Wednesday, June 22, 2011

Bahal - "Ikelos" (2010)

Recensione pubblicata il 6 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.

Album autoprodotto (1° Dicembre 2010)
Formazione (2005): Lord Bahal, voce, chitarre, basso, batteria elettronica
Giulia Sidhe, arpa celtica in "Tra le Braccia di Morfeo" (ora bassista ufficiale dei Bahal)

Provenienza: Lecco, Lombardia

Discografia: “Gazing at the Winter Moon” (Album, 2005)
“Striges” (Album, 2009)
“Hieros Gamos/Bahal/Cenere Split” (Split, 2010)

Canzone migliore dell’album:
Senza nessunissima ombra di dubbio il tour de force di ben 10 minuti de “Il Labirinto”: disperato, poetico, tutto costruito su un climax emotivo fenomenale dove la chitarra solista detta legge. Da non dimenticare nemmeno le grandiose pause d’effetto dominate da suggestive chitarre acustiche. Un vero e proprio viaggio sonoro.

Punto di forza dell’album:
la suddetta chitarra solista. Lord Bahal si è preoccupato così tanto di curare il settore chitarre da metterne in certi momenti addirittura 3 come sono notevoli quelle brevi, isteriche e sferzanti variazioni della solista che qui e là fanno capolino nel discorso.

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Curiosità:
la musicalità di Bahal è sempre stata impregnata di riferimenti aulici, spesso a partire dal titolo dell'album. Che in questo caso prende di mira una divinità greca come Icelo la quale, come suo fratello Morfeo (citato anch'esso nei testi dell'ultima fatica), fa parte del corteo dei sogni. Ma non credete che sia una divinità positiva perchè non è nient'altro che il dio delle apparizioni, delle fobie e degli incubi.

Se gli Ammonal rappresentano il trionfo individualista del collettivo, il solo - progetto Bahal è l’apice del vero e proprio individualismo oserei dire egocentrico. Non a caso, una delle figure storiche di Timpani allo Spiedo, Roberto Moro del progetto sardo Hieros Gamos, altra formazione strambissima che a suggestioni di natura freudiana unisce un black metal ultra – contorto e dalle minacciose melodie arabeggianti, ha ultimamente reclutato Lord Bahal per le parti di chitarra solista in vista del proprio primissimo album. Ma se gli Hieros Gamos hanno abbandonato la vecchia scuola per un approccio legato alle esperienze di gruppi africani/asiatici ancorati, come giustamente dovrebbe essere, alla tradizione musicale della propria cultura, Bahal è uno dei primi 5 casi più bizzarri che mi siano mai capitati di ascoltare. Praticamente il nostro è stato capace di dire qualcosa di personale senza stravolgere praticamente nulla.

Infatti, “Ikelos” dalla copertina sembrerebbe un disco intellettualoide. In un certo senso lo è, ma di ciò è tutto merito delle grandiose liriche, impregnate di una poeticità lontana anni luce dalla misantropia ingenua tipica del black metal (e fra l’altro nella nostra lingua!). Ma musicalmente si è perfino dalle parti di un black/thrash metal comunque molto diverso dalla bestiale “ignoranza” e rozzezza di molte formazioni del genere richiamando però allo stesso tempo la vecchia scuola dell’estremo. Questo divario fra Bahal e gruppi come Horned Almighty, Bunker 66 e compagnia non è soltanto determinato dalla capacità del lecchese di partorire pezzi pericolosamente lunghi eppure distanti dalla macchinosità difficilmente emotiva degli Hieros Gamos. Eh sì, perché per questa sorta di eleganza, che paradossalmente rifugge da soluzioni complicate e non facilmente assimilabili (il riffing per esempio di solito è bello classico), concorrono sia in misura secondaria il fatto che i momenti black e thrash sono spesso autonomi fra di loro, offrendo così poche occasioni in cui i due generi effettivamente si combinano (di conseguenza il discorso chitarristico e meno primitivo e pennellato); sia primariamente il lavoro mai invasivo della chitarra solista che fa sentire il suo “peso” con una frequenza notevole e piuttosto rara da beccare in circolazione riuscendo a immettere spesso nei pezzi un’atmosfera tempestosa (si ascolti a tal proposito l’attacco de “Il Labirinto”… ma anche “La Rosa” non scherza per niente).

Una delle caratteristiche più particolari di questo progetto musicale è appunto il ruolo preponderante della chitarra solista. Lord Bahal possiede un’abilità pressoché stupefacente nello sfruttare le sue possibilità tecnico – espressive erigendo monologhi virtuosi e melodici che con la loro immane fantasia possono risolvere pezzi altrimenti più difficili da concludere. In tal modo si costruisce un crescendo emotivo molto personale per il concetto di Metal estremo partendo comunque, almeno per quanto riguarda gli assoli veri e propri, da basi metalliche prettamente ottantiane, anche perché talvolta lo schema dei pezzi assume connotati molto classici, con il solismo che magari si presenta dopo la tipica sequenza 1 – 2 – 1 – 2.

Quindi, è esatta la definizione data a Bahal su Metal – Archives? In parte sì, in parte no. Infatti, il termine “progressivo” è stato usato in maniera forse impropria, più che altro perché il nostro non partorisce una musica dalla grande e avvolgente pienezza melodica che alla fine è a esclusivo appannaggio del settore chitarre. Al massimo, le uniche cose riconducibili a tale concezione sono la già menzionata “prolissità” epica di alcuni brani e soprattutto la semi – emarginazione della voce che guardacaso è stata discriminata chissà quante volte nel rock progressivo nostrano (avete presente Il Rovescio della Medaglia, i Campo di Marte o i Picchio dal Pozzo?).

Invece il cantato rappresenta forse l’unico elemento veramente death, termine che campeggia quasi inspiegabilmente nell’etichetta regalata al progetto. Trattasi di un grugnito bello cupo ed un po’ statico molto simile a quello dei sardi Vultur, anche se non mancano poche, modeste ma efficaci “alzate” di tono, e nemmeno qualche occasionale sussurrìo (entrambe le cose sono presenti in “Erebo”). Eppure tale cupezza non ha impedito di creare delle grandiose linee vocali che tradiscono una dimensione eroica e tremendamente agguerrita mostrando così un discorso semplice ma bello potente e sufficientemente inventivo da avere esso stesso una cadenza ritmica eccezionale. Le parole spesso vengono accentuate, altre vengono dilatate, permettendo di conseguenza una comprensibilità delle liriche che certi gruppi si sognano soltanto. Appunto per tutto ciò avrei preferito che la voce avesse avuto maggiore importanza, anche perché accade non poche volte che si assenti per parecchi minuti (la lunga parte centrale de “Il Labirinto”) mentre in altre occasioni così facendo si conclude addirittura un brano come “La Rosa” – che comunque per impostazione rimane un qualcosa di superlativo visto che contiene inoltre uno stacco di chitarra in solitario severa e magniloquente, una vera chicca per intenditori. Dai, non facciamo gli errori del nostro prog che a vantaggio di un esasperato virtuosismo ha spesso abbandonato le magnifiche immagini poetiche donate dalla voce!

Il secondo punto debole dell’album è la batteria che, proprio come negli Hieros Gamos, è completamente elettronica. Ma qui vale un discorso simile a quanto detto sulla voce, ossia essa rappresenta un punto debole non esattamente in sé ma di per sé. Infatti, programmata in maniera efficace anche se talvolta non risulta abile ad accentare il riffing (“Danza del Crepuscolo”), la batteria ha più che altro problemi di bilanciamento con gli altri strumenti. La produzione da questo punto di vista è a volte “birichina”, visto che tra un pezzo e l’altro può capitare che la drum appaia più debole costringendo così l’ascoltare a riabituarsi a diverse frequenze, e la musica a fare qualche sforzo in più per risultare più incisiva possibile (ed il bello è che tale impresa non sembra poi così difficile…. Merito ancora maggiore).

Altra cosa da discutere è la struttura che regge le varie composizioni, già difficilmente gestibile per la lunghezza delle stesse ma d’altro canto è un “problema” quasi inesistente. Però bisogna far osservare che i ‘sto ragazzo a volte pare voler esagerare con i cambiamenti repentini di umore partorendo in tal modo brusche virate prive di un effettivo sviluppo emotivo. Questa osservazione grava purtroppo specialmente proprio sull’ultimo brano, che a un tempo medio thrash fa seguire all’improvviso dei blast – beats con tanto di chitarra solista evocativa ed un grugnito disperato: un momento atmosfericamente veramente troppo troppo diverso da quello precedente.

In compenso, è da notare come sia stata molto intelligente la cura riposta nel posizionamento dei pezzi. Per fare un solido esempio, mi pare validissimo l’elegantissimo intermezzo di 2 minuti de “Il Bardo” che, utilizzando due chitarre acustiche di cui una solista (e qua non si parla affatto di banali e semplicissimi arpeggi!) con tanto di armonico conclusivo, risulta praticamente perfetto per blandire gli animi dopo una prima parte dai brani apparentemente infiniti e belli in tensione. E che dire invece della rimaneggiata “Marcia Funebre” di Chopin che funge da elegante introduzione dell’album? E della riposante atmosfera quasi da “ninna – nanna” dell’outro “Tra le Braccia di Morfeo” dove una chitarra acustica si staglia su una produzione che da inquietante contrasto è di una sporcizia ineffabile, atta quasi a rappresentare la definitiva corruzione dell’animo umano che vuole continuare a vedere il Sole ma non ad accorgersi della schifosa realtà che gli sta intorno?

Pura poesia.

Voto: 73

Claustrofobia
Scaletta:
1 – La Tormenta/ 2 – Il Sentiero/ 3 – Erebo/ 4 – Il Bardo/ 5 – Il Labirinto/ 6 – La Rosa/ 7 – Danza del Crepuscolo/ 8 – Tra le Braccia di Morfeo

MySpace:
http://www.myspace.com/bahalblackmetal



Mortuary Drape - "Necromancy" (1987)

Recensione pubblicata il 5 Maggio 2011 sulla mia pagina FaceBook.


Demo autoprodotto
Formazione (1986): Without Name, voce e basso;
Witch Rhythm, chitarra;
The Alchemist, chitarra solista;
Wildness Perversion, batteria

Provenienza: Alessandria, Piemonte

Canzone migliore del demo:
soprattutto perché è l’ultima canzone, ovvero quella a cui è attribuito il compito di concludere degnamente ogni testimonianza musicale, scelgo la magnifica, glaciale, bestiale e fin troppo avanti con i tempi “Evil Dead”. Ma anche “Into the Catacomba” non scherza affatto….

Punto di forza del demo:
sicuramente l’inumana malvagità multiforme che avvolge continuamente l’ascoltatore.

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“Questo demo tratta la negromanzia o divinazione attraverso la consultazione dei morti. Le liriche riguardano il mondo astrale con particolare riferimento a quello dei non – morti.
Tutto ciò per i Mortuary Drape rappresenta una vera fede ed una missione.
Il nostro demo è dedicato alla memoria di tutti quelli che hanno vissuto, sofferto, e che sono morti nel sacro nome della STREGONERIA.

CHE ESSI SIANO BENEDETTI.”


Ispiratori di non si sa quanti gruppi inclini a creare bastardi e infami ibridi black/death/thrash, in Italia i Mortuary Drape probabilmente sono da ritenere ben più rivoluzionari dei Necrodeath, più vecchi di due anni. In ambito nazionale infatti proponevano un massacro sonoro unico che quasi non conosceva pari neanche nel mondo, e solo gruppi come i tedeschi Sodom e gli svizzeri Hellhammer si potevano avvicinare a loro, gli uni soprattutto per la violenza, gli altri per l’immane malvagità. E ciò mentre il movimento black metal stava lentamente coprendo d’odio l’intera Norvegia grazie soprattutto ai pionieri Mayhem che di lì a qualche anno avrebbero suonato qualcosa di molto simile al quartetto del Drappo Mortuario.

Ma si può dire che i Mortuary Drape, che non si sono mai fermati in tutti questi anni grazie al lavoro inesauribile del fondatore Wildness Perversion, siano stati particolari in tutto. Nella durata stessa delle loro cassette ad esempio, se è vero che la precedente “Demo Live ‘87” era lunga ben 45 minuti mentre la successiva “Necromancer” “solo” 15 minuti in meno, praticamente il minutaggio di un album. Fortuna che vengono definiti come demo ma questi giovani alessandrini già non sembravano scherzare molto con quello che facevano.

Oppure si prenda la lunghissima introduzione proprio di “Necromancer”, una tetra litania di sole tastiere che per impostazione richiama la tradizione più nera del rock progressivo inglese, Black Widow in primis. Da questa introduzione, nella quale le note a volte saltellano in maniera schizofrenica come prese da un ascesso demoniaco, già si intuisce un’ambientazione che fa dell’oscuro, del sovrannaturale la vera chiave di lettura del reale. E l’occultismo diviene il mezzo di comunicazione con le forze più nere che regolano il cosmo tutto.

Subito dopo, ecco “Primordial”, indubbiamente il cavallo di battaglio per antonomasia del gruppo che sarebbe stato rifatto da una caterva di formazioni estreme. E’ uno dei pezzi più diretti del demo, e quindi è stato posto strategicamente per dare la giusta intensità in apertura come si faceva una volta. Ed ascoltandola si scopre quanto veramente questi ragazzi preconizzassero tutto un genere. Le chitarre sono infuocato black/thrash di una malvagità immensa ed in periodi ben definiti della canzone la solista dà adito a brevi e lancinanti interventi quasi impercettibili. La lugubre voce urla raucamente i suoi anatemi dando sfogo ad un ritornello così semplice e talvolta in coro quanto leggendario e che alla fine chiude brutalmente l’episodio. L’importante sezione ritmica si muove su binari thrash metal selvaggi ma dosati da un sapiente groove che a poco a poco contagia l’ascoltatore.

Dalla furia selvaggia di “Primordial” si va attraverso gli antri maledetti di “Into the Catacomba”, ossia l’estremo opposto. Lenta, spettrale, ha i contorni di un vero e proprio rituale. La batteria, autentico propulsore del pezzo, balla letteralmente sui tom – tom disegnando inconcepibili e bestiali danze. Le chitarre “grattano” minacciosamente, spaventano l’ascoltatore con frastornanti e contrastanti note acute che sono l’equivalente delle schizzate convulsioni provocate da un’entità innominabile che ormai t’ha preso, ed altre volte ricamano su un riffing quasi ipnotico. E la voce, ancora una volta perfetta, declama molto lentamente le parole, sembra ebbra ed in preda ad attacchi improvvisi. Da notare il carattere misterioso del titolo che mischia l’inglese con l’italiano. Per non dimenticare l’introduzione nella quale fanno capolino assordanti rintocchi di campana a morto, un classico del metal, fulmini e saette ed una chitarra acustica che cantilena un semplice ma torturato arpeggio.

La seguente “Presences” invece ha uno spirito oserei dire beffardo, soprattutto perché ha una meravigliosa parte centrale nella quale la chitarra solista, dopo minacciosi interventi in solitario spezzettati, impazza divertita accompagnata fra gli altri anche da fragorose e brevi rullate che dimostrano l’estrema fluidità del quartetto intento qui a non fermarsi praticamente mai. Ma il pezzo risalta indubbiamente pure per una lunga introduzione in crescendo aperta dal pulsare burloso di un basso che apre per un’ascia sonnolenta, concentrata a sparare almeno inizialmente delle pennellate, ed una voce che dopo un po’ diventa quasi un tutt’uno con le danze tribali sui tom – tom della batteria, ormai una costante personalissima dei Mortuary Drape.

Con “Vengeance from Beyond” si mette ancora nuova ed interessantissima carne al fuoco nonostante la giovane età dei ragazzi che già sparavano un’invidiabile fantasia. Il bello è che questa canzone è probabilmente la più particolare di tutto il lotto ed il perché è sintetizzato in questa parola: triste. Ascoltatevi l’introduzione: una chitarra acustica dai semplici giri d’arpeggio struggenti. Nel frattempo il pezzo sembra assumere i veri e propri toni di una ballata perché entra la batteria che accompagna perfettamente la compagna disperata. Finito. Ed è qui che si fa viva la contraddizione del brano: il massacro all’arma bianca mischiato alla tristezza. Tra l’altro un massacro dal riffing schizzato ed in un certo senso irregolare, dato che i colpi della batteria sul rullante si fermano spesso per accentare con i piatti quella pericolosa progressione di note. E quindi, quell’introduzione è tutto fumo, non ha seguito? MA SUVVIA, certo che ce l’ha! La sua atmosfera viene infatti ripresa proprio nella parte centrale, un lento dalla parte solista perfino elegante e a tratti addirittura arabeggiante. Poi dopo una pausa d’effetto, ricomincia il massacro.

Qua qualcuno potrebbe lamentarsi visto che incredibilmente “Obsessed by Necromancy” ha un riffing che a volte pare costruito quasi sulla falsariga della precedente canzone. Solo che ora l’atmosfera che esso ricrea è di incrollabile paranoia, esso viene ripetuto per un lungo periodo anche attraverso delle semplici variazioni tonali. E la parte centrale risulta completamente funzionale a quest’aura proprio grazie all’assolo vorticoso ed incantatore, in caduta libera verso un abisso visionario ed ipnotico.

Ma se la caduta di “Obsessed by Necromancy” è metafisica quella di “Evil Dead” è definitiva, è pura distruzione. Blast – beats angoscianti che lavorano benissimo sui piatti, un riffing diviso fra la solennità del black metal, il nervosismo del thrash metal e l’ignoranza cavernosa del death metal. Ogni volta che sento l’attacco di chitarra iniziale mi vengono in mente i Conqueror, con quell’inquietante suono da motosega. Un pezzo che preconizza in una sola botta tutte le basi del metal estremo più bastardo. E allo stesso tempo si incanala nella tradizione che voleva che l’ultimo episodio fosse quello più diretto e veloce, solo che i Mortuary Drape andarono oltre ogni più nera aspettativa andando al di là del tipico significato di questa” regola”.

Ogni cosa di questo demo è incastonata magnificamente alla perfezione, e quindi non posso non parlare bene dell’impalcatura strutturale che regge i vari pezzi. Ovviamente, essendo un demo grezzo e molto estremo già per l’epoca, ci si poggia su schemi a strofa – ritornello e simili interpretati però sempre in maniera diversa e di conseguenza il discorso è difficilmente prevedibile. Le uniche cose veramente tali si dimostrano alla fine solo l’introduzione, sempre e comunque d’atmosfera (ergo lente) eppure talvolta non esenti da vere e proprie linee vocali (come in “Presences” o “Obsessed by Necromancy”); e la parte centrale, nella quale si fa viva puntuale come un orologio svizzero la chitarra solista impegnata in un assolo che nella maggior parte dei casi si risolve in una sequenza più o meno ben definita di note che vanno di pari passo con la ritmica, quindi tecnicamente non è proprio da ritenere come un assolo puro e nudo. Altra caratteristica interessante è il lavoro di rifinitura del pezzo che viene appunto subito dopo la parte centrale e che permette un discorso che si protrae per un minuto o poco più in modo da concluderlo degnamente riprendendo in maniera fluida e sufficientemente continuativa l’intensità delle primissime soluzioni (generalmente veloci). Anzi, alle volte ne viene proposta addirittura una totalmente nuova.

Decisamente più spartana “l’inascoltabile” (per molti) produzione di “Necromancer”. Ma per far capire la sua magia certi gruppi, come i sardi Vultur, hanno rifatto canzoni quali “Primordial” imitando proprio una produzione simile. Le frequenze non solo sono semplicemente basse ma le chitarre sono così zanzarose che ascoltare l’opera con le cuffie ad un volume non adatto rappresenta un suicidio per i timpani, anche perché ci sono due chitarre. Paradossalmente (ma è un fatto completamente logico visto che le frequenze basse favoriscono le note più acute) la chitarra solista si sente a meraviglia, cosa che non succede stranamente in “Evil Dead”. “Stranamente” un paio di ciufoli perché a poco a poco si ha la netta sensazione che le frequenze si abbassino sempre di più, e chissà per quale occulto motivo. Inoltre, né la voce né la batteria, per quanto sufficientemente comprensibili, non sono proprio il massimo per uno che non è abituato a simili sporchissime sonorità. Quale non sono io. Ma allora erano critiche negative? Cazzo, certo che no! Al massimo l’assolo seppellito. Al massimo certi momenti vocali incomprensibili, ma il fatto è che una tale produzione è veramente magica dato che regala un’aura oscura e maledetta che è totalmente funzionale all’immaginario del Drappo Mortuario. E cazzo, scusate se vi ho messo in fibrillazione!

Voto: 94

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Intro/ 2 – Primordial/ 3 – Into the Catacomba/ 4 – Presences/ 5 – Vengeance from Beyond/ 6 – Obsessed by Necromancy/ 7 – Evil Dead

Sito ufficiale:
http://www.mortuary13drape.com/

MySpace:
http://www.myspace.com/mortuarydrape

Ammonal - "Beginning the End of Everything" (2010)

Recensione pubblicata il 23 Aprile 2011 sulla mia pagina FaceBook.

Demo autoprodotto (15 Aprile 2010)
Formazione (2008): Leo, voce e chitarra;
Andrea, chitarra;
Renzo, basso;
Moreno, batteria;
Federico, tastiere.

Provenienza: Milano, Lombardia

Punto di forza del gruppo:
sicuramente la spaventosa durata del demo, ossia ben 35 minuti di ottima musica nonostante la giovane età del gruppo e nonostante siano alla prima testimonianza discografica. Tutto ciò non li ha però fermati creando qualcosa di molto bizzarro e complicato.

Migliore canzone:
per buona grazia di “You’ll Never See You’ll Never Know” che come ultimo pezzo risulta molto razionale per concludere il disco, preferirei mettere in risalto il grandioso tour de force di “Doctrine of Submission”, quasi 7 minuti di delirio sonico nel quale succede di tutto e il contrario di tutto. Sfuriate black metal (però con sempre un bel pacco di melodia dentro), magniloquenza quasi da power metal, passaggi epici e persino guerrafondai per finire con la lunga follia reggae con tanto di disorientati effetti dub tipici del genere! Follia è proprio la parola giusta.

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Gli anarchici deathettoni Mass Obliteration avevano appena finito il proprio turno, quindi non potevamo fare altro che gustarci una meritata pausa dopo una bella dose di massacro. Era il 16 Giugno 2009 ed il concerto si stava tenendo allo CSOA Spartaco. E mi ricordo ancora chiaro e tondo cosa mi confessò mio cugino durante quel breve riposo. Mi disse che da un po’ di tempo coltivava il sogno di suonare in un gruppo di “death metal progressivo alternativo”. A parte che sono sempre stato contrario a usare l’espressione “alternativo” soprattutto perché, se già pensiamo alla moltitudine delle varie proposte più o meno metalliche, è decisamente inutile utilizzarlo, facendomi inoltre quasi pensare che con questo termine si intenda di avere la chiave per essere l’unica alternativa originale possibile. Ma comunque qualcun altro un giorno decise di “rubacchiargli” (tra virgolette perché il gruppo milanese mi è stato presentato, attraverso la persona di Leo Mozzato, con il termine “melodico” in luogo di “progressivo”) in parte quella lunga e scomoda definizione, e mi sto chiedendo se effettivamente mio cugino avesse mai immaginato di suonare una musica simile a quella dei giovanissimi Ammonal.

Ci si potrebbe dilungare su quel tipo di etichetta e allo stesso tempo sintetizzare in una maniera spero non spaventevole ciò che questi milanesi suonano con tutta tranquillità. Infatti, con molta probabilità l’unica cosa corretta nella definizione è il carattere progressivo del gruppo. Con ciò solitamente intendo prima di tutto una cura delle melodie sfavillante nella quale più o meno ogni strumento (compreso il basso il cui lavoro qui è a dir poco ottimo) fuoriesce dai canoni del Metal di classica concezione sputando così in maniera collettiva una spinta individualista verso l’esibizione (per nulla gratuita) della tecnica e la sovrabbondanza di linee da seguire che si completano l’una con l’altra. Di conseguenza, ne viene fuori qualcosa come l’equivalente del rock progressivo anni ’70 più avvolgente e ricco di sfumature.

In secondo luogo, vi è quest’urgenza continua di mettersi sempre in discussione sfociando così spesso in un eccessivo sperimentalismo che riguarda letteralmente ogni cosa. Non ci sono punti di riferimento precisi, ogni canzone ha una sua personalità ben distinta, e si può azzardare l’osservazione che gli Ammonal considerino la (propria) musica come un autentico, costruttivo e talvolta istintivo gioco, come se si stia parlando di 5 bambini troppo cresciutelli. La massima espressione di quest’aura giocosa è rappresentata dalla rockeggiante “Fuckin’ Blues” che, oltre a sfornare delle liriche spassose (ovvero la bellezza universale di un’arte come la Musica), consta di un battibecco infinito tra le due chitarre, una finta conclusione del pezzo che fa il verso al più classico finale blues (un nome su tutti come B.B. King può bastare?) e addirittura, come nella più tipica tradizione jazz, viene sparato un bellissimo solo di pianoforte!

Oltre all’utilizzo del termine “alternativo” si può contestare ampiamente l’uso del death metal. L’unico elemento costante di tale specie che si può trovare è nella voce che, in linea con gruppi estremi e progressivi come i veneti Eloa Vadaath, si esprime principalmente in un grugnito di una grinta impressionante tanto da farmi quasi immaginare che il demo sia stato registrato durante un vero e proprio concerto. Anche perché, ritornando al fattore giocoso del discorso, non poche volte il nostro, particolarmente attivo per far capire la sua grande importanza vocale negli Ammonal che altrimenti apparirebbero come un gruppo semi – strumentale a là Resumed, fa sfoggio spesso e volentieri di un “one, two, three, four” ripetuto almeno una volta in quasi ogni canzone, come se ‘sti ragazzi stessero provando in sala divertendosi come matti.

Per il resto, il death metal è relegato solo in pochi momenti, e a tal proposito sono da menzionare le melodie raffinate di “Final War”, da dove fra l’altro si avvertono sia la rocciosità su tempi medi e pesanti del metalcore (come nella lunga intro “Beginning the End of Everything”) che il thrash metal poi spogliato di ogni carattere “ballabile”. Ma se si fa anche una semplice rassegna delle ultime 3 canzoni (dalla ballata con tanto di voce femminile di “I Bleed” per finire con l’epicismo heavy metal di “You’ll Never See You’ll Never Know”, dove viene preso di petto quel tempo medio da cavalcata caratteristico delle forme metalliche più tradizionali) ci si può rendere conto dell’estrema eterogeneità che informa il quintetto, e quindi dell’inutilità di una definizione che lo inserisce in un contesto troppo ristretto e crudele.

Non scordiamoci neanche dell’estrema attenzione riposta dai nostri circa la valenza tattico – strategica della scaletta. Per fare un esempio, è stata ottima la scelta di far seguire a una canzone folle e totalmente indomabile come “Doctrine of Submission” il discorso più pacato di “I Bleed”. Il quale precede l’allegria e la vivacità di “Fuckin’ Blues” per poi finire il demo con “You’ll Never See You’ll Never Know”, che viene introdotta da un organo di chiesa severo e ineluttabile, come a commemorare in maniera triste e nostalgica la conclusione un gioco creativo bellissimo e ricco di sorprese.

Eppure dire che in questo demo sia tutto rose e fiori mi sembra un po’ troppo estremo. Infatti, prima di tutto bisogna fare qualche osservazione sulla struttura stessa dei pezzi:

1) talvolta si ha l’impressione che il gruppo si prenda troppa libertà, magari non approfondendo certi passaggi (ho scritto “certi”, non “tutti”!) risolti sbrigativamente che di sicuro avrebbero meritato più attenzione. Ciò non soltanto per non confondere le idee all’ascoltatore ma soprattutto per cercare più o meno di seguire una linea nel raggiungimento di un climax emotivo (che a quanto ho capito è il fine a cui mirano praticamente tutti i pezzi del disco). Tale mancanza la si sente particolarmente in “Final War” dove la seconda parte, per quanto è veloce e isterica, risulta praticamente sconnessa dal resto della canzone, quasi perdendosi nel nulla di fatto;

2) caratteristica comune a moltissimi gruppi di metal estremo progressivo, fra cui gli ottimi varesini Ancestral Stigmata (un po’ meno gli Eloa Vadaath che rispettano una metodologia strutturale molto personale), è quella di essere anche vagamente fedeli ad uno schema strofa – ritornello che si basa su una prima parte di ogni pezzo retta da una sequenza di soluzioni, complicata o più digeribile che sia, comunque non sempre esattamente rigida. Ecco, vista l’universalità del “problema” e la giovinezza del gruppo, la seguente osservazione non è soltanto seconda ma anche secondaria, però sarei curioso di sentire cosa ne verrebbe fuori se venisse usato un approccio un poco più libero. Specialmente perché, considerando fra l’altro la grande tecnica e l’ottima capacità di non perdersi, il gruppo certe volte pare quasi prigioniero di questa consuetudine, magari allungando il brodo come in “I Bleed” dove il ritornello assume una centralità forse invadente e troppo prolissa.

Infine, mi chiedo perché il tastierista sia a volte così timido, ossia non sempre presente nel discorso nonostante un lavoro superlativo. Su su, sarà un’inezia ma facciamo inorgoglire anche i fanatici di questo strumento!

Voto: 84

Claustrofobia
Scaletta:
1 – Beginning the End of Everything/2 – Final War/3 – Doctrine of Submission/4 – I Bleed/5 – Fuckin’ Blues/6 – You’ll Never See You’ll Never Know

MySpace:
http://www.myspace.com/ammonalmetal

YouTube:
http://www.youtube.com/user/AmmonalBand