Monday, June 27, 2011

Warcore - "My War" (2010)

Recensione pubblicata il 22 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.

Demo autoprodotto (2010)
Formazione (2008): Simone Pollini (Pollo), voce;
Edoardo Pirisi (Piro), chitarra solista;
Timothy Logli (Timo), chitarra ritmica;
Alessio Memoli (Memo), basso;
Cesare Innocenti (Cesar), batteria.

Provenienza:
Prato, Toscana

Miglior canzone del demo:
senz’ombra di dubbio “Down in Hell”, che in pratica mostra tutte le facce del quintetto innestando nel discorso anche una chitarra acustica.

Punto di forza del demo:
la costruzione di un devastante impatto senza la tipica violenza esagitata del thrash metal, presagio di una buona personalità.

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Ragazzi, non so voi ma io ancora riesco a sorprendermi della magia della musica. Più precisamente, della musica fatta con pochissimi mezzi. Della musica sorretta da una produzione sporchissima e poco compatta, se non per niente, e che praticamente non aiuta il gruppo ad apparire incisivo. Giusto, apparire. Secondo me è proprio da questo tipo di produzione che si può toccare con mano quanto possa essere potente un gruppo perché l’unica cosa che veramente importa è la musica, non l’apparenza. Quante formazioni ormai utilizzano una produzione pulita dalle frequenze altissime che se non si regola il volume potrebbero con tutta tranquillità distruggere letteralmente i timpani, magari per nascondere un impatto che a dir la verità è totalmente assente? Forse sono troppe. Di conseguenza molti cosiddetti fans si lamentano perché “tal disco è incomprensibile”, casomai osando criticare pure le chitarre cavernose di grandiosi dischi come “War Cult Supremacy” dei Conqueror senza inquadrarle nel giusto contesto. E non mi si dica di essere un palloso nostalgico (e poi cazzo, ho 22 anni! Perché dovrei farmi prendere dalla nostalgia di un’epoca che non ho vissuto?), eppure sarei decisamente curioso di testare un disco tutto pulito e perfetto attraverso l’immortale fascino della sporcizia. Quest’ultima è proprio una caratteristica che informa ed esalta il demo dei Warcore, che nonostante il nome sono per Timpani allo Spiedo la classica eccezione che conferma la regola.

“Perché?”

Perché non fanno parte per nessuna ragione al mondo del territorio del metal estremo che la nostra cara webzine ormai facebookeniana intende diffondere a destra e a manca. Sì, suonano thrash metal ma per essere estremi non posseggono i seguenti requisiti:

1) la velocità. Sì, sanno essere veloci ma a sprazzi (mai in blast – beats soprattutto!), visto che sembrano preferire di gran lunga tempi medi piacevolmente “ballabili” (leggasi, grooveggianti) magari avvicinandosi in certi rallentamenti al metalcore più roccioso (“My War”);
2) il riffing brutale del thrash metal più violento. Infatti, i Warcore prediligono più che altro vere e proprie melodie (più o meno…) piuttosto semplici e classiche fino ad esternarne addirittura di più raffinate in senso heavy metal (“Down in Hell”). Non a caso gli assoli sono una parte molto importante di tale demo, dato che nella prima canzone se ne trovano ben 3 mentre nella seguente uno in meno, e fra l’altro non sono solo di ottima fattura ma si possono trovare anche in qualsiasi momento mostrando così una buona imprevedibilità;
3) gli “scartavetramenti” del cantato. Nei Warcore non si trova neanche una misera traccia di grugniti, di urla, insomma del campionario vocale del metal estremo e simili. D’altro canto, non aspettatevi falsetti o voci imponenti a dispetto di certe ascendenze heavy metal. Ciò che da queste parti si propone è un particolare cantato grosso volgarmente parlando “tamarro” che si basa molto sull’accentazione fragorosa delle parole, sottoponendo a tale operazione soprattutto le lettere iniziali, con tanto di sonori "uuuh". Ma nonostante la pochezza della produzione di cui ho parlato (a proposito, è stata ottima la scelta di non sovra incidere una terza chitarra nei momenti solisti, una cosa che fa molto live) il nostro si avvale, specialmente in “Down in Hell” dove fra l’altro il suo tipico cantato assume toni più bassi e pacati con tanto di sovraincisioni vocali, di un buon effetto d’eco atmosferico e oserei dire desolante.

Particolarmente curata è stata l’impalcatura strutturale che sorregge i vari pezzi, soprattutto perché gli interventi in solitario che fanno ripartire il discorso (il quale viene costruito con perizia notevole attraverso climax ben studiati contrariamente alla giovanissima età del gruppo) risultano molto efficaci e incisivi riuscendo così a potenziare tutto l’insieme. In tal senso, ascoltatevi “Down in Hell” nel quale il batterista con qualche bel colpo memorabile riesce a non far calare l’attenzione dell’ascoltatore.

Epperò la precedente “My War” (che non è una cover dei Black Flag!) strutturalmente non convince sempre, almeno fino all’accelerazione in tupa – tupa con tanto di assolo. Oddio, in sé funziona ma è il di per sé che risulta forse un po’ forzato, più che altro perché manca un vero e proprio ponte che introduca senza esagerati sbalzi d’umore l’accelerazione con il roccioso tempo lento di poco prima. E qui poteva tornare utile proprio il batterista ma invece non è stato trovato niente per chiudere veramente quel poderoso rallentamento. E’ pur vero però che quest’ultimo è così lungo, semplice e ponderato quasi da giustificare l’esplosione sopraccitata (incredibile come io riesca a soppesare così facilmente i dettagli che non mi convincono!).

Come è altrettanto vero che è ancora troppo presto valutare l’operato di questi ragazzi perché, come sicuramente avrete intuito, la loro primissima testimonianza artistica contiene solo 2 pezzi per circa 8 – 9 minuti di buona musica, ragion per cui già non vedo l’ora di analizzare questo giovane quintetto con un’opera più consistente nonché più difficile da gestire sotto il profilo qualitativo (e ciò mi sembra ovvio!). Per il resto, dovrei subito sfatare un malinteso che forse qualcuno avrà avuto leggendo l’introduzione, ovvero: la produzione è sì bella sporca ma è comprensibilissima, e alla fine da questo punto di vista, come unico rammarico reale si potrebbe rintracciare, oltre che un basso purtroppo praticamente seppellito dagli altri strumenti, il fatto che ogni volta si debba alzare abbondantemente il volume per ascoltare degnamente “Down in Hell”.

Voto: 70

Claustrofobia
Scaletta:
1 – War/ 2 – From Hell

FaceBook:
https://www.facebook.com/pages/Warcore/123686841003379

Rejekts - "Nessuno" (2010)

Recensione pubblicata il 15 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.

Demo autoprodotto
Formazione 2007): Black, voce;
Dave, chitarra e voce;
Joe, chitarra;
Pacho, basso;
Pio, batteria

Provenienza: Saronno/Garbagnate, Lombardia

Discografia: “Negative Existence” (Demo, 2007)
“Old School Fun” (Split con i Vomit Hate Noise, 2010)
“Nessuno” (Demo, 2010)
“Humanity Makes Us Mediocre Mediocrity Makes Us Human” (Split -
cassetta con A Murder of Crows, Ebola e La Mort, 2011)

Canzone migliore del demo:
senza possibilità d’appello l’inaspettata “Nessuno”, costruita in maniera magistrale.

Punto di forza del demo:
sicuramente le varie chicche che lo riempiono e che non solo mostrano un’ottima varietà e fantasia non molto facili da beccare in territorio grind ma anche dei margini di miglioramento notevoli.

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Chiamatemi nazionalista (lo sono). Chiamatemi reazionario (non lo sono). Chiamatemi rompiballe (minkia se lo sono!). Chiamatemi come cazzo vi pare (sbaglio od ho appena citato i Milizia HC?). Solo che quando ho a che fare con gruppi che cantano in madrelingua non posso far altro che applaudire tale scelta. Una punta d’orgoglio inizia così a cadere sulla carta perché finalmente viene dimostrata la bellezza e l’intensità di una lingua curiosamente tanto bistrattata dal metal nostrano quanto elevata dalla nostra scena punk – hc, magari adducendo a difesa di questa autarchia la lotta alla globalizzazione. Ma perché bisogna per forza tirare in ballo le Idee e non pensare che in fondo l’italiano è la nostra lingua, quella che ci viene più naturale usare, anche quella – perché no? - dalle origini più vicine alla nostra sensibilità e meridionalità e che richiama il latino ed il greco, due idiomi figli di altrettanti nobili culture? Sarà che storicamente l’italiano non è sentito come l’inglese in quanto è una lingua che ha cominciato ad avere una sua precisa identità relativamente da poco, ossia da quando Manzoni si mise a scrivere e a revisionare fino alla sua morte i “Promessi Sposi”, ragion per cui ci manca quell’unità che invece sembrano avere i popoli anglosassoni? Eppure, c’è qualcosa che non quadra perfettamente: perché ‘sti 5 pazzi non si sono fatti chiamare “Rifiutati” in luogo del corrente “Rejekts”? I misteri della vita.

Questo non è nemmeno l’unico contrasto presente. Infatti, “Nessuno” non è soltanto musica. E’ anche spettacolo in una sua accezione più ampia visto che vi si trovano diversi spezzoni tratti da film come il magnifico e anarcoide “Fight Club” (l’intro dove si sente Brad Pitt con i suoi anatemi da misantropo consumato) o come la parodia delirante di “Tropic Thunder”, una pellicola che per quante volte l’ho guardata ormai me la ricordo a memoria (ascoltatevi “Soliloquio” che vi farà ridere a crepapelle, almeno quando entrerà nel discorso Tom Cruise che in questo film è veramente ma veramente volgare), mentre “Profondo Rosso” (titolo molto fantasioso!) prende di petto la famosa minaccia di morta dell’assassino argentiano rivolta a Marc che intanto se la sta abbondantemente cagando sotto. L’unico problema è che non mi sovviene per nulla la pellicola da cui è stato tratto lo spezzone omicida della canzone omonima (che poi da Black ho saputo che è stato preso, come la citazione dotta che citerò fra pochissimo, da “Elephant” di Gus Van Sant, regista di culto che fra gli altri ha diretto il bellissimo e disturbante “Da Morire” avvalendosi di una malata Nicole Kidman), ma d’altro canto è proprio qui che emerge un’altra caratteristica del disco, ovverosia la pratica di appiccicare, soprattutto come introduzione o conclusione per un determinato episodio, campioni di pezzi non propri, e nel brano sopraccitato viene addirittura scomodato l’immortale Beethoven e la sua storica composizione “Per Elisa”.

I Rejekts non si dimostrano comunque soltanto degli ottimi cinefili ma anche dei musicisti incredibilmente fantasiosi capaci di trovate irresistibili nonostante la materia di base storicamente limitata (ma non limitante). Infatti, i nostri sono sì dei validissimi trafficanti di un grind bello compatto ma sanno dosare sufficientemente il duro impatto di questo genere anche attraverso una differenziazione saggia ed accorta dei vari brani, tutti ben distinguibili fra di loro. Più nel dettaglio:

- “L’Odio Che Hai Dentro” è un grind dalle tinte nerissime e dai tratti talvolta nettamente metallici. Si basa fondamentalmente su una semplice sequenza di soluzioni nella quale si alternano, non trascurando interessanti variazioni ritmiche, velocità al fulmicotone ed abissali e tonanti tempi medio – lenti. Si fa inoltre la conoscenza della voce urlata allo stremo e resa quasi criptica e poco intelligibile da una produzione bella sporca che spesso l’attutisce così tanto da creare un’atmosfera spaventosa, quasi come se si stesse cantando da un’altra dimensione;

- “Soliloquio” possiede invece un riffing ipnotico e riconducibile più alle forme del black e death metal che al grindcore in senso stretto. Ma ovviamente non potevano mancare come ormai tradizione del grind dei grugniti rozzi e puzzolenti che regalano al tutto una dose immane di inquietante cavernosità, e per questo è una cosa curiosa la loro più totale assenza nel brano precedente. Il fatto più sorprendente di questo pezzo non è nient’altro che un lungo assolo di batteria (durata approssimativa: una decina di secondi) che praticamente introduce allo spezzone di “Tropic Thunder”. Non sentivo un assolo del genere da quando i miei timpani vennero accolti dal grezzume dei varesini Inlansis nel demo non – ufficiale “Three Scary Tales” (sto parlando di un disco recensito nel 2° numero di Timpani allo Spiedo…);

- Con “Profondo Rosso” si ritorna ad un grind spacca – ossa e tetro con tanto di lavoro di cassa un pochino più articolato del solito e che alla fine fa partire uno stacco di chitarra dal riffing per niente severo e ineluttabile su cui poi si stagliano inaspettati blast – beats inferociti. A quanto pare, i Rejekts sanno cosa significhi il termine “imprevedibilità”… L’unica cosa che non mi convince del tutto è l’uso forse un po’ troppo sproporzionato dello spezzone preso dal film omonimo perché, oltre alla scena “Marc cagasotto”, la conclusione è affidata alla musica infantile che l’assassino usa per uccidere le sue vittime. Di conseguenza, tutto ciò praticamente seppellisce la durata stessa della musica vera e propria (che è ciò che conta veramente), ma d’altro canto tale sproporzione avviene soltanto in quest’episodio;

- In “Fango” si rivela il lato più epico dei Rejekts che qui si danno da fare con un punk – hc più melodico e da inno vero e proprio paragonabile da vicino a quanto fatto da gruppi come i pugliesi Hazard. Certo, le solite velocità indiavolate ci sono ma stavolta sono i tempi medi a dominare su tutto. Inoltre, tanto per ribadire la natura profondamente metallica del giovane quintetto nordista, dal riffing ad un certo punto sembrano affiorare influenze thrash neanche troppo velate;

- “Laccio Emostatico” è un brano strambissimo (oddio, chiamarlo così è quasi un complimento!) essendo com’è basato su pause d’effetto di chitarra e terremotante caos puro per poi finire il discorso addirittura con insospettabili intrecci di chitarre, nude e crude minacce subliminali che danno la sensazione che il casino blasteggiante subito precedente sia solo apparentemente finito;

- Ora viene la cover degli immarcescibili Cripple Bastards, ossia “1974”. Una cover che risulta piuttosto semplificata dal punto di vista ritmico favorendo però al contempo una maggiore e pesante accentazione del riffing da parte di una batteria perfetta. I Rejekts intrattengono l’ascoltatore con il brano strutturalmente più semplice e immediato (essendo infatti un 1 – 2 – 1 – 2 senza variazioni, e punto e basta) del lotto, nonché uno dei meno “caciaroni” e veloci (sono infatti del tutto assenti i blast – beats) ma non per questo è da ritenere come il meno “cattivo”, anzi. Sentite il riffing per esempio: di una “cazzutaggine” beffarda e groovy dal piglio tremendamente contagioso. L’unico rammarico è che rispetto al pezzo originale la cover dura un minuto in meno, ed in effetto avrei desiderato una rifinitura migliore, fosse anche questa rappresentata da una semplice pausa come quanto offerto dai Cripple Bastards per poi ripartire con l’assalto. Sì perché tale riproposizione sembra avere una conclusione sbrigativa nonostante la struttura già scheletrica del brano originale. Ma in fin dei conti essa riesce a tenere bene sulle spine l’ascoltatore che così facendo è costretto ad aspettare un qualcosa di molto più incisivo con il gran finale del demo, ergo i nostri forse non hanno avuto tutti i torti nel rendere monco e non particolarmente potente un episodio memorabile del gruppo genovese;

- Gran finale che è giustamente rappresentato dalla canzone autointitolata. E’ proprio qui che i nostri mostrano con assoluta perizia un’ottima capacità nel costruire in rapidità un climax emotivo a dir poco superlativo. Prima, blast – beats a oltranza con un riffing quasi urlante, poi il ritmo rallenta con la batteria che dà prova di un discorso più vario e ragionato che riesce a rafforzare notevolmente le chitarre che ora si sono fatte epiche. E da una di esse, adesso che il tempo è diventato medio – lento, viene partorito addirittura un assolo propriamente detto. Un’altra volta il termine “imprevedibilità” è stato onorato… alla massima potenza!

Voto: 78

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – L’Odio Che Hai Dentro/ 3 – Soliloquio/ 4 – Profondo Rosso/ 5 – Fango/ 6 – Laccio Emostatico/ 7 – 1974/ 8 – Nessuno

MySpace:
http://www.myspace.com/rejektshc

Face Book (che è meglio):
https://www.facebook.com/pages/Rejekts/178618772182368