Sunday, October 28, 2012

Absvrdist - "Illusory" (2012)

Album autoprodotto (7 Luglio 2012, versione in CD 27 Luglio 2012)

Formazione (2011):          Marlon Friday - voce/chitarre/basso;
                                        Lyle Cooper - voce/batteria.

Provenienza:                     San Antonio, Texas (Stati Uniti)

Canzone migliore del disco:

la scelta è molto difficile data l'alta qualità di tutti i pezzi. Forse "Amongst Humans"... appunto, forse... dai, stavolta voglio essere indeciso, e che diamine!

Punto di forza dell'opera:

la capacità di dire tutto e di più anche in 40 secondi.

Absvrdist... mai nome è stato più azzeccato di questo, anche perchè questi due mattacchioni si collocano nella legione sempre crescente del black/grind. E fra l'altro gli Absvrdist sono forse il gruppo più estremo del genere da me ascoltato finora, e forse anche il più completo, in misura "peggiore" degli italici Male Misandria, che pure non scherzano affatto a forza di attaccare l'ascoltatore con assalti spaventosi dell'ordine del minuto.

Ecco, nonostante il nome, il gruppo USA sa proporre canzoni più lunghe del solito, come esemplificano perfettamente i 4 minuti di "Abstract Absurdities", che però risulta abbastanza meditata e "riflessiva" se messa a confronto con le altre, quelle più brevi. Ed è proprio con queste ultime che i nostri riescono a distruggere ogni resistenza attraverso un modo di intendere il genere per certi versi particolare.

Prima di tutto, ciò che salta subito all'orecchio è la struttura dei brani. Se avete presente il powerviolence più sfrenato non dovrei dare chiarimenti, ma agli altri dico che i cambi di tempo e di atmosfera sono così tanti da non avere quasi nessun punto di riferimento. Si passa così da blast - beats impossibili a tempi lenti magari stranamente raffinati, e da momenti crust ad alcuni più rumoristi se non minacciosamente arpeggiati come il black più agghiacciante comanda. E non manca neanche qualche puntatina di chitarra solista e qualche (ovviamente rarissimo) passaggio acustico.

Eppure, il tutto procede liscio, e quindi alla fine l'assalto è abbastanza digeribile, seppur una tale affermazione possa sembrare un assurdo. Infatti, ciò che permette di "alleggerirlo" sono sia quei contagiosi ritmi grooveggianti che fanno ballare bellamente il culo; sia i continui e fantasiosi stacchi, nei quali ha una buona importanza il basso, solitamente trascurato in questo genere; sia per la presenza di brani più meditati e lenti, fra i quali compare una strumentale piena di suspence che risponde al nome di "Brood" (l'altra, "Needful Things", è una brevissima semi - strumentale data qualche voce schifosa e gutturale); sia per una piccola dose di melodia quasi al limite del crepuscolarismo; e sia per la durata molto scorrevole del disco visti i suoi 26 minuti su 15 canzoni.

Parlando del comparto vocale, anche questo non si risparmia affatto in quanto a inventiva. Ci sono per esempio i grugniti in cagnesco tipici del grind, urla più gracchianti e quelle più stridule... e pure momenti in parlato, che magari concludono solitari un pezzo.

E la produzione com'è? Il disco parte sporco e cupo con una sola chitarra che si prepara ad attaccare, e subito dopo il suono diventa più limpido, potente, e fra l'altro gli strumenti sono ben bilanciati fra di loro. Ma in fin dei conti, vista la gran mole di tecnica e di dettagli, mi sembra più che scontata una produzione di questo tipo.

Insomma, abbiamo a che fare con l'ennesimo capolavoro di black/grind, e praticamente non ho trovato difetti sostanziali, se non forse un abuso di stacchi repentini che rendono il discorso più semplicistico. Ma alla fine è un abuso comprensibile considerata la particolare musicalità. Inoltre, gli Absvrdist sono arrivati al capolavoro senza nemmeno pubblicare (almeno apparentemente) un demo o qualcosa di simile. Allora chissà che mostro riusciranno a far uscire dopo...

Voto: 93

Claustrofobia

Scaletta:

1 - Repulsive/ 2 - Exposure/ 3 - Funny Games/ 4 - Mindless/ 5 - Logical Confusion/ 6 - First World Problems/ 7 - Amongst Humans/ 8 - Illusory/ 9 - Delusion/ 10 - Needful Things/ 11 - Vacant/ 12 - Weakness/ 13 - Shidiot/ 14 - Brood/ 15 - Abstract Absurdities

FaceBook:

http://www.facebook.com/absvrdist

BandCamp:

http://absvrdist.bandcamp.com

Saturday, October 27, 2012

Antiquus Infestus - "The Order of the Star of Bethlehem" (2012)

EP autoprodotto (14 Settembre 2012)

Formazione (2010):         Sverkel – voce;
                                         Malphas – chitarra/drum machine;
                                         Asmodeus – basso.

Provenienza:                   Cesena, Emilia Romagna.

Canzone migliore del disco:

"Moorfields", che fra l'altro contiene anche un breve passaggio parlato.
Punto di forza dell’opera:

l’atmosfera oscura.
                                        
Terzo lavoro per questo promettente gruppaccio, che l’anno scorso ha pubblicato il secondo demo per metà deludente e per metà addirittura un capolavoro, e che ritorna quindi con un disco decisamente più compatto. E, seppur la formula sia più o meno la stessa, i nostri hanno apportato qualche notevole cambiamento, se non persino un po’ di novità vere e proprie.

Per quanto riguarda le seconde, la proposta si è fatta sicuramente più black metal, rendendo così più oscuro e malvagio il death/doom occulto caro agli Antiquus Infestus. I quali si nutrono ancora di quella magniloquente atmosfera che immerge l’ascoltatore nei recessi più bui dell’Egitto antico, magari facendo uso di scale orientali.

La seconda novità deriva da quei curiosi intermezzi atmosferico/ambientali che qui e là danno respiro ai pezzi. A titolo di esempio, bastino gli ultimi due brani, nei quali stranamente ha un ruolo importante il basso che si sfoga praticamente con degli assoli. Il problema è che questi momenti si somigliano un po’ troppo fra di loro, ma per fortuna “The Signs of Future Threat” alla fine si riesce a distinguere per essere più sensuale e ricca di intuizioni grazie alla presenza di una chitarra acustica e un bell’assolo di chitarra elettrica molto particolare per il genere.

Per quanto concerne invece i cambiamenti, cioè i ridimensionamenti, bisogna proprio menzionare il fatto che la chitarra solista sembra meno fondamentale, anche in fase di assolo, che è presente specialmente lungo la parte finale dell’opera. Eppure, come si è visto, i nostri sono riusciti a rendere i soli probabilmente più fantasiosi e meno classici per il metal estremo, dimostrando così ancora una volta un buon sperimentalismo.

Però, si è lasciata per un po’ da parte la struttura “caotica” degli ultimi due pezzi di “The Cult of Ra” preferendo per una più ordinata ma spesso ricca di buone trovate, magari variando leggermente o meno le varie soluzioni di un brano specifico. Altre volte, si preferisce l’ossessività, ed è proprio in questo modo che si conclude, su un tempo doom, “The Signs of Future Threat”, nel cui finale si è innestata praticamente mezza intro.

Per il resto, hanno più voce in capitolo i grugniti (anche se il loro apporto manca purtroppo in "Bishopsgate") mentre le urla sono sempre di una cattiveria paurosamente palpabile; e infine, un plauso sia per come è stata programmata la drum machine, in maniera molto dinamica e sicura di sé, e sia per la produzione, pulita, potente e con gli strumenti ben bilanciati fra di loro.

Insomma, i nostri se ne sono usciti con un lavoro sicuramente più razionale ed equilibrato. Certo, l'assalto è ancora da affinare ma in ogni caso il miglioramento c’è stato (il voto lo conferma alla grande), e i testi mistici sono sempre molto interessanti. A breve aspettatevi un’intervista!

Voto: 79

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Intro/ 2 – St. Mary of Bethlehem/ 3 – Bishopsgate/ 4 – 55/ 5 – Moorfields/ 6 – Order of the Star of Bethlehem/ 7 – The Signs of Future Threat (Outro)

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Friday, October 26, 2012

Morgoth - "Cursed" (1991)

Carissime e carissimi,
ecco di seguito il link per leggervi l'ultima rece che ho pubblicato per Empire of Death, riguardante il primo album dei tedesconi Morgoth:

http://www.empireofdeath.com/public/template4/dettaglio_recensione.asp

Nota:

la copertina dell'album è quella della ristampa.

Friday, October 19, 2012

Bloodtruth - "Promo 2012" (2012)

Promo autoprodotto (25 Giugno 2012)

Formazione (2011):    Luigi Valenti – voce;
                                    Stefano Rossi Ciucci – chitarra;
                                    Giulio Moschini – assolo di chitarra (in “Coerced to Serve”);
                                    Riccardo Rogari – basso;
                                    Giacomo Torti – batteria.

Provenienza:               Perugia, Umbria

Canzone migliore del promo:

“Suppurating of Deception”.

Punto di forza dell’opera:

l’atmosfera a tratti malata, assolutamente da sviluppare in futuro.

Come promesso, eccovi i Bloodtruth, gruppo di belle speranze che ha tirato fuori questa sua primissima opera da sole 2 canzoni, così poche quasi per creare maggiore suspence per le produzioni future (e infatti già da un mese è uscito il singolo "Summoning of the Heretics"...). E, fra l’altro, un po’ come i Kataplexy, i nostri non dimostrano soltanto di saper cavare ottimi brani (con un problemino fastidioso comunque…) ma anche di saper sufficientemente sperimentare al di fuori del brutal, seppur in maniera sicuramente più, come dire?, pura.

Come prima cosa, bisogna dire che i Blootruth amano veramente alla grande i tempi veloci, e in non poche occasioni il batterista è così inumano da proporne addirittura di ultra – sparati, e quindi lo sfoggio di tecnica è qui più presente rispetto ai Kataplexy. Ma è anche vero che non ci troviamo al cospetto di una formazione brutal/grind, visto che si ha la saggia accortezza di decelerare anche quasi ai limiti del doom (“Suppurating of Deception”).

Ma dato che ho parlato di tecnica, sarebbe un delitto non citare il devastante assolo di “Coerced to Serve”, cosa rara nel genere. Ed è un solo abbastanza particolare, è allucinato, e pure non poi così breve, lontano dai tipici rumorismi che si sentono in circolazione. Però bisogna menzionare il fatto che il solo sia opera di Giulio Moschini degli Hour of Penance, quindi spero vivamente che non sarà un episodio isolato nelle prossime canzoni del gruppo, in quanto dà quel quid in più che fa sempre bene.

Quest’atmosfera gonfia di allucinazioni come nemmanco i Blue Cheer, è in effetti cara a ‘sti ragazzacci. A tal proposito, “Suppurating of Deception” esprime un potenziale assassino sin dalla sua struttura “caotica” (anche se tendenzialmente più ordinata rispetto a quella dei colleghi statunitensi soprammenzionati) al lungo e paranoico passaggio simil – doom con il quale la canzone si conclude minacciosamente. E’ proprio qui che il tutto diventa malato, mischiandosi magari fra surreali canti gregoriani (che fanno anche da blasfema intro all’opera) e spaventose ed effettate voci pulite (ma per il resto si prediligono cupi grugniti cagneschi, talvolta doppiati, con un minimo di urla sferzanti). I Bloodtruth mi hanno così ricordato un po’ i friulani Sedition, con cui condividono queste oscure suggestioni, seppur i primi le esprimano forse con più sicurezza e soprattutto con una metodologia strutturale più agile e che quindi consente in maniera più facilitata il raggiungimento di climax emotivi.

“Ma allora perché, visto che anche qui c’è qualche sperimentalismo, prima hai scritto che i Bloodtruth, al confronto con i Kataplexy, sono più puri?” Semplice, signore e signori: in questo caso il discorso non si avvale di digressioni funk o di altre bizzarre contaminazioni con altri generi, quindi più o meno tutto rientra nel brutal, anche in quanto a cupezza. La quale viene ovviamente accentuata dalla produzione, bella sporca e con gli strumenti ben bilanciati fra di loro, però peccato che io odi (scusate il parolone…) il suono del rullante, che tende ad appiattire tutto il discorso. Il “problema” semmai è capire perché molti gruppi brutal fanno uso di un rullante così piatto…

E’ forse l’ora di fare un mega – sondaggio?

(Come se queste fossero le cose importanti della vita…)

Voto: 74

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Coerced to Serve/ 2 – Suppurating of Deception

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Thursday, October 11, 2012

Kataplexy - "Promo 2012" (2012)

Promo autoprodotto (2012)

Formazione (2006):     Ken Pannarella - voce;
                                     Mike Mayborne - chitarra;
                                     Joel Sandoval - basso;
                                     Matt Getto - batteria.

Provenienza:               Chicago, Illinois (Stati Uniti).

Canzone migliore del disco:

"Improper Disposal".

Punto di forza dell'opera:

la struttura dei brani.

Dopo tanto patire, ecco finalmente un disco brutal, genere mai andato veramente di moda su queste pagine, anche se forse lo sarà in futuro visto che l'italianissima Abyssal Warfare Promotion mi ha dato da fare pure il primissimo assalto dei perugini Bloodtruth, altro gruppo che promette tuoni e fulmini. Ma i Kataplexy non sono semplicemente un gruppo brutal, e ciò perchè qui e là si avverte il desiderio di andare oltre, seppur per ora il tutto sia espresso in forma embrionale. Però fermiamoci qui, se no parto già con le conclusioni, e così vediamo che cos'hanno da proporci questi statunitesi imbufaliti.

La prima cosa interessante viene senza dubbio dalla struttura dei pezzi, i quali si muovono senza rispettare veramente un preciso schema. In sostanza, il discorso esce fuori in modo molto istintivo e libero più o meno da qualsiasi vincolo, seppur non manchino dei classici botta e risposta fra due passaggi. Ma il tutto, quasi per renderlo più accessibile, risulta continuamente diviso fra i tempi veloci e quelli più lenti, che solitamente sono pieni di un bel groove contagioso.

Il secondo aspetto degno di notevole attenzione, anche in prospettiva futura, e in parte legato al primo punto sopraddetto, è un certo sperimentalismo che dà alle canzoni una particolare follia che si esprime specialmente durante gli stacchi, solitari o collettivi che siano. Per esempio, in un certo momento "Consumed for a Companionship" puzza addirittura di funk, con un'ottima prova del bassista, mentre in un altro il batterista dà di matto con un ritmo semi - reggae (o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare)! Fra l'altro, i nostri riescono a gestire benissimo gli stacchi sperimentali, sia perchè questi danno voce a dei veri e propri climax distruttivi, sia perchè vengono poi saggiamente reinterpretati in un'ottica da puro brutal, mostrando così e ancora una volta un'inventiva mica da ridere.
Per il resto, i Kataplexy hanno un approccio tanto collettivo da rifiutare bellamente il concetto stesso di assolo, assente in tutto il disco, mentre dal punto di vista vocale fanno uso di cupi grugniti, non così bassi o schifosi come il genere raccomanda, alternati con una buona frequenza a urla gracchianti, intenti a costruire delle linee anche particolarmente ingegnose e isteriche.

Praticamente l'unica nota stonata, seppur a dir la verità sia un'inezia, è la produzione, o meglio, il volume del rullante a tratti mal bilanciato, più forte per esempio in "A Facial Detachment" ma curiosamente abbastanza debole nella seguente "Consumed for a Companionship". Ma nel complesso la produzione è giusta, sporca e puzzolente come si conviene, e fra l'altro mi ricorda terribilmente quella di "Cognitive Lust of Mutilation", primissimo demo dei Disgorge, quelli statunitensi.

Voto: 76

Claustrofobia

Scaletta:

1 - A Facial Detachment/ 2 - Consumed for a Companionship/ 3 - Improper Disposal

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 http://www.facebook.com/pages/KATAPLEXY/80623541664

Tuesday, October 9, 2012

Wall of the Eyeless - "Through Emptiness" (2011)

Demo autoprodotto (31 Dicembre 2011)

Formazione (2010):       SL – voce/chitarre/basso;
                                       Simon – batteria.

Provenienza:                   Pskov/Helsjon (Russia/Svezia)

Canzone migliore del disco:

“Wall of the Eyeless”.

Punto di forza dell’opera:

la sua imprevedibile eleganza.
La primissima opera di questo giovanissimo duo è stata per me una vera e propria sorpresa, anche perché è stata in grado di riportare su queste stesse pagine un filone che mancava da fin troppo tempo, cioè da quando i romani Disease mi distrussero le orecchie con un assalto potente ma raffinato: il metal estremo progressivo. Solo che i Wall of the Eyeless, pur possedendo tutte le caratteristiche basilari di questo particolare genere (melodia, tecnica, commistione di più stili musicali…), lo interpretano in maniera sufficientemente personale. Però certo, essendo molto giovani, la loro musica è ancora da affinare meglio, ma quello che importa è che siamo già a un più che ottimo punto di partenza.

Prima di tutto, le melodie del duo sono spesso crepuscolari, specialmente lungo la parte centrale del disco. E ciò permette ai nostri di abbracciare le soluzioni più imprevedibili e i climax più strani (notevole quello al contrario del brano autointitolato, introdotto da un passaggio così groovy e aggressivo da promettere chissà quale distruzione… e invece…), così da implementare addirittura un assolo di chitarra pulita in un discorso elettrico. E le influenze sono tantissime: si passa infatti dal thrash ignorante di “The Hands” e “The Rain Song”, al black venato persino di NWOBHM di “Wall of the Eyeless”, ma per quanto riguarda il death, così decantato dai nostri, lo si trova più che altro nei classici grugniti di SL, mentre in “We Do Belong Here” si becca, in un passaggio particolarmente rilassato, una psichedelica voce pulita – che consiglio di usare di più la volta prossima perché molto d’effetto.

Un’altra caratteristica molto interessante viene dalla struttura – tipo dei pezzi. I quali si muovono, spesso in un tappeto ritmico medio – lento ai limiti del doom, seppur non manchino semi – blast – beats/tupa – tupa (“The Hands” e “The Rain Song” in special modo), entro uno schema molto istintivo, quindi preferibilmente libero da qualsiasi tipo di vincolo. In pratica, viene qui estremizzato un aspetto occasionale di molti dei gruppi del genere, riuscendo fra l’altro a legare, in un modo naturalissimo, i più diversi passaggi sia dal punto di vista musicale che emozionale. In più, i brani vivono anche di pause che sono in non poche occasioni poetiche aperture acustiche o tastieristiche (“The Hands”), che arricchiscono ancor di più un discorso musicale già bello consistente.

In sostanza, le uniche mancanze di tale demo riguardano:

1)      il cantato che, oltre a essere poco incisivo (e questo è strano visto il genere di appartenenza) è anche poco partecipativo e prevedibile, dato che, passato un certo punto, le canzoni diventano delle vere e proprie strumentali (specie “The Rain Song” e i suoi intensi 8 minuti);

2)      gli assoli elettrici, i quali partono molte volte più o meno nella stessa prevedibile, frenetica ma passionale maniera, per poi svilupparsi comunque ottimamente.
Ma non è da considerarsi assolutamente un difetto la produzione, visto che è sì bella sporca e cupa ma tutti gli strumenti sono più o meno bene in evidenza, con il basso che costruisce buone linee in “Wall of the Eyeless”. Poi oh, sarò abituato io ma a ogni modo un suono così è perfetto per una musica del genere.

Per il resto, bisogna sottolineare la professionalità del booklet, curato ed elegante. Insomma, se volete un disco variopinto, imprevedibile e lontano dalle facili catalogazioni, questo è ciò che fa per voi. E quindi fregatevene del tipo di produzione che c’è decisamente di “peggio” in giro!

Voto: 75

Claustrofobia

Scaletta:

1 – The Hands/ 2 – We Do Belong Here/ 3 – Wall of the Eyeless/ 4 – The Rain Song

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Friday, October 5, 2012

Jaguar - "Power Games" (1983)

Album (Neat Records, Marzo 2003)

Formazione (1979):  Paul Merrell – voce;
                                  Garry Peppard – chitarre;
                                  Jeff Cox – basso;
                                  Chris Lovell – batteria.

Provenienza:             Bristol (Inghilterra)

Canzone migliore del disco:

“Ain't No Fantasy".

Punto di forza dell’opera:

il piacevole contrasto fra la semplicità e la complessità.
Era da un po’ che volevo farlo, cioè riscoprire le radici del metal estremo recensendo alcuni dei lavori più duri del grandissimo periodo dell’NWOBHM (New Wave of British Heavy Metal per chi è ignorante) e non solo. “Power Games”, uno degli ultimi capolavori del movimento poc’anzi menzionato, ne è uno di questi, tanto da venire etichettato all’epoca come un disco thrash metal, nonostante non contenga realmente nessuna caratteristica tipica dei Metallica, Anthrax e compagnia thrash emergente.

Infatti, “Power Games” trasuda un heavy metal scanzonato con frequenti influenze rock’n’roll e punk sparate spesso alla velocità della luce, alternando sapientemente i brani veloci con quelli più lenti. L’assalto degli Jaguar è semplice e d’impatto, in non poche occasioni ripetono lo stesso riff o la strofa + ritornello in maniera così ossessiva da ricordare persino alla lontana i gruppi punk – HC inglesi come i Disorder o i Chaos UK, tendenzialmente più minimalisti rispetto ai modelli statunitensi. Eppure, saranno pure “scanzonati” ma la loro musica si nutre di piacevoli contraddizioni così da arricchirla di soluzioni sempre fresche e imprevedibili.

Per esempio, è vero che solitamente i pezzi si muovono entro lo schema più classico possibile, espresso talvolta e come già visto in maniera minimale, ma rispetto a gruppi simili come i Tank, i Jaguar tentano di variare coraggiosamente il discorso. Questo avviene soprattutto nella seconda parte dell’album con canzoni un po’ sui generis come “Ain’t No Fantasy” e “Rawdeal”, con le quali il gruppo fa esplodere tutto il proprio potenziale sfoggiando fra l’altro un impianto strutturale (decisamente) più complicato del solito. In tali episodi vi è di tutto: digressioni stradaiole a là Motorhead, contagioso groove rockeggiante, una pioggia (beh, più o meno) di assoli, cambi di tempo, una piccola dose di epicismo, e per non parlare della lunghissima introduzione con tanto di basso superlativo di “Rawdeal” (ed è pure il pezzo più lungo del lotto visti i suoi 6 minuti e mezzo), e del fatto che “Ain’t No Fantasy” sia perlopiù una vera e propria semi – strumentale. E chissenefrega se questi esperimenti possano sembrare a tratti pretenziosi (si veda a tal proposito, la veloce e rozza puntatina con relativo stacco negli ultimi momenti di “Rawdeal”, un po’ inutile ai fini del discorso) perché comunque i Jaguar hanno almeno dimostrato di sapersi mettere bene in discussione.

Ma la fantasia è in effetti una caratteristica notevole del disco. Quindi sarebbe un delitto non citare la claudicante “Run for Your Life”, con il suo basso pulsante e ossessivo. Oppure la ballata “Master Games” che poi esplode alla grandissima anche grazie a una batteria capace di poderose variazioni.

Però, la contraddizione più bella dell’heavy del gruppo inglese, anche perché è un aspetto raro da trovare pure nel metallo moderno, proviene forse dal ruolo sostenuto dal basso. Sì, perché tale strumento viene qui usato in maniera molto partecipativa, e spesso sostituisce addirittura la chitarra nella costruzione delle melodie, meglio che negli Angel Witch. In altre occasioni, il basso riesce ad accentare meravigliosamente il lavoro dei compagni, e magari la chitarra ne riprende perfino una linea.

Per bilanciare tutto ciò ci pensa la voce, che sfrutta bene le proprie modeste capacità variando dai toni lamentosi di “Master Game” a vere e proprie urla gracchianti (memorabili quelle istrioniche della bellissima cavalcata “Prisoner”), sapendosi così adattare ai diversi contesti.

Per il resto, bisogna sottolineare come i pezzi più speed metal (che solitamente sono quelli dispari) sono ritmicamente statici se confrontati con quelli più lenti, più dinamici e arricchiti da buoni cambi di tempo, seppur talvolta questi ultimi siano forse troppo forti rispetto ai passaggi precedenti. Oddio, anche qui c’è un’ossessività un po’ data per le lunghe ma perlomeno tale mancanza viene risolta con dei climax spesso notevoli.

Insomma, “Power Games” non è un disco perfetto ma comunque seppe dire cose sufficientemente nuove nel panorama NWOBHM, visto che uscì nel momento decadente del movimento, che a poco a poco si stava sempre più estremizzando grazie anche a gruppi come Tank, Satan, Trojan e compagnia incazzata. Ma dopo questo album (ristampato nel 1998 con l’aggiunta di 3 pezzi bonus tratti dai singoli fra cui la leggendaria “Axe Crazy”) i Jaguar ne pubblicarono l’anno dopo un altro, cioè “This Time”, con cui però si allontanarono parecchio dallo stile speed per approcciarne uno che definivano “dance metal”, cioè più precisamente un AOR (Adult Oriented Rock) a là Def Leppard. Ma il bello è che il gruppo è ancora vivo e vegeto, seppur di componente originale sia rimasto il solo Garry Peppard, e non registrano più un album dal 2003, quando uscì “Run Ragged”.

Voto: 78

Claustrofobia

Scaletta:

1 – Dutch Connection/ 2 – Out of Luck/ 3 – The Fox/ 4 – Master Game/ 5 – No Lies/ 6 – Run for Your Life/ 7 – Prisoner/ 8 – Ain’t No Fantasy/ 9 – Rawdeal/ 10 – Coldheart

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