché entra la batteria che accompagna perfettamente la compagna disperata. Finito. Ed è qui che si fa viva la contraddizione del brano: il massacro all’arma bianca mischiato alla tristezza. Tra l’altro un massacro dal riffing schizzato ed in un certo senso irregolare, dato che i colpi della batteria sul rullante si fermano spesso per accentare con i piatti quella pericolosa progressione di note. E quindi, quell’introduzione è tutto fumo, non ha seguito? MA SUVVIA, certo che ce l’ha! La sua atmosfera viene infatti ripresa proprio nella parte centrale, un lento dalla parte solista perfino elegante e a tratti addirittura arabeggiante. Poi dopo una pausa d’effetto, ricomincia il massacro.
Qua qualcuno potrebbe lamentarsi visto che incredibilmente “Obsessed by Necromancy” ha un riffing che a volte pare costruito quasi sulla falsariga della precedente canzone. Solo che ora l’atmosfera che esso ricrea è di incrollabile paranoia, esso viene ripetuto per un lungo periodo anche attraverso delle semplici variazioni tonali. E la parte centrale risulta completamente funzionale a quest’aura proprio grazie all’assolo vorticoso ed incantatore, in caduta libera verso un abisso visionario ed ipnotico.
Ma se la caduta di “Obsessed by Necromancy” è metafisica quella di “Evil Dead” è definitiva, è pura distruzione. Blast – beats angoscianti che lavorano benissimo sui piatti, un riffing diviso fra la solennità del black metal, il nervosismo del thrash metal e l’ignoranza cavernosa del death metal. Ogni volta che sento l’attacco di chitarra iniziale mi vengono in mente i Conqueror, con quell’inquietante suono da motosega. Un pezzo che preconizza in una sola botta tutte le basi del metal estremo più bastardo. E allo stesso tempo si incanala nella tradizione che voleva che l’ultimo episodio fosse quello più diretto e veloce, solo che i Mortuary Drape andarono oltre ogni più nera aspettativa andando al di là del tipico significato di questa” regola”.
Ogni cosa di questo demo è incastonata magnificamente alla perfezione, e quindi non posso non parlare bene dell’impalcatura strutturale che regge i vari pezzi. Ovviamente, essendo un demo grezzo e molto estremo già per l’epoca, ci si poggia su schemi a strofa – ritornello e simili interpretati però sempre in maniera diversa e di conseguenza il discorso è difficilmente prevedibile. Le uniche cose veramente tali si dimostrano alla fine solo l’introduzione, sempre e comunque d’atmosfera (ergo lente) eppure talvolta non esenti da vere e proprie linee vocali (come in “Presences” o “Obsessed by Necromancy”); e la parte centrale, nella quale si fa viva puntuale come un orologio svizzero la chitarra solista impegnata in un assolo che nella maggior parte dei casi si risolve in una sequenza più o meno ben definita di note che vanno di pari passo con la ritmica, quindi tecnicamente non è proprio da ritenere come un assolo puro e nudo. Altra caratteristica interessante è il lavoro di rifinitura del pezzo che viene appunto subito dopo la parte centrale e che permette un discorso che si protrae per un minuto o poco più in modo da concluderlo degnamente riprendendo in maniera fluida e sufficientemente continuativa l’intensità delle primissime soluzioni (generalmente veloci). Anzi, alle volte ne viene proposta addirittura una totalmente nuova.
Decisamente più spartana “l’inascoltabile” (per molti) produzione di “Necromancer”. Ma per far capire la sua magia certi gruppi, come i sardi Vultur, hanno rifatto canzoni quali “Primordial” imitando proprio una produzione simile. Le frequenze non solo sono semplicemente basse ma le chitarre sono così zanzarose che ascoltare l’opera con le cuffie ad un volume non adatto rappresenta un suicidio per i timpani, anche perché ci sono due chitarre. Paradossalmente (ma è un fatto completamente logico visto che le frequenze basse favoriscono le note più acute) la chitarra solista si sente a meraviglia, cosa che non succede stranamente in “Evil Dead”. “Stranamente” un paio di ciufoli perché a poco a poco si ha la netta sensazione che le frequenze si abbassino sempre di più, e chissà per quale occulto motivo. Inoltre, né la voce né la batteria, per quanto sufficientemente comprensibili, non sono proprio il massimo per uno che non è abituato a simili sporchissime sonorità. Quale non sono io. Ma allora erano critiche negative? Cazzo, certo che no! Al massimo l’assolo seppellito. Al massimo certi momenti vocali incomprensibili, ma il fatto è che una tale produzione è veramente magica dato che regala un’aura oscura e maledetta che è totalmente funzionale all’immaginario del Drappo Mortuario. E cazzo, scusate se vi ho messo in fibrillazione!
Voto: 94
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Primordial/ 3 – Into the Catacomba/ 4 – Presences/ 5 – Vengeance from Beyond/ 6 – Obsessed by Necromancy/ 7 – Evil Dead
Sito ufficiale:
http://www.mortuary13drape.com/
MySpace:
http://www.myspace.com/mortuarydrape
Demo autoprodotto
Formazione (1986): Without Name, voce e basso;
Witch Rhythm, chitarra;
The Alchemist, chitarra solista;
Wildness Perversion, batteria
Provenienza: Alessandria, Piemonte
Canzone migliore del demo:
soprattutto perché è l’ultima canzone, ovvero quella a cui è attribuito il compito di concludere degnamente ogni testimonianza musicale, scelgo la magnifica, glaciale, bestiale e fin troppo avanti con i tempi “Evil Dead”. Ma anche “Into the Catacomba” non scherza affatto….
Punto di forza del demo:
sicuramente l’inumana malvagità multiforme che avvolge continuamente l’ascoltatore.
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“Questo demo tratta la negromanzia o divinazione attraverso la consultazione dei morti. Le liriche riguardano il mondo astrale con particolare riferimento a quello dei non – morti.
Tutto ciò per i Mortuary Drape rappresenta una vera fede ed una missione.
Il nostro demo è dedicato alla memoria di tutti quelli che hanno vissuto, sofferto, e che sono morti nel sacro nome della STREGONERIA.
CHE ESSI SIANO BENEDETTI.”
Ispiratori di non si sa quanti gruppi inclini a creare bastardi e infami ibridi black/death/thrash, in Italia i Mortuary Drape probabilmente sono da ritenere ben più rivoluzionari dei Necrodeath, più vecchi di due anni. In ambito nazionale infatti proponevano un massacro sonoro unico che quasi non conosceva pari neanche nel mondo, e solo gruppi come i tedeschi Sodom e gli svizzeri Hellhammer si potevano avvicinare a loro, gli uni soprattutto per la violenza, gli altri per l’immane malvagità. E ciò mentre il movimento black metal stava lentamente coprendo d’odio l’intera Norvegia grazie soprattutto ai pionieri Mayhem che di lì a qualche anno avrebbero suonato qualcosa di molto simile al quartetto del Drappo Mortuario.
Ma si può dire che i Mortuary Drape, che non si sono mai fermati in tutti questi anni grazie al lavoro inesauribile del fondatore Wildness Perversion, siano stati particolari in tutto. Nella durata stessa delle loro cassette ad esempio, se è vero che la precedente “Demo Live ‘87” era lunga ben 45 minuti mentre la successiva “Necromancer” “solo” 15 minuti in meno, praticamente il minutaggio di un album. Fortuna che vengono definiti come demo ma questi giovani alessandrini già non sembravano scherzare molto con quello che facevano.
Oppure si prenda la lunghissima introduzione proprio di “Necromancer”, una tetra litania di sole tastiere che per impostazione richiama la tradizione più nera del rock progressivo inglese, Black Widow in primis. Da questa introduzione, nella quale le note a volte saltellano in maniera schizofrenica come prese da un ascesso demoniaco, già si intuisce un’ambientazione che fa dell’oscuro, del sovrannaturale la vera chiave di lettura del reale. E l’occultismo diviene il mezzo di comunicazione con le forze più nere che regolano il cosmo tutto.
Subito dopo, ecco “Primordial”, indubbiamente il cavallo di battaglio per antonomasia del gruppo che sarebbe stato rifatto da una caterva di formazioni estreme. E’ uno dei pezzi più diretti del demo, e quindi è stato posto strategicamente per dare la giusta intensità in apertura come si faceva una volta. Ed ascoltandola si scopre quanto veramente questi ragazzi preconizzassero tutto un genere. Le chitarre sono infuocato black/thrash di una malvagità immensa ed in periodi ben definiti della canzone la solista dà adito a brevi e lancinanti interventi quasi impercettibili. La lugubre voce urla raucamente i suoi anatemi dando sfogo ad un ritornello così semplice e talvolta in coro quanto leggendario e che alla fine chiude brutalmente l’episodio. L’importante sezione ritmica si muove su binari thrash metal selvaggi ma dosati da un sapiente groove che a poco a poco contagia l’ascoltatore.
Dalla furia selvaggia di “Primordial” si va attraverso gli antri maledetti di “Into the Catacomba”, ossia l’estremo opposto. Lenta, spettrale, ha i contorni di un vero e proprio rituale. La batteria, autentico propulsore del pezzo, balla letteralmente sui tom – tom disegnando inconcepibili e bestiali danze. Le chitarre “grattano” minacciosamente, spaventano l’ascoltatore con frastornanti e contrastanti note acute che sono l’equivalente delle schizzate convulsioni provocate da un’entità innominabile che ormai t’ha preso, ed altre volte ricamano su un riffing quasi ipnotico. E la voce, ancora una volta perfetta, declama molto lentamente le parole, sembra ebbra ed in preda ad attacchi improvvisi. Da notare il carattere misterioso del titolo che mischia l’inglese con l’italiano. Per non dimenticare l’introduzione nella quale fanno capolino assordanti rintocchi di campana a morto, un classico del metal, fulmini e saette ed una chitarra acustica che cantilena un semplice ma torturato arpeggio.
La seguente “Presences” invece ha uno spirito oserei dire beffardo, soprattutto perché ha una meravigliosa parte centrale nella quale la chitarra solista, dopo minacciosi interventi in solitario spezzettati, impazza divertita accompagnata fra gli altri anche da fragorose e brevi rullate che dimostrano l’estrema fluidità del quartetto intento qui a non fermarsi praticamente mai. Ma il pezzo risalta indubbiamente pure per una lunga introduzione in crescendo aperta dal pulsare burloso di un basso che apre per un’ascia sonnolenta, concentrata a sparare almeno inizialmente delle pennellate, ed una voce che dopo un po’ diventa quasi un tutt’uno con le danze tribali sui tom – tom della batteria, ormai una costante personalissima dei Mortuary Drape.
Con “Vengeance from Beyond” si mette ancora nuova ed interessantissima carne al fuoco nonostante la giovane età dei ragazzi che già sparavano un’invidiabile fantasia. Il bello è che questa canzone è probabilmente la più particolare di tutto il lotto ed il perché è sintetizzato in questa parola: triste. Ascoltatevi l’introduzione: una chitarra acustica dai semplici giri d’arpeggio struggenti. Nel frattempo il pezzo sembra assumere i veri e propri toni di una ballata perché entra la batteria che accompagna perfettamente la compagna disperata. Finito. Ed è qui che si fa viva la contraddizione del brano: il massacro all’arma bianca mischiato alla tristezza. Tra l’altro un massacro dal riffing schizzato ed in un certo senso irregolare, dato che i colpi della batteria sul rullante si fermano spesso per accentare con i piatti quella pericolosa progressione di note. E quindi, quell’introduzione è tutto fumo, non ha seguito? MA SUVVIA, certo che ce l’ha! La sua atmosfera viene infatti ripresa proprio nella parte centrale, un lento dalla parte solista perfino elegante e a tratti addirittura arabeggiante. Poi dopo una pausa d’effetto, ricomincia il massacro.
Qua qualcuno potrebbe lamentarsi visto che incredibilmente “Obsessed by Necromancy” ha un riffing che a volte pare costruito quasi sulla falsariga della precedente canzone. Solo che ora l’atmosfera che esso ricrea è di incrollabile paranoia, esso viene ripetuto per un lungo periodo anche attraverso delle semplici variazioni tonali. E la parte centrale risulta completamente funzionale a quest’aura proprio grazie all’assolo vorticoso ed incantatore, in caduta libera verso un abisso visionario ed ipnotico.
Ma se la caduta di “Obsessed by Necromancy” è metafisica quella di “Evil Dead” è definitiva, è pura distruzione. Blast – beats angoscianti che lavorano benissimo sui piatti, un riffing diviso fra la solennità del black metal, il nervosismo del thrash metal e l’ignoranza cavernosa del death metal. Ogni volta che sento l’attacco di chitarra iniziale mi vengono in mente i Conqueror, con quell’inquietante suono da motosega. Un pezzo che preconizza in una sola botta tutte le basi del metal estremo più bastardo. E allo stesso tempo si incanala nella tradizione che voleva che l’ultimo episodio fosse quello più diretto e veloce, solo che i Mortuary Drape andarono oltre ogni più nera aspettativa andando al di là del tipico significato di questa” regola”.
Ogni cosa di questo demo è incastonata magnificamente alla perfezione, e quindi non posso non parlare bene dell’impalcatura strutturale che regge i vari pezzi. Ovviamente, essendo un demo grezzo e molto estremo già per l’epoca, ci si poggia su schemi a strofa – ritornello e simili interpretati però sempre in maniera diversa e di conseguenza il discorso è difficilmente prevedibile. Le uniche cose veramente tali si dimostrano alla fine solo l’introduzione, sempre e comunque d’atmosfera (ergo lente) eppure talvolta non esenti da vere e proprie linee vocali (come in “Presences” o “Obsessed by Necromancy”); e la parte centrale, nella quale si fa viva puntuale come un orologio svizzero la chitarra solista impegnata in un assolo che nella maggior parte dei casi si risolve in una sequenza più o meno ben definita di note che vanno di pari passo con la ritmica, quindi tecnicamente non è proprio da ritenere come un assolo puro e nudo. Altra caratteristica interessante è il lavoro di rifinitura del pezzo che viene appunto subito dopo la parte centrale e che permette un discorso che si protrae per un minuto o poco più in modo da concluderlo degnamente riprendendo in maniera fluida e sufficientemente continuativa l’intensità delle primissime soluzioni (generalmente veloci). Anzi, alle volte ne viene proposta addirittura una totalmente nuova.
Decisamente più spartana “l’inascoltabile” (per molti) produzione di “Necromancer”. Ma per far capire la sua magia certi gruppi, come i sardi Vultur, hanno rifatto canzoni quali “Primordial” imitando proprio una produzione simile. Le frequenze non solo sono semplicemente basse ma le chitarre sono così zanzarose che ascoltare l’opera con le cuffie ad un volume non adatto rappresenta un suicidio per i timpani, anche perché ci sono due chitarre. Paradossalmente (ma è un fatto completamente logico visto che le frequenze basse favoriscono le note più acute) la chitarra solista si sente a meraviglia, cosa che non succede stranamente in “Evil Dead”. “Stranamente” un paio di ciufoli perché a poco a poco si ha la netta sensazione che le frequenze si abbassino sempre di più, e chissà per quale occulto motivo. Inoltre, né la voce né la batteria, per quanto sufficientemente comprensibili, non sono proprio il massimo per uno che non è abituato a simili sporchissime sonorità. Quale non sono io. Ma allora erano critiche negative? Cazzo, certo che no! Al massimo l’assolo seppellito. Al massimo certi momenti vocali incomprensibili, ma il fatto è che una tale produzione è veramente magica dato che regala un’aura oscura e maledetta che è totalmente funzionale all’immaginario del Drappo Mortuario. E cazzo, scusate se vi ho messo in fibrillazione!
Voto: 94
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Primordial/ 3 – Into the Catacomba/ 4 – Presences/ 5 – Vengeance from Beyond/ 6 – Obsessed by Necromancy/ 7 – Evil Dead
Sito ufficiale:
http://www.mortuary13drape.com/
MySpace:
http://www.myspace.com/mortuarydrape