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Saturday, September 25, 2010
Oath - "Devil's Victim" (2008)
Nota dell'ultim'ora:
nella recensione mi riferisco agli Oath sempre come gruppo. Peccato che il disco sia stato registrato dal solo Dezo, e che i restanti 3 membri che citerò nella rece ne fanno parte soltanto durante i concerti di questa pericolosa creatura speed/thrash.
1. INTRODUZIONE.
Genuinità e semplicità sono due termini che stanno mancando un po’ troppo dalle pagine di “Timpani Allo Spiedo”, dato che stavolta dalle nostre parti viene accolta una musica tremendamente lontana da qualsiasi tipo di modernismo, il quale viene completamente irriso in pratica fin dal libretto del demo a me arrivato che, senza tanti convenevoli, proclama il più totale bando di tecnicismi e roba fine in generale. E quindi ai più sarebbe subito comodo tirare in ballo la parola “purezza”, eppure, pur vomitando effettivamente sonorità pure e vecchia scuola che spesso e volentieri trascendono addirittura dal concetto di Metal estremo, è uscito un bel “mischione” con una particolarità decisamente apprezzabile. Il tutto eseguito con una sfrontatezza ed uno spirito provocatorio e piacevolmente grottesco (come soprattutto l’assurdo abbigliamento del cantante, completamente diverso da quello dei suoi compagni) ma con un odio particolarmente profondo verso tutto ciò che rappresenta la religione cristiana. Questi sono gli Oath, figli più che legittimi dei Venom, altri maestri della dissacrazione più burlona e beffarda.
2. PRESENTAZIONE EP.
Gli Oath (che fanno parte della schiera di formazioni che mi hanno contattato senza che io facessi qualcosa in proposito, e tra l’altro mi hanno inviato il loro ep tramite la cara ma tanto vituperata posta tradizionale) sono ancora piuttosto giovani visto che sono nati nel 2006 in quel di Pordenone, ed attualmente sono costituiti da Dezo voce, Nicola chitarra, Ser basso (questi ultimi due militanti anche nei brutallari Chronic Hate) e Tiepid (!?) batteria. Il qui presente “Devil’s Victim” (corredato da una copertina che considererei a dir poco provocatoria non soltanto perché vi è ritratto Pietro Pacciani, cioè il tristemente famoso “Mostro di Firenze”, ma anche perché le facce dei due poliziotti sono state letteralmente annullate), rappresenta il primo ep del gruppo, pubblicato in maniera completamente autoprodotta durante i mesi finali dell’A.D. 2008, dopo aver dato fra l’altro ai posteri prima un demo e poi uno split con i Necrosexual Rites, e di cui due brani (cioè “Dead Missionary” ed “Unholy Legions”) sono stati riproposti nel promo di qualche tempo dopo. “Devil’s Victim” consiste (chissà perché…) di 6 pezzi, tra cui l’ultimo è totalmente strumentale, proponendo il proprio assalto in un arco di tempo neanche poi così esiguo per un disco del genere visto che si tratta di circa 18 minuti di ottima musica. La quale, secondo me, ad un attento ascolto si è dimostrata lontanuccio ma non troppo dalla definizione data da Metal-Archives che l’ha incasellata semplicemente nello speed/thrash metal, non tenendo così conto di certe caratteristiche che forse personalizzano ancora di più la proposta dei nostri nordisti, offrendo in tal modo un qualcosa che avrebbe sicuramente fatto un po’ incazzare i cosiddetti puristi del Sacro Metallo fine anni ’70 – inizio ’80. Infatti, mi sembra piuttosto esplicita l’influenza derivante dall’hardcore truce e “birraiolo”, influenza che poi credo si possa ravvisare facilmente in ogni strumento ma a dir la verità non mi pare per niente idiota considerare gli Oath più un gruppo hardcore che metal, almeno per quanto riguarda l’ambito strettamente musicale (tant’è vero che dalla loro foto su Metal-Archives, per via dell’abbigliamento di quasi tutti i membri, mi sono parsi subito un quartetto death metal). In pratica, come si vedrà, il carattere musicalmente metallico dell’ep risulta determinato soprattutto dalla chitarra. Per il resto, si bada piuttosto al sodo andando a velocità parecchio sostenute (e da questo punto di vista non mancano delle vere e proprie sorprese benvolute), non dimenticando però di esprimere una buona varietà e fantasia, che a dir la verità non m’aspettavo in maniera così netta, e fra l’altro, nonostante tutto, i nostri tecnicamente parlando se la cavano veramente bene, pur nella loro innegabile semplicità di fondo.
Parlando invece della produzione di “Devil’s Victim”, la prima cosa da dire è che piacerà sicuramente a chi si ciba di sonorità marce ed in un certo senso pure “instabili” (parola che vi spiegherò più tardi), dove si sente decisamente (o almeno così pare a me) che tutto il disco è stato registrato tutti insieme appassionatamente, non eliminando quindi il cosiddetto “effetto-stanza” di cui si fa portavoce soprattutto la “caotica” voce. E’ un tipo di produzione che rispecchia secondo me l’anima vecchia scuola anche dal fatto che le frequenze, come mi sta tra l’altro capitando spesso ultimamente, sono state impostate sui medio-bassi, ergo per chi si vuole gustare beatamente l’opera, gli consiglio di alzare il volume dello stereo di qualche tacca in più del solito (almeno per ascoltatori come me ovviamente), e la pulizia del suono viene del resto minata dallo stesso bilanciamento degli strumenti, dato che il basso se non sbaglio è stato totalmente seppellito, cosa che impedisce a mio parere di godersi del tutto la prestazione in toto senza tanti problemi, ma d’altro canto, come scriverò più tardi, tale “mancanza” si può considerare pure come un fattore decisamente positivo. Discorso simile per la cassa, a cui invece ho riscontrato il problema del “va e viene”, nel senso che alle volte si sente piuttosto bene mentre in altre occasioni ciò non succede.
3. ANALISI STRUMENTI.
La voce di Dezo rappresenta a mio avviso uno degli aspetti più interessanti degli Oath, visto che propone delle sparate rauche e non poche volte selvaggiamente urlate (le quali mi rimandano, seppur in versione, come dire, meno sguaiata, continuamente a quelle piuttosto simili di John Brannon degli storici hardcore statunitensi Negative Approach). La foga è quella del caro vecchio hardcore, non viene data letteralmente pace alle corde vocali eppure, per quanto riguardo più strettamente la cadenza vocale, qui viene aggiunto qualcosa, dato che la discendenza thrash in certi momenti mi pare tremendamente netta, e stavolta il paragone principale è determinato specialmente dalla matrice assassina e beffarda di Tom Araya dei tempi d’oro. Ma rispetto alla tradizione dell’hardcore e del thrash metal, non è stato dato nessuno spazio di manovra né ai cori né alle sovraincisioni, prediligendo quindi da una parte un approccio in certo qual modo più bestiale del solito, considerando che così facendo non viene elargito nessun aiuto al nostro, aiuto che comunque nei generi sopraccitati sono spesso meno rauchi della voce principale, mentre dall’altra si è voluto consolidare ulteriormente il carattere decisamente “dal vivo” della produzione di cui sopra, ma il pezzo probabilmente più forte della prestazione di Dezo è per me il soprammenzionato “effetto-stanza”, utile a rendere effettivamente più caotico ed isterico il discorso, come se la voce provenisse da un posseduto che non si ferma più, un vero e proprio forsennato totale. La voce guarda caso alle volte si allontana, facendosi in tal modo quasi seppellire dal resto degli strumenti tanto da sembrare un improvviso ascesso di masochismo sfrenato e completo rendendo onore al diavolo, maltrattandosi a più non posso (non a caso nel cosiddetto booklet ho trovato addirittura un fiammifero, e vi lascio immaginare quale scopo dovrebbe avere – dai che è facile viste le osservazioni appena fatte!). Gli interventi vocali del resto si dimostrano sempre azzeccati, mai invasivi, per non parlare invece dell’immane potenza che riescono a regalare a tutto l’insieme, e da questo punto di vista mi sembra tremendamente esplicativa l’apertura dell’ep con “Nocturnal Possession”, canzone che si apre con una intro vera e propria costituita essenzialmente da due tipi di voce praticamente quasi all’opposto, visto che la prima è una specie di lamento acuto che dopo un po’ diventa più soffocato, l’altra è un urlo più classico e “metallico” del solito i cui interventi sono “ad intermittenza” rispetto all’altra, più continua. Tra l’altro, le urla sono come disturbate, come se fossero state registrate troppo vicine al microfono dando così ulteriormente la rappresentazione di un uomo carico di peccato e che sta cercando di sfogare ogni proprio istinto bestiale, al contrario del lamento, che pare essere la sua parte umana che sta lentamente per soccombere sovrastata. Oltre a tutto questo, si sentono anche dei tonfi grevi e pesanti, che aumentano pian piano di intensità. Dopodichè, ecco che la musica inizia sul serio, grazie anche a Dezo che con una foga hardcore intensissima, urla lo stesso titolo del pezzo facendo partire il massacro.
La chitarra è a mio avviso un altro capolavoro di immane portata, e stavolta mi tocca parlare di quello che considero un ibrido spaventoso per quante sono le influenze che si possono riscontrare in tale strumento, andando così ben oltre il classico riffing di stampo speed/thrash come si può sentire tranquillamente negli ormai sciolti Violent Assault e nei Game Over (se non lo avete capito, questi sono gli unici gruppi del “mischione” sopraccitato che hanno partecipato all’esperienza di “Timpani Allo Spiedo”).
Prima di tutto, si prenda in considerazione il modo di suonare del nostro Nicola, piuttosto semplice e senza pretese, al quale secondo me a tal proposito si avvicina spesso e volentieri alla scuola hardcore, dato che se non erro non si concentra singolarmente su una sola corda ma tende a plettrarne più di una contemporaneamente (spero di essermi fatto capire perché a volte il mio italiano latita vergognosamente…) e quindi ne viene fuori già un qualcosa di bello selvaggio. D’altro canto, riguardo il profilo strettamente atmosferico, Nicola mi sembra che sciorini con una buona frequenza delle melodie dal taglio epico e battagliero direttamente prese dal caro vecchio heavy metal, che fra l’altro a loro volta possono esser semplificate e ridotte all’osso, come in “Nocturnal Possession”, esternando così per l’ennesima occasione un primitivismo da far spavento. Eppure il lavoro, nonostante tutto, mi pare decisamente meno semplice e scontato di quello che potrebbe apparire agli inizi, ed in tal caso è da citare assolutamente “Nun’s Moans”, pezzo ricamato da un riffing classico ed imprevedibile del solito dove trovano sfogo improvvisamente e senza linea di continuità anche delle note più acute che rendono quasi isterico il tutto. Fra l’altro il riffing, sempre in tale episodio, sa essere pure in un certo senso raffinato sotto il profilo strutturale, magari in modo da proporre un motivo formato da due parti apparentemente simili, di cui la seconda è sicuramente quella più tecnica variando il discorso all’inizio della propria parte (cosa piuttosto rara da sentire in circolazione, dato che con più frequenza le variazioni alla prima avvengono durante le note finali) attraverso sempre degli acuti, resi però forse più lancinanti rispetto all’esempio precedente considerando che essi stavolta vengono espressi in un arco di tempo persino più breve. O come non menzionare le essenziali melodie quasi giocose e “medievalesche” di “Dead Missionary”, oppure, parlando adesso del riffing su tempi medi, quelle più dal sapore punk di “Unholy Legions”, od ancora è da citare “Devil’s Victim”, probabilmente il brano più epico di tutto il lotto e di cui parlerò, per questo e per un altro motivo importante, specificatamente più avanti. E la cosa curiosa è che non solo Nicola rifugge spesso e volentieri dalla cattiveria più truce ed esplicita, preferendo invece per delle melodie che con l’estremo non hanno in pratica niente a che fare (beh, oddio, non completamente), e così i Venom diventano probabilmente il paragone più naturale possibile, ma da queste parti viene rifiutato anche l’assolo, o meglio il concetto dell’assolo (in senso generale) tipico del metal, e fra l’altro senza proporre una traccia di chitarra ritmica durante il solismo, come succede in “Nun’s Moans”. E’ un assolo breve e semplicissimo, totalmente hardcore, che quasi ricalca un riff cantilenante ed “adolescenziale” della precedente “Unholy Legions”. E, rafforzando ancora di più la natura completamente dal vivo, gli Oath hanno rifiutato stavolta completamente anche il concetto di sovraincisione, aspetto che trovo perfettamente in linea con l’anima hardcore del quartetto nordista.
Per quanto riguarda il basso, beh, mi sembra quasi inutile segnalarlo, ma il ruolo che ha tale strumento nella musica del gruppo è non poco di secondo piano e ciò per 2 motivi: il primo è che non è stato messo per niente in risalto in fase di produzione, cosa che da una parte affossa purtroppo la prestazione di Ser, dall’altra la considero piuttosto azzeccata in quanto così facendo è stato valorizzato pienamente il lavoro “rumoroso” della chitarra, strumento anche perciò forse più intenso del basso, greve e pesante com’è quest’ultimo; 2) a quanto mi risulta, Ser (o almeno il suo strumento) non è stato neanche importante nella stessa costruzione delle melodie, magari distaccandosi almeno un minimo da quello che si sente dall’ascia (attenzione, questa è un’osservazione, non una critica beninteso).
Ottimo il lavoro di Tiepid, il quale, nonostante un “nome da battaglia” da crepapelle, sa imbastardire in maniera spesso devastante tutto l’insieme. Ed in pratica è allo stesso livello della chitarra, dato che propone uno stile essenziale ma per nulla scontato e/o banale, anche perché, dietro il proclama “zero tecnica”, alle volte si nascondono dei ritmi che oserei definire piuttosto raffinati che non ho beccato nei più tecnici Devastator (altro gruppo che mischia(va) il thrashcore con lo speed, e che in questi ultimi anni ha eliminato quest’ultima componente). A tal proposito, si senta soprattutto “Unholy Legions”, dove in certi momenti si fa un uso bellissimo ed abbastanza dinamico dei piatti, precisamente prima sul ride e poi sul charleston (quest’ultimo suonato ad un tempo un poco più lento rispetto al primo). E quindi il nostro non difetta assolutamente di fantasia, e per quanto riguarda più strettamente i ritmi, sono quasi sempre belli veloci (tant’è vero che i primi due pezzi in pratica non hanno un rallentamento vero e proprio), sia per le variazioni ad uno stesso determinato pattern (variazioni che perlopiù sono basate sui tom-tom, ma comunque da questo punto di vista Tiepid risulta decisamente più dinamico di Med dei Game Over, il quale è spesso e volentieri spaventosamente statico nel suo lavoro), che negli interventi durante gli stacchi, che riescono sempre e comunque a valorizzare in pieno la potenza del tutto, vomitando un’intensità che di fatto è perennemente presente, come succede proprio in “Unholy Legions” dove in alcuni punti il nostro si diverte anche a giocare velocissimamente sui tom-tom. Da queste parti i tempi lenti non hanno in pratica voce in capitolo se non nell’ultimo capitolo dell’ep, cioè “Devil’s Victim”, anche se è un tempo doom piuttosto relativo per quello che si riesce a fare con la cassa la quale ha un discorso abbastanza imprevedibile. E quindi o si propongono tupa-tupa selvaggi, che sembrano non conoscere il concetto di doppia cassa, oppure si snocciola l’headbanging più sfrenato martellando più velocemente i timpani con un groove da tempi medi terribilmente contagioso e che prende piede da “Unholy Legions” in poi, ma secondo me qui i tupa-tupa (alcuni di una violenza parossistica come si può sentire in “Jesus End”) esulano in tantissime occasioni da quello che è un ritmo tipicamente thrash, che forse c’è solo in “Dead Missionary”, con quella cassa dinamica ed un po’ isterica caratteristica di tale genere. Invece, si è preferito per un approccio probabilmente più tipico dell’hardcore, cioè con la cassa che più semplicemente va in sincronia con il rullante. Inoltre, gli Oath saranno pure un gruppo speed/thrash ma stranamente (neanche tanto poi, viste le credenziali) sono gli unici di tal fatta da me sentiti in cui il batterista pare avere un odio viscerale per la doppia cassa, insomma verso quel discorso cosiddetto “ad elicottero” caro allo speed e di cui storicamente uno dei primissimi esempi è stato “Exciter” dei Judas Priest. Vabbè, non è che c’è proprio odio vero vero, visto che sia in “Dead Missionary” che in “Jesus End” la doppia viene utilizzata addirittura attraverso dei saettanti blast-beats, dimostrando fra l’altro un grado di fantasia di promettente livello, riuscendo quindi ad essere più imprevedibile del previsto (e poi dicono che i gruppi vecchia scuola non hanno niente da dire…). Se tutto ciò non bastasse, segnalo che mi piace da matti il suono stesso della batteria, un suono di una rozzezza distruttiva nella quale primeggia un rullante che sembra l’imbastardimento potenziato di quello dei death metalloni norvegesi Throneum nell’album “Deathmass of the Gravedancer”, un ride che alle volte è così sfavillante da spaccare le pietre, e per non parlare della cassa pericolosamente greve, anche se non è che la si becca tranquillamente sempre, pur essendo questo secondo me un difetto piuttosto secondario che non inficia poi così molto su tutto l’insieme. Ma purtroppo ne ho riscontrato uno particolarmente importante e che un po’ rovina “Dead Missionary”, però di ciò ne parlerò nel discorso sulla struttura dei pezzi di “Devil’s Victim” (manca poco, abbiate pazienza).
4. LA STRUTTURA-TIPO DEI PEZZI.
Riguardo giustappunto l’argomento da poco citato, bisogna dire che gli Oath da questo punto di vista sono spaventosamente vecchia scuola, e ciò per 3 precisi motivi:
1) il fatto che da queste parti si ama far partire un brano attraverso un’introduzione in cui la scena risulta temporaneamente dominata dalla batteria o dalla chitarra, meno importante da questo punto di vista rispetto alla sua compagna, visto che introduce al discorso musicale in soli due casi, cioè in “Nun’s Moans” e “Jesus End”. Questo significa che Tiepid può essere tranquillamente considerato come il vero motore della musica quivi presentata. Introduzioni talvolta pazzescamente brillanti ed intense, come nell’attacco di “Nocturnal Possession” in cui, dopo quella già menzionata introduzione vocale corredata da minacciosi tonfi dall’andatura irregolare e che si fanno più forti via via, si fa viva una batteria capace di sciorinare un tempo non esattamente lineare eppur di una potenza devastante, e poi c’è una voce che per la prima ed in sostanza unica volta completa appunto il tutto. Di conseguenza, viene dato in alcune occasioni risalto alla tipica chiusura del metal ottantiano, seppur resa meno pomposa e quindi decisamente più semplice, come al contrario si può sentire quasi continuamente nel primo meraviglioso album dei Venom, quel “Welcome to Hell” appiccicato letteralmente nella mia mente;
2) l’utilizzo di soluzioni che si esprimono semplicemente in maniera paranoica e rigida attraverso momenti solitamente contrassegnati da 2/4 veloci battute che più classiche non possono essere. In modo molto meno frequente vengono usate le 6 battute, spesso per compensare il ruolo della voce che in tal caso entra in gioco durante l’inizio della terza battuta (come in “Nocturnal Possession”). Si preferisce insomma l’immediatezza, anche se credo che per quanto riguarda il profilo strutturale gruppi come i Violent Assault siano decisamente più violenti degli Oath. Infatti, si noti per esempio che in “Nun’s Moans” l’ultima soluzione viene sottoposta ad un’iterazione temporale lunga ben 14 battute che per una formazione del genere non è solo rara ma può essere pure rischiosa (dato appunto il carattere inusuale di tale aspetto del quartetto). A dir la verità, le battute in questo caso dovrebbero essere come minimo 2 in più, manco stessimo ascoltando un disco black metal, visto che nel frattempo viene vomitato un breve “assolo” hardcore. In pratica, solo in “Jesus End” il discorso delle battute si può dire che venga, seppur leggermente, rivoluzionato ma ciò sarà argomento di discussione in un paragrafo apposito, e comunque penso che basti segnalarvi che in tale occasione si ha persino l’accortezza di sciorinare una struttura un pochino più cervellotica e per così dire elegante del solito;
3) anche se stavolta il discorso risulta più complicato, ha comunque un’importanza basilare pure il modo in cui le varie soluzioni si susseguono cammin facendo. Infatti, prima di tutto gli Oath non seguono esattamente alla lettera il tipico schema della vecchia scuola rappresentato da strofa-ritornello, seppur spesso e volentieri vi si avvicina a questo, a volte anche moltissimo (come in “Nocturnal Possession”, che la considero quale la canzone più semplice da questo punto di vista, essendo un classico 1 – 2 che si ripete dapprima consequenzialmente per 2 volte, per poi proporre un’altra soluzione ed infine si conclude ripetendo in forma ridotta e più sciolta i primi 3 passaggi – ossia 1 – 2 – 3. Tra l’altro, poco dopo la prima apparizione del 3, il 2 viene ripetuto un’altra volta però attraverso una propria modificazione partendo dall’1, quindi in fin dei conti il discorso non credo possa essere considerato proprio totalmente classico), anche perché la conclusione del pezzo è di solito affidata ad un passaggio che non fa assolutamente parte di quelli iniziali (al contrario del caso sopraccitato in cui è il primo che dà fine alle danze). Per il resto, la metodologia è in un certo senso molto simile a quanto proposto dai nuclearisti black/thrashettoni francesi Vortex of End. “In un certo senso” perché ogni brano degli Oath è costituito da mini-sequenze formate da 2 soluzioni che mandano avanti il discorso con un generico 1 – 2 – 1 – 2, ed in alcune occasioni si va addirittura oltre visto che dopo la seconda apparizione del 2 può pure accadere che il primo venga ulteriormente ripreso, ed è proprio quello che succede sia in “Unholy Legions” che in “Jesus End”, e, seppur indirettamente, in “Nun’s Moans”, dove invece viene ad un certo punto propinato uno stacco principalmente di chitarra che blocca temporaneamente l’apparizione della prima soluzione di tale mini-schema. Eppure, nonostante tutto, il paragone con i Vortex of End mi sembra anche piuttosto fuoriluogo in quanto, contrariamente agli Oath, ‘sti francesi, per far partire giustappunto ogni mini-sequenza tirano fuori un lungo stacco. Aspetto che per fortuna nel quartetto da Pordenone non è poi così paranoico. Certo, anche qui gli stacchi possono essere tantini, come i 4 sia di “Nocturnal Possession” che di “Unholy Legions”, ma neanche si può dire che ne abusino. Per fare un esempio, in tutto l’arco di “Dead Missionary” ce n’è solo uno, mentre in “Nun’s Moans” e “Jesus End” uno in più. Mi piacerebbe in effetti sentire gli Oath usare gli stacchi in maniera decisamente più moderata, così da dipendere molto meno da essi per potenziare ulteriormente la musica. D’altro canto, i nostri li sanno utilizzare sempre veramente bene, non perdendo quindi mai d’intensità. Conseguenza pure della loro brevità, ed inoltre da questo punto di vista sanno essere veramente vari e fantasiosi, altra caratteristica che secondo me manca completamente nei Vortex of End.
Parlando più propriamente delle soluzioni presenti, in tutto l’arco del disco se non erro ce ne sono 20, cioè poco più di 3 per pezzo (il massimo si trova in trova nelle ultime 3 canzoni vere e proprie con 4 ed il minimo in “Devil’s Victim” con una), le quali di solito in tutte le loro apparizioni si esprimono attraverso le stesse battute della prima volta.
Epperò (per usare una parola aulica ed antica…triste), come già segnalato, in “Dead Missionary” ho riscontrato qualcosa che per me non quadra nella batteria. Mi sto riferendo alla modificazione del 3° passaggio, il cui ritmo veloce, nella sua ultima apparizione, viene un po’ cambiato infilando nel discorso anche improvvisi tom-tom sfascia-collo. In sé la mossa mi pare azzeccata, ma è il di per sé che non mi convince del tutto. Infatti, dopo 4 battute, si fa viva un’altra variazione, soprattutto ritmica, della soluzione soprammenzionata, che è in sostanza un’estremizzazione della precedente, visto che per esempio il tutto viene rafforzato grazie all’entrata burrascosa del ride. E tale ultima modificazione, più veloce che mai, la considero effettivamente come il vero picco emotivo di questa mini-sequenza (stavolta esprimente in un passaggio e due sotto-passaggi). Alla luce di tali considerazioni, quei tom-tom, che riescono a regalare quell’effetto bombastico in più, purtroppo a mio parere scemano nei momenti citati qualche riga prima, e ciò è secondo me l’unico difetto strettamente strategico di tutto l’ep, dato che estremizzano forse fin troppo presto il discorso. Ma vabbè, non è poi qualcosa di così grave, anche perché trovare un disco perfetto è praticamente (quasi) impossibile.
5. “UNHOLY LEGIONS”.
Adesso però mi sembra giusto parlare di 3 canzoni che, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, si distaccano, seppur non del tutto (struttura soprattutto) dai rimanenti episodi. Si parte quindi con “Unholy Legions”.
Nella totalità di dischi speed/thrash che nella mia ancor giovane “carriera metallica” ho ascoltato (a volte con avidità...) prima o poi nella scaletta si becca quel pezzo che, per così dire, “tranquillizza” gli animi. E’ quel brano che si discosta spesso completamente dalle velocità sostenute degli altri, offrendo in tal modo una bella dose di groove che in non poche occasioni dà una carica immaginifica - ed anche letale per la testa – che almeno adesso si ritrova con tutta tranquillità a seguire un ritmo che poco prima era a dir poco indiavolato. Ed è proprio di ciò che è costituita “Unholy Legions”, “grooveggiata” per certi versi abbastanza particolare ed inusuale da ascoltare nella nostra scena musicale, specialmente perché sputa con “non-chalance” spesso un riffing dal taglio contagiosamente punk e che pare rappresentare a più non posso l’epico danzare delle legioni oscure mai così dispettose e felicemente malvagie (bello il paradosso nevvero?), ma anche perché qui il batterista dà spago sia ad un divertente lavoro di cassa, che alle volte si esprime con continuità proponendo brevi pause, sia perché è proprio in tale episodio che Tiepid spara per la prima e forse unica volta un tempo che durante la stessa soluzione cambia improvvisamente ritmo (nel dettaglio, dapprima va per pochissimo veloce, e poi ritorna sui tempi medi). Ma soprattutto complimenti per la sua posizione strategica in cui ‘sta canzone si ritrova, dato che a mio parere così si dimostra utilissima, dopo aver vomitato due episodi in pratica totalmente sostenuti, a regalare all’ascoltatore un po’ di genuino ossigeno, in modo da iniettargli, facendola ritornare in maniera ancora più forte, quella foga che a lungo andare, a forza di sparare musica ultra-veloce, potrebbe scemare (assunto per fortuna non universale). Curiosamente, è proprio da qui che comincia in un certo senso l’equilibrio tra le parti veloci e quelle più lente, oltre a dare un’ulteriore varietà e fantasia piuttosto insospettabile da un gruppo di tal fatta, seppur, per quanto riguarda la struttura, non credo si possa dire con fermezza che il discorso qui cambi molto, a parte quel piccolo dettaglio della prima soluzione menzionata ormai parecchie righe fa. Comunque, per curiosità e completezza, eccovi più o meno lo schema di “Unholy Legions”, lasciando stare l’introduzione, prima di sola batteria e poi di chitarra e batteria insieme: 1 – stacco di batteria – 2 – 3 – stacco di chitarra – 2 (con voce, diversamente da prima) – 3 – stacco di chitarra – 4 – 4 mod. – 4 – 4 mod. – 4 anc. mod – chiusura di chitarra.
6. “JESUS END”.
Invece, se “Unholy Legions” rappresenta quella che può essere definita la partenza di un nuovo viaggio musicale all’interno dello stesso disco, “Jesus End” può essere considerata come la più perfetta sublimazione di tutto il viaggio, anche se resa paradossalmente incompleta dal successivo episodio, che formalmente lo conclude interamente. Sì, perché “Jesus End” probabilmente racchiude tutte le sonorità sinora espresse dal gruppo (pure una modesta eleganza strutturale), aggiungendo nell’insieme qualche piccola grande chicca che in sostanza riesce a dare secondo me il definitivo colpo di grazia, anche dal punto di vista prettamente emozionale.
Prima di tutto, partiamo dalla struttura del brano che – sorpresa! – si dimostra un pochino più diversa del solito, dato che per la prima ed unica volta viene presentata una sequenza inusuale per il quartetto nordista, ossia una sequenza formata da ben 4 passaggi che si susseguono consequenzialmente in 2 classici tempi. Più o meno, eccovela qui di seguito: intro di chitarra – 1 – stacco di chitarra – 2 – 3 – 1 mod. – 1 – stacco di chitarra – 2 – 3 – 1 mod. – 1 – 4 – 4 mod. – 4 – 4 mod. – 4 – chiusura. Ed in tale schema nuovo di zecca, leggermente più fluido e complesso rispetto agli standard degli Oath, si riversano orgogliose ben 3 novità: la prima è nientepopodimeno che l’anima black della formazione, anima che viene esplicata compiutamente attraverso la soluzione n°3, grazie soprattutto ad un riffing che è in pratica il più dinamico di tutto il lotto, mentre invece Tiepid addanna il proprio strumento con dei tupa-tupa rafforzati da un ride “ignorante”; la seconda è sicuramente il primo dei passaggi conclusivi, cioè il 4, il quale poggia su un tempo sì groove eppur piuttosto lento e che risulta imbottito di un riff semplice ed incredibilmente “cattivone”, lontanissimo com’è dall’epicismo speed metal o dall’intensità thrashcore, e quindi cosa veramente rara da beccare nella musica di questi ragazzacci; la terza, anche se si esprime in un arco minuscolo di tempo, è senza ombra di dubbio la chitarra impazzita che chiude insieme agli altri strumenti la canzone, sputando un mini-assolo caotico che più classico in senso metal di così non si può, benché a dir la verità la conclusione è affidata alla dolce voce di un maiale (ah, dimenticavo: gli Oath sembrano amare queste trovate dato che fra l’altro “Dead Missionary” parte con una campana a morto – partenza brutale che mi ha fatto pensare fin da subito ad un pezzo black/death… - ma quella del maiale, vi parrà strano, secondo me è la più inquietante di tutte visto che ogni volta che la sento salto dal pavimento – o dalla sedia, dipende!). D’altro canto, è proprio nel finale che viene offerto un altro aspetto decisamente interessante (l’attesa è finalmente finita YAHOOO!!!) riguardo il profilo strutturale: infatti, la mini-sequenza conclusiva è secondo me un esempio di come si può essere eleganti nella propria rozzezza, in quanto il 4 è un passaggio formato da 2 parti piuttosto diverse l’una dall’altra, essendo la prima un trionfo dei piatti e delle plettrate, mentre la seconda è quel tempo medio-lento “cattivone” citato in precedenza. Bene, questa soluzione viene ripetuta per 4 tipiche battute, e l’anomalia avviene subito dopo, ossia con il 4 mod. che non è nient’altro che la semplificazione un poco più veloce (però stavolta, invece del ride ci si concentra sul charleston) e rapida del 4, modificazione che ogni volta viene sottoposta a 3 battute e mezza, dato che ci pensa la prima parte del 4 a bloccarla così che il finale diventa ancora più imprevedibile e meno rassicurante perché non ci si poggia più su quel classico ordine caro alla vecchia scuola dello speed/thrash, risultando così coerentissimo a descrivere, sia dal punto di vista emozionale che in maniera formale la “Jesus End”. Azzeccatissimo anche il maiale, che si potrebbe configurare come l’ennesimo sfottò contro la figura di Gesù in modo da spiattellargli orgogliosamente la propria “sporcizia” d’animo, cioè la propria più completa libertà.
7. “DEVIL’S VICTIM”.
Con “Devil’s Victim” invece l’atmosfera e la musica cambiano radicalmente, anche perché la voce stavolta è totalmente assente. E nonostante sia il pezzo decisamente più breve di tutto il lotto (circa un minuto e 10 secondi facendo così da contrasto con “Jesus End”, che sciorina il suo assalto lungo 4 minuti di perfezione), l’ultimo episodio fa un bellissimo effetto. E pensare che inizialmente non è che mi sia piaciuto poi così tanto, dato che dal titolo mi aspettavo una sparata infernale, ma poi la lampadina si è accesa…
Prima di tutto, bisogna dire che la struttura del pezzo è piuttosto semplice, essendo costituita non solo di un passaggio che si ripete lungo tutto l’arco di tempo attraverso varie incarnazioni, ma è in sostanza il classico 1 – 2- 1- 2 e poi alla seconda modificazione dell’1 viene affidata la conclusione del discorso. Le battute sono sempre e comunque 2, anche se ogni volta il riffing ripete la stessa melodia per 4 volte ma Tiepid ogni 2 battute ha pensato bene di infilare un ottimo uno-due per dare movimento ad un già contagioso tempo pieno di groove. La chitarra inanella quella che ritengo come la melodia più epica e battagliera del’ep, quasi a rappresentare effettivamente un alone fiero e tormentato da “io contro tutti” alla vittima del diavolo di turno, mentre azzeccatissimo è il già menzionato ritmo, utile a conferire forse un senso di divertimento beffardo che la avvolge completamente durante le sue pericolose avventure. Pericolo indotto che si fa più strisciante, meditato (ed ancor più distruttivo) nella stessa ultima modificazione, che è in sostanza un doom epico corredato fra l’altro da un lavoro di batteria abbastanza imprevedibile sulla cassa, proprio come a simboleggiare l’imprevedibilità a volte crudele della vita (e stavolta mi riferisco alla vittima della vittima…). Degno epitaffio di un disco che avrei voluto un poco più lungo.
8. CURIOSITA’.
Ma adesso vorrei dare adito a due mie curiosità, le quali sicuramente saranno oggetto di discussione nell’apposita intervista che farò al gruppo:
1) stranamente TUTTE ma proprio tutte le canzoni di “Devil’s Victim” hanno titoli contenenti due parole. Ciò significa che non solo i brani sono 6 (bel numero questo!), ma che, facendo la conta appunto della parole nei titoli, viene fuori il numero 12, e guarda caso 1 + 2 fa 3 (ma no? Non lo sapevo!). E’ forse un messaggio subliminale contro la cristianità, anche perché 12 è il doppio di 6 (ma perché mi vengono in mente ‘ste cose?)?
2) non so voi, ma io nella progressione dei titoli e dei testi mi sembra che il disco si può probabilmente considerare un po’ a concetto, seppur non completamente. Sì, perché dapprima viene la possessione notturna, che fa partire il delirio (“Nocturnal Possession”), a seguire la morte del missionario (“Dead Missionary”). Successivamente, la guerra contro la cristianità è apertamente dichiarata diventando un inno vero e proprio contro tutti i suoi servi (“Unholy Legions”) nei quali figura una suora (che fa una brutta brutta fine…) che forse suo malgrado attira l’avanzare delle legioni oscure (guarda caso). E così l’uomo e la donna sono stati completamente distrutti, ed a questo punto vedo un riferimento alla mitologia cristiana secondo cui l’uomo è nato prima della donna, la quale, in quanto sesso cristianamente inferiore, è stata partorita dal fianco di Adamo (mah…). E nel disco pare che tale cronologia sia stata decisamente rispettata, anche perché alla donna non viene offerta la cosiddetta consolazione della morte ma le viene sparato senza tanti convenevoli l’orribile ricordo dello stupro, data la sua mitica inferiorità (sempre cristianamente parlando beninteso)(“Nun’s Moans”). Dopodichè, la goliardia continua con la negazione del concetto di salvatore affibbiato a Gesù cristo, affermando così non solo la propria totale libertà di scelta ma anche l’affermazione del male che è intriso in tutti noi (“Jesus End”). Infine, il Male satanico viene spiattellato definitivamente con tutta allegria e senza vergogna, proclamando il suo totale ed irremovibile trionfo (“Devil’s Victim”).
9. CONCLUSIONI.
Adesso mi dispiace ma siamo arrivati veramente alla fine conclusione, e quindi cosa manca di scrivere ancora? Sicuramente del mio stupore riguardante il fatto che, nonostante gli Oath siano uno dei gruppi più rozzi in assoluto che abbiano mai calcato le pagine di “Timpani Allo Spiedo” li ho trovati persino più vari e fantasiosi delle altre formazioni più puramente speed/thrash finora qui ospitate, ed è questo secondo me il vero principale punto di forza del quartetto in tale ep, tirando fuori tra l’altro una spontaneità che va dritta al punto senza tanti convenevoli. Un’altra cosa interessante è che, a dispetto delle derivazioni musicali spesso e volentieri pesantemente hardcore, l’assalto è sparato attraverso un minutaggio bello consistente senza mai e poi mai perdere neanche un grammo d’intensità (anche perché tale caratteristica viene mirabilmente potenziata, come già segnalato, dall’headbanging di “Unholy Legions”). E dei difetti da me lentamente elencati solo uno è decisamente importante (ossia la variazioni di batteria in “Dead Missionary”, mentre l’altro per certi versi è secondario, visto che la cassa in non poche occasioni si sente benissimo. Aspetto grandi cose dagli Oath.
Voto: 90
Claustrofobia
Scaletta:
1 – Nocturnal Possession/ 2 – Dead Missionary/ 3 – Unholy Legions/ 4 – Nun’s Moans/ 5 – Jesus End/ 6 – Devil’s Victim
MySpace: http://www.myspace.com/oathpn
Thursday, September 23, 2010
"Strada a Doppia Corsia" (1971, USA)
Carissime e carissimi,
stavolta vorrei dare spago alla mia passione per il cinema e non credo neanche che questa sarà l'unica rece di questo tipo che pubblicherò nel Blog. Come per la rece del videogioco "Manhunt", anche stavolta ribadisco che non è presente nessuna forma di soggettivismo, anche se tale mancanza non mi piace per niente dato che nell'articolo è come se volessi avere ragione per forza io. Inoltre, altra anomalia...perchè la rece è così breve? C'è la stessa motivazione che stava all'origine della rece di "Manhunt", basta che cercate...
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1. LA TRAMA.
2 amici hippy (il Pilota e il Meccanico) impiegano tutto il loro tempo stando dentro un bolide truccato (una Chevrolet del 1955), alla continua ricerca di gare clandestine, per sfidare le incontrovertibili leggi della fisica. Silenziosi, simboli di una gioventù ribelle ormai materialistica, indifferente e paranoica, sul loro cammino senza meta incontrano, seduta nella loro macchina, senza nemmeno degnarle di uno sguardo, una hippy, semplice oggetto dei desideri usa e getta agli occhi dei maschi, indifferentemente maschilisti. Ad un certo punto si fa vivo un “collega”, un uomo di mezza età che non si capisce bene chi sia e che ogni volta che ospita un autostoppista racconta categoricamente, afflitto dalla noia e da una vita che in fin dei conti odia, una versione sempre diversa di sè, interessato a gareggiare contro di loro, in preda ad un odio verso gli hippy che è soltanto informe ed ambiguo. Infatti, niente è vero in Gto. Fermata in autostrada con birrette incorporate, permesso accordato al Pilota di guidare la sua Ferrari Gto perché questa ha qualche cosa che non va, corteggiamento mezzo andato a vuoto mezzo riuscito con l’hippy proponendole addirittura una vita insieme fatta di trasferimenti….sedentari che mai si realizzeranno, e riesce persino a pescare un organizzatore di gare per far sì che la sfida verso Washington - premio al vincitore l’auto dell’altro – si compia realmente poiché i due ragazzi sono a corto di quattrini. E intanto la ragazza cambia continuamente uomo, giacché adesso è con Gto. Ed è qui che il Pilota subisce un’inspiegabile “cotta” d’amore, ossia l’unica volta in cui dà espressione al suo viso perennemente in coma cosciente, freddo come nessun altro al mondo (il suo compagno invece ha un ghigno non poco beffardo). La trova in un bar, al centro del tavolo, corteggiata sia dall’ammogliato giovine sia dall’annoiato e logorroico inventore di frottole. Brevi battute, come disinteressate. Silenzi che dicono tutto. Nulla di fatto. La ragazza amante di tutti alla fine decide. Decide per uno sconosciuto motociclista incontrato lì totalmente per caso. E tutto ritorna come prima, come per incanto. Gto ritorna a ospitare senza posa i più diversi autostoppisti fino ad accompagnare una nonna e un’orfana di padre per visitare al cimitero la tomba del genitore morto in un incidente stradale mentre guidava guarda caso una Ferrari Gto! E i due amici ritornano a sfrecciare ancora, per l’ennesima gara, verso un futuro senza meta e allo sbando, fino ad arrivare all’audio totalmente eliminato, a seguire il rallentatore con relativo fermo immagine, perfetta sintesi di un orizzonte d’asfalto infinito ma informe; cristallizzazione della velocità quale raffigurazione di una gioventù confusa, posseduta ed avvelenata dalla macchina, che un giorno o l’altro fermerà la loro vita facendoli arrestare dai tanto odiati sbirri; sublimazione dell’alienazione, che niente vuole sentire. La scena bloccata, ora divenuta come una foto, viene bruciata, come a voler distruggere definitivamente un ricordo di cui si vuole soltanto la morte.
Il film diventa ancora più bizzarro grazie alla musica che è ridotta praticamente all’osso, ponendo così l’accento sul rumore monotono dei motori in modo da creare un silenzio quasi surreale, e quando questo è eliminato, come nel fangoso torneo fatto per racimolare i soldi, si viene sopraffatti da un casino pazzesco tormentando così lo spettatore che si ritrova a farsi torturare con un film dall’andatura lentissima e dalla trama inesistente e fumosa, priva di punti di riferimento concreti.
Claustrofobia
Scheda del film:
Titolo originale: Two-Lane Blacktop
Nazionalità: USA
Anno: 1971
Genere: Drammatico
Regia: Monte Hellman
Produzione: Michael Laughlin Productions
Distribuzione: Universal Pictures
Data di uscita: 7 luglio 1971 (USA)
Cast:
James Taylor, Dennis Wilson (rispettivamente cantante e batterista dei Beach Boys), Warren Oates, Laurie Bird